Lucio Mayoor Tosi, Quattro poesie inedite, Oasi, Poesie per Petr Král, Giorgio Linguaglossa, Buongiorno, oggi, nel menu c’è la poetry kitchen

Lucio Mayoor Tosi Poster

Lucio Mayoor Tosi, Falce e martello all’epoca del Covid19, 2020

Questa immagine di Lucio Mayoor Tosi, con la falce e il martello che se ne vanno per i fatti loro, e il rosso bolscevico che fa da innocuo sfondo, è un esempio di picture kitchen; la falce e il martello sono diventati degli emblemi come il coltello e la forchetta, come la macchinetta da caffè Moka, sono diventati oggetti del design alla moda, desueti e dimenticati, de-storicizzati, de-realizzati. E la picture kitchen ne prende atto, Lucio ne fa un manifesto del fuori-senso, un simulacro senza più originale, un dispositivo imaginale senza più un linguaggio storico. Sono oggetti dis-ancorati dal quotidiano, come tutti gli altri oggetti del quotidiano, del resto, che appaiono fuori-contesto, fuori-senso, fuori-significato.
(g.l.)

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Oasi. Poesie per Petr Král

di Lucio Mayoor Tosi

N. 1

Noi siamo abbandonati. Il mondo va nei bar mentre si discute
di Covid 19, maiuscolo. Ma io ci faccio una pippa.

Mascherina in fronte, suggerisce l’ascoltatore, un rapper
d’alluminio anni 2030. Per chi ama le farfalle.

Senti, ti chiamo. Abbiamo stenografiche del paleolitico
ancora funzionanti. Codici a barre, cose così.

La prima luna deroga d’affitto, un insieme di lampi
al cherosene di marca comunista, Cose che mettono nostalgia.

Ma naturalmente, sai, per via dei distici, guarda:
mancano denti a sinistra, sotto. Alcuni scrivono

come piovesse. Oddio, sempre come piovesse. Ripeto.
Stile mio di carrozza a sonagli, d’altronde siamo,

sono come sul vacillare del forno le cornucopie,
direbbero certi scrittori del realismo. Fantastico,

puoi toccare parole chiudendo gli occhi, Uh uh uh,
queste sono vere farfalle. Quasi un digiuno.

Cappotti che hanno perduto la fodera. Critici
che andrebbero da Michelangelo a correggere baffi.

Perché chissà quale odore, profumo di passato
si nasconde nella terrapieno delle azalee. Comunque,

difendersi dal senso di colpa, se viene Natale
e non hai niente da regalare ai nipoti.

Zio d’America scrive poesie ma è sfortunato.
O ha qualcosa che non va nella testa. Karma negativo,

quando le cose vanno bene, ecco che si rompe
un bicchiere dei due che sono rimasti.

L’effetto è immediato. Significa che siano a un passo
dal tesoro, Antartide. Ora o mai più!

N. 2

Così se ne vanno in volo, il coro figli angeli
in una faccia di vecchio inchiostro. Le spalle curve,

gli anni a chiedersi come mai, e risponde Minosse
ti sbrano in un hamburger. Più o meno

un trapassare di scaltre fanciulle sopra il divano
(oh! Sempre piove), ma come derelitti sperare

nel flusso di corrente, che arrivi Broadway
come Singapore chissà perché, tabacco a ciocche.

Quindi sterminare mosche, sole amiche.
O prendersi l’intervallo su cornicioni in centro città.

Un po’ più in basso, ecco, dove scorre vecchia poesia
e l’autore frigge uova – come piovesse. D’altronde

piove sempre. I gatti pensano. Sono stoviglie, uccelli.
E noi, chi noi, io, ecco. Allora infilo perline.

N. 3

L’archivio portaricordi in fretta seppellisce
voli che altrimenti, morisse il gatto, le lune sarebbero

filo d’aria in ascensori per paradise, non ricordo.
Quindi scrivo Mio caro… Mia cara. Punto.

Oggi molte teste in controluce sembrano ostriche
che nel corpo riflettono sentimenti. Provare

per smentire se altrimenti – e sempre piove –
forse e volendo, anche l’angolo in cui saremmo morti.

«Sono un pericolo pubblico, ecco perché
vivo solo. Conto i giorni col loro nome».

«Prima era diverso, fingevo luce alle finestre,
Ma non vale. Finisce per strada un convoglio

di idiozie».

N. 4

La durata di un film, e non andiamo oltre.
Miss prevosto, prima che diventasse l’ultimo dei bastardi

disse tra i quartieri il nome di ogni colpevole,
più o meno all’ora dell’aperitivo.

A destra fecero commenti di destra, a sinistra
si stracciarono le vesti. I colpevoli sono parole

marionette. Dimmi prima chi sei. Poi traduci
per la folla. Sanno già tutto ma preferiscono

sentirselo dire, che sono stronzi. Sì, come è vero
lo sbattere d’ali di piccione sul sagrato. Niente più

che somarelli addomesticati a rabbia latente,
per via di congiure spropositate a danno di tutti.

Ma che fa? L’azienda auto pensieri ha per nome
meraviglia in dodici lingue, non una che vada bene.

Al complotto finanziario aggiungiamo chiavi
di violino, la caca-forte dei rimandi accesa.

Lucio Mayoor Tosi Composition acrilic

Lucio Mayoor Tosi, Polittico, acrilico, 2017

Giorgio Linguaglossa

Buongiorno, oggi, nel menu c’è la poetry kitchen

Sembra quasi che una zona di auto sospensione del e dal linguaggio si sia verificata, che sia accaduta quella cosa magica per cui il linguaggio si stacca da se stesso e va per i fatti suoi, indipendente dall’io e dal noi, questi maledetti pronomi personali che hanno infestato la poesia del novecento e hanno dilapidato le esistenze degli uomini del XXI secolo… C’era da aspettarselo che un giorno sarebbe arrivato un poeta auto sospeso dall’io che fa una poesia come l’avrebbero desiderata i dadaisti e gli eslegi di tutte le avanguardie. È che Lucio Mayoor Tosi ha compreso fino in fondo che cosa significhi fare oggi una poetry kitchen, fare una poesia con gli utensili che stanno in cucina, accettare di impiegare le parole con contratto a tempo determinato, senza alcuna presunzione di durata, di voler durare per l’eternità! Ah, che brutta parola l’eternità, Lucio Tosi  la scapperebbe, lui che fa una poesia dell’effimero, che dura appena un battito d’ali, friabile e leggera che appena l’afferri e ti accorgi che ti è rimasto sulle dita il polline malinconico delle sue ali… E anche il gozzaniano «archivio portaricordi» ormai è in disuso, seppellito dai suoi stessi ricordi… E anche «l’azienda auto pensieri» è finita in rigatteria, con tutti i rigurgiti versali delle poetiche normative e oggettuali del post-moderno… E poi quelle frasette messe lì come per sbaglio: «I gatti pensano. Sono stoviglie, uccelli.»;  «quando le cose vanno bene, ecco che si rompe/ un bicchiere dei due che sono rimasti», che sono davvero eccellenti per il loro non voler dire nulla di serio o di faceto o di accettabile, per il loro essere assolutamente transeunti, per elencare il fuori-senso delle parole che usiamo ogni giorno  come carta moneta. Questa è, per l’appunto, poetry kitchen, il cui aedo, Mario Gabriele, le ha dato i natali con L’erba di Stonehenge del 2016. Lucio Tosi si è inoltrato molto in avanti in quella zona di confine, di indistinzione, di indiscernibilità, di enigmaticità propri del linguaggio della transvalutazione del banale, quella zona in cui avviene che tra le parole cessano i collegamenti di senso e di significato per via di una auto sospensione del linguaggio, come se quelle parole avessero raggiunto il momento temporale che precede di un attimo la loro rispettiva differenziazione, non per via di una dis-somiglianza quanto per via di uno slittamento di senso, per via di una vicinanza prossima che si è poi rivelata una lontananza estrema, quasi che quella contiguità tra le parole, quella colla che le teneva insieme si fosse all’improvviso dissolta e quella antica alleanza, quella antica filiazione si fosse convertita in dis-alleanza, in fibrillazione. Tutto ciò apparirebbe contro natura, sembrerebbe contro la natura della parole, che sono fatte per stare insieme accanto ad una stufa, la stufa del significato, e che invece si sono ritrovate all’aperto, esposte alle intemperie e alle basse temperature, al gelo del nostro modo di vita e dei nostri valori de-valorizzati e tra svalutati… ma è che le parole non sono fatte per comunicare, Lucio Tosi lo sa bene, sono ordigni fatti per ingannare e irretire gli uomini, non sono portatori di buone intenzioni o di alate metempisicosi dello spirito, sono degli strumenti acuminati e affilati con cui puoi far male se davvero le pensi in relazione ai loro significati consolidati.

(Giorgio Linguaglossa)

*

Quanta passione in queste corrispondenze e la poesia. Un focolare in casa della gelida NOE, che nel volersi togliere dall’io forse dimentica l’importanza dell’esperienza individuale, pure che sia una sommatoria di istanti. Ma il poeta è nudo, non lo ami altrimenti. Altrimenti è tecnicale, si dice? ma allora bisogna vedere se via sia corrispondenza, soprattutto oggi che la tecnica è linguaggio, modo di pensare con altri segni, altre attenzioni. Il passato muore, se torna va tradotto e potrebbe non bastare. Battaglia inutile quella di volere innovare, superflua. Ma togliere sofferenza alla follia, disagio, con adeguato bagaglio di conoscenza introspettiva, che i mezzi non mancano, eviterebbe tanti ritorni all’ovvietà, di cui l’io abbonda.

(Lucio Mayoor Tosi)

14 commenti

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14 risposte a “Lucio Mayoor Tosi, Quattro poesie inedite, Oasi, Poesie per Petr Král, Giorgio Linguaglossa, Buongiorno, oggi, nel menu c’è la poetry kitchen

  1. mariomgabriele

    Qui si è messa in evidenza la funzione organolettica del linguaggio poetico, dando vita al Verkehr, ossia allo scambio di commercio con la parola e la plurimmaginazione per schematizzare i fondamenti di una ontologia tutta in work-progress. Non potrebbe essere diversamente dal momento che si va sempre più in avanti dalla NOE, in grado di evolversi nelle più disparate situazioni. Questo carattere polimorfo assicura a Lucio Tosi un tampone nel fermare le figurazioni astratte di certi versi archetipi e falsamente innovativi,tra mito e antimito, che corrodono l’essenza stessa del fare versi, azionando movimenti lessicali su categorie diverse.

  2. Alla fine possiamo riconoscerlo il nostro mondo, anche nei frammenti di uno specchio rotto. E’ il mondo che conosciamo, il mondo familiare. Impossibile sbagliare.
    Gli specchi rotti sono della mente. Che in ogni frammento osserva, la mente osserva sempre. Può contenere distanze incalcolabili, l’iride. Vedere ed essere con la Luna, le stelle…
    Come lo metti, il tutto rimane tutto. Non esistono note eccentriche, fuori posto. Possiamo quindi dire che Pop è il tutto da tutti riconoscibile.
    Scrivendo ci si sposta in geografie di tempo; perché il tempo mette squilibrio nella psiche, la suddivide in piccole unità di memoria e attenzione. Le parole vengono alla mente una alla volta, mai tutte insieme.
    Quando il mondo appare, e appare sempre, quando le parole tacciono e ci poniamo all’ascolto, allora è un suono di gingilli. Fuori e dentro.
    Pura meraviglia.
    Di questo mi occupo: sento il dovere di trascrivere, ubbidiente, in fattori vivi la fugacità e la permanenza. Senza sosta. E questo è anche Pop dell’attualità, il suo accadimento e il linguaggio.
    Ho fatto mia una visione futura del mondo. Cerco come posso di trasmetterne i segnali.

  3. antonio agredo

    Grande talento di Mayoor, come grafico, disegnatore ecc, Mai avuto il minimo dubbio tanto che mi rivedo spesso gli splendidi “disegni” in onore di Vanini, e che l’anno scorso riscossero un grande successo a Taurisano per il 400° anniversario della morte del filosofo ateista.
    Comunque il poeta esprime il suo applauso all’artista (come me) o non lo esprime affatto. Ma il critico letterario quando esprime un suo qualunque giudizio è sempre meno mostruoso della Poesia, e perciò innocuo.
    ————————————–
    La dedica di versi al poeta ceco Pet(e)r Kral, nasce in Mayoor non da una emozione ma da una commozione, poiché questa precede la prima e ciò si evince dal verso :
    “E noi, chi noi, io, ecco. Allora infilo perline.”
    poiché un io fatto pluralità non regge alla visione (emozione) e deve cambiare oggetto e abbassare lo sguardo, infilando perline (commozione).

    as

    • Ringrazio Antonio Sagredo per il bel riconoscimento dei miei lavori d’arte. Mi coglie di sorpresa la nota su l’io fatto pluralità, ma la accolgo volentieri. Petr Kràl, la sua recente scomparsa e le sue poesie, quindi la presenza, mi ronzavano attorno come riferimento di certezza. Pochi autori sento che hanno piantato basi solide, utili al lavoro di tutti noi.

  4. Tutte le strade portano all’ombra, agli infissi deturpati. Ai volti giallognoli.

    Alla carne senza
    sembianze. Al filetto dell’auto convincimento. Denudati in massa. Poi.

    L’invito portato in pompa magna, nelle cassette della posta, quelle rosse verticali. Le madri

    nella poesia contemporanea che affiorano nei giro collo di perle anticate. Dei segnali in miniatura lignea.

    Perlopiù come nei padri estinti. Le ossa sono in formazione di testugine. Roma, roma antico.

    Grazie OMBRA.
    (a tempo, un omaggio, per Tosy)

  5. Falce e martello, due quadri esposti in un museo e tra loro lo iato del muro. Un tempo questi oggetti significavano molto, per tanti una ragione di vita . Se ne lasciavi uno in un universo, conservava memoria dell’altro anche se collocato in una galassia, a distanza e tempi infiniti. Si alimentavano da idee come rivoluzione, giustizia, comunismo, uguaglianza, solidarietà, rivincita sociale che si elevavano sulla storia come cime dell’Himalaya e facevano tremare il nemico. Al loro allontanamento corrisponde dunque una perdita di memoria delle idee fondanti che ora si aggirano nella notte dei vascelli vuoti. Sullo sfondo il cielo rosso del nostro inferno. Una costante come quella gravitazionale.

    L’ESTATE, LUNGO LA STRADA

    Parla l’ulivo.
    Ci sono rami che sanno cosa è successo.

    Un fumo ci colse in mare aperto
    cenere bianca e Regina scura in coperta.

    Nike all’improvviso e lignina nelle vene.

    Lo scacco è stato impreciso.
    Le cose hanno voce insieme.

    Charlie recita per Elisabetta:
    Nessuno è scontento questa notte.

    Riccardo dirige le contorsioni di cellulosa.
    Formiche applaudono Merna sul toro.

    Fiorisce l’io nella fossa
    odore di pesce morto.

    Gocciolava ossigeno e tu correvi sui prati dissuadendo.
    Peccato non aver incontrato gli occhi di quei giorni.

    Lasciare in mano all’Elio la città

    La distanza si rifocillò in bicchieri di Prigogine
    Bivaccò il metro ai piedi del Municipio

    la matematica avrebbe fatto correre
    I teoremi sui monopattini.

    Oh madame Recamier! L’unica parigina senza palmare.
    Toccherà dividere Ghigliottina da Luigi Capeto

    La schiera dei poeti suicidi
    sagomata in bignè.

    Se fioriva il ciliegio nei versi
    Ora è marmellata da spalmare su burro.

    E dunque nessun pensiero nella chioma.
    lo scacco matto all’inizio della partita.

    Si abbrevia la visuale del camaleonte.

    Il museo sogna un colpo d’angolo di trecento sessanta
    lo iato del muro si fa genoma.

    Il rimmel è versato, la sciagura dei tempi morti.
    Silenzi imbottiti di euro da cui si allontana il trucco.

    Ruotava un girasole sul lungomare
    jogging del poeta benedetto da Dio.

    il vincitore saprà dirci due parole sante
    E non questa brodazza di