Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa
Leggendo questo libro di Eugenio Lucrezi, mi è venuto in mente che avevo dimenticato di dire qualcosa, che avrei voluto dire qualcosa di importante… ma forse non era così importante come credevo; in fin dei conti a chi si rivolge questo libro di Eugenio Lucrezi che ha per titolo Bamboo Blues? Credo a nessuno. E questa è forse la posizione privilegiata per un libro di poesia: non dover accordare nulla a nessuno, non dover venire a patti con nessuno, non dare credito a nessuno, essere liberi come un uccello. Le parole che utilizza il poeta napoletano sono per lo più parole desuete e povere con l’accompagno del timbro sonoro di una antica tradizione che si è dissolta.
Ho dimenticato di dire che una «patria metafisica delle parole» la può costruire soltanto una tribù. Non sta al poeta, seppur di rango, costruire una patria metafisica, questi non può che accostumarsi ad impiegare le parole che trova già pronte, quelle della barbarie, le parole che un poeta non dovrebbe mai accettare di dover pronunciare.
Ma mi chiedo se, nell’epoca della seconda barbarie, la nostra, sia ancora possibile costruire una patria metafisica delle parole. Con le parole di Marcuse:
«È possibile che la seconda epoca di barbarie coinciderà con l’epoca della civiltà ininterrotta».
Non so se Eugenio Lucrezi abbia tenuto in mente questa massima di Marcuse dei primi anni Sessanta ma credo che in qualche modo si riconoscerà in quelle parole del filosofo tedesco.
La pagina finale di Dialettica negativa di Adorno (Verlag, 1966, trad it. Einaudi, 1970, p. 369) recita così:
«Ciò che recede diventa sempre più piccolo… diventa sempre più impercettibile; per questo motivo di critica della conoscenza e di filosofia della storia la metafisica trapassa in micrologia. Questo è il luogo della metafisica come riparo dal totale. Nessun assoluto è esprimibile se non in materiali e categorie dell’immanenza, mentre tuttavia né questa nella sua contingenza né la sua essenza totale devono essere idolatrati. Secondo il suo stesso concetto la metafisica non è possibile come connessione deduttiva dei giudizi sull’essente. Altrettanto poco può essere pensata in base al modello di un assolutamente diverso, che irriderebbe terribilmente al pensiero. Quindi essa sarebbe possibile solo come costellazione decifrabile dell’essente, da questo riceverebbe il suo materiale, senza il quale non sarebbe, non trasfigurando però l’esistenza dei suoi lamenti, ma conducendoli invece ad una configurazione, in cui essi si comporterebbero in scrittura. A questo fine la metafisica deve intendersi del desiderare. Che il desiderio sia un cattivo padre del pensiero è fin da Senofane una delle tesi centrali dell’illuminismo europeo, ed essa vale ancora senza restrizioni di fronte ai tentativi di restaurazione ontologica. Ma il pensare, esso stesso un comportamento, contiene in sé il bisogno – e in primo luogo l’affanno. Si pensa a partire dal bisogno, anche quando si rifiuta lo wishful thinking. Il motore del bisogno è quello dello sforzarsi, che implica il pensare come fare. Oggetto della critica è quindi non il bisogno nel pensare, ma il rapporto tra i due. Il bisogno nel pensare esige però che si pensi. Esige la sua negazione per mezzo del pensare, deve scomparirvi, se vuole realmente soddisfarsi, e in questa negazione gli sopravvive, rappresenta nella più intima cellula del pensiero ciò che non gli è simile. I minimi tratti intramondani sarebbero rilevanti per l’assoluto, perché lo sguardo micrologico frantuma il guscio dell’impotentemente isolato in base al concetto superiore, che lo sussume, e fa saltare la sua identità, l’inganno che esso sia meramente esemplare. Tale pensiero è solidale con la metafisica nell’attimo della sua caduta.»
Qui c’è in evidenza l’aporia del pensiero nell’atto che si pensa, che pensa il suo oggetto, che esige la sua negazione, ovvero, il suo annullamento, il suo obnubilarsi, il suo inabissarsi per rinascere in un nuovo pensiero… Ecco, credo che la poesia debba pensare il suo oggetto, debba cercarlo con tutte le forze, altrimenti rischia di essere mera esternazione soggettiva del non-pensiero, del wishful thinking. Perché, sia chiaro, la poesia è pensiero, pensiero pensante, pensiero, come si dice oggi, poetante.

una «patria metafisica delle parole» la può costruire soltanto un uomo della tribù
Tre poesie di Eugenio Lucrezi
Angelo del Pontormo
Nube. Nubesco. Potenza delle ali.
Testa rivolta ai venti della volta.
Un gran soffione d’aria nel vestito.
Sono nube di guerra. Non sorrido.
Vento che ti schiaffeggia. Non mi vedi.
Arrivo nel gran peso delle ossa.
Non c’è buco che tenga la caduta.
Angelo dell’intonaco, sono orma
della grazia sul ponte, sono inchino
di veleggi rigonfi al paradiso
chiuso nella navata.
Bamboo Blues
Non credo a quel che vedo, la fotografia
scattata quasi a caso, di pomeriggio,
a te che prendi il vento negli ariosi
capelli, e ad Agropoli muovi un impercettibile
passo di danza, torcendo
appena un poco il busto mentre alzi
le braccia all’altezza del viso che si profila
di spalle nel cielo caricato
di sole e di calante azzurrità commossa
e respirante fiati e fiati di vite
diffuse e riposanti nei filacci
d’estate, ad occhi chiusi a fresco,
in memoria del mare,
con le ascelle che bevono luce
moderata alla fine, che accoglie
la grazia del tuo passo, e di tuo figlio
che ti guarda da presso,
dice l’amore incredulo che piangi
a Pina in un istante, e sei tutta
abbraccio intorno al nulla, concentrata.
Angelo
Essere un angelo ha un costo, le ali,
con l’esistenza che pesa e non vuole
saperne di levarsi, fanno solo
rumore, un fastidioso
frullare con affanno inconcludente.
Fare l’angelo costa, a te hanno dato
l’intera paga, il soldo del soldato
celeste. Raramente
ti sei mossa da terra, la tua grazia
cozzava sul soffitto della stanza.
Il soldo lo hai tenuto in un cassetto,
la luce che emanavi rifletteva
raggi infiniti contro la parete
trasparente della finestra.
Frullare d’ali nella cameretta.
Sorella lieve raggiungi la tua schiera.
Eugenio Lucrezi, di famiglia leccese, è nato nel 1952, vive a Napoli. Ha pubblicato cinque libri di poesia:
– Arboraria, Altri termini, Napoli 1989;
– L’air, Anterem, Verona 2001;
– Freak & Boecklin (con Marzio Pieri), Morra-Socrate, Napoli 2006;
– Cantacaruso : Lenonosong (con Marzio Pieri), libro + CD musicale, La finestra, Lavis, Trento 2008;
– Mimetiche, Oedipus, Salerno-Milano 2013.
Ha pubblicato il romanzo Quel dì finiva in due, Manni, Lecce 2000.
Suoi testi sono presenti in libri collettivi e antologie:
– Poeti degli anno ’80, a cura di Renzo Chiapperini, Levante, Bari 1993;
– Poesia in Campania, a cura di Ciro Vitiello, in Novilunio, anno 3°-4°, Zurigo 1993-1994;
– Attraversamenti, a cura e con fotografie di Donatella Saccani, Di Salvo, Napoli 2002:
– Le strade della poesia, a cura di Ugo Piscopo, Guardia dei Lombardi, 2004; e poi a cura di Domenico Cipriano, edizioni delta3, Grottaminarda 2011, 2012 e 2013;
– Il racconto napoletano, a cura di Ciro Vitiello, Oèdipus, Salerno-Milano, 2005;
– Portfolio Lo stormo bianco, a cura di Nietta Caridei, Giancarlo Alfano, Gabriele Frasca, d’if, Napoli 2005;
– Una piazza per la poesia, Il portico, Napoli 2008;
– Mundus, a cura di Ariele D’Ambrosio e Mimmo Grasso, Valtrend, Napoli 2008;
– Registro di poesia n°2, a cura di Gabriele Frasca, d’if, Napoli, 2009;
– A ritmo di jazz, a cura di Fabio G. Manganaro, edizioni blu, Torino 2009;
– Accenti, a cura di Enrico Fagnano, edizioni del comitato Dante Alighieri, Napoli 2010;
– Frammenti imprevisti, a cura di Antonio Spagnuolo, Kairos edizioni, Napoli 2011;
– ALTEREGO poeti al MANN, a cura di Marco De Gemmis e Ferdinando Tricarico, Arte’m, Napoli 2012;
– L’evoluzione delle forme poetiche, a cura di N. Di Stefano Busà e di A. Spagnuolo, Kairos, Napoli 2013;
– In forma di scritture, a cura di Carlo Bugli, Pasquale Della Ragione, Giorgio Moio, Riccardi, Quarto, 2013;
– Una piuma per Alda, Il laboratorio di Nola, Nola 2013;
– Virtual Mercury House, di Caterina Davinio, Polimata, Roma 2013;
– La memoria, primo quaderno del Premio Alessandro Tassoni, a cura di Nadia Cavalera, e-book Calameo, Modena 2013.
