da Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 5 (1963)
Commento di Gian Franco Torcellan
Giorgio Baffo, ultimo rappresentante di una modesta famiglia del patriziato veneziano detto di toga, nasce a Venezia da Giannandrea e da Chiara Querini il 1° agosto 1694, Venezia il 1° agosto 1694, e muore nel 1768. Baffo aveva dinanzi a sé, dopo aver trascorsa la giovinezza non brillante tra noiosi precettori ed aridi studi scolastici, una vita monotona e tranquilla da impiegare in una lenta carriera in quelle magistrature giudiziarie che il governo della Serenissima tradizionalmente riserbava al suo ceto. Un solo vistoso precedente d’anormalità, ma perso ormai nella leggenda e nella notte dei tempi, aveva rotto la pacifica vicenda della famiglia: quello d’una bellissima fanciulla della casata, Cecilia, caduta in mano al Barbarossa a Paro divenuta prima schiava e poi favorita potentissima del sultano Selîm II, vicenda che il B. ricordò in cinque sonetti con compiaciuta ammirazione.
Ma una singolare dualità si fece presto evidente nella vita del patrizio. Della sua prima e più scontata esistenza, quella di patrizio di second’ordine senza ambizione di carriera politica né possibilità di successo in tale campo, poco sappiamo perché poco rilievo essa ebbe. Passò attraverso le varie magistrature giudiziarie con immutabile assenteismo, funzionario, possiamo crederlo, di normale levatura in quei non felici tempi per la classe dirigente aristocratica. Un solo dettaglio, che più acutamente contrasta con il carattere più noto della sua personalità: possedeva un tatto squisito nel parlare e nel trattare, una pudibonda reticenza nel dire. Nel 1737 aveva condotto in matrimonio una nobile giovane di casa Sagredo, Cecilia: e il loro connubio non diede luogo a pettegolezzi di alcun genere nella pur fertile città lagunare. Quando la morte lo colse, nel 1768, era stato chiamato a far parte di un’importante carica della Giustizia veneta, la Quarantìa criminale.
Una seconda personalità, un uomo diverso ed opposto viveva e s’agitava però dietro questa monotona e impassibile attività ufficiale. V’era il poeta e il pornografo, un verseggiatore instancabile di sconcezze che con frenetica attività riempiva i suoi fogli e li andava diffondendo, come lo ritraeva un attento confidente degli Inquisitori di Stato, per gli ambienti facili della città, in una Venezia popolata di perditempo, di patrizi e non patrizi inclini all’ozio, di stranieri ansiosi di conoscere le curiosità locali. Attività furtiva quanto feconda, tacita quanto diffusa; nulla raggiungeva la pericolosa dignità della carta stampata, ma penne infaticabili e interessate moltiplicavano su fogli volanti le oscene arguzie uscite dalla fantasia del Baffo.
La sua fama in tal campo s’era talmente diffusa, e con tanta fortuna, che il Labia se ne lagnava pubblicamente in alcuni suoi duri versi come ulteriore prova della corruzione dei costumi; e, secondo alcuni, il Baretti s’era indotto a venir a Venezia a farvi stampar la sua Frusta nella fiducia che la censura non avrebbe minacciato i suoi scritti in una città che sopportava e lasciava indisturbati gli sconci componimenti d’una tale musa: persuasione, com’è noto, assai fallace, onde il piemontese replicò poi con più che giustificata ironia sul conto del patrizio. La sola sortita in pubblico del B. fu un intervento nella battaglia tra seguaci del Goldoni e difensori del Chiari in campo teatrale: e si schierò con questi ultimi in un’epistola martelliana di critica al Filosofo inglese, ma senza acredine né spirito di parte, ammiratore di intrecci complicati e vistosi e d’emotive trame quanto insofferente delle commedie di carattere o moraleggianti; e fu pronto poi ad ammirare il Goldoni della Sposa persiana, “piena d’accidenti”, con “gran bei caratteri, e tutti concludenti”.
Un giudizio complessivo sul poeta si poté dare solo dopo la morte, quando il veto del B. non poté più impedire una stampa, sia pur clandestina, delle sue composizioni: dopo una prima raccolta in un volume uscita nel 1771, si ebbe l’edizione completa in quattro volumi, stampati a Venezia nel 1789 con la falsa datazione da Cosmopoli.
Dedicati “Ai omeni e alle donne morbinose, / A quelli veramente, che le cose / I varda per el verso che xe bon“, queste poesie, scritte tutte nel più puro dialetto veneziano, trattano una sola materia, tranne poche e parziali eccezioni, l’unico argomento che abbia in tanti anni ispirato la musa del B.: l’amore sessuale. Una sorta di persecuzione, d’opprimente mania erotica, aveva tormentato con prepotente tenacia la fantasia del patrizio veneziano traducendosi in lunghe pagine di laide canzoni, di osceni sonetti e madrigali. Il soliloquio ossessionante e monotono, la disperata insistenza su questo unico e squallido tema dell’amore carnale non possono soltanto spiegarsi in relazione all’ambiente in cui il B. visse, né, tanto meno, con la vita tediosa e monotona cui la carriera giudiziaria lo aveva costretto, ma finiscono per rivelarsi come l’esasperazione di un triste caso personale.
Certo la poesia sessuale del B. nasce da una squallida indifferenza di fronte al valore delle più elementari idealità che bene s’accorda con certo disperato scetticismo pullulante nella Venezia del tempo: ma gli estremi della musa del patrizio sono fine a se stessi, effetto di una realtà che può semplicemente identificarsi con la tormentata psicologia dello scrittore.
Un superficiale fondo filosofico il B. intese mettere alla base dell’ostinata tetraggine della sua tematica, disponendo le sue composizioni in un certo ordine logico nei quattro volumi, allucinante biografia della vita dei poeta, e per i suoi versi gloriandosi d’una settecentesca aspirazione alla verità di natura, attribuendosi i lauri di assertore della tolleranza quale cantore dell’amore carnale che supera e livella ogni dissenso filosofico, e, infine, identificando nell’attrazione sessuale il principio primo che spiegava le origini dell’umana società. Uomo non digiuno di cultura e ben al corrente di letture illuministiche, caricava di lodi l'”Elvezio Parigin filosofon“, raggruppava buona parte delle poesie, quelle degli ultimi anni della sua vita, attorno ad una tematica filosofica che nel sesso ravvisava la soluzione dei massimi problemi umani e si sforzava di dare all’atto sessuale una dignità di rito religioso assimilandolo in via di simbolizzazione a non dimenticate religioni solari.
Per il B. va rifiutata la tante volte sbandierata “venezianità”, ché nulla possiamo riconoscergli di autentica testimonianza storica, o pur solo di costume, nella sua oscena idealizzazione di Venezia “città di piaceri“, uno dei primi documenti di quella superficiale mitizzazione della Serenissima settecentesca che preludeva alla mistificazione retorica d’un’intera civiltà. Lo stesso dialetto perde la sua ricchezza e la sua spontanea inventività nella immutabile oscenità delle rime e delle parole obbligate, e diventa puro formulario. Gli va solo riconosciuto un ingegno notevole di verseggiatore dialettale; artefice coscienzioso, confessava la sua paradossale cura e preoccupazione per cesellare le sue poesie e rinnovare continuamente il repertorio (“Me lambico el cervelo zorno e note / Per far soneti grassi e butirosi, / Per divertir le done e i so’ morosi“), e in talune occasioni egli seppe anche dare alla propria penna la felicità inventiva del poeta autentico, come in una canzone “Per una proposta di matrimonio” o in altra “Per el primo dì de quaresima”. Eccezioni, e pur esse parziali per la ricorrente trivialità del linguaggio, in un panorama morbosamente uniforme, cui non seppero aggiungere varietà di tono composizioni satiriche contro frati e monache, sonetti acerbissimi contro papa Rezzonico e manierate critiche di costume.
