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“Ogni viaggio è un romanzo. Libri, partenze, arrivi”, Conversazioni  con narratori e poeti di Paolo Di Paolo. Lettura di Marco Onofrio

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Viene in mente, sfogliando Ogni viaggio è un romanzo. Libri, partenze, arrivi, di Paolo Di Paolo (Laterza, 2007, pp. 208, Euro 14), il concetto di “leggibilità del mondo” analizzato qualche anno fa, in uno splendido e corposo saggio, dal filosofo tedesco Hans Blumenberg. Il mondo come libro da “leggere” con gli occhi e con i piedi, viaggiandoci dentro; ma anche, specularmente, il libro come mondo da esplorare: entrambi da sentire con la pienezza esistenziale del corpo, nel tempo che scorre, attraverso i sensi ordinari o misteriosi “sesti sensi” che veicolano l’irripetibile magia di certi attimi, di certi “contatti”. Come quelli con i diciannove scrittori (Camilleri, Campo, Culicchia, A. Debenedetti, Capriolo, Marcoaldi, Petrignani, Petri, Fusini, Affinati, Mazzucco, Riccarelli, Gamberale, Trevi, Maraini, Anedda, Covito, La Capria, Tabucchi) che Di Paolo, viaggiando a sua volta (da Roma a Parigi, da Torino a Lisbona), ha raggiunto e incontrato nei luoghi reali e mentali del viaggio. Ed è davvero con tatto che egli li avvicina, mettendoli nelle migliori condizioni per rivelarsi, in quanto scrittori, viaggiatori, uomini. “Ogni viaggio è un romanzo”, dunque: ma anche ogni romanzo è un viaggio – di parole, attraverso le parole. La scrittura è un viaggio fuori dal tempo e dallo spazio, dice Antonio Tabucchi. Un viaggio da fermi, magari nel chiuso di una stanza, con un libro in mano. Tutti i viaggi possibili, tutte le nuvole del cielo, tutte le «voluttà vaste e cangianti e sconosciute» sono racchiuse nei libri. Nel loro riflesso di carta scopri città o paesaggi sconosciuti e immaginari, pensieri mai concepiti, fantasie e rapporti mai scorti in precedenza.

Edward Hopper Compartimento C vagone 293

Edward Hopper Compartimento C vagone 293

Ogni viaggio è un itinerario simbolico di conoscenza: una forma misteriosa che si disegna dinanzi a un occhio spalancato sul mondo, un occhio-mondo che si trasforma, che aderisce alle nostre identità. Ci sono forti corrispondenze tra libri e paesaggi: paesaggi di libri e libri di paesaggi. Distinguiamo così tra una geografia fisica (esterna), che studiamo noiosamente a scuola e che impariamo ad amare solo quando, poi, i viaggi li facciamo per davvero; e una geografia sentimentale (interiore): una psicogeografia che trovi censita attraverso i libri, letti come mappe e atlanti delle emozioni, dove trovi il confine infinito delle u-topie, dei luoghi che non esistono; le luci diafane di certe contrade, pregne di un mistero remotissimo e immanente; la forma diafana delle città invisibili: ma anche, più semplicemente, gli angoli nuovi di ciò che normalmente conosciamo. Com’è dunque questo viaggio che esce fuori dagli occhi e dalla viva voce degli scrittori? Certamente molto diverso dal surrogato di esperienza che ci propone il turismo di massa, quello dei villaggi e dei tour operator, dove tutto è preconfezionato, organizzato, tempificato, e scorre indifferente, senza lasciare traccia. Il viaggio degli scrittori, invece, esce dalle logiche perverse della globalizzazione: permette così di comprendere che il mondo «è grande e diverso. Per questo è bello: perché è grande e diverso, ed è impossibile conoscerlo tutto». È un viaggio lento e senza tempo: può così sedimentarsi, lasciando tracce nello sguardo, echi nella mente, curve di silenzio dentro al cuore. È il viaggio che si rivela nel suo potere gnoseologico ed epifanico, per cui un dettaglio di sfumatura (magari il rumore della pioggia sui vetri, un odore, una musica, una luce) si accende, si impone sullo sfondo, si illumina e illumina a sua volta, sicché – per suo tramite – il mondo tutto finisce per manifestarsi. Può contare più l’alberghetto senza nome che il reperto millenario; così come, nella ricerca storiografica, più il “documento” di vita che il conclamato “monumento” che rappresenta.

