
alfonso berardinelli
Quando Alfonso Berardinelli, critico e saggista tra i più noti, scriveva poesia, in questo caso intorno agli anni 70, un poeta quindi giovane di cui Marco Forti, in una nota del ’78, scriveva: “Non c’è dubbio che l’interscambio fra il critico e il poeta nel trentacinquenne Berardinelli sia molto forte. La sua poesia si trova a nascere nel punto di un complesso e personale incontro fra un attento adeguamento critico e culturale-generazionale del suo autore, la sua presa di coscienza non soltanto letteraria di un complesso tempo di transizione, e la capacità del poeta di coglierne una metafora subito matura, in forme chiuse e programmaticamente non periture. (…) La sua poesia — almeno a quanto noi la conosciamo — ha cominciato a formarsi e aggregarsi dopo la rottura «novissima» dei primi anni ’60, dalla quale il nostro autore si è subito staccato mostrando il bisogno di operare al livello di una scrittura che egli vuole personale, nutrita culturalmente, di un discorso che si vuole funzionale e esatto, e non mai semplicemente ideologico o illustrativo di un messaggio troppo scoperto e non sufficientemente elaborato. La poesia di Berardinelli, infatti, stabilite le sue distanze dal linguaggio di crisi novecentesca della prima metà del secolo, o anche da quello più immediatamente prossimo delle neoavanguardie, sembra semmai ricollegarsi al rigorismo etico e all’allegorismo dei Vociani, riconquistati tramite la gnomica e la pedagogia in verso di Fortini e la sperimentazione non solo verbale-letteraria degli scrittori di « Officina », fino a trovare e configurare, nella realtà di oggi, un suo universo deietto, massificato e come congelato nel tardo capitalismo, di fronte a cui chi scrive ha una presa di coscienza politica, che somiglia, peraltro, molto anche a una lotta espressiva, e a un agone mistico religioso.(…)”.
Al di là delle parole di Forti, che lo stesso successivo lavoro critico e polemico di Berardinelli datano inequivocabilmente, è interessante gettare uno sguardo sulla scrittura poetica di quegli anni del nostro. E cercare di immaginare che cosa scriverebbe del Berardinelli poeta di allora il Berardinelli critico di oggi.
Sandra Petrignani (Il Messaggero”, s.d. ma estate 1979)
Presentato nell’Almanacco dello Specchio del ’78 da Marco Forti come «scrittore vivacemente controcorrente» Alfonso Berardinelli ha ora pubblicato il suo primo volume di poesia, Lezione all’aperto, con Mondadori. Il suo nome è già noto nel campo della scrittura critica per una monografia su Franco Fortini del ’73 [Alfonso Berardinelli, “Franco Fortini”, Il Castoro-La Nuova Italia, n. 78, giugno 1973, pp. 177, L. 2.000 gdc, già allora “seguiva”… Franco Fortini…] e per aver curato, insieme a Franco Cordelli, un’antologia di giovani poeti, Il pubblico della poesia, nel ’75 [Alfonso Berardinelli, Franco Cordelli, “Il pubblico della poesia”, Lerici, Cosenza, pp. 307, L. 4.500. A. Berardinelli firmava l’introduzione, Effetti di deriva, pp. 7-29, F. Cordelli lo schedario, pp. 279-307 gdc], in cui per la prima volta si dava una sistemazione alla generazione poetica del periodo immediatamente successivo agli anni della neo-avanguardia.
La «lezione» che ora Berardinelli dà con il suo libro è quella di un verso costruito direttamente sul reale, contro la «letterarietà», per la contaminazione col grande testo della vita, che nella metafora biblica è quello della natura. «Scruta l’occhio della scimmia», «Guarda il sonno dei cani», «Prova a guardare, a vedere. / Smetti di leggere: guarda!», così suonano i suoi versi, semplicemente dichiarativi, spesso durissimi, gelati e raggelanti nella loro perentorietà. Controcorrente, quindi, come chi oggi riesce in tanto disseminarsi e non-essere di altri poeti ad affermare un io-positivo, anche se assente e tutto concentrato in uno sguardo. E lo sguardo è da una parte innocente (è il bambino che «guarda» che scopre le cose per la prima volta), ma anche sacralmente onnisciente (chi se non il Poeta è in grado di «vedere» e perciò di «rivelare»?).