Opere: Le poesie del B., come s’è detto, uscirono per la prima volta in un volumetto dal titolo Le poesie di G. B., patrizio veneto, s. l. 1771, di cui una “nuova edizione” uscì con la data di Londra (probabilmente falsa) nel 1789. In quell’anno veniva pubblicata a Venezia, con l’indicazione di Cosmopoli, la Raccolta universale delle opere di G. B., in quattro volumi, destinata a rimanere l’edizione principale e fondamentale. Soltanto verso la fine dell’Ottocento la fama del poeta pornografo veniva rinfrescata dalla lussuosa edizione delle Poésies complètes de G. B. en dialecte vénitien, litteralement traduites pour la première fois, avec le texte en regard, uscita a Parigi in cento esemplari a cura di I. Liseux nel 1884, in quattro volumi, con la traduzione di Alcide Bonneau, che s’era dato cura di includere anche qualche inedito. Della stessa epoca, probabilmente, una ristampa delle Opere complete, apparsa in Italia con la datazione da Alessandria e senza indicazione di anno, in quattro volumi, e che teneva dietro all’altra Raccolta completa delle opere in due volumi, uscita nel 1866 con l’indicazione di Costantinopoli come città di stampa. La semiclandestinità ha sempre giovato a certi successi: e si può dire che il B. abbia raggiunto la sua gloria letteraria quando Guillaume Apollinaire incluse una scelta delle sue poesie e un dotto saggio introduttivo con accurata bibliografia in un volume de L’œuvre libertine des conteurs italiens, I, Paris 1910 (L’œuvre du patricien de Venise G. B.). Per la storia della fortuna del B. vanno ancora citate Le poesie. Sonetti faceti e canzoni in dialetto veneziano, ristampa dell’edizione del 1771 uscita a Catania nel 1930, e l’opuscolo Poesie veneziane sulla commedia “Il filosofo inglese” rappresentata nel 1754, che Federico Berchet pubblicò a Venezia nel 1861 includendovi l’inedita epistola martelliana del B. cui si è accennato.
Fonti e Bibl.: Testimonianze contemporanee sono in C. Goldoni, Opere, a cura di G. Ortolani, I, Milano 1935, p. 1008; V, ibid. 1941, pp. 263-64, 933, 1358, 1360, 1401; IX, ibid. 1950, p. 1333; XIII, ibid. 1955, pp. 201-13, 969; XIV, ibid. 1956, p. 788; G. Baretti, La frusta letteraria, a cura di L. Piccioni, II, Bari 1932, p. 279 (num. del 1° apr. 1765); Agenti segreti veneziani nel ‘700, a cura di G. Comisso, Milano 1945, pp. 98-100; J. Casanova, Histoire de ma vie, ed. integrale, t. I, Wiesbaden-Paris 1960, passim, e in partic. p. 9,dove lo ricordava con affetto per i benefici ricevuti ancor fanciullo e lo diceva “sublime génie, poète dans le plus lubrique de tous les genres, mais grand et unique“. Accanto a qualche scarno cenno biografico, come in G. Moschini, Della letteratura veneziana del sec. XVIII, II, Venezia 1806, pp. 152-53, o nella voce, dovuta al Ginguené, della Biographie universelle, III, Paris 1811, p. 209, troviamo la ristampa di qualche poesia e il riconoscimento delle qualità di poeta dialettale nella Raccolta di poesie in dialetto veneziano d’ogni secolo, Venezia 1845, pp. 89-93, 507, e ogni tanto l’impennata critica, positiva o negativa, quale fu quella di G. Ferrari, Saggio sulla poesia popolare in Italia, in Opuscoli politici e letterari, Capolago 1852, pp. 494-96 (l’articolo era uscito in origine in francese nel 1839-40 nella Revue des deux mondes). Cfr. inoltre Nouvelle biographie universelle, IV, Paris 1853, col. 148; G. Dandolo, La caduta della repubblica di Venezia e i suoi ultimi cinquant’anni, Venezia 1855, pp. 90 s.; C. v. Wurzbach, Biographisches lexicon…, I, Wien 1856, p. 122; E. Castelnuovo, Della poesia vernacola veneziana, in Nuova antologia, 16 apr. 1883, p. 613; V. Malamani, I costumi di Venezia nel sec. XVIII studiati nei poeti satirici, in Riv. stor. ital.,II (1885), pp. 45, 66; R. Barbiera, Poesie veneziane scelte ed illustrate, Firenze 1886, pp. XXIV s. XL, 21-29; V. Malamani, Il Settecento a Venezia, I, La satira del costume,Torino 1891, passim; A. C. Dall’Acqua, Venezia e i suoi poeti dialettali del Settecento, Mantova 1910, passim.

Venezia Settecento, dilaga il gusto del travestimento le dame amano celarsi dietro velette e ventagli, le signore aristocratiche arricchiscono il guardaroba
Nello stesso anno Apollinaire, nel volume che s’è detto, riprendeva in chiave compiaciuta la definizione del B. come “poeta di orgie” data dal Ferrari giudicandolo “le plus grand poète priapique qui ait jamais existé et en même temps l’un des poètes le plus lyriques du XVIIIe siècle” e assimilandolo alla sua torbida definizione di Venezia come “ville amphibie, cité humide, sexe femelle de l’Europe”; A. Pilot, Antologia della lirica veneziana dal ‘500 ai nostri giorni, Venezia 1913, pp. 19, 151-60, 92 s; C. Musatti, G.B. e la “Sposa persiana”, in Riv. teatrale ital., XIII (1914), pp. 328 ss.; L. Pagano, Poeti dialettali veneti del Settecento, Venezia 1915, pp. 44-52, passim; F. Nani Mocenigo, Della letteratura veneziana del sec. XIX, Venezia 1916, p. 436; Venezia nel canto de’ suoi poeti, scelti e illustrati da R. Barbiera, Milano 1925, pp. XIII, XVII, 22-28; p. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata, III, Bergamo 1926, pp. 86, 168, 279, 389; A. Pilot, G.B., in Encicl. Ital.,V,Milano-Roma 1930, p. 842; V. Lee, Il settecento in Italia, Napoli 1932, p. 310; G. Baretti, Epistolario, a cura di L. Piccioni, II, Bari 1936 p. 162; G. Natali, Il Settecento, Milano 1944: pp. 613, 641; M. Dazzi, Il fiore della lirica veneziana, II, Venezia 1956, pp. 213-41, cui dobbiamo la più convincente sistemazione critica del B. ed anche una scelta un po’ più coraggiosa dei suoi componimenti; Diz.letterario Bompiani, Autori, I, Milano 1956, p. 153; Opere, V, Milano 1948, p. 609 (a cura di C. Cordiè); G. Damerini, Casanova a Venezia dopo il primo esilio, Torino 1957, p. 291; B. Gamba, Serie degli scritti impressi in dialetto veneziano, 2 ediz., a cura di N. Vianello, Venezia-Roma 1959, passim.