Paolo Di Paolo ogni viaggioÈ un viaggio, quello degli scrittori, che obbedisce ad esigenze interiori di conoscenza, di scoperta, di evoluzione. Non come “fuga dal mondo”, ma come tramite e forma di una più profonda relazione con esso. Il viaggiatore, infatti, si porta dietro il suo mondo come in un guscio di lumaca (Ugo Riccarelli), ma si lascia implicare dalla “dispersione” inevitabile che il viaggio, quando è esperienza autentica, comporta. E così, nella trasformazione, «si dimentica di sé» − dice Franco Marcoaldi − e diventa «un Nessuno che aderisce alle pieghe del mondo, diventa gli alberi che vede, le montagne che scala, i nuovi cibi che mangia, le persone che incontra». Lo scrittore si disperde ma anche stranamente si raccoglie nell’identità fisica e metafisica del luogo: diventa la sua “carne”. Capisce così quale straordinaria, luminosa costellazione di senso si apra, a mo’ di gemma, in ogni centimetro quadrato del pianeta. Può allora provare, come Rossana Campo a Parigi, l’esperienza “estatica” di entrare nel corpo della città, di “esplodere” per diventarne parte. Una passeggiata per le strade di Parigi può operare una “trasformazione alchemica”: nutre la mente e droga l’immaginazione. Ancora più esaltante può essere l’esperienza di spaesamento: l’arte di smarrirsi di cui ci parla Walter Benjamin. Provare fino in fondo, fino ai limiti del caos, o del panico, la rischiosa libertà della non-appartenenza: sentirsi sempre e dovunque un po’ stranieri. Trovarsi ad esempio in un Paese lontanissimo, senza contatti, senza conoscere la lingua (neanche una parola), senza denaro, camminando per dove non si sa. Immergersi nella folla, nella marea umana. Leggere libri di vita negli occhi della gente. Raccogliere storie. È proprio dello scrittore (e del lettore suo vicario) questo guardare noi stessi con gli occhi degli altri: questa capacità camaleontica di essere l’altro, di dare se stesso all’altro. Oppure viaggiare per improvviso impulso, per divenire prossimi alla vita e obbedire intensamente al suo richiamo. Prendere il primo treno che parte, senza motivo, senza conoscerne la destinazione. L’irrequietezza del viaggiatore è la divina curiositas: inquietudine e nostalgia di chi cerca casa, di Ulisse che parte sempre per ritornare (o torna per ripartire). «Le città», dice Giuseppe Culicchia, «cominci a capirle davvero solo quando te ne vai. Hai bisogno di allontanarti molte volte, per vedere meglio ciò che avevi vicino».

Marcel Duchamp Duchamp devoted seven years - 1915 to 1923 - to planning and executing one of his two major works, The Bride Stripped Bare by Her Bachelors, Even, ...

Marcel Duchamp Duchamp devoted seven years – 1915 to 1923 – to planning and executing one of his two major works, The Bride Stripped Bare by Her Bachelors, Even, …

I viaggi come avventure dello sguardo e della mente: scoperte sentimentali, pellegrinaggi, risarcimenti. Ma ci sono anche le “false partenze” di cui parla Raffaele La Capria, uno per cui «il viaggio più avventuroso si può compierlo anche dentro casa. O appena fuori». I viaggi come occasioni mancate: perché qualcosa sfugge sempre, e allora bisogna ritornarci, come rileggere un libro. I luoghi dove non andremo mai, o quelli dove non andremo più. I luoghi che sogniamo da una vita e «prima o poi ci vado» (ma davvero non si parte mai). Che peccato sarebbe non vedere, morire senza aver visto le spezie e le perle da raccogliere lungo il cammino, e i colori, i profumi, gli oggetti, gli incontri: quel che non cerchi e che trovi per caso, al di là della mappa o della guida turistica. È nelle terre di mezzo, nei luoghi di confine, nei dettagli e negli interstizi: è lì che si svela l’essenza metafisica delle cose, il nucleo profondo della realtà. Il viaggio cattura e libera lo spazio dell’identità, della libertà, del senso delle cose: uno spazio che sono proprio gli scrittori a difendere, perché hanno e si danno il compito di custodire le cose dalla morte. La scrittura, infatti, è il più libero e avventuroso dei viaggi. Scrivere è un altro modo di camminare: un passo dopo l’altro, una parola dopo l’altra: e le raccogli lungo il percorso come le briciole di Pollicino.