Giorgio Linguaglossa
31 luglio 2018 alle 12:35
Ricevo da Gino Rago questa 16ma lettera a Ewa Lipska
Sedicesima Lettera a Ewa Lipska
[la vita nelle torte]
Cara M.me Hanska,
i poeti hanno dato scacco matto al tedio di Dio,
uno di loro ha scritto in un suo verso:
«Qui ci sono gli uomini che hanno venduto la propria ombra…»
Al Quirinale, l’orologio ad acqua,
sul Tevere la voce dei cesari.
Non dia retta a chi ha scritto:
«chi penetra il mistero della lingua trova la sua patria»,
a Cracovia i poeti non sono barometri.
[…]
Due donne. Rossetto e trucco. Aspettano l’alba
nello specchietto retrovisore.
Caffè di Graz, fette di Wiener apfelstrudel.
La megera vive accanto al Blumenstrasse,
in un appartamento al secondo piano.
Dice di essere Madame Hanska, quella de Il tedio di Dio.
Sono vittime del blues:«Lasceremo Vienna,
andremo a Linz, o forse a Salisburgo».
Dallo specchio, una voce: «Mangerete
una Linzetorte o una Mozartkugel?».
«Tutte e due, lo sa, il segreto della vita
è nelle torte».
Alfonso Cataldi 31 luglio 2018 alle 13:40
“Abitare è un migrare che richiama lo scorrere di un fiume. Acqua e non terra. Non però la vasta distesa oceanica; piuttosto la corrente che s’incanala in un alveo, che lo scava, lo plasma, e tuttavia lo segue, mentre disegna tracciati, apre vie, dischiude luoghi da cui prende luce lo spazio aperto, sfoltisce le boscaglie, lasciando sorgere radure nella selva, se non addirittura contrade. Corrente vuol dire che l’abitare non può essere concepito come un essere-qui, ma va invece inteso come un essere lì e oltre, dove si dirige il fiume. L’abitare e-statico trova il suo habitat nel fluire, dove paradossalmente essere presso di sé è già sempre essere fuori di sé, secondo la dinamica eccentrica dell’esistenza.”
da Stranieri Residenti di Donatella Di Cesare
Lucio Mayoor Tosi 31 luglio 2018 alle 15:29
All’andamento che sento devozionale, nelle poesie di Vincenzo Mascolo, preferisco il religioso Lucrezi; un confronto fuori dalla ragione, s’intende, solo per averli letti ora, di seguito, su questa pagina – Del resto, se Giorgio li ha accomunati sulla stessa pagina, una ragione ci dovrà pure essere…
E’ chiaro che l’esercizio di stile richiede di essere applicato, altrimenti può bastare Queneau. Già, ma per dire cosa? Lucrezi sembra dargli risposta.
Una riflessione sulle interessanti argomentazioni di Adorno nel merito del pensiero:
Il pensiero che pensa se stesso è come il gatto che insegue la propria coda. Non è così per un poeta, quando rivede il proprio componimento; perché facendolo ha modo di osservare e pensare il proprio pensiero. In altre pratiche filosofiche, colui che osserva il proprio pensiero viene detto “testimone”. Ma in queste pratiche colui che pensa, in ogni momento può fermarsi e osservare il proprio pensare. Può essere che questo, Lucrezi non lo sappia, e forse nemmeno gli interessa; perché si capisce che è concentrato sul flusso delle parole, o almeno questa è la resa che ne dà.
Nella poesia NOE, l’interruzione del flusso è interruzione dell’azione pensiero; nel mentre può anche non esserci nulla. Anzi, proprio quel nulla viene assunto come elemento costruttivo della versificazione. Nulla che poi si estende vanificando, quindi non sommando, il pensiero stesso; il quale pensiero, finisce così col perdere la sua proverbiale centralità. Ma se ne esalta l’azione, il pensare in sé, che è costante “atto” di fiducia.
Invio senza rileggere.
Lucio Mayoor Tosi 31 luglio 2018 alle 15:35
A conferma di quanto ho appena sostenuto, ammesso che abbia un senso, basta leggere “Sedicesima Lettera a Ewa Lipska”, poesia composta in distici, uno più avventuroso dell’altro.
Gino Rago 31 luglio 2018 alle 19:33
Grazie Lucio, osservazioni acute le tue e interpretazione dei versi miei recentissimi, (recati alla loro resa estetica più elevata da 2 interventi miracolosi del nostro Giorgio Linguaglossa che qui cito solo al fine di ringraziarlo pubblicamente), i quali vanno in una direzione di sfacelo..
L’atmosfera di fine Impero, di fine di un mondo di certezze, in distici respira forse in ogni verso. L’unico legame mai rotto nei frammenti dell’Impero in dissoluzione è quello con la pasticceria austroungarica, il mistero della vita smarrita, frantumata, è nelle torte…
Le due donne che sconfitte lasceranno Vienna desiderano ‘trovarsi’ nelle fette di due torte; non compare mai, ma sullo sfondo c’è l’uomo senza qualità. E tutto è riconducibile ai personaggi di Joseph Roth, alla Cripta dei Cappuccini, a Roth che lascia il suo mondo e corre verso Parigi per uccidersi lentamente nella scrittura e nell’alcool, con i Von Trotta della Marcia di Radetzky e della Cripta… a inseguirlo, prima dell’ultimo abbraccio del Santo bevitore trasformato per incanto in Leggenda…
Lucio, si colgono queste atmosfere, queste dissoluzioni, queste sconfitte definitive…?
Joseph Roth devo evitarlo, mi scuote, a ogni lettura…
Lucio Mayoor Tosi 1 agosto 2018 alle 7:53
Caro Gino,
quella di rifugiarsi nel piacere, ultima consolazione – le due torte – mi sembra tipica dei periodi di decadenza. Nel film “Salò”, Pasolini ne dà significativo esempio,e gli storici conoscono bene quella dell’antica Roma (a me è bastato andarci la prima volta).
Ho apprezzato questa poesia in quanto conosco la tua poetica degli scarti; perciò, quanti più se ne trovano tanto meglio dovrebbe essere per il lettore che ti segue. Ma dovrebbe conoscere la poesia di Ewa Lipska (Hanska), oltre che naturalmente avere letto qualcosa di Joseph Roth – entrambi pubblicisti che si sono dati all’arte.
Tutto questo si coglie nell’atmosfera rarefatta e resa impressionistica dal frammento. Poi si trovano scarti anche di Linguaglossa, e in parallelo si avverte una certa vicinanza con la poesia di Mario M. Gabriele.
Ma a te interessa sapere se tutto questo “arriva”, se hai reso con efficacia. Personalmente, mi sento estraneo a queste tue scelte; il periodo storico, la fine dell’Impero asburgico, le decadenza e la fuga, non riesco pienamente a intenderle come metafora della contemporaneità. Mentre invece riesco a cogliere la modernità della tua scrittura. Io suggerirei di approfondire nella direzione di versi come questo:
«Due donne. Rossetto e trucco. Aspettano l’alba/ nello specchietto retrovisore.»
Versi che nulla hanno a che vedere con quanto ci stiamo dicendo. E che per me rappresentano una piacevole fuga da te stesso: negli scarti, inserti nuovi. Per altro comprensibili a tutti, per i quali non serve di avere letto, né Lipska né Roth. La tua capacità di rendere visive le immagini è indiscutibile, ma per mio gusto trovo nella tua frammentazione una certa rigidità. La stessa che a volte avverto quando leggo poesie di Giorgio Linguaglossa. Inserire, o il dare più spazio a versi come quello che ho segnalato,potrebbe essere la soluzione.
Giorgio Linguaglossa 1 agosto 2018 alle 7:28
Pensare l’impensato nella nuova forma-poesia
caro Lucio,
hai ragione, in un certo senso Eugenio Lucrezi risponde a Vincenzo Mascolo, ma la sua risposta tende a spostare l’ago della bilancia dalla parte della phoné, della fonologia. La fonologia (l’onda sonora) diventa la madre di tutte le battaglie, addebitando alla fonologia la primazia ne consegue che accreditiamo all’onda sonora dell’endecasillabo la priorità e la primogenitura nella questione metrica e versale. E di lì non se ne esce, la prigione dorata dell’elegia ne è il risultato. Che lo si voglia o no, che ne si abbia consapevolezza o no.