Sulla facciata di Palazzo Bellavite, in Campo San Maurizio, si trovano due targhe che ricordano il soggiorno di due personaggi importanti: Alessandro Manzoni e Giorgio Baffo. Entrambi poeti ma di diversa ispirazione. La famiglia Baffo giunse a Venezia nell’anno 827 e fu inscritta nella nobiltà nel 1297, contribuì alla costruzione della Chiesa della Maddalena e di San Secondo (nell’isola omonima) e Giorgio non perdonò mai ai suoi antenati di aver speso parte del capitale di famiglia a favore del clero. Le sue invettive contro preti e frati furono assai accese:
De povertà fè voto e castitae,
e po’ ve volè tior tutt’i trastuli,
se ziogadori, puttanieri e buli,
e questa xe la vostra santitae.
Giorgio nacque nel 1694 da Andrea Baffo e Chiara Querini: studiò scienze, storia e filosofia. “Fu uomo robusto e di forte complessione, sebbene piccolo di statura e grosso… Era faceto ed allegro nel parlare e trattare, facile ed affabile con tutti, egli era la delizia della conversazione, ne v’era alcun cittadinesco passatempo cui il nostro Autore non intervenisse e non rallegrase co’ suoi lepidi versi ora studiati ed ora improvvisati che a gara gli dettavano le Muse e il suo libero genio“.
Le poesie di di Giorgio Baffo, pur suscitando polemiche per il loro erotismo e anticlericalismo, erano lette ovunque in quanto affrontavano temi di grande attualità, quali il libertinaggio a Venezia. E Baffo, sebbene membro della Quarantia, scriveva moltissimo:
Me lambicco el cervello zorno e notte
per far sonetti grassi e buttirosi
per divertir le donne e i so morosi
ma mi fazzo sonetti e i altri fotte.
I suoi versi nascevano dall’osservazione della vita cittadina in giro per caffè, sale da gioco e bordelli:
Amigo vol contarve in t’un sonetto
la mia gran bela vita buzarada
tutta la sera vago per la strada
ma vago per toccar qualche culetto.
Baffo fu amico di personaggi illustri suoi contemporanei ed ebbe molta influenza negli anni dell’infanzia di Giacomo Casanova. Fu lui infatti che convinse la famiglia a mandare Giacomo a studiare a Padova e sempre lui lo presentò al senatore Malipiero che divenne suo protettore per un lungo periodo della sua vita. Nel 1727 Baffo sposò Cecilia Sagredo, suonatrice di clavicembalo, dalla quale ebbe un’unica figlia. L’unione fu voluta dai Baffo perché Giorgio era l’unico maschio rimasto; il poeta ebbe sempre una certa ritrosia verso il matrimonio. Pare che i rapporti tra marito e moglie non fossero buoni, o almeno così traspare dalle sue parole:
Pur a mi la me tocca de sta’ fatta
e se la soffro e la sopporto in pase
perché digo, gramassa la xè matta.
La Mona el ciel a ella l’ha fatta
e più darmela adesso no ghe piase
e mi vago a puttane, ed ecco fatto.
Fu definito poeta osceno, trasgressivo, licenzioso e morboso, ma è palese che questo suo scrivere è una spia dei disagi sociali, umani e politici degli anni che precedettero la caduta della Serenissima, quando tutti i valori del passato vennero meno. Stanco di ipocrisie e falsità, durante un attacco di ira diede alle fiamme tutta la raccolta dei suoi scritti. Fortunatamente erano però stati trascritti da chi lo ascoltava e sono così giunti fino a noi.
(Fonte: M.C. Bizio)
Dialogo “Tra omo e donna, che fotte”
Dame la Mona. Oh! Dìo, zà vegno dentro,
Zà me par de morir, debotto sboro,
Che dolcezza in sborar,che gran contento,
Questa è la volta che sborrando moro.
Felice mi ghe digo a sto momento,
Tenir el Cazzo in Potta al mio tesoro,
Ma oh! Dìo che sboro ancora, e za me sento
morir dal gran piacer: Mona t’adoro.
Ma zà el cazzo me tira:oh! Dio no posso…
Vegno dentro, oh! che gusto ,oh! che sollazzo.
Dame le tette, Za te son addosso.
Tiote quel che ti vuol, no me n’impazzo
Pur che ti spenzi quel to Osello grosso.
Sì, Cara, zà ho sbora’ con tutto el Cazzo
.
Sora la mona
La Donna gà ’na cosa tanto bona,
Che tutti la vorrìa, tutti la brama,
Co tanti varj nomi la se chiama,
Ma ’l più bello de tutti xe la Mona.
Oh! Come ben sto nome in bocca sona;
A solo nominarla el cuor s’infiama,
Questo fà, che la Donna tanto s’ama,
E che dell’Omo la se fà parona.
La gà rason, se la la tien sì stretta,
E come una reliquia ben coverta,
Perchè la xe una cosa benedetta.
E quei, che la vuol veder descoverta,
O che i voggia toccarghe la Sfesetta,
Bisogna, che i ghe fazza la so offerta
I vantaggi della mona
Gran beni, che la Mona al Mondo fà,
Ella cava la fame ai affamai,
Ella veste quelli, che xe despogiai,
E alloggio ai pellegrini ella ghe dà.
Con certo liquoretto, che la gà,
Ella cava la sè a chi è arsirai,
Ella consola tutti i appassionai,
E la ghe dà salute all’ammalà.
Me stupisse, che tante gran nazion,
E trà l’altre i Egizj zente dotta,
Abbia bù per le bestie devozion;
I hà adorà sin la Rana, e la Marmotta,
El Cazzo ancora hà bù le adorazion,
E mai gnessun no gà adorà la Potta.
.
Me tira el Cazzo
Me tira el Cazzo, che ’l me và in malora,
Me pizza la capella, e più no posso,
L’è duro, come un ferro, come un osso,
Adesso el se corrompe, adesso el sbora.
Deh! cara vita mia, cara Signora,
Leveme vìa sea malatia da dosso,
Tastè co ’l scotta, vardè co l’è rosso,
Palpè, che la lussuria và per sora.
Slarghè le gambe, e quel Monin da latte
Sporzeme, caro ben, sulla spondetta,
Lassè, che metta un deo trà le culatte.
Oh! Mona cara, siestu benedetta,
Care ste culattine, e chi l’hà fatte,
Cara Potta, ben mio, ti xe pur stretta

Lorenzo Lippi Allegorie della simulazione
Gnente meggio del fottere
Fottemo pur, fottemo allegramente,
Che del fotter no ghè cosa più bona,
Troveme un liogo meggio della Mona,
Nol ghè per Dio, che diga pur la zente.
Le nostre voggie no xe mai contente,
Se vorrìa co xe dì, che fusse nona,
Ma, co se xe a cavallo d’una Dona,
Voggia de desmontar mai no se sente.