Richard Tuschman interno

Richard Tuschman interno

Abitando le pagine dei libri, poi, si finisce per abitare e amare un luogo leggendo, da cui il desiderio e/o la scelta di andarci a vivere. Ma non è questione di distanza: può stupirci più una passeggiata di cento metri che un viaggio intercontinentale di tre mesi. Dipende dallo sguardo. E lo sguardo si trasforma attraverso il viaggio: nella realtà fisica del mondo come in quella immateriale della scrittura. I libri orientano, allenano, educano, potenziano il nostro modo di guardare alle cose. Ci spingono a compiere un viaggio di pensiero. Insegnano a pensare. I libri non finiscono mai, anche quando chiudi l’ultima pagina. Continuano ad abitarci nella testa; lavorano silenziosamente; ci spingono a crescere, a cambiare, a crescere. E gli scrittori incidono il senso dei luoghi: cambiano per sempre il modo di guardarli. Dopo aver letto Joyce, visiteremo o abiteremo Dublino in modo diverso. Ci sono autori e libri che ci fanno da guida, che avvertiamo congeniali al nostro passo, come buoni compagni di viaggio. I libri ci danno la possibilità di viaggiare dentro le persone, nei loro sentimenti; di attraversare quelli che Calvino definisce “livelli di realtà”.

Stefano Di Stasio

Stefano Di Stasio

La scrittura è un tapis roulant che ci trasporta attraverso gli universi paralleli. Pensiamo con emozione ai viaggi infiniti che potenzialmente ci attendono in una biblioteca! O al viaggio dei libri usati, saturi di vita, quando, con ansia di scoperta, li rovistiamo nelle bancarelle: le mani e gli occhi che li hanno incrociati, il tempo e le case e gli scaffali delle librerie attraverso cui sono passati per arrivare a noi… Anche questo libro di Paolo Di Paolo è – ovviamente – un viaggio: un viaggio attraverso il viaggio degli scrittori, che a sua volta si produce attraverso il viaggio della vita, loro e di tutti. Noi e il mondo viaggiamo dentro i libri, che a loro volta viaggiano nel mondo, attraverso noi. È un viaggio simultaneo e senza fine, che percorre migliaia di luoghi, pieno di proposte, spunti, biforcazioni, alternative, finestre da cui affacciarsi per ingoiare con lo sguardo panorami. E fa venire voglia di partire, leggere, diventare: voglia di essere ciò che siamo e sognare chi non saremo mai.

Marco Onofrio

Marco Onofrio

Marco Onofrio (Roma, 11 febbraio 1971), poeta e saggista, è nato a Roma l’11 febbraio 1971. Ha pubblicato 22 volumi. Per la poesia ha pubblicato: Squarci d’eliso (2002), Autologia (2005), D’istruzioni (2006), Antebe. Romanzo d’amore in versi (Perrone, 2007), È giorno (EdiLet, 2007), Emporium. Poemetto di civile indignazione (EdiLet, 2008), La presenza di Giano (in collaborazione con R. Utzeri, EdiLet 2010), Disfunzioni (Edizioni della Sera, 2011), Ora è altrove (2013). La sua produzione letteraria è stata oggetto di decine di presentazioni pubbliche presso librerie, caffè letterari, associazioni culturali, teatri, fiere del libro, scuole, sale istituzionali. Alle composizioni poetiche di D’istruzioni Aldo Forbice ha dedicato una puntata di Zapping (Rai Radio1) il 9 aprile 2007. Ha conseguito riconoscimenti letterari, tra cui il Montale (1996) il Carver (2009), il Farina (2011) e il Viareggio Carnevale (2013). È intervenuto come relatore in presentazioni di libri e conferenze pubbliche. Nel 1995 si è laureato,  all’Università “La Sapienza” di Roma, discutendo una tesi sugli aspetti orfici della poesia di Dino Campana. Ha insegnato materie letterarie presso Licei e Istituti di pubblica istruzione. Ha tenuto corsi di italiano per stranieri. Ha partecipato come ospite a trasmissioni radiofoniche di carattere culturale presso Radio Rai, emittenti private e web radio. Ha scritto prefazioni e pubblicato articoli e interventi critici presso varie testate, tra cui “Il Messaggero”, “Il Tempo”, “Lazio ieri e oggi”, “Studium”, “La Voce romana”, “Polimnia”, “Poeti e Poesia”, “Orlando” e “Le Città”.