La nuova ontologia estetica che noi stiamo perseguendo invece si basa non sulla priorità della fonologia e dell’onda sonora ma sulla primogenitura della tessera iconica. Se la fonologia è parente stretta della analogia, cioè vanno a braccetto in quanto dipendenti dal fenomeno acustico, l’icona (l’immagine) si libera da questa dipendenza in quanto ne è svincolata: una immagine, in un testo, dipende dalla immagine che la segue o che la precede. Il divorzio dalla fonologia è proprio della nuova ontologia estetica. Ecco perché tra l’onda sonora e ritmica della poesia tradizionale novecentesca ed epigonica e la poesia della nuova ontologia estetica c’è un salto e un abisso.
Molto opportunamente tu parli di «vuoto» che si apre tra le parole della nuova ontologia estetica. Ed il perché è chiaro: perché il vuoto abita stabilmente tra i sintagmi che adesso appaiono nudi in quanto non più vestiti e travisati dall’onda sonora, dal «flusso» sonoro delle parole. Il «vuoto» che si apre tra le parole e le immagini è vistosamente visibile nelle tue poesie o in quelle di Gino Rago o in quelle di Mario Gabriele; è il «vuoto» che convoca una immagine dopo l’altra saltando la sintassi e la grammatica e disponendo liberamente delle immagini. Se leggiamo la 16ma lettera a Ewa Lipska di Gino Rago osserviamo quanti «rivolgimenti», quante «peritropè» vi siano da un rigo all’altro… ciò che accomuna e «tiene insieme» le singole immagini è il «vuoto» che si apre tra una immagine e l’altra.
Vedo che anche Alfonso Cataldi e Mauro Pierno sono già abbastanza avanti in questa ricerca, ciascuno con la propria particolarissima sensibilità culturale e linguistica. È una procedura difficilissima e innovativa perché l’autore non ha corrimano, non ha appigli, non ha sostegni nella sua avanzata verso il «vuoto», deve appoggiarsi ad una immagine dopo l’altra, non ha più gli alibi che gli consentivano l’antica e nobile onda sonora e l’analogia: il «come». Nella poesia della nuova ontologia estetica il «come» viene bandito e basta, le immagini scorrono nude e crude.
Il filosofo Enrico Castelli Gattinara ha pubblicato un libro di 350 pagine il cui titolo è significativo: Pensare l’impensato, edito da Mimesis, 2018. Consiglio a tutti di leggerlo. Ecco, credo anch’io che occorra «pensare l’impensato» anche in poesia. Bisogna spezzare il proprio pensiero, non osservarlo dal di fuori, ma restare dentro il pensiero pensato per spezzarlo, frantumarlo, dissolverlo per andare su un nuovo pensiero. Soltanto pensando l’impensato è possibile uscire fuori dal circolo vizioso del circolo analogico ed ermeneutico. L’atto di «pensare l’impensato» spezza l’analogia e l’onda sonora e ci introduce in un’altra dimensione del pensiero poetico.
L’esercizio dello stile, come tu dici, alla lunga diventa stilematica, ozioso passatempo con l’ausilio della phoné. Spezzare, frantumare lo stile è una ginnastica necessaria e salutare. Chi non lo capisce continuerà a fare poesia analogica quando ormai siamo passati al digitale. La «nuova ontologia estetica» ci spinge a pensare la forma-poesia in modo rivoluzionario. Ma per fare la rivoluzione delle forme occorre un atto di grande coraggio intellettuale.
Lucio Mayoor Tosi 1 agosto 2018 alle 8:13
Mi trovi perfettamente d’accordo sul discorso che riguarda la fonologia. Andava detto. Ma non è questo l’aspetto che mi ha fatto preferire Lucrezi a Mascolo. La ragione è più semplice: ci ho trovato più poesia. Quanto al resto si ha distanza.
Lucio Mayoor Tosi 31 luglio 2018 alle 15:49
Siccome ormai siamo in agosto – non significa nulla – invio un secondo estratto da “L’intervista”. Non tutto si capirà perché l’estratto va di seguito a un altro componimento, ma ora non penso abbia grande importanza.
Alloro al vincitore!
«Potresti essere tu, in uno dei tuoi travestimenti».
Dalla parte degli aguzzini per diritto di nascita. O per prostituzione.
La schiena di una vecchia seduta a bordo letto. Si sta cospargendo
di crema le spalle. L’Imperatore osserva le sue rovine.
Poi torna al romanzo. Se fare una telefonata. E’ ancora presto.
– Non un albergo in città. Ma come fanno a vivere?
Sarà lui, l’Imperatore, ad alzarsi per primo dal letto. Lei, tu,
ti volterai guardando di sfuggita. La testa del maiale ancora lì.
Prima di colazione. Il film.
«Brava. Permettimi di darti la mano». Il merito è tuo.
«Ho fatto come ho potuto».
Ora aiutami a scavare una buca. Voglio riprovare. Quando manca l’aria.
Poi su Venezia, Roma, Berlino… Non si avrebbe da dire.
Sospiro, palla, battesimo. I convenuti morti prendano posto!
«Nessuna paura, la casa è in affitto».
Mauro Pierno
1 agosto 2018 alle 7:56
Eppure usa una parola: Queneau.
Sopporta ancora l’onta della celebrazione, è vero non più condivisa, personale, ma ripropone una parola, scuola. Impartisce una lezione di stile.
La conferma di una mancanza di metafisica delle parole. Come volevasi dimostrare.
Oh, com’è comune questo dolore.
Che sofferenza, che strazio.
Un verso da cui ripartire, Q. e l’allodola.
Questa sonora corrispondenza
avvia nei margini una piccola sutura
Avessi visto amore mio come è strano
distruggersi a Milano.
È l’aria a fette una lubrificazione eterna.
Nel senso una fetta di grasso
ed una fetta di cielo
Una di salame e l’altra di Greco.
Mario M. Gabriele
1 agosto 2018 alle 9:51
cari Giorgio e Lucio,
fa piacere leggere il vostro pensiero sulla decostruzione della forma poetica che racchiude in sé il sotto vestito del linguaggio per meglio comprendere l’annullamento del ritmo narrativo, sostituito dal trauma del vuoto, tra un verso e l’altro. Chiamiamola pure disarmonia linguistica, tic della spazialità organica.
La struttura del Novecento poetico è definitivamente finita. I propositori di questa nuova rivoluzione strofica, mini-invasiva, asimmetrica e più sclerotizzata di così, tra distici, monoverso, e la scomparsa dell’IO e dell’autocompiacimento, fanno sì che il passaggio verbale e figurativo, scandito da un nuovo segno estetico,diventi occasione di un pluridiscorso dalle diverse scansioni oggettive e psicoestetiche. Il vero antinovecentismo lo si scorge con questi esiti di svuotamento narrativo, sostituito da più mini narrazioni dove la traccia della discontinuità si sbriciola e si ricompone ad ogni verso.
C’è una ibridazione di registri linguistici in continua espansione e surrogazione, che può sembrare uno stile scriteriato, offensivo da parte di chi ha una sensibilità estetica diversa dalla nostra, ma non per questo motivo, si può dedurre che il nostro fare è utopico, irrealistico, trasgressivo e irriverente.
Al fine di esplicare il senso di questo nuovo percorso, riporto due esempi di introduzione al nuovo soggetto poetico, riportando due citazioni tratte dal pensiero di Giorgio Linguaglossa nel post precedente:
(1) «Spezzare, frantumare lo stile è una ginnastica necessaria e salutare.»
(2) «Ciò che accomuna e tiene insieme le singole immagini è il vuoto che si apre tra una immagine e l’altra.»
Qui non si tratta di schizofrenia linguistica ma di un modello non visionario e ipnotico di una forma estetica che vuole essere di spazio poetico microcellulare e cosmico. Dico queste cose non per convincere qualcuno, ma per irrorare passaggi estetici giustificandoli nella loro esposizione.
Si tratta, in sintesi, dell’espressione del linguaggio del nostro tempo che urta la modalità lirica del Novecento sostituita da tecniche di sintesi e di rallentamento letterario, ma che in effetti diventano una vera fenomenologia tecnico-materica della scrittura in versi.
Lucio Mayoor Tosi
1 agosto 2018 alle 10:29
Agosto è il mese migliore per parlare liberamente, senza doversi tanto preoccupare di apparire presuntuosi – e per parte mia ve ne sarebbe motivo – quindi ne approfitto. E torno al fatidico verso di Tomas Tranströmer:
“Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero”
per dire che avrebbe anche potuto scrivere ” a destra, su una lapide nera le scritte d’argento”. E, a seguire, l’elenco delle immagini che volentieri accorrerebbero per subito partecipare al convegno. Ma sarebbe per l’appunto un elenco. Ecco, è più o meno questo che intendo dire quando parlo di rigidità.
Come evitare la scarna elencazione, per quanto composta di elementi bizzarri e sorprendenti… Qui sta l’abilità del poeta, a mio avviso, il problema nuovo che si presenta. Ed è straordinario osservare come ciascuno, qui, abbia saputo darsi una propria soluzione stilistica.