In fatti, se l’Osello no molasse,
No ghe sarìa gnessun de volontà,
Che fora della Mona lo cavasse;
Perchè ’l se cava in quanto el s’hà molà,
Che per altro, se sempre duro el stasse,
Mai nol se cavarìa fora de là.
.
El regalo più caro alle donne
Caro Cazzo, che in fondo della panza
Ti xe là fatto, che ti par un palo,
Che se una Donna te vien a cavalo
Ti me deventi un Paladin de Franza.
D’ordinario ti gà la bell’usanza
De dormir su i cogioni, e farghe ’l calo,
Ma se d’un Cul te vien fatto regalo
Ti salti sù con tutta la baldanza.
De zuccaro ti è fatto, come un pan,
E le Donne te crede un donativo,
E ’l più bon, che se possa darghe in man;
Co le vuol, de sto gusto no le privo,
Ghe ’l dago ancuo piuttosto, che doman
E ghe ’l dago per bocca, o in lavativo.
.
El corpo più glorioso
Oh! Caro Cazzo duro,
Siben, che ti stà al scuro,
Ti è el corpo più glorioso
Del Mondo universal.
Ti è quel, che hà fatto i Santi,
I Papa, i Re, i birbanti,
Ti è quello, che hà distinto
Con leggi el ben dal mal.
Come, che a mi me piase assae la Mona
Come, che a mi me piase assae la Mona;
Cussì al Procurator ghe piase el Corno;
Mi sempre studio per andar in Mona,
E lù el so studio xe d’aver el Corno.
Mi sempre vorrìa star col Cazzo in Mona,
E lù sempre vorrave aver el Corno;
Mi spendo tutti i bezzi per la Mona,
E lù li spende tutti per el Corno,
Tutti semo in passion, mi per la Mona,
E ’l Sior Procurator xe per el Corno;
La diferenza sta da Corno a Mona:
Ma supponemo, che lù gabbia el Corno,
E che mi, da cogion, sia drento in Mona;
Chi stà meggio? chi è in Mona, o chi gà el corno?
Bontà d’una villana
Sull’erba una Villana zovenotta
Ho trovà sola un zorno, che dormiva;
Quando ho capìo, che gnente la sentiva,
E mi bel bello toccheghe la Potta.
La s’hà svegià, la xe restada in botta
Vedendome, che in man gavea la piva,
La dise, cosa xe sta robba viva,
E mi ghe digo, un Cazzo, che ve fotta.
No la fà brutto a sto parlar el muso,
E mi tiò l’occasion, che la me dona,
E tireghe le corrole ben suso;
Co ho visto, che la xe una bona Dona,
Che la se mette colla panza in suso,
E mi senz’altro mettighelo in Mona.
Oh! Mona in frà le cose delicate
Oh! Mona in frà le cose delicate
Vera delizia della stirpe umana,
Ti de Cazzi ti xe la Tramontana,
Ti de sto nostro Ciel la via del late;
E vù Bardasse, che fè da puttana,
Petteve el vostro bus sulle Culate,
Oppur deghelo a nolo a qualche Frate;
Che ’l ve refila sù la cascia in cana,
Per mi fina, che vivo, e infin, che posso;
Voggio sempre per Dio fotter in Mona;
S’anca credesse de morirghe addosso;
Anzi, se posso mai, Dio me ’l perdona,
In vece sul Sagrà de farme un fosso,
Me voi far sepelir in t’una Mona
.
Accidente fortunato
Son stà in Mona jer sera allegramente
Con errata corrige originale una, che mai più l’ho praticada,
Ma senti l’occasion, come l’è stada,
Che no l’aveva gnanca per la mente.
Vedo un muso al balcon mezzo ridente,
Che me fà d’occhio; Oh! se no fusse in strada,
Ghe digo, ve darave una chiavada,
Ma ghe lo digo appian, che gnessun sente.
Bisogna, che la Mona ghe tirasse,
La m’hà averto la porta in t’un momento,
Nè mi ho aspettà, ch’Ella me invidasse.
Go issà su le carpette, come un vento,
E per paura, che la me scampasse,
Senza spuazza ghe l’ho messo drento
Sbaglio dalla mona al culo
Ho volsudo chiavar un dì a passin
Una certa Bettina Castellana,
L’ho vista in casa in tempo de Caldana;
Che la giera in camisa, e in sottanin.
Fin, che le Tette gò toccà un tantin
Se m’hà ’l Cazzo indurìo, come una cana,
Quà l’ho tratta sul letto a mo puttana
Col Culo in sù, che giera grasso, e fin.
Dopo gò dito, senti, cara Betta,
Mi addesso coll’Osel te vegno sora,
Sporzime ben la Mona, che tel metta;
Ma in pè, ch’in Mona in Cul l’ho messo; allora
La s’hà taccà a zigar, ti falli, aspetta,
Ti me xe in cul…., ma non importa, sbora
Sono del parere che la poesia erotica di Giorgio Baffo costituisce la prima emersione in Europa della poesia erotica (e non pornografica come altri l’ha battezzata). Baffo chiama le cose sessuali con il loro nome, senza veli, reticenze o ipocrisie. Il sesso per Baffo è innocente, è questo il messaggio di fondo della sua poesia, il sesso costituisce la chiave di volta per capire la società, un sesso visto non con malinconiche vestizioni o con angosce esistenziali fuori posto e ipocrite, un sesso primitivo, eterno, positivo, allegro, vitale, trasgressivo, verace, non un feticcio, non considerato come peccato come vorrebbe la morale cattolica ma un sesso liberatorio. Un sesso visto come molla del desiderio e fondamento di positività verso il mondo e smascheramento delle imposizioni di una fallace morale cattolica e controriformistica. È l’ultimo canto liberatorio della Serenissima prima del suo disfacimento, il canto del cigno del desiderio di liberazione.
d’accordissimo..complimenti davvero!
wow, poesia erotica in dialetto veneto del XVIII! E’ la conferma che la mona è sempre la mona, malgrado i tanti mona in circolazione
sono curioso dei commenti delle poetesse o lettrici di questo blog
A Marcello Mariani.
Da parte mia nessun commento. E’ ovvio, però, che il mio silenzio non è affatto assenso!
Giorgina Busca Gernetti
gentile Marcello Mariani,
è proprio l’assenza di commenti da parte delle migliaia di “poete” che hanno scritto versi del “corpo” o, a loro dire, “erotici” ad essere indicativo del fatto che quando si trovano di fronte al maestro della poesia erotica europea non hanno nulla da eccepire. Il loro silenzio è significativo, non crede?
Gentile Giorgio Linguaglossa,
io, tanto perché sia chiaro, non ho MAI composto versi del “corpo” e poesie erotiche di questo genere. Ho scritto invece molte poesie d’amore, alcune raccolte in una sezione intitolata “Eros” (inutile ricordare chi è Eros).
Ora sta per uscire una silloge in cui le ho raccolte tutte, dato che erano sparse in vari libri.
Amore, non sesso e soltanto sesso.
Ma io sono di un altro pianeta!
Cordialità
Giorgina Busca Gernetti
“un sesso primitivo, eterno, positivo, allegro, vitale, trasgressivo, verace” (Linguaglossa). Al “verace” avrei fatto seguire un “vorace” che mi pare nota caratterizzante.
Pasquale Balestriere
Sono d’accordo con Lei, gentile Pasquale Balestriere!