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POESIE SCELTE da “Lezione all’aperto” di Alfonso Berardinelli (1978) Commento di Sandra Petrignani e una intervista ad Alfonso Berardinelli del 1979

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alfonso berardinelli

Quando Alfonso Berardinelli, critico e saggista tra i più noti, scriveva poesia, in questo caso intorno agli anni 70, un poeta quindi giovane di cui Marco Forti, in una nota del ’78, scriveva: “Non c’è dubbio che l’interscambio fra il critico e il poeta nel trentacinquenne Berardinelli sia molto forte. La sua poesia si trova a nascere nel punto di un complesso e personale incontro fra un attento adeguamento critico e culturale-generazionale del suo autore, la sua presa di coscienza non soltanto letteraria di un complesso tempo di transizione, e la capacità del poeta di coglierne una metafora subito matura, in forme chiuse e programmaticamente non periture. (…) La sua poesia — almeno a quanto noi la conosciamo — ha cominciato a formarsi e aggregarsi dopo la rottura «novissima» dei primi anni ’60, dalla quale il nostro autore si è subito staccato mostrando il bisogno di operare al livello di una scrittura che egli vuole personale, nutrita culturalmente, di un discorso che si vuole funzionale e esatto, e non mai semplicemente ideologico o illustrativo di un messaggio troppo scoperto e non sufficientemente elaborato. La poesia di Berardinelli, infatti, stabilite le sue distanze dal linguaggio di crisi novecentesca della prima metà del secolo, o anche da quello più immediatamente prossimo delle neoavanguardie, sembra semmai ricollegarsi al rigorismo etico e  all’allegorismo dei Vociani, riconquistati tramite la gnomica e la pedagogia in verso di Fortini e la sperimentazione non solo verbale-letteraria degli scrittori di « Officina », fino a trovare e configurare, nella realtà di oggi, un suo universo deietto, massificato e come congelato nel tardo capitalismo, di fronte a cui chi scrive ha una presa di coscienza politica, che somiglia, peraltro, molto anche a una lotta espressiva, e a un agone mistico religioso.(…)”.

alfonso berardinelliAl di là delle parole di Forti, che lo stesso successivo lavoro critico e polemico di Berardinelli datano inequivocabilmente, è interessante gettare uno sguardo sulla scrittura poetica di quegli anni del nostro. E cercare di immaginare che cosa scriverebbe del Berardinelli poeta di allora il Berardinelli critico di oggi.

Sandra Petrignani (Il Messaggero”, s.d. ma estate 1979)

 alfonso berardinelli 4Presentato nell’Almanacco dello Specchio del ’78 da Marco Forti come «scrittore vivacemente controcorrente» Alfonso Berardinelli ha ora pubblicato il suo primo volume di poesia, Lezione all’aperto, con Mondadori. Il suo nome è già noto nel campo della scrittura critica per una monografia su Franco Fortini del ’73 [Alfonso Berardinelli, “Franco Fortini”, Il Castoro-La Nuova Italia, n. 78, giugno 1973, pp. 177, L. 2.000 gdc, già allora “seguiva”… Franco Fortini…] e per aver curato, insieme a Franco Cordelli, un’antologia di giovani poeti, Il pubblico della poesia, nel ’75 [Alfonso Berardinelli, Franco Cordelli, “Il pubblico della poesia”, Lerici, Cosenza, pp. 307, L. 4.500. A. Berardinelli firmava l’introduzione, Effetti di deriva, pp. 7-29, F. Cordelli lo schedario, pp. 279-307 gdc], in cui per la prima volta si dava una sistemazione alla generazione poetica del periodo immediatamente successivo agli anni della neo-avanguardia.
La «lezione» che ora Berardinelli dà con il suo libro è quella di un verso costruito direttamente sul reale, contro la «letterarietà», per la contaminazione col grande testo della vita, che nella metafora biblica è quello della natura. «Scruta l’occhio della scimmia», «Guarda il sonno dei cani», «Prova a guardare, a vedere. / Smetti di leggere: guarda!», così suonano i suoi versi, semplicemente dichiarativi, spesso durissimi, gelati e raggelanti nella loro perentorietà. Controcorrente, quindi, come chi oggi riesce in tanto disseminarsi e non-essere di altri poeti ad affermare un io-positivo, anche se assente e tutto concentrato in uno sguardo. E lo sguardo è da una parte innocente (è il bambino che «guarda» che scopre le cose per la prima volta), ma anche sacralmente onnisciente (chi se non il Poeta è in grado di «vedere» e perciò di «rivelare»?).
Vecchia tecnica dell’arte lo straniamento sorregge tutta la costruzione poetica di Berardinelli; il suo è un occhio moderno, un teleobiettivo, capace di ingrandire mille volte l’oggetto, di sorprenderlo e isolarlo da lontano, d’avvicinarlo tanto da coglierne il particolare, la venatura, la ruga, il poro («Dove vanno le sue cancellabili / macchie, i suoi pori?…»).
Ma in tanto osservare e sezionare l’oggetto ci si dimentica del soggetto, che rimane prudentemente acquattato, nascosto nel luogo privilegiato di chi guarda senza farsi guardare. Berardinelli assomiglia, naturalmente, ai suoi versi. Parla guardando un punto lontano, distante. Sfugge al registratore, preferendo affidare le sue risposte alla pagina scritta. É un poeta preciso, pignolo, che non rivela i suoi sogni e che non dimentica di essere anche un professore (insegna Storia della Critica Letteraria all’Università di Calabria).