Vecchia tecnica dell’arte lo straniamento sorregge tutta la costruzione poetica di Berardinelli; il suo è un occhio moderno, un teleobiettivo, capace di ingrandire mille volte l’oggetto, di sorprenderlo e isolarlo da lontano, d’avvicinarlo tanto da coglierne il particolare, la venatura, la ruga, il poro («Dove vanno le sue cancellabili / macchie, i suoi pori?…»).
Ma in tanto osservare e sezionare l’oggetto ci si dimentica del soggetto, che rimane prudentemente acquattato, nascosto nel luogo privilegiato di chi guarda senza farsi guardare. Berardinelli assomiglia, naturalmente, ai suoi versi. Parla guardando un punto lontano, distante. Sfugge al registratore, preferendo affidare le sue risposte alla pagina scritta. É un poeta preciso, pignolo, che non rivela i suoi sogni e che non dimentica di essere anche un professore (insegna Storia della Critica Letteraria all’Università di Calabria).
– Cosa è cambiato dal «Pubblico della poesia» a oggi nel panorama poetico italiano?
«Molte delle cose scritte allora sono diventate oggi luoghi comuni, però le intuizioni fondamentali si sono dimostrate giuste. La deriva, lo smembramento hanno finito per occupare l’intero decennio ’70. Compivamo l’esplorazione di un continente sommerso e non era facile formulare ipotesi chiare e univoche per il futuro. Tuttora se si dovesse fare un consuntivo della letteratura italiana del decennio ci si troverebbe di fronte una materia molto fluida, caotica, spesso inafferrabile. Insomma niente in comune con i due o tre decenni immediatamente precedenti. La perdita d’identità dei giovani scrittori e la labilità dei confini del cosiddetto spazio letterario mi sembrano perduranti».
– Il processo di dissoluzione della figura dell’autore che ipotizzavi quattro anni fa sembra oggi non avere riscontro nel successo di pubblico che hanno le letture pubbliche di poesia. Si può dunque credere che quell’amputata circolarità scrivente-scritore si sia ora ricostruita?
«Assolutamente no. L’autore continua a non essere riconosciuto dal nuovo pubblico: incontra agressività, sordità, diffidenza. Ma forse proprio per questo i giovani autori relativamente affermati hanno cominciato a darsi un gran da fare, temono di perdere la loro buona occasione, hanno paura che passino troppi anni senza che intorno a loro si sia stabilito il loro ruolo, la loro immagine sociale. Il fatto è che non può obiettivamente stabilirsi. Perché un autore, una generazione di autori, indipendentemente dalla qualità di quello che scrive, abbia un’identità storica, uno spazio, un riconoscimento, è necessario che la società stabilizzi la propria figura complessiva, organizzi con un minimo di stabilità i propri ambiti e settori di attività e di vita, proietti di fronte a sé una qualche prospettiva. Tutto questo in Italia non avviene».
Non ti sembra che la tendenza a «teatralizzare» la poesia, la tendenza del poeta ad affrontare fisicamente il pubblico risponda a un preciso progetto,«democratico», di diffusione della poesia, una sorta di promozione pubblicitaria?
«Sì, ma non la condivido, perché non serve che alla moltiplicazione giornalistico-mitologica di quello che è avvenuto, rito di puro cannibalismo. Né la poesia si è venduta di più perché le platee erano affollate: i piccoli editori lo sanno bene. Tra bassa mitologia e distruttività molte delle manifestazioni poetiche di impianto grosso modo teatrale si fondano sul presupposto che la presenza e il gesto sono tutto, la lettura e il testo nulla. Ma il testo poetico, lo si voglia o no, è costruito in modo da richiedere per sé una focalizzazione, un supplemento speciale di attenzione. Certo questa può essere considerata, rispetto a altri tipi di discorso, una bella pretesa antidemocratica…».
– Niente più letture pubbliche allora…?