Giorgina Busca Gernetti
una camera, una poltrona, un piatto di pasta
nell’incavo delle labbra tu gemiti e t’agiti
vuoi e non vuoi e non sai cosa vuoi, i capezzoli
una lingua una bocca in più
e succhiare da te e tu lingue in lingua succhiare,
incunearti con me con altro
nell’efebico ritorno all’indistinguibile donna-uomo
Tu-io altalena che mi fa giocare
col tuo cazzo, affogare nella fica, forte,
più dentro fino a sentire la gola riempita.
Ti bramo fra le cosce traboccante
alimento la fame delle natiche
con lo sperma delineo l’arco dei miei fianchi
Apro ancora ancora e ancora… al tuo orgasmo
1998 (pubblicata in Mindskin, Chelsea Editions New York 2011)
…………
Questi due passi molto diversi fra loro e la poesia Glutei sulla pagina sono tratti dal romanzo in versi e prosa Venere Minima (Rupe Mutevole, Bedonia Parma, 2009)
1°
Il pastore ferma ogni suono.
Avvolta da ghirlande d’acero
una cerbiatta forte, minuta
si stampa a sinistra della sorgente.
Si volta.
Si ferma.
Lo raggiunge.
Si rannicchia ai suoi piedi.
L’uomo è affascinato, confuso
dalla stranezza del delicato incontro,
gli scivolano dalle labbra
parole sconosciute:
“La luce della Luna sorge lenta all’alto colle
con frastuono biancodorato:
cervi, grilli, merli, scoiattoli accompagnano
la Musa delle mie gambe
colomba, farfalla gialla e nera
Aperegina solitaria”
La lingua della cerbiatta
comincia a sfiorargli i piedi
si libera una pioggia improvvisa
profumata di grano.
Pacificato dall’ imprevista cura
chiude gli occhi.
Si apre all’umida carezza
dalle caviglie e su, su, su, su.
Anche lui arriva all’erba,
nel punto argentato dalla luna.
L’animale poggia la testa
fra le gambe.
Il vento vibra più forte
il pastore apre le palpebre,
nel riflesso delle foglie
la figura accanto è più imponente.
La sensualità di lei
lo rivela fragile, nudo
nonostante la forza.
Si concede alla calma.
Vicini e simili
in uno stesso aroma di mirra
si assopiscono
sfiorando guance, ciglia.
———————–
Nelle ore scure
il silenzio e l’acqua
attenuano l’identità agli odori.
E’ la Luna il punto più alto d’essere.
———————–
All’alba la cerbiatta si schiude
solleva le zampe posteriori
le anteriori,
ritta si deterge il dorso.
Immobile. Sguardo
al maestoso ulivo, si avvia
in direzione del rivolo dissentante.
Fra liane di menta e verbena
la sua lingua si distende
a fiore di loto. Beve.
Sorseggia ancora, si guarda intorno
quasi volando è dal compagno.
Rinfresca il suo torace
i fianchi
l’inguine
le cosce, i polpacci turgidi.
Eccitato già nel sonno
si sveglia l’uomo. Vulnerabile
all’alitare di lei
nella completa nudità,
si siede, si lascia accudire.
Si sente posseduto dalla grazia.
Poi il desiderio di accarezzare
diventa suo.
Sulla schiena
intorno alle narici
vicino agli orecchi
lento, sulla pancia.
Con fremiti dal dorso
l’accoglie l’animale,
da quel turbamento
sale la follia per l’unicità con lei
Comincia a baciarla teneramente.
Le labbra, piccolissime,
non s’arrestano più.
L’animale ha lievi sussulti, si scosta
delicatamente, a passi lenti,
l’Ancella della Luna
si nasconde
nel bianco dei meli in fiore.
2°
L’uomo Toro
T: Inseguire quel dorso di delfino
che lascia emergere i fianchi,
che magnifico perlaceo animale!
D: E’ il delfino sacro della dea
suo nobile famiglio
suo messaggero nel mare.
(…)
T: Ho visto una donna dal viso bello
ti ho pensata,
ho visto due donne dai fianchi belli
e ti ho desiderata
ho visto una ragazza dai seni minuti
e ho sete di te(…).
Spero che la corona dei miei denti
sia trapassata dallo scarlatto al blu,
dalla ferita sanguinosa del morso al solco della memoria(…)
Verginità e martirio l’odore del sangue!
D: C’è la mareggiata
creste bianche si rincorrono impazzite,
il vento e il sole ne sono inorgogliti
la spuma lenisce le ferite
sulle labbra interne ed esterne.
T: L’odore del mare arriva qui,
solleva la marea degli istinti primordiali.
D: Immaginali nella calma assoluta!
La stessa dell’attimo in cui mi volto,
m’apro, ti circondo con la vagina(…)
Ecco, la tua essenza!
Spinge dall’osso sacro, eleva la spina dorsale.
Seduta ho il senso della presenza (…).
T: Che perfetta misura dentro la cavità…delle mie mani!
Che cerchio perfetto intorno al centro,
il mio centro eretto e profondo!(…)
China la testa sul ceppo.
Solleva i fianchi.
Ricevimi sottomessa
dentro la porta stretta che conduce al centro tuo.
(…)
D: Mi lasci sempre meno segni visibili all’esterno.
Le curve del corpo mi specchiano terra rigogliosa,
liquido di placenta per l’anima(…).
Buona giornata dall’arco alla sua freccia
dal paesaggio all’occhio che lo guarda
dai fianchi alla cima
dal mare al suo amorevole leviatano.
(…)
T: Ti amo, ti voglio presto, subito.
Vorrei che il mio seme piovesse sulle tue labbra
insieme alla pioggia fuori della finestra.(…)
Vorrei essere Chirone che ti bacia e ti monta.
D: Io vorrei essere scovata, ammansita,
fatta scivolare, custodita.
(…)
T: Sono in viaggio con te
dentro le bianche vele delle lenzuola
dove l’iride guarda il proprio colore
dove l’antinomia e la tautologia sono la stessa cosa,
come il maschio e la femmina.
D: Veleggio sul ponte, l’attraverso per raggiungerti(…).
E’ notte. Ho bevuto vino.
Ho cosparso olio sul corpo.
Immersa nell’acqua odorosa
il vestito è il crepitio del bagnoschiuma.
Mi allontano da te.
Le tue parole non titilleranno
nulla più. Forse mi vedrai toccandoti.(…)
So che non mi dirai chi sono.
Attenderanno invano i commenti che le preparavano
le natiche mie espansive.
Fa troppo caldo in questa vasca!
Inspiro il mio sudore, immagino il tuo sperma.
Con la matita sto facendo un gioco pericoloso,
un gioco per nutrire il desiderio, per ingoiare il desiderio.
——————–(la poesia)
Glutei sulla pagina
Si inarcano neri e bianchi
Flessuose frescure
Un artiglio di fuoco
dalla mente affanna il respiro
turbine per il possesso delle nascoste labbra.
Il fremito impaurito sfiora i confini tumidi
si concentra l’umore chiaro, arriva
dentro curve di gioiosa bellezza.
Ho postato tanto lo so. Ma questa è soltanto una parte dei miei scritti erotici, C’è anche altro pubblicato e non.