alfonso berardinelli

alfonso berardinelli

– Cosa è cambiato dal «Pubblico della poesia» a oggi nel panorama poetico italiano?

«Molte delle cose scritte allora sono diventate oggi luoghi comuni, però le intuizioni fondamentali si sono dimostrate giuste. La deriva, lo smembramento hanno finito per occupare l’intero decennio ’70. Compivamo l’esplorazione di un continente sommerso e non era facile formulare ipotesi chiare e univoche per il futuro. Tuttora se si dovesse fare un consuntivo della letteratura italiana del decennio ci si troverebbe di fronte una materia molto fluida, caotica, spesso inafferrabile. Insomma niente in comune con i due o tre decenni immediatamente precedenti. La perdita d’identità dei giovani scrittori e la labilità dei confini del cosiddetto spazio letterario mi sembrano perduranti».

– Il processo di dissoluzione della figura dell’autore che ipotizzavi quattro anni fa sembra oggi non avere riscontro nel successo di pubblico che hanno le letture pubbliche di poesia. Si può dunque credere che quell’amputata circolarità scrivente-scritore si sia ora ricostruita?

«Assolutamente no. L’autore continua a non essere riconosciuto dal nuovo pubblico: incontra agressività, sordità, diffidenza. Ma forse proprio per questo i giovani autori relativamente affermati hanno cominciato a darsi un gran da fare, temono di perdere la loro buona occasione, hanno paura che passino troppi anni senza che intorno a loro si sia stabilito il loro ruolo, la loro immagine sociale. Il fatto è che non può obiettivamente stabilirsi. Perché un autore, una generazione di autori, indipendentemente dalla qualità di quello che scrive, abbia un’identità storica, uno spazio, un riconoscimento, è necessario che la società  stabilizzi la propria figura complessiva, organizzi con un minimo di stabilità i propri ambiti e settori di attività e di vita, proietti di fronte a sé una qualche prospettiva. Tutto questo in Italia non avviene».

alfonso berardinelli 3 Non ti sembra che la tendenza a «teatralizzare» la poesia, la tendenza del poeta ad affrontare fisicamente il pubblico risponda a un preciso progetto,«democratico», di diffusione della poesia, una sorta di promozione pubblicitaria?

«Sì, ma non la condivido, perché non serve che alla moltiplicazione giornalistico-mitologica di quello che è avvenuto, rito di puro cannibalismo. Né la poesia si è venduta di più perché le platee erano affollate: i piccoli editori lo sanno bene. Tra bassa mitologia e distruttività molte delle manifestazioni poetiche di impianto grosso modo teatrale si fondano sul presupposto che la presenza e il gesto sono tutto, la lettura e il testo nulla. Ma il testo poetico, lo si voglia o no, è costruito in modo da richiedere per sé una focalizzazione, un supplemento speciale di attenzione. Certo questa può essere considerata, rispetto a altri tipi di discorso, una bella pretesa antidemocratica…».

– Niente più letture pubbliche allora…?