«Non dico questo. Ma si deve garantire alla lettura lo stesso grado di concentrazione adeguata alla concentrazione di senso presente in quello che si legge o si ascolta. Perché scrivere poesia se non per dare densità a messaggi non rapidamente usurabili e consumabili, se non per dare intensità e durata a quello che si dice, sfidando in qualche modo le distanze di spazio e tempo? Memoria, ripetizione, ritualità sono caratteristiche difficilmente sottraibili alla poesia».
– Parliamo un attimo del tuo libro e delle tue tendenze poetiche…
«Lezione all’aperto» è per me il libro di un decennio, il ’68-’78, con molte cose che questo decennio implicava. Le mie poesie le pensavo e scrivevo all’interno di un sistema culturale in cui la tradizione di quella che era la Nuova Sinistra aveva un peso più che rilevante, un peso fondamentale… Insomma io a vent’anni ho preso terribilmente sul serio le cose che a proposito della letteratura dicevano Fortini, Asor Rosa, Enzensberger con tutte le implicazioni e i precedenti: da Brecht a Lu Xun a Adorno. Insomma una tendenza è quella della concentrazione e riduzione all’osso, ma accanto a una tendenza del tutto opposta: quella della descrizione, dell’accumulo, dell’apertura enumerativa, perfino».
– Benn, Williams, Vallejo, Auden, Ponge i tuoi autori preferiti: ne dimentico qualcuno?
«Una mia recente scoperta, scoperta della sua grandezza, intendo dire, è Ingeborg Bachmann: qualcosa di eccezionale di cui mi sembra non ci si è resi del tutto conto. La Bachmann è in assoluto uno dei massimi poeti del ’900».
Odio Roma e la Dolce Vita di Alfonso Berardinelli
Uscito sul Foglio
Che cos’è Roma? Ci sono nato, da genitori nati a Roma, e sono cresciuto a Testaccio. Ma non ho mai capito cos’era questa città. Non mi è mai piaciuta, l’ho sempre rifiutata, da bambino mi sembrava che avesse un odore di sacrestia e di latrina. Ho studiato dai Salesiani fino a tredici anni, la vita personale dei preti mi incuriosiva, mi chiedevo in che cosa credevano loro, in che cosa dovevamo credere noi, se nella messa del mattino o nei film western e nei tornei di calcio con cui ci tenevano occupati di pomeriggio. Perfino con un gigante letterario come Gioachino Belli ho difficoltà. Mi piace leggerlo a voce alta a qualcuno, ma dopo la lettura mi sento letterariamente euforico e moralmente abbattuto. Posso essere fiero del fatto che Roma abbia prodotto un attore come Ettore Petrolini, ma sento che la sua comicità, la sua nausea di sé, è una scorante malattia che nessuno ha mai eliminato dall’aria di Roma. Perciò sopporto male i fanatici della bellezza di Roma, soprattutto se non sono romani. Li considero esteti e guardoni, ciechi alla tristezza, alla metafisica barbarie, al “delirio d’immobilità” che la città trasmette a chi ci nasce. Roma è un mito e un problema? O è semplicemente un luogo meraviglioso e irresistibile?
da Lezione all’aperto
Smetti di leggere: guarda!
P. Celan
1
Ancora una primavera opaca
coperta da una nebbia verde
propizia come una macchia di foglie
affondata nel buio, carica, repellente.
Una schiuma di luce sotto la cute
astratta e rovente come un’ustione.
La suppurazione cieca dei biancospini
bianco su bianco, verde e grigio
appena un filo, un indizio
un’esuberanza, una nuvola.
Anche qui macchie di mandorli
file di nocciòli nella nebbia
biancastri, senza dolcezza
tra una stagione e l’altra, in dormiveglia.
.
2
Qui mucchi di sabbia, crepe.
Niente che suggerisca ricomposizioni.
Raramente una striscia di gelo.
Una costa assiderata.
Una cauta evenienza di vita.
Barriere di nuvole, schermi.
Conifere e licheni. Visibili così,
da qualunque lato, dovunque.
Una frana di foglie. Umidità, riflussi.
Rami di fibra dolce.
Appena foga di parole o altro.
Contrazioni e spasmi,
fenditure di ali e zampe,
sfinteri e pinne avviati alla fine.
Tutto ciò che l’apparenza risparmia.