E qui sì che ci siamo, carissima Zagaroli. Qui c’è poesia, verso e in-verso. L’ho sempre sospettato che in Lei c’era qualcosa di sensuale, fin da quando ho letto, su questo blog, una corrispondenza in versi con De Palchi. (non voglio sminuire il resto, ovviamente).
“incunearti con me con altro
nell’efebico ritorno all’indistinguibile donna-uomo”.
La poesia erotica maschile, come quella di Baffo qui presentata, oppure quella dell’Aretino, mancano di una visione sensuale che solo le donne, le femmine, conoscono.
Ma perché, mi domando, ancora le donne danno credito a noi uomini che difficilmente le faremo veramente godere, se non con la lingua.
Il clitoride è un mistero che gli uomini (non tutti) trascurano, vedendolo solo nell’insieme, mona, fica, pucchiacchella. Invece tra piccole labbra e grandi labbra e vagina, c’è un mondo infinito che sale fino ai capezzoli e disegna tutta la figura.
“efebico ritorno all’indistinguibile uomo-donna”.
Vorrei spiegare che L’uomo Toro in Venere Minima è la corrispondenza in sms fra un uomo e la pittrice protagonista del romanzo e fa parte della seconda sezione del romanzo.
Il testo relativo all’amore fra la cerbiatta e un uomo è la scrittura della raffigurazione di un affresco dipinto dalla pittrice. Tutta la sezione della prima parte del libro sono parole date ai diversi quadri della pittrice.
La seconda sezione invece è la costruzione in fieri di una sceneggiatura cinematografica, e qui alcuni passi sono monologhi teatrali. Da questa sezione erano state prese anche le poesie e la prosa presentata da Giorgio nel post precedente.
Non spiegare. Non far crollare tutto con i sensi di colpa.
Tutto è perfetto. Davvero.
Cara Antonella,
hai fatto bene ad inserire una didascalia, le tue poesie non sono facili da interpretare e, purtroppo, avulse dal contesto rischiano di essere fraintese. Comunque, complimenti per la versatilità con cui ti cimenti nel genere erotico senza purgare le “cose” o edulcorare le situazioni che sono sempre nitide e ben rappresentate.
La poesia erotica si muove sul sottilissimo discrimine tra la volgarità e la letterarietà, è questa la sua difficoltà.
C’è molta sensualità in queste poesie di Antonella e una ricerca che comprende intimamente anche l’altro, cosa che manca nelle poesie di Baffo. La storia, molto dolce, del pastore e della cerbiatta tocca l’«aldilà del possibile» (Bataille).
A questo punto direi che i 16 modi di Aretino e i Canti di Bilitide ci stanno a genio.
Le canzoni di Bilitis (Les Chansons de Bilitis). E di cosa aver paura? Di Saffo?
L’Aretino aveva capito tutto in anticipo, anche se rimane sempre una visione maschile, sessuomane e un po’ misogina (ci sono anche puttane uomo a questo mondo).
Anche dopo Schopenhauer (Metafisica della sessualità) o Roland Barthes.
Manca una significativa voce femminile.
Giuseppe, Giuseppe, in questi giorni caso per caso, mi sono capitate per le mani una caterba di poesie erotiche…e di buon grado oramai preferisco le donne dell’erotismo,gli uomini hanno fatto la loro storia e da quella non si muovono più: alla fine sempre di cazzo, fica,culo,tette, buco di qui buco di là, si parla. Oramai il terreno dell’erotismo è fragile, diviene Grottesco-quasi ridicolo…e la pornografia sicuramente ne è complice. Motivo per cui a 17 anni scrissi il volume di racconti erotici-grotteschi, L’osteria sotto il letto, et il fatto che l’inviassi alla mia ex, appena ci fummo messi insieme, sicuramente rendeva tutto leggermente farsesco.E ancora continuo a scriverne: Porno non porno, pubblicato in Punto Interrogativo ne è un esempio.
Bene, Valerio. Mi piacerebbe leggere le tue “erotiche” pubblicate in Punto interrogativo.
Come le trovo?
non è una poesia, è un racconto. di poesie ne ho, ma sono vecchie, materiale che odio.
Caro Giuseppe,
ma è forse l’antologia che si intitola “Scrivere un punto interrogativo” a cui ti riferisci? se vuoi te ne spedisco una copia l’ho curata io.
Caro Valerio, se ti riferivi a quanto ho scritto, il riferimento a Bataille mi è venuto spontaneo, con quella sua dimensione “mistica” del sesso , ma ciò non vuol dire che io condivida in toto il suo pensiero.
La storia di Antonella resta comunque un bel canto.
intendevo semplicemente che mi piacerebbe curare due articoli XD. So che sono invasivo, ma non così tanto.
Sei sulla via giusta. Solleticaci.
Ai due articoli.
Spero tanto che parliate Voi tutti, di Bataille – come di altri autori di calibro alto”, con cognizione di causa; più volte mi sono imbattutto in “interventisti” che pur di far saperaead altri di conoscere – a fondo?! – l’autore sono incappati in errori, sviste, sciocchezze e bla bla vario.
a. s.
Caro Antonio, nel mio caso, il discorso della complessità di un autore cerco, nel possibile, di non esaurirla sull'”unghia”, né mi piacciono le citazioni fine a se stesse. Di Bataille, autore complesso, conservo: L’erotismo, L’azzurro del cielo, Storia dell’occhio e, tra questi, L’azzurro del cielo è quello che ricordo in particolare (ma li ho letti un bel po’ di anni fa), e credo valga la pena ri-leggerli. I libri sono come le persone, col tempo hanno più cose da dirci…
Beh, per quanto mi riguarda ritengo di non essere autrice ‘erotica’ e il genere non mi esalta particolarmente, però passo spesso di qua e credo sia giusto che anch’io tenti di dire la mia. Confesso, per le ragioni suddette, di avere fatto un po’ fatica ad arrivare in fondo alla lettura di questo post di ‘versi’ settecenteschi, che a me paiono somigliare a versi più che altro nel senso proprio, di suoni animaleschi d’infoiati. Trovo comprensibile che l’autore, G. Baffo, abbia ha avuto l’impulso, a suo tempo, di bruciare ogni cosa. Leggere questi testi, tuttavia può essere interessante, dal punto di vista storico-antropologico.
Per inciso, personalmente, visto che l’ho incontrato, non gradisco molto nemmeno il moderno conio del termine di ‘poeta’ al femminile, nel senso di ‘la poeta’, ‘le poete’, che trovo un po’ sgraziato, a volte perfino un filin dileggiante, preferisco il tradizionale ‘la poetessa’, ‘le poetesse’.
Giuseppe Panetta, secondo la mia lunga esperienza in merito all’amore erotico, conosce in dettagli le parti femminili più concentriche e sensibili che spaziano il corpo. Complimenti, se le insegue come le spiega, ma erotismo è molto di più del mero meccanismo. È ciò mi porta a dire di aver letto Giorgio Baffo nel 1972, due volumi in edizione di lusso numerata di Longanesi (1971). Troppa stessa mercanzia: tete mona culo. Non feci che ridere leggendo il mio dialetto. Dopo pagine e pagine di variazioni non dissimili e di frettoloso normale consumo maschile chiusi la lettura. La noia smise il divertimento del mio ridere. Non c‘èra altro, almeno per me molto ma molto eroticamente ammaestrato maestro così considerato dalle poche donne amate. E come il poeta è, natura, altrettanto la persona erotica è, natura. Non si diventa. Chi la pensa diversamente si spieghi. Intanto, senza presunta umiltà o modestia, presento tre editi personali ispirati a 74 anni per dimostrare che erotismo non è quello di Giorgio Baffo.