«Non dico questo. Ma si deve garantire alla lettura lo stesso grado di concentrazione adeguata alla concentrazione di senso presente in quello che si legge o si ascolta. Perché scrivere poesia se non per dare densità a messaggi non rapidamente usurabili e consumabili, se non per dare intensità e durata a quello che si dice, sfidando in qualche modo le distanze di spazio e tempo? Memoria, ripetizione, ritualità sono caratteristiche difficilmente sottraibili alla poesia».

alfonso berardinelli

alfonso berardinelli

– Parliamo un attimo del tuo libro e delle tue tendenze poetiche

«Lezione all’aperto» è per me il libro di un decennio, il ’68-’78, con molte cose che questo decennio implicava. Le mie poesie le pensavo e scrivevo all’interno di un sistema culturale in cui la tradizione di quella che era la Nuova Sinistra aveva un peso più che rilevante, un peso fondamentale… Insomma io a vent’anni ho preso terribilmente sul serio le cose che a proposito della letteratura dicevano Fortini, Asor Rosa, Enzensberger con tutte le implicazioni e i precedenti: da Brecht a Lu Xun a Adorno. Insomma una tendenza è quella della concentrazione e riduzione all’osso, ma accanto a una tendenza del tutto opposta: quella della descrizione, dell’accumulo, dell’apertura enumerativa, perfino».

– Benn, Williams, Vallejo, Auden, Ponge i tuoi autori preferiti: ne dimentico qualcuno?

«Una mia recente scoperta, scoperta della sua grandezza, intendo dire, è Ingeborg Bachmann: qualcosa di eccezionale di cui mi sembra non ci si è resi del tutto conto. La Bachmann è in assoluto uno dei massimi poeti del ’900».

La grande bellezza di Paolo Sorrentino Tony Servillo in una scena

La grande bellezza di Paolo Sorrentino Tony Servillo in una scena

Odio Roma e la Dolce Vita di Alfonso Berardinelli

Uscito sul Foglio

Che cos’è Roma? Ci sono nato, da genitori nati a Roma, e sono cresciuto a Testaccio. Ma non ho mai capito cos’era questa città. Non mi è mai piaciuta, l’ho sempre rifiutata, da bambino mi sembrava che avesse un odore di sacrestia e di latrina. Ho studiato dai Salesiani fino a tredici anni, la vita personale dei preti mi incuriosiva, mi chiedevo in che cosa credevano loro, in che cosa dovevamo credere noi, se nella messa del mattino o nei film western e nei tornei di calcio con cui ci tenevano occupati di pomeriggio. Perfino con un gigante letterario come Gioachino Belli ho difficoltà. Mi piace leggerlo a voce alta a qualcuno, ma dopo la lettura mi sento letterariamente euforico e moralmente abbattuto. Posso essere fiero del fatto che Roma abbia prodotto un attore come Ettore Petrolini, ma sento che la sua comicità, la sua nausea di sé, è una scorante malattia che nessuno ha mai eliminato dall’aria di Roma. Perciò sopporto male i fanatici della bellezza di Roma, soprattutto se non sono romani. Li considero esteti e guardoni, ciechi alla tristezza, alla metafisica barbarie, al “delirio d’immobilità” che la città trasmette a chi ci nasce. Roma è un mito e un problema? O è semplicemente un luogo meraviglioso e irresistibile?

 la grande bellezza gambe-e-tacchi-a-spillo

 

da Lezione all’aperto

Smetti di leggere: guarda!
P. Celan

1
Ancora una primavera opaca
coperta da una nebbia verde
propizia come una macchia di foglie
affondata nel buio, carica, repellente.

Una schiuma di luce sotto la cute
astratta e rovente come un’ustione.

La suppurazione cieca dei biancospini
bianco su bianco, verde e grigio
appena un filo, un indizio
un’esuberanza, una nuvola.

Anche qui macchie di mandorli
file di nocciòli nella nebbia
biancastri, senza dolcezza
tra una stagione e l’altra, in dormiveglia.

.
2
Qui mucchi di sabbia, crepe.
Niente che suggerisca ricomposizioni.
Raramente una striscia di gelo.
Una costa assiderata.
Una cauta evenienza di vita.

Barriere di nuvole, schermi.
Conifere e licheni. Visibili così,
da qualunque lato, dovunque.

Una frana di foglie. Umidità, riflussi.
Rami di fibra dolce.
Appena foga di parole o altro.

Contrazioni e spasmi,
fenditure di ali e zampe,
sfinteri e pinne avviati alla fine.
Tutto ciò che l’apparenza risparmia.