«Qui non donna, né uomo, né fanciullo,
né uccello, né vespa, né cane,
né conca d’acqua, né fronda. »
3
Approssimazioni: rampicanti e piumini.
Sughera, carrubo, siliquastro,
vite vinifera, albero di Giuda.
L’arenaria rossa cementata
da ossido di ferro.
L’arenaria stratificata e conglomerata:
chi lo direbbe? una chioma rossa
pettinata da molte mani.
La graminacea ammofila:
spudorata, sfrontata, a fiocchi.
La graminacea piena di speranze prossime.
La graminacea accanto all’osso, cupa.
.
4
Scruta l’occhio della scimmia,
osserva il giallo quasi-umano,
il gesto pigro e svelto.
Ricorda il salto, il pelo grigio,
l’unghia nera e lunga,
l’inquieta e sospettosa calma.
La fronte è un’acuta lingua.
La coda è animata e tesa.
Il corpo è una molla equamente caricata da Dio.
Guarda il sonno dei cani,
il loro scuro giaciglio.
L’arcaico stile di vita che li governa.
L’occhio loro non ha ruotato
lungo tutti i perimetri.
La lìngua loro non immagina niente.
E tutto questo non è un travestimento.
Prova a guardare, a vedere.
Smetti di leggere: guarda!
5
Un giardino nella sfera del giorno.
Il pelo caldo del lama mansueto. La scimmia
alla catena. Ma, oh guarda
il mostruoso lungo pelo fulvo
dell’orango coricato dietro lo spesso vetro!
Guarda il fango nero in cui nuota e scava
il muso del cinghiale! L’odore asprigno
delle capre nomadi, il tapiro dalla gualdrappa,
il contegnoso volto del cammello caccoloso e sgonfio!
Qui il cervo non esibisce né usa il mistico rameggio.
La poiana medita e sdegna.
L’avvoltoio è un vecchio nobile sanguinario in pensione.
Solo la scimmia è abbastanza cinica da fregare
il padrone e il prossimo. Eppure urla e piange
come un neonato o un vecchio, oltre ogni ragione.
Bello è il ghepardo, e il giaguaro:
hanno freddo e odio dentro le lussuose pellicce,
tengono in serbo muscoli inutili per lottare
e vincere, navigano in sogno nei deserti di roccia
o di neve, a pesca e a caccia lungo steppe e fiumi montani.
Questo pasto di vermi non li appaga.
Ma voi,
fenicotteri rosa in sonno, miti bramini,
perché non lasciate la sporca pozza,
perché non volate all’improvviso a Dio?
.
6
È qui, è presente
con la faccia rugosa del suo legno.
Si concentra in tondi nodi,
stabilisce con sagacia il suo limite.
Si allunga senza esitare, mostra
per un momento il proprio essere in fuga.
Dove vanno le sue cancellabili
macchie, i suoi pori? Dove accade
la sua lenta maturazione di oggetto?
Il tornio ha lavorato le sue vertebre.
Senza muoversi aspira al soffitto,
si dispone in lungo e in largo
occupando uno spazio considerevole.
Ma fa dormire su di sé
altre fraterne cose.
Non scioglie i propri né gli altrui
confini. Tiene conto di processi e di
contraddizioni. Ha il suo occhio
e la sua volontà. Ha
la sua storia, ma anche il suo sonno.
.
7
Arrendevoli alberi e arbusti,
lucidi nella loro carta, ma dentro opachi.
Curvi e pendenti ma soddisfatti come sessi.
O mossi e protesi, a spigoli.
Ben collegati al tepore dei loro canali.
Di superfici erette e tese. Esplosi.
Eppure ben difesi dentro le maglie dure
del guscio. Si versano senza avarizia.
La luce che assorbono va lungo strali e arti.
Si macchiano di rosso, se necessario.
O escono dalla propria levigata pelle
in spine e foglie. Divisi. Si aggregano
e danno frutti o difese. Si gonfiano
in serbatoi di alimento e di sonno.
Piovono giù. Allontanano l’acqua dal sughero.
Organizzano dischi sovrapposti, eliche
dure. Bacche o pigre trombe. Pomi di folta luce.
Si negano e si mediano.
Crescono.