• • •
La chiarezza delle acque mi rigenera
puro nel fiume che dalla cima del tuo corpo
sorge a zampilli a gorghi a rivoli veloci,
ramificandosi in tributary di pendii e di braccia
che crocifissi in attesa;
e nel suo letto di ciottoli sabbie e curve ti leviga
le mammelle a fioriture di gigli acquatici,
cedevoli nella piana acquifera che freme fino alle anche scarne,
arrivando a estuare spalancato all’ambra
delle tue riviere imponenti––l’Adige
è il tuo corpo sinuosamente asciutto, potente
vortice che accoglie la mia bocca di sete.
Gennaio 2000
• • •
Potessi scatenarti nella camicia da notte I fianchi prensili
con la lontananza che si espande a un tuo universo
di allergie e di capelli seralmente selvatici––sai,
voglio sedurti con la mente
centrata sul triangolo vivacemente muschiato
che mi aspira dentro la costellazione nera;
sono il fiato che scotta il taglio rosso
la verticalità vertiginosa; sono la lingua
che flessibilmente accede per le cosce guizzanti
come carpe nel fondale di melma dove fa luce la fica,
per le gambe che si disegnano ad arco
scendendo ai piedi intensi di febbre.
Potessi scatenarti nella spiritualità del tuo corpo distante
l’entusiasmo, e ancora leccarti là
e là, fino a bocca sazia o consumata.
Gennaio 2000
• • •
Mi
immedesimo in te, cristo,
spirito incolume della mia religione
carnalmente di bestia umana––la mia comunione sacra
è la manifestazione di quanto esprimi spezzando il pane
“prendete, mangiate, questo è il mio corpo”
e porgendo il vino
“bevete, questo è il mio sangue”.
Mi spezzo, come il pane della cena,
e dissanguo, come offerta di vino––simbolo del sangue
prezioso; son il carnivoro
il cannibale che lingueggiando divora il suo corpo
e beve il sangue della ferita
perché si ricordi di me;
e tu inchioda sulla stessa croce il mio amore
per le sue carni maestose.
11 giugno 2000
Confessione
Alfredo de Palchi, ho letto ultimamente “Memorie Scheletriche” (gran bel titolo) e mi sono ritrovato completamente nella storia autobiografica, nonostante gli anni che intercorrono tra la tua iniziazione (spero di poterti dare del tu, con licenza) e la mia, anche in ordine di lontananza territoriale, Veneto e Calabria. Anche con le dovute differenze di contesto. La mia non era una famiglia povera, mio nonno Vincenzo, dopo 20 anni di America, tornò al paesello e mise su una fortuna terriera e di armenti, durata fino al 1960, anno in cui mio zio, Peppe, fu assassinato dalla ‘ndrangheta per uno sgarro imperdonabile. Gli avvocati si mangiarono tutto il patrimonio, senza ottenere giustizia. Io sono nato nel 1964, il secondo Peppe di famiglia, da mia madre, sarta, e mio padre contadino. Una vita non di ristrettezze ma di privazioni sì. Una casa senza libri, ma con racconti che infiammavano la mia fantasia. Da bambino non giocavo se non con carta e penna su cui disegnavo storie fantastiche, affabulavo guardando dalla terrazza di casa la catena austera e azzurrina dell’Aspromonte. Nel 1974, mia madre, grande donna, si rimise a studiare e divenne insegnante, e nel frattempo mio padre, uomo di natura, apicoltore, tutto ciò che toccava fioriva, da contadino divenne caposquadra della bonifica di strade ed acquedotti. La fortuna cambiò, ed io comincia a riempire la casa di libri, di acquerelli, di pennelli, persino di creta con cui modellavo statue di santi e di animali. Poi venne la morte e si portò via mio fratello. Per anni quella morte, nella mia fantasia, uscì fuori da un libro e divenne una bara bianca. A maggio, di solito, le donne del paese si recavano alla fiumara La Verde a lavare coperte e lenzuoli, con il sapone fatto in casa col grasso del maiale e la cenere che rendevano i lenzuoli bianchi d’un bianco accecante, dopo averli sbattuti sulle pietre lisce dei lavabi. E noi, ragazzini a fare il bagno, ignudi o con le mutande, per poi addentrarci nei canneti per una masturbazione collettiva. Quell’anno, Carmela, una ragazza di 16 anni, ci seguì nel canneto e si mise a pecorina, e noi, piccoli e grandicelli, col cazzettino imberbe ci avvicendavamo dietro di lei. Prima lecca, ci diceva, poi ti guido io. Il sapore aspro e dolce della fica e quella servitù silente che era l’origine del mondo, del mio mondo. Fu sempre in quel canneto un’altra esperienza. Avevo da poco letto Saba, Ernesto, e scoprì il bosco e la riviera. Eros e Thanatos s’erano compiuti. Seguirono anni in Seminario, in cui alla mortificazione del corpo, anche lo spirito ne risentì profondamente. Ricordo il frustino di fili di luce attorcigliati che il Padre di turno usava sul dorso delle mani per le nostre birbonate. E così smisi di mangiare fin quando mi portarono via da quell’inferno. Lessi lo Zibaldone, De Sade, Penna e comincia a scrivere (cose orrende, ovviamente).
Ti risparmio, caro de Palchi, il resto della mia vita, non così avventurosa come quella adolescenziale. La maturità ha portato palpiti, innamoramenti, scopate magnifiche, relazioni varie, incontro con poeti e pittori (Stecher, M.L. Spaziani, Bellezza, Salsetta, Nunzio Pino e molti altri) in un crescendo di esperienze, sempre di bosco e di riviera, fino ad oggi, casto e puro da quasi un anno. Forse troppo, ma tengo duro. E’ più dolce l’attesa per quel che verrà.
Come vedi, Alfredo, sono molto più complesso di quello che tu possa pensare, o anche sentito dire su di me. Non ho peli sulla lingua. Gli unici peli che mi sono rimasti incagliati tra i denti sono quelli delle mie storie e dei miei amori (che qui non riporto per rispetto alla loro privacy) delle mie leccate, che non sono uguali a quegli degli altri, forse un po’ ai tuoi, per alcuni aspetti, per assonanza e comunanza. Ma è un caso. Nient’altro che un caso.
Scusatemi, mi permetto di contravvenire a certi ordini con questi versi :
—————————————————————————————-
Se cristiano è il mio passo
la mia mente è Oriente,
ma la carne è bestia di Giovanni.
Pròvati a sposare la corazza
e il lucido suono
e avrai il gelo di un’orbita
per stornare lo sguardo.
Benedetti i voli della mia verga:
radici di tutto il mio corpo.
Le tue labbra sfasciano l’udito
e il canale che io guardo circospetto.
La mia mente ha dita palmate,
lecco il tuo sudario rosa,
ma l’occhio è gravido di ratti.
Crepa, cenere!
Squamati, lingua!