«Qui non donna, né uomo, né fanciullo,
né uccello, né vespa, né cane,
né conca d’acqua, né fronda. »

alfonso berardinelli foto di dino ignani

alfonso berardinelli foto di dino ignani

3
Approssimazioni: rampicanti e piumini.
Sughera, carrubo, siliquastro,
vite vinifera, albero di Giuda.

L’arenaria rossa cementata
da ossido di ferro.
L’arenaria stratificata e conglomerata:
chi lo direbbe? una chioma rossa
pettinata da molte mani.

La graminacea ammofila:
spudorata, sfrontata, a fiocchi.

La graminacea piena di speranze prossime.
La graminacea accanto all’osso, cupa.

.
4
Scruta l’occhio della scimmia,
osserva il giallo quasi-umano,
il gesto pigro e svelto.

Ricorda il salto, il pelo grigio,
l’unghia nera e lunga,
l’inquieta e sospettosa calma.

La fronte è un’acuta lingua.
La coda è animata e tesa.
Il corpo è una molla equamente caricata da Dio.

Guarda il sonno dei cani,
il loro scuro giaciglio.
L’arcaico stile di vita che li governa.

L’occhio loro non ha ruotato
lungo tutti i perimetri.
La lìngua loro non immagina niente.

E tutto questo non è un travestimento.
Prova a guardare, a vedere.
Smetti di leggere: guarda!

La grande bellezza, immagine di Tony Servillo nei panni di Jep Gambardella

La grande bellezza, immagine di Tony Servillo nei panni di Jep Gambardella

5
Un giardino nella sfera del giorno.
Il pelo caldo del lama mansueto. La scimmia
alla catena. Ma, oh guarda

il mostruoso lungo pelo fulvo
dell’orango coricato dietro lo spesso vetro!
Guarda il fango nero in cui nuota e scava

il muso del cinghiale! L’odore asprigno
delle capre nomadi, il tapiro dalla gualdrappa,
il contegnoso volto del cammello caccoloso e sgonfio!

Qui il cervo non esibisce né usa il mistico rameggio.
La poiana medita e sdegna.
L’avvoltoio è un vecchio nobile sanguinario in pensione.

Solo la scimmia è abbastanza cinica da fregare
il padrone e il prossimo. Eppure urla e piange
come un neonato o un vecchio, oltre ogni ragione.

Bello è il ghepardo, e il giaguaro:
hanno freddo e odio dentro le lussuose pellicce,
tengono in serbo muscoli inutili per lottare

e vincere, navigano in sogno nei deserti di roccia
o di neve, a pesca e a caccia lungo steppe e fiumi montani.
Questo pasto di vermi non li appaga.

Ma voi,
fenicotteri rosa in sonno, miti bramini,
perché non lasciate la sporca pozza,

perché non volate all’improvviso a Dio?

.
6
È qui, è presente
con la faccia rugosa del suo legno.
Si concentra in tondi nodi,

stabilisce con sagacia il suo limite.
Si allunga senza esitare, mostra
per un momento il proprio essere in fuga.

Dove vanno le sue cancellabili
macchie, i suoi pori? Dove accade
la sua lenta maturazione di oggetto?

Il tornio ha lavorato le sue vertebre.
Senza muoversi aspira al soffitto,
si dispone in lungo e in largo

occupando uno spazio considerevole.
Ma fa dormire su di sé
altre fraterne cose.

Non scioglie i propri né gli altrui
confini. Tiene conto di processi e di
contraddizioni. Ha il suo occhio

e la sua volontà. Ha
la sua storia, ma anche il suo sonno.

.
7
Arrendevoli alberi e arbusti,
lucidi nella loro carta, ma dentro opachi.
Curvi e pendenti ma soddisfatti come sessi.

O mossi e protesi, a spigoli.
Ben collegati al tepore dei loro canali.
Di superfici erette e tese. Esplosi.

Eppure ben difesi dentro le maglie dure
del guscio. Si versano senza avarizia.
La luce che assorbono va lungo strali e arti.

Si macchiano di rosso, se necessario.
O escono dalla propria levigata pelle
in spine e foglie. Divisi. Si aggregano

e danno frutti o difese. Si gonfiano
in serbatoi di alimento e di sonno.
Piovono giù. Allontanano l’acqua dal sughero.

Organizzano dischi sovrapposti, eliche
dure. Bacche o pigre trombe. Pomi di folta luce.
Si negano e si mediano.

Crescono.

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