Giorgio Linguaglossa
1 agosto 2018 alle 12:13
Io un tempo lontano scrivevo poesie che avessero un «senso». Davvero, adesso un po’ me ne vergogno. Cercavo di dare un «senso forte» alle poesie che scrivevo. Ma sbagliavo. Un giorno incontro questa frase di Adorno tratta da Dialettica negativa, 1966 (ed.Einaudi 1970 p. 340):
«Una vita che avesse senso non si porrebbe il problema del senso: esso sfugge alla questione».
Fu allora che abbandonai l’abitudine di scrivere poesie con un «senso», perché mi resi semplicemente conto che «esso sfugge alla questione».
Detto questo per dire che allontanandomi sempre più velocemente dalla poesia con posizione e proposizione suasoria, assertoria, unidirezionale, unitemporale, innocentemente non dubitatoria, sono approdato, insieme ad altri compagni di viaggio, alla «nuova ontologia estetica» (che è una posizione davvero instabile!)… ma non per invaghimento del dubbio e della scepsi, posta così la questione sarebbe da superficiali, ma, per amore della verità, posto anche qui per scontato il concetto di «verità», cosa che affatto non è. In seguito, incontrai un altro frammento di Adorno che diceva:
«la coscienza non potrebbe affatto avere dei dubbi sul grigio, se non coltivasse il concetto di un colore diverso, di cui non manca una traccia isolata nel tutto negativo». (op. cit. p. 341)
Fu allora che mi resi conto che la poesia che si scriveva in Italia da alcuni decenni era una poesia ingenuamente assertoria, anti sceptica, semplificatoria… mi resi conto che le cose non stavano affatto così…
Ecco l’occhio indiscreto
che coglie il fallo, l’ascesso furibondo
l’oriundo cigolio dell’ ombra.
Ecco accingersi tra le sinapsi del vento
quella soave intermittenza delle idee.
Quello che dolore onora
e fa da stimolo agli inventari della memoria.
La seconda martellata fu letale.
Grazie OMBRA.
Scrive Vattimo:
«L’ontologia non è null’altro che interpretazione della nostra condizione o situazione, giacché l’essere non è nulla al di fuori del suo “evento”, che accade nel suo e nostro storicizzarsi».
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/08/02/eugenio-lucrezi-tre-poesie-da-bamboo-blues-nottetempo-milano-2018-pp-92-e-10-con-poesie-di-gino-rago-lucio-mayoor-tosi-mauro-pierno-dialoghi-e-commenti-degli-interlocutori-mario-m-gabriele-a/comment-page-1/#comment-36972
Ho citato apposta Vattimo per escludere una nostra definizione di ciò che possiamo intendere con il termine «ontologia». Ma parlare di «nuova ontologia estetica» implica e significa una accentuazione del sostantivo, noi sostantivizziamo il sostantivo e, parlando di ontologia estetica mettiamo in discussione tutte le categorie della antica e nobile ontologia estetica del novecento. Rimetterle in discussione non si esaurisce in una semplice «ri-appropriazione» di ciò che un tempo ci è appartenuto e che più ci piace, questo sarebbe un atteggiamento diminutivo del nostro argomentare e del nostro essere, rimettere in discussione le categorie su cui si regge la ontologia novecentesca implica la costruzione di altre e diverse categorie retoriche.
In un mondo in cui «il progresso diventa routine» e la stessa categoria del «nuovo» è utilizzata in toto dalla tecnica, appare chiaro che la strada da seguire sarà quella non della «appropriazione» del «nuovo» o della «riappropriazione» del mondo un tempo antico e bello, quanto la dis-propriazione di quel mondo e la presa d’atto che si è definitivamente chiusa l’epoca del «pathos dell’autenticità». La poesia che tentiamo di fare si è liberata del «pathos dell’autenticità» e della allegria di naufragi, ovvero, l’allegria dell’inautenticità.
Se raffrontiamo la poesia di Gino Rago: 16ma lettera a Ewa Lipska con le tre poesie di Eugenio Lucrezi, ci avvediamo subito che nella poesia di Rago non si rinviene alcun «pathos dell’autenticità», presente invece in larga misura nella poesia di Lucrezi. Il che non significa che la prima sia più bella della seconda, significa semplicemente che lì valgono altre categorie ermeneutiche e valoriali.
1] Gianni Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, 1985, p. 11
E’ detto anche chiaramente: Lucrezi, in Angelo del Pontormo pratica una sorta di ascensionismo barocco che, a detta di alcuni, sarebbe tipica di molta arte italiana, fino al secolo scorso. Ma lo fa in purezza, mi sembra, in modo diverso rispetto ai temi del post moderno, dove si guardava al periodo classico. Sbaglio? Comunque sì, il raffronto con la poesia di Gino Rago mette in chiaro nuove modalità, che appartengono a “l’angelo zoppo”; il quale, non potendo volare, o senza doverlo fare, riesce ad essere ovunque; forse perché dismettendo l’io si perde anche fisicità; che significa perdere senso tradizionale della prospettiva, alto e basso, ecc.
Avevo definito queste di Lucrezi, poesie religiose, non perché ‘della religione’ ma per quell’essere partecipato che, come dici tu, riguarda ancora l’autenticità.
Grazie a Giorgio e ai dialoganti tutti per il serrato confronto in versi e in prosa. Grazie per l’estratto e-statico della prof. Di Cesare che ho avuto il piacere di contribuire a includere, quale componente della giuria tecnica del Premio Napoli, nella terna della saggistica.
Come poeta mi sento un prosatore, come narratore un poeta, e ben lo ricorda -sono sicuro- Mario M. Gabriele, che una ventina d’anni fa recensì magnificamente un mio romanzo. La contrapposizione figura-ritmo mi pare non consideri la natura e l’intenzione figurale della scrittura musicale, e neppure le ricorrenze metriche della pittura. L’armonia è un accidente del disarmonico, il suono un’eccezione del rumore: un’emergenza tutte le volte imprevista, e in generale imprevedibile in fase di composizione. Ebbi a scrivere una volta nell’editoriale di un vecchio numero della rivista Levania che l’attività poetica consiste nell’afferrare in forma di figura pensieri nascenti. Forse meglio si spiega un testo anch’esso presente in Bamboo Blues, che s’intitola:
La pace
Vado per campi senza seminare,
aspettando, volendo che germogli
ciascun inizio che non tiene il passo,
sto in attendenza che nell’erba perde
le gioie della schiusa, e avviene a caso
l’indiscusso miracolo del bene,
non tutti i fili d’erba, non ciascuna
vita si attende pollini, ci sono
vite che a gambo, dritte, non trionfano,
che soltanto nell’esile tenersi,
nello sforzo sbiancato di radici,
attendono il capestro in forma chiusa,
di sandalo, che so, di mocassino,
sicure in quanto eretti fili d’erba,
solo perché riuniscono, intuiscono
la turba sconfinata, cosa vuoi
che sia la falce a filo, tra molteplici
compagni di sventura soleggiata,
nell’oceano proteso, dissennato,
dei verdi abitatori, inconsapevole
dell’estensione curva del pianeta,
di pareti e crepacci, di colline,
di catene montuose tra fratelli.
La pace è innumere e non fa di conto.
Se non conti gli spiccioli, ogni seme
vive ma non promette, e non mantiene.
caro Eugenio Lucrezi,
hai postato una tua poesia che tu evidentemente ritieni molto valida e che invece, a mio avviso, è la più lontana dalla sensibilità estetica che anima la rivista. Le tre poesie che avevo selezionato dal tuo libro sono quelle nelle quali mi sembrava che tu avessi fatto qualche passo in avanti nella costruzione di una poesia non dico «nuova» ma «diversa», ma forse è soltanto un mio abbaglio. E ti pongo le seguenti domande:
1) Che rapporto ha la tua poesia con la tradizione del Novecento?
2) All’interno del Novecento (italiano ed europeo) quale linea intendi rintracciare e tracciare per il presente e l’avvenire?
Colgo l’occasione per ripostare un articolo di Alfonso Berardinelli pubblicato nel 2014 che fa il punto della questione novecento.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/08/02/eugenio-lucrezi-tre-poesie-da-bamboo-blues-nottetempo-milano-2018-pp-92-e-10-con-poesie-di-gino-rago-lucio-mayoor-tosi-mauro-pierno-dialoghi-e-commenti-degli-interlocutori-mario-m-gabriele-a/comment-page-1/#comment-36977
Il ’900 che si allontana:
anche le Lettere sono finite? di Alfonso Berardinelli (2014)
Con l’inizio degli anni Novanta si parlò di “fine della storia”.
Tra società dello spettacolo, declino della politica e avvento dell’informatica, è mutata la figura dello scrittore: hanno vinto consumo e mercato. E ora siamo nell’epoca in cui tutti scrivono.
Nessuno può dubitare che il Novecento sia finito. Ma quando e come è finito? Da quali segni e fenomeni si evince che la continuità è interrotta? L’edizione aumentata e aggiornata dell’ultimo volume della Storia della letteratura italiana di Giulio Ferroni è uscita già da un anno, ma continuo
a sfogliarla e rileggerla cercando di capire che cosa contiene, che cosa rivela o nasconde quel nuovo sottotitolo:
«Il Novecento e il nuovo millennio». A che cosa sostanzialmente fa
pensare una tale formula, che sembrerebbe soltanto informativa? È
certo che gli anni passano, che qualcosa di nuovo si aggiunge al passa-
to. Qualcosa cambia, qualcosa si perde e si dimentica. Soprattutto se
si tratta di un’intera letteratura, i cambiamenti sono molti e possono
confondere le idee. Oggi c’è un clima generale diverso. Ma d’altra
parte si ha o si vuole avere l’impressione che “tutto sommato” si vada
avanti più o meno come prima. Gli autori hanno altri nomi, ma non
cambia il nome di quello che fanno: si scrivono romanzi e poesie, si
fanno recensioni, escono libri di saggistica e di critica. Ci sono, come
prima, il premio Strega e il premio Campiello, che ogni giovane vuole.
A Torino c’è la Fiera o Salone del libro. Poi c’è la Milanesiana, c’è
Massenzio, e poi “Libri come” e “Più libri, più liberi”…
Ma se devo interpretare il punto di vista di uno storico della lettera-
tura, in questo caso Ferroni, mi sembra che sia lui per primo ad avver-
tire la fine di un’epoca letteraria che aveva mantenuto per cinquanta o
cento anni caratteristiche relativamente costanti, anche nel passaggio
da modernità a postmodernità. Pubblicando nel 2012 un saggio su
Giudici e Zanzotto, non sarà un caso se Ferroni lo ha intitolato Gli
ultimi poeti, cosa che ad alcuni, specie ai più giovani, non è affatto pia-
ciuta. Ultimi? Ma come? E noi chi siamo? La poesia continua a vivere.
Il presente esiste, ha preso il posto del passato e guarda al futuro.
La parola “ultimi” non credo però vada presa troppo alla lettera e
in assoluto. Si dovrebbe intendere come: “gli ultimi poeti di un’epoca
in cui i poeti avevano certe caratteristiche oggi più difficili da trova-
re, perché loro appartenevano a pieno titolo al Novecento, un secolo
finito”.
Dunque: quando è finito il Novecento? La sua fine non mi sembra
sia un fatto accaduto fra il 1999 e il 2000. Il Novecento ha cominciato
a finire prima, è finito più volte, potrei dire che è finito tre volte. Si è
trattato di un processo scandito in circa tre decenni, mentre per altri
versi qualcosa di quel secolo vive tuttora. In questo o quel punto del
sistema letterario la memoria della cultura novecentesca agisce ancora.
Due critici nati negli anni Cinquanta e dotati di un notevole senso
del passato e della storia (ma un critico smemorato non è un critico),
come Giorgio Ficara e Raffaele Manica, intitolarono alcuni anni fa le
loro raccolte di saggi rispettivamente Stile Novecento ed Exit Novecen-
to. Non può essere una banale coincidenza. Credo che ci siano state da
parte degli autori una precisa intenzione e una chiara intuizione di ciò
che è avvenuto. Almeno nella letteratura italiana, uno stile è finito, uno
stile che nonostante le sue varianti, ramificazioni e divaricazioni si spie-
gava e si generava a partire da presupposti che da un certo momento in
poi (nel corso degli anni Novanta, mi pare) sono venuti meno.
Secondo alcuni pessimisti non si è perso “uno” stile, si è perso o è
sempre più raro “lo stile”: almeno se si pensa che lo stile sia un valore
e non un fatto che in arte si dà comunque, buono o cattivo che sia. Mi
sembra che stia aumentando il numero di coloro secondo i quali tutto
“a suo modo” è cultura ed è a suo modo arte anche l’intenzionale o
inconsapevole negazione dell’arte intesa come lavoro sulla forma, ec-
cellenza tecnica, abilità e originalità artigianale.
Per chi crede che lo stile sia un valore, la critica non ha senso se
non valuta e giudica. Per chi crede invece che lo stile sia un fatto, la
critica è registrazione di eventi che esistono come puri eventi, tutti di
pari dignità, per i quali viene rivendicato il diritto di ricevere atten-
zione. Piacciano o non piacciano e quanto valgano, è allora del tutto
secondario: ogni prodotto è artistico se si presenta come artistico e va
quindi accuratamente descritto e interpretato.
Le avanguardie novecentesche fondavano su questo principio la
loro strategica e tattica forza d’urto. Non importa che molta lettera-
tura futurista e surrealista risulti illeggibile: è indubbiamente un fatto
e quindi anche un valore letterario. Non importa che molta pittura e
scultura moderna (ammesso che la distinzione sussista) siano a mala-
pena guardabili dopo un primo sguardo: sono prodotti esposti e con-
servati nei musei e nelle gallerie d’arte, critici autorevoli si sono appli-
cati a darne sofisticate o sofistiche interpretazioni e dunque guai a chi
osa dire, ad esempio, che da un certo punto in poi Picasso ha prodotto
solo merci artistiche facilmente realizzabili da vendere a caro prezzo,
che Duchamp è stato solo un brillante provocatore e Andy Warhol un
astutissimo mercante.
Nelle arti visive il Novecento non è ancora finito, le repliche con-
tinuano. In letteratura molta della qualità novecentesca si è perduta.
Già con la seconda metà del secolo il romanzo, la poesia e la critica
non hanno dato più niente di paragonabile alle opere di Proust, Joyce,
Svevo, Mann, Kafka, Musil, Yeats, Apollinaire, Blok, Machado, Eliot,
Lorca, Benn, Lukács, Spitzer, Šklovskij, Benjamin… La postmoder-
nità ha prodotto Borges, Auden, Camus, Beckett, Nabokov, Gros-
sman, Morante, Yourcenar, Celan, Calvino, Enzensberger, Barthes,
Steiner… È con questi autori che il Novecento si conclude. Ognuno
di loro è stato consapevole del suo venire dopo, del suo essere “post”
rispetto ai classici di primo Novecento. Anche questa coscienza era un
tipo di continuità.
Con l’inizio degli anni Novanta si parlò di “fine della storia”. Tra
società dello spettacolo, declino della politica e avvento dell’informa-
tica non cambiò solo la società letteraria, cambiò l’idea di letteratura,
la figura dello scrittore e il modo di produrre, consumare, interpreta-
re la letteratura. Generi lungamente e anche proficuamente messi in
discussione, come il romanzo e la poesia, riacquistarono una forma
convenzionale, quella che permette oggi al romanzo di “fare mercato”
(a dominare è il modello del best seller narrativo, reale o potenziale)
e che permette alla poesia di entrare in una circolazione fluida, fra
letture pubbliche e presenza in rete, una circolazione che quasi non
prevede più una vera e propria lettura, il che mina la stabilità formale
dei testi, dati per poetici perché si presentano come poetici.
Una simile situazione non è più neppure postmoderna, non pre-
suppone la modernità, la ignora e quindi non può che mettere in diffi-
coltà il lavoro e il ruolo della critica. Anche uno storico e critico molto
informato e militante come Ferroni da anni parla ripetutamente di
“angoscia della quantità”. Il post-Novecento è dunque, come disse
Cesare Garboli, l’epoca in cui “tutti scrivono” rivendicandone anzi-
tutto il diritto. La scena letteraria è affollata di decine e centinaia di
nuovi autori in cerca di “visibilità”, mentre la qualità dell’atto di leg-
gere tende gradualmente a scadere in “lettura distratta”. Dilatandosi
enormemente, la nozione di letteratura perde la fisionomia che aveva
conservato ai più alti livelli nel corso del Novecento, quando l’idea
di testo letterario e della sua priorità, le tecniche di analisi formale
e linguistica, l’enfasi sull’importanza della lettura avevano provocato
riflessioni e discussioni ininterrotte e appassionate.
Dagli anni Novanta e con l’inizio del nuovo millennio è cresciuta
piuttosto l’importanza del mercato, del consumo librario come che
sia, della presenza del personaggio-autore nei festival e nei media di
massa vecchi e nuovi. Per tutto il Novecento, anche nelle sue ribellio-
ni e turbolenze, la letteratura viveva tenendo presente la storia della
letteratura. Oggi si va verso una letteratura o postletteratura che vive
in uno spazio non più storico e che sembra “non fare storia”. Per que-
sto, sebbene priva dell’autorità che ha avuto in passato, la critica sta
diventando il solo luogo in cui la letteratura continua almeno in parte
a prendere coscienza di se stessa, dei propri precedenti e del proprio
passato.
Se mi si chiedesse quali sono stati gli ultimi scrittori italiani anco-
ra pienamente, esemplarmente novecenteschi e con i quali il secolo
scorso si è chiuso, credo che farei i nomi di Raffaele La Capria, Cesare
Garboli, Piergiorgio Bellocchio. Scrittori al di là dei generi letterari,
che hanno praticato tuttavia in prevalenza il genere saggistico. Eppu-
re in tutti loro agisce sotto la superficie una vocazione e attitudine di
narratori superiore, mi sembra, a quella che si trova in molti autori
di romanzi. È la narrazione autobiografica, è la critica in senso lato
culturale (“critica della vita”, direbbe Massimo Onofri) che fanno la
sostanza e l’energia della loro scrittura.
La Capria ha scritto romanzi, il più famoso e apprezzato dei quali,
Ferito a morte (1961), è però già un romanzo più autoriflesso e poetico
che propriamente narrativo. In quel libro La Capria sembra influenza-
to dalla tessitura musicale e saggistica dei Quartetti di Eliot più che da
altri romanzieri. Tutta la seconda metà della sua opera, da L’Armonia
perduta (1986) in avanti, è saggistica autobiografica per episodi ed em-
blemi (Guappo e altri animali), autobiografia di un lettore (Letteratura
e salti mortali) e critica sociale.
Cesare Garboli ha sempre negato di essere un critico letterario, pur
essendo stato colui che ha più modificato lo stile della critica, i temi
della critica negli ultimi vent’anni del Novecento: accentuandone a
volte scandalosamente il carattere soggettivo. Come quella di Roberto
Longhi o di Giacomo Debenedetti, la sua prosa è una delle più com-
plesse, analitiche, perfettamente scandite e visionarie della nostra tra-
dizione novecentesca. Scritti servili (poi Storie di seduzione) e Falbalas
sono indagini sulla fisiologia dell’invenzione letteraria e diagnosi delle
patologie che legano ogni autore al suo habitat.
Piergiorgio Bellocchio è uno scrittore morale e satirico, viene da
una lunga tradizione che va da La Rochefoucauld a Flaubert, da
Kraus a Kubrick. I suoi libri sono fatti di aforismi, microracconti, re-
censioni e pirotecnici pezzi comici sull’inaridimento e le parodistiche
deformità della vita nella società contemporanea. Il modo borghese
di un tempo era certo affliggente e ipocrita, ma quello postborghese
è l’apoteosi della stupidità fatta metodo. È così, secondo Bellocchio,
che il Novecento è finito.
[Alfonso Berardinelli è uno dei critici più originali della cultura contemporanea, con una profonda esperienza della poesia e del romanzo. Collaboratore di diverse testate, tra le sue opere ricordiamo: La poesia verso la prosa (1994); Casi critici (2007); La forma del saggio (seconda ed. 2008); Poesia non poesia (2008); Non incoraggiate il romanzo (2011); Leggere è un rischio (2012).]
https://lombradelleparole.wordpress.com/…/…/comment-page-1/…
Scrive Lucio Mayoor Tosi:
«la Poesia ha cambiato casa, arredo, si è trovata una nuova sistemazione».
Scrive Gino Rago: «le valigie come una sorta di correlativi oggettivi di precarietà, di transitorietà, anche di insicurezza»; «Quindi, valigie, precarietà, disordine, insicurezza. Viceversa, armadio, stabilità, ordine, sicurezza»; «Le valigie dei protagonisti di Dismatria»
La conclusione che ne traggo è questa: che la nostra «valigia» è il metro a-metrico, la nostra «Dismatria» è la «dismetria». Siamo stati fatti sloggiare dalla «casa stilistica» della poesia narrativa del novecento e siamo stati costretti a peregrinare alla ricerca di una «nuova abitazione» dove ci si potesse sentire a proprio agio, più liberi, in familiarità con le cose e gli armadi pieni di cose in disuso. La «nuova ontologia estetica» è questo percorso: di riappropriazione di una nuova «casa linguistica e stilistica», perché siamo stati esiliati dalla nostra «casa».
Qualche giorno fa ho scritto questo messaggio ad un autore che mi aveva inviato delle poesie:
«caro [omissis]
per quanto tu sia bravo nella scrittura poetica, devo incoraggiarti in senso contrario: devi diventare meno bravo (lo so è un paradosso, ma non imitare, ti prego, i bravi poeti di scuola professorale che ci sono in giro!). devo dirti che la tua è un tipo di poesia che ne novecento è stata ampiamente percorsa, anche l’andamento strofico, così rispettoso della tradizione, mi appare, appunto, troppo rispettoso. Prova a mettere molti più punti e ad utilizzare il verso libero, con un inizio e una fine, rinuncia agli enjambement (salvo casi eccezionali) riduci i verbi all’essenziale e togli quasi tutti gli aggettivi (tanto sono quasi sempre inutili), tu sei bravo ma devi imparare a gettare la bravura dalla finestra! Soltanto rinunciando alla facile bravura si può tentare di scrivere qualcosa di essenziale. Ti mando il link del post di oggi che contiene una Lettera a un poeta e varie altre cose da cui potrai capire in che direzione ci muoviamo (la direzione di Tranströmer, Simic, Ewa Lipska). »
La conclusione è che soltanto gettando a mare tutto quello che abbiamo imparato del secondo novecento italiano, diciamo da Composita solvantur (1995) di Fortini ad oggi, soltanto alleggerendoci di tutta la zavorra potremo raggiungere la leggerezza per una nuova impresa, per una nuova traversata nel mare aperto…
= Citazione:
Non posso cambiare il fatto che i miei quadri non vendono. Ma verrà il giorno in cui la gente riconoscerà che valgono più del valore dei colori usati nel quadro.
Moriva oggi Vincent van Gogh
#29 luglio
Parafrasiamo:
Non posso cambiare le mie poesie perché le poesie non vendono. Ma verrà il giorno in cui la gente riconoscerà che valgono più del valore delle parole usate.
Non ricordavo la citazione di Vincent van Gogh. Dice tutto della sua “mira”. Grazie, me la ricorderò.
Quanto alle parole non so. Per il fatto che oggi ti vengono date gratis, sembra non abbiano alcun valore; però, scegliendo e accostando “scarti”, rifiuti, qualche rimanenza d’epoca, ecco, riprendono vita. Sembrano altre. Certo, si noteranno i rappezzi, i rammendi, le cuciture, ma forse un giorno non lontano proprio di quest’arte del riutilizzo – contraria agli sprechi e alla sovrabbondanza – si parlerà positivamente. Per quel che NON si ha da dire, queste componenti vanno benissimo.
Mi chiedo se anche la critica di Alfonso Berardinelli sia da considerare del novecento. Infatti non parla di Alda Merini, che secondo me ha sdoganato quel senso del “poetico” che oggi va tanto di moda tra il pubblico e gli scriventi dei social network. A questo pubblico credo importi poco se la poesia di Alda Merini possa essere derivata da una costola dell’ultimo Montale; anche se fosse, le va riconosciuto il fatto di avere ulteriormente semplificato il linguaggio poetico spingendolo con decisione nell’ambito della totale comprensibilità. Così è finito il novecento. Quasi non se ne potesse più…
Dice bene Giorgio Linguaglossa: “Siamo stati fatti sloggiare dalla «casa stilistica» della poesia narrativa del novecento e siamo stati costretti a peregrinare alla ricerca di una «nuova abitazione»
Torniamo per un momento ad un poeta «storico», cioè ancorato storicamente nel novecento: Franco Fortini. Lo stile di questa sezione, lo stile da canzonette, è riconoscibile, il metro è breve come si confà alle «canzonette», le rime, quando ci sono, sono riconoscibili, hanno la funzione di «ricordare» e di ricordarsi di ricordare, quindi le rime hanno una funzione non solo mnemonica o di mnemotecnica ma anche una funzione «storica» perché ci collegano ad una tradizione entro la quale soltanto quelle rime e quelle strofe acquistano un senso. La poesia di Franco Fortini ci vuole ricordare che la poesia la si deve leggere come un segmento di una tradizione; al di fuori della tradizione la poesia resta inerte e inerme, è una scrittura priva di senso, e anche di significato.
Il manierismo di queste canzonette è sia una strategia di difesa (come è già stato notato da un critico) che di offesa, rappresenta un monito e un richiamo, un ripiegamento a posizioni stilisticamente minori, più arretrate, per poter sferrare un nuovo attacco (stilistico) quando i tempi saranno migliori, magari all’improvviso e alle spalle del nemico di classe quando il capitale meno se l’aspetta. Il manierismo di Fortini è ben diverso e di statura infinitamente superiore al manierismo del minimalismo di queste ultime decadi il quale è privo di spessore storico, privo di collegamento con la tradizione e ammicca al mediatico, alla cronaca, ammicca a una immediata riconoscibilità ed è politicamente apologetico oltre che esteticamente di nullo valore.
La differenza tra una poesia della tradizione del novecento e quelle degli autori venuti dopo l’eclisse della tradizione novecentesca è che queste ultime non si inseriscono, non fanno parte integrante della tradizione del novecento, nel migliore dei casi sono «scritture private» indirizzate ad un uditorio o, nel migliore dei casi, al mercato. Ma è chiaro che in quest’ultimo caso stiamo parlando di manufatti dattilografati (si diceva una volta) che non hanno alcun significato «pubblico», perché sia chiaro una volta per tutte che la «poesia» è una scrittura pubblica diretta ad un pubblico, magari a venire, ma sempre un pubblico.
Fortini opera una lettura nostalgico-utopica della crisi del soggetto e della cultura umanistica, resta fedele ad un concetto riappropriativo della tradizione umanistica, considera ancora possibile, anzi, doveroso riproporre la centralità del soggetto quale ago della bilancia, periscopio critico della disgregazione della società capitalistica. Fortini è l’ultimo depositario di una concezione restaurativa e riappropriativa della tradizione umanistica, pensa ancora in termini di umanismo in una società completamente laicizzata e de-storicizzata, la sua lirica ultima resta nel segno e nel solco restaurativo-elegiaco e non può spingersi oltre queste colonne d’Ercole, non riesce a intravvedere uno spiraglio nella crisi dell’umanismo e della tradizione, pensa ancora in termini di sopravvivenza della progettualità di un soggetto critico nelle nuove condizioni di esistenza della società tardo capitalistica. Nei testi di Composita solvantur circola un’aria di elegiaco tramonto anche la dove il poeta esibisce un tono ironico e lirico, una cadenza da ballatetta. Ormai l’epoca della rivoluzione possibile è irrimediabilmente alle spalle, il futuro appare un dominio del capitalismo sviluppato, c’è solo una flebile speranza che ancora resiste, ma è una postazione difensiva, l’ultima postazione difensiva che resta al soggetto critico nell’ambito della società borghese dispiegata. Il manierismo fortiniano sarebbe un indebolimento del determinato che proviene dalla crisi del soggetto «forte» marxiano, della sua impossibilità di guidare il corso della storia; l’elemento ascetico marxiano viene ad essere promiscuato con l’elemento forte della insopprimibilità dei rapporti di produzione, il carattere repressivo di quest’ultima dà luogo alla forma indebolita del manierismo come fortino difensivo della antica forma del soggetto «forte». Il manierismo, in altre parole, è l’ultimo recinto stilistico nel quale si può ancora rinserrare l’autenticità (Eigentlichkeit) del soggetto marxiano «forte» in attesa di tempi più proficui. In altre parole, anche se in modo indiretto e diffratto, il declino del soggetto «forte» trascina con sé anche la possibilità eventuale che si possa ancora scrivere poesia sulla base di un soggetto «forte».
Adesso è chiaro, possiamo affermare che l’ultima opera poetica dell’umanesimo dell’età borghese, del novecento italiano, sia appunto Composita solvantur, che indica anche nel titolo inequivoco la dissoluzione dei composti un tempo «forti», in primo luogo della soggettività marxista rivoluzionaria.
Le nuove generazioni conosceranno ormai la «riappropriazione» di un soggetto indebolito: la riappropriazione del «corpo», del «quotidiano», del «privato» dello «psicologico», tutte sintomatologie psicologicamente compatibili con la proposizione di una soggettività indebolita e di una progettualità debole. Il soggetto storico un tempo protagonista della storia viene ad essere sostituito dal nuovo soggetto della storialità, dal soggetto visto dall’esterno di una storialità sempre più lontana ed evanescente. Dal punto di vista di un soggetto «forte» che si oppone ai rapporti di produzione della società capitalistica, la nuova società dell’organizzazione totale ed efficiente non può che apparire che come un inferno dell’esistenza umana. Con il che si spiega la ragione della fine della poesia elegiaca e riappropriativa (seppur corretta con inserti di prosasticismi) di un passato remoto che non potrà più tornare.
Con l’invasione di massa del minimalismo incipiente negli anni di composizione dell’ultima opera fortiniana, viene implicitamente e silenziosamente accettata l’idea che l’arte non debba venire resa inattuale o hegelianamente soppressa, in quanto essa si auto sopprime da sé, si consegna mani e piedi alla narrazione che ne fa il medium mediatico, e in tal modo si consegna ad una funzione ancillare e anaclitica.
Una brillante analisi del manierismo fortiniano è data da Guido Mazzoni in Forma e solitudine, cit.: «Il manierismo esprime nostalgia perché evoca un’immagine dell’integrità che appartiene al passato per scatenare, al cospetto della realtà alienata, un’energia di attesa: non è dunque un valore adempiuto ma un progetto. […] In questo senso, il manierismo è una forma di ironia romantica: indicando una verità ulteriore e irraggiungibile, chiede di essere superato e inverato» (p. 202). Il rapporto generale tra ironia ed “energia di attesa” è stato teorizzato molto bene, riferendosi a Benjamin, da Paul de Man: «L’ironia è la radicale negazione la quale, tuttavia, rivela, attraverso il disfacimento dell’opera, l’assoluto verso il quale l’opera è in cammino» (P. de Man,The Concept of Irony, in Id., Aesthetic Ideology, University of Minnesota Press, Minneapolis-London, 1996, p. 163-191, tr. it: Id., Il concetto di ironia, in «Studi di Estetica», anno XXXV, III serie, 35-36, 2007, pp. 73-100. Il passo citato si trova a pag. 99).
Si veda infine la recensione alla raccolta Composita solvantur di Raffaele Cavalluzzi (Fortini, “Composita solvantur”, in «Lavoro critico», n.s., 1992 [in realtà 1996], 22-24, pp. 121-124), che interpreta la settima delle Canzonette come «densa metafora autobiografica della patologia che infierisce, sorda, nella sua esasperata fisicità, dentro le viscere dell’uomo-Fortini» (p. 122).
Leggiamo le «Sette Canzonette» apparentemente «minori» che formano una sezione del libro di Franco Fortini, Composita solvantur (1994) che raccoglie le poesie dal 1984 al 1993, che chiude il novecento.
Sette canzonette del Golfo
1. Ah letizia…
Ah letizia del mattino!
Sopra l’erba del giardino
la favilla della bava,
della bava del ragnetto
che s’affida al ventolino.
Lontanissime sirene
d’autostrada, il sole viene!
Che domenica, che pace!
È la pace del vecchietto,
l’ora linda che gli piace.
Le formiche in fila vanno.
Vanno a fare, ehi! qualche danno
alle pere già mature…
Quanto sole è sul muretto!
Le lucertole lo sanno.
2. Lontano lontano…
Lontano lontano si fanno la guerra.
Il sangue degli altri si sparge per terra.
Io questa mattina mi sono ferito
a un gambo di rosa, pungendomi un dito.
Succhiando quel dito, pensavo alla guerra.
Oh povera gente, che triste è la terra!
Non posso giovare, non posso parlare,
non posso partire per cielo o per mare.
E se anche potessi, o genti indifese,
ho l’arabo nullo! Ho scarso l’inglese!
Potrei sotto il capo dei corpi riversi
posare un mio fitto volume di versi ?
Non credo. Cessiamo la mesta ironia.
Mettiamo una maglia, che il sole va via.
3. Se la tazza…
Se la tazza mi darai
che mi piace, la mia tazza
con il manico marrone,
gentilissima ragazza,
tu felice mi farai.
Il suo manico ha il colore
del più vivo e ricco tè
ma riflette anche il turchino
del leggero cielo se
è leggero come te.
4. Gli imperatori…
Gli imperatori dei sanguigni regni
guardali come varcano le nubi
cinte di lampi, sui notturni lumi
dell’orbe assorti in empi o rei disegni!
Già fulminanti tra fetori e fumi
irte scagliano schiere di congegni:
vedi femori e cerebri e nei segni
impressi umani arsi rappresi grumi.
A noi gli dèi porsero pace. Ai nostri
giorni occidui si avvivano i vigneti
e i seminati e di fortuna un riso.
Noi bea, lieti di poco, un breve riso,
un’aperta veduta e i chiusi inchiostri
che gloria certa serbano ai poeti.
5. Come presto…
Come presto è passato l’inverno
fra clamori terribili e vani!
Le battaglie di popoli estrani
che mai sono in confronto all’eterno,
all’eterno degli ippocastani
che dai ceppi si industriano lenti
a sperare germogli lassù?
E tu assorta graziosa annoiata
sul terrazzo, in pigiama pervinca,
forse chiedi al mattino che vinca
come il sole la bruma ostinata
così il bene sui campi cruenti?
Ma è domenica, è marzo: non senti
che un altr’anno, e il suo peggio, svanì?
6. Aprile torna…
Aprile torna e a sera un frescolino
irrita gote di ragazze accese:
in un palio ciclistico protese
volanti rubiconde mutandine.
Come rauche ora vociano parole
quasi laide nell’aria della sera!
Fu dolce, in altro tempo, primavera.
Godono pepsi cola ignude gole.
I ragazzi le annusano. Una bella
passò, di zinne e deltoidi ribaldi
e d’altro che acre un dì mi fu diletto.
Ma come mai sensibile diletto
trovar non so che me attonito scaldi?
Sì, d’aprile il dormire è cosa bella.
7. Se mai laida…
Se mai laida una limaccia
quando a ottobre l’aria è spenta
lenta bava perse lenta
che
di lunga e liscia traccia
porri o sedani segnò,
metaldèide in grigi grani
fai che inghiotta; e a globo stretta
plasma e anima rimetta.
Quanti soli già lontani
la lucertola mirò!
Lento a dèi crudeli e ignoti
va il mio bruno ultimo fiele…
Dove volgi, ansia fedele?
A che vomito mi voti,
cara meta che non so?
Considero errore
Considero errore aver creduto che degli eventi
(«meglio non nominarli!» mi soffiano i piccoli dèi)
di questo ’91 non potessi parlare o tacere
se non per gioco, per ironia lacrimante.
I versi comici, i temi comici o ridicoli
mi parvero sola risposta. Come sbagliavo !
Ho guastato quei mesi a limare sonetti,
a cercare rime bizzarre. Ma la verità non perdona.
Chi mai potrà capire che tempo fu quello? Credevo
scendere in un mio crepuscolo. Ahi gente! Invece
altro era, incomprensibile e senza nome. Guardavo
la luna di aprile sullo Eichhorn, a mezzanotte,
e la stellina d’oro dello Jungfraujoch, Disneyland.
(Nulla era vero. Voi tutto dovrete inventare).
Reversibilità
Anassagora giunse ad Atene
che aveva da poco passati i trent’anni.
Era amico di Euripide e Pericle.
Parlava di meteore e arcobaleni.
Ne resta memoria nei libri.
Si ascolti però quel che ora va detto.
Anche la grandissima Unione Sovietica e la Cina
esistono, o l’Africa; e le radio
ogni notte ne parlano. Ma per noi, per
noi che poco da vivere ci resta,
che cosa sono l’Asia immensa, il tuono
dei popoli e i meravigliosi nomi
degli eventi, se non figure, simboli
dei desideri immutabili dolorosi? Eppure
–si ascolti ancora – i desideri immutabili
dolorosi che mordono il cuore nei sonni
e del poco da vivere che resta
fanno strazio felice, che cosa sono
se non figure, simboli, voci,
dei popoli che furono e che in noi
sono fin d’ora? E così vive ancora,
parlando con Euripide e con Pericle
di arcobaleni e meteore, il filosofo
sparito e una sera d’estate
ansioso fra capre e capanne di schiavi
entra ad Atene Anassagora.
Ho massimo rispetto per il professor Fortini, e per la scuola come istituzione.
So di avere detto una corbelleria ponendo Alda Merini a capo della tragedia cultural italiana; e poi non è nemmeno colpa sua, Lei è anche brava… Ma ora, per venirne fuori servirà tempo; a meno che fantasia e tecnica non vadano di pari passo, che si trovi un punto di contatto, in armonia con il modo di pensare adesso.
caro Lucio,
non credo che hai detto una «corbelleria» indicando in Alda Merini la «tragedia cultural italiana» in poesia. Anch’io penso che la Merini abbia introdotto nella sua sterminata produzione in specie dopo gli anni settanta, una certa qual semplificazione del dettato poetico con l’introduzione di una serie di topoi abbastanza semplificati e accessibili alle masse illetterate. Insomma, la deriva semplificatoria che ha colpito la poesia italiana degli anni ottanta, novanta e, ancor più, in queste ultime decadi non è avvenuta per caso…
Rispetto al rapporto con la tradizione, rispondo che è tutto q
…quanto abbiamo. Le tradizioni sono mille e sono tutte Storia, la nostra, di noi che parliamo con i nostri simili senza trascurare chi ci ha preceduto. La Storia è tutto, così come è parimenti tutto la disposizione all’ascolto, l’atteggiamento percettivo, l’attivazione sensoriale e sentimentale. Le tradizioni che ho frequentato maggiormente sono quella classica e quella novecentesca. ma non ho trascurato del tutto le altre. I poeti del ‘900 che più ho letto sono Saba, Montale, Zanzotto, Landolfi, Sanguineti, Rosselli, Bene. Parlo degli italiani perché nel caso degli stranieri è più difficile esprimermi. Tra i più significativi potrei indicare Pound, Williams, Bernhard, Brodskij.
Da ultimo, lo Stile, che è morto tra ‘8 e ‘900. Oggi lo stile, a quanto mi pare, si è imbozzolato nelle opere dopo avere disertato l’autore. Morto lo stile, esiste l’inciampo e il ricominciamento. tutte le volte daccapo.
Dimenticavo di dire che sono membro dell’Istituto Patafisico Partenopeo governato dal Maestro Mario Persico. Medito molto sul Faustroll di Jarry.
Un caro saluto a tutti.
Anonimo cinese:
“Non camminare davanti a me, potrei non seguirti; non camminare dietro di me, non saprei dove condurti; cammina al mio fianco e saremo sempre amici”
“Lascia che la tua mente diventi silenziosa”. Ma con la mente silenziosa si possono scrivere poesie?
Il dubbio mi venne subito dopo aver scritto una poesia, quindici anni fa. Da molto tempo non ne scrivevo – facevo meditazione, volevo tornare ad essere l’opera d’arte originale, così come la natura aveva predisposto –.
La parte migliore della meditazione giunge quando spariscono i pensieri. Il tempo si ferma e diventi pura osservazione.
Scrivere è rimettere in moto la mente; ma praticando la meditazione, negli anni impari a non prenderla troppo sul serio, perché la mente è un inganno e tutto è illusione. Inganno è identificarsi con la mente. Ma bastava saperlo, esserne consapevoli. Al gioco con la vita non ci si può sottrarre, piacevoli sorprese e cocenti delusioni sono sempre in agguato.
La maggior parte delle poesie che leggevo mi sembravano dettate da nevrosi; mi chiedevo, ma come fanno i poeti a scrivere se prima non fanno pulizia dentro di sé? Quindi ho cominciato a scrivere sciocchezze, cose bislacche, per divertire e divertirmi. Secondo me il problema stava nel fatto che le persone si prendono troppo sul serio. Si identificano, indossano maschere. Magari alcuni lo sanno, ma va bene così. Di questo Jung ne parlò a sufficienza.
Ora, mi dite come non potrei apprezzare la poesia di poeti come Gabriele, Linguaglossa e gran parte degli amici che scrivono su questa rivista, dal momento che la loro mente sfugge e guizza da ogni parte, non solo, ma sembra sempre che non si prendano tanto sul serio?
Predisposto per vivere a lungo rilassato e paziente. Ma non in attesa.
Darsi per matto, proprio mentre l’anestesista osserva il siero nella siringa.
“Aspetteremo che il paziente finisca di spiaccicare tra le dita
quella sua maledetta brioche! Sta incolpando la propria anima
per avere dato la morte a Gesù Cristo”. Leccarsi le ferite. Uscire
per un giro in caravan. Restare incantati guardando in alto
il getto di una bella fontana. Attendere. Rimirar le stelle.
Sei limoni. Di soppiatto da un cespuglio di carta, quasi si trattasse
del lato nascosto della luna. Piccolissimi camerieri stanno allestendo
il tavolo per una colazione a due. Alberi neri e alberi bianchi.
Schubert, una folata. Il frinire dei grilli prima che il giorno.
E alla pagina successiva un sorso di tè. “Forse non fu il trauma
ma quell’istante di buio, di non esistenza…” Capire il mare,
mettersi a soqquadro. L’arco di tempo tra un bit e lo stesso bit
qualche mese dopo. Una relazione senza fine, quella tra dopo e prima.
“Finalmente ci si siede, professore”.
Il chirurgo chiude con del nastro adesivo. E una bottarella
rassicurante.
Da “L’intervista”- work in progress.
L’ANNO È APPENA INIZIATO
Il fumo se ne va sulla batteria
Che esalta l’ultimo respiro
Lascio spegnere il tutto
Stacco dalle maschere quotidiane
Benché senza certi orpelli
Via! Lingue di stoffa e nastri di pelle
(forse finta) e aggeggini che scandiscono
Tempo, tempo
Tempo di venti e capelli
”Sarò tagliato per il compito,
Il ruolo che ricopro?”
Fa freddo
”Sì, lo sarai! A pezzetti!
O forse a fettine!”
Dopo l’autunno
Lento
Sopraggiungerà l’inverno
E poi la primavera
”Tu, che fai?”
”La maestra”
”Tu?”
”Il tributarista”
Ma la domanda rimane la stessa
Stessa rimane la mutanda
E allora?
E allora forse si deve ancora cercare
Autunno brezza
Per morte foglie e semine varie
Inverno coltre per covare
Primavera fiore per sbocciare
L’estate pomodoro appena passata
La prosa non l’ho quasi mai stampata
Lavoro in corso…
Grazie mille.
P. S. : Scrivo dal cellulare…