Ah, giro intorno ai tuoi massicci,
ai ghiacciai… e invasioni… erosioni!
Tu incedi sul mio prepuzio
dal cielo della tua magica clitoride.
La rotazione si nutre d’acredini.
La bava geme dalle bende funebri:
l’ombra è fedele al suo corteo.
Circumnavigare i lutti, distratto dalla vita.
Rinuncio all’oscurità: pudore è incubo,
acrimonia della gioia, unghia del prisma.
Angelo della mia carne ho carne d’angelo,
lividi sono gli occhi, brillano i tuoi avanzi!
C’è un calco di uno stupro – sull’ossidiana!
No, è vena d’alabastro!
Mi dicono: stagioni! Non comprendo.
Benedetto il silenzio della violenza,
demente il cammino di Don Giovanni.
Ombra, ti dono una torcia di contrade!
È oscena la pietà d’amare:
ventaglio di pudori, di spirali.
Dimmi, nella carne è l’unico perdono?
È lo sperma che t’accusa, t’acceca e ti trasmuta.
C’è un sudario di merletti, di trine
e… archetti… suoni… ossari… io… io
sono il fedele in un concerto di dubbi!
Ah, la gioia corvina dei morti,
cecchini della linfa, boia delle radici!
antonio sagredo
Roma, 12-13 agosto 1990
a Giuseppe Panetta e alla sua toccante “Confessione” dedico questi miei versi:
*
(Ispirata ad una poesia di E. A.)
Nell’inquadro delle mani
la faccia di pietra posso vederla
saprò anch’io di che natura è fatta
se piange, se sorride o se la ferita
agli occhi resta più o meno simile
nella ripetuta alternanza dei tratti
di un comune mortale, indispettito e solo.
Il solco nella mano richiama la via
aperta da una crepa lungo la casa
si inerpica sulla barriera del muro.
Oltre gli sguardi
corpi adolescenti trovano riparo
tra carezze confuse di fumaria
il sesso turgido reclama
il fiore schiude ali come labbra.
Grazie, cara Giuseppina, per questi tuoi versi. Bella l’immagina della linea della mano che richiama la crepa del muro.
Caro Giuseppe, grazie alla tua bildung… sebbene la poesia recentissima non è.
ho letto diverse cose tra racconti e poesie in odore di erotismo, devo dire che leggendo mi è sempre venuto un po’ da ridere, non so perché sarà un mio limite, legavo tutto ciò al sesso in stile kamasutra o porno, le situazioni erano ridicole, inusuali, la forma troppo impostata e seriosa insomma roba da ridere, sopratutto quando le si leggevano in reading pubblici
noto che invece con piacere che le poesie qui pubblicate non sono affatto male!
forse preferirei ancor più una poesia che prendesse in giro chi vuol fare il sensuale a tutti costi 🙂
le poesie del Baffo per esempio sono molto ironiche soprattutto se lette in quel dialetto, difficile renderle serie… meno male! 😉
Caro Giorgio, sono inibita da tanta vivacità di pareri; mi vengono in mente due citazioni: San Paolo che dice”Qualunque specie di amore”,e Flaiano:”L’amore è una cosa troppo seria per lasciarla fare agli amanti”.Questa ultima mi piace particolarmente: segna il limen tra la banalità dell’adulterio e l’abissalità dell’amore.
bah, tanto non ho niente da perdere, metto qualcosa anch’io. Premetto che questo piccolo componimento è un canto estratto da un mio libro scritto a 17 anni per la mia ex. Posso dire che èstato un rapporto odioso, rancoroso, acido, pieno di minacce, di litigi ed anche di percosse, in cui l’unica soluzione per sfuggire da tutto questo era detto palesemente scopare, con tutte le perversioni del caso (dall’esibizionismo estremo, al sadismo), per cui ogni mia poesia erotica riflette quel tempo: un tempo che odiavo ma per cui non potevo fare a meno, tant’è vero che questa donna, citata anche nella biografia doveva venire a conivere con me, per i suoi problemi familiari, che mi costarono minacce assurde (a me e alla mia famiglia, persono quando mio nonno era in camera mortuaria): facendomi dare del barbone, del mendicante, del senzatetto, del pazzo ribelle (perché facevo teatro di strada! ) ho passato un anno a cercare di assecondare una donna che appena visto un emerito demente metallaro c’è andata assieme. Ma questa è un’altra storia.
Lentamente
Fauci aguzze
Dilaniano
la mia carne dolciastra,
mentre,
la Primavera,
amara,
con un roboante boato
esplode dentro di me,
sbattendomi
con passione violenta
in ogni mia
ferita.
conchiudo dicendo che questi componimenti hanno solo un valore simbolico. Se uno scrivesse così, da critico, lo boccerei.
GABRIELE D’ANNUNZIO HA SCRITTO ELEGANTEMENTE
.
Perché, perché, o mia crudele amica
non vi lasciate mettere l’uccello
in quella ricca e opulenta fica
che nel suo genere è il perfetto bello?
.
Vorrei essere davvero una formica
per entrare quatto quatto in quel corbello;
sapete, non m’importerebbe mica
di restare preso nel cresputo vello.
.
Voi fareste addolcir qualunque amaro
noi tutti quanti ripetiamo in coro:
voi siete qualche cosa di ben raro.
.
Portate di bellezza un gran tesoro
via, via, prendete un pugno di denaro
e lasciatemi entrare nel vostro foro.
.
Gabriele D’Annunzio
E’ molto piacevole leggere tutto quello che è stato espresso in seguito al post di Baffo. Inizialmente è stato detto che ci sarebbe stato silenzio. E’ stato smentito forse dopo la mia “audace provocazione”? Ho letto poesie complesse come è l’erotismo se non è soltanto sesso. Le poetesse e i poeti si sono dischiusi con naturalezza e non soltanto in poesia.
Grazie per tutto quello che ho letto.
Vorrei aggiungere due poesie di dolore erotico-amoroso:
Sono stanca
di notte nell’hotel
fra la carta che non letta fa vapore,
ti cerco oltre il silenzio
non voglio credere alla tua assenza
cammino perché la voce non arriva.
———————–
Avvicinati amore mio,
rivestimi di chiaro.
Al mio letto tremante avvicina l’orecchio,
nelle tue pupille libera me.
Scomponi la tua voce nel giorno che trafigge,
avvicina le mani alla mia tempesta.
(da Serrata a ventaglio Onyx Roma 2004)
“Da parte mia nessun commento. E’ ovvio, però, che il mio silenzio non è affatto assenso!
Giorgina Busca Gernetti”
Così avevo scritto il 20/11/2014 alle ore 18,**
Si cercherebbe invano un mio commento o una poesia erotica composta da me, come ho affermato rispondendo a Giorgio Linguaglossa.
Ho postato un sonetto erotico di Gabriele D’Annunzio, cosa molto diversa dall’aver risposto alla provocazione (?) componendo ciò che MAI comporrò.
Giorgina Busca Gernetti
Credo che sei stata più tu, cara Antonella, che non Baffo, a scatenare tutto questo. Sei stata tu a farci un baffo” a tutti.
L’ha ribloggato su CIANURO EMOTIVO INCHIOSTRO D'ANIMA SINISTRAe ha commentato:
ARTEROTICA GIORGIO BAFFO AMINA # 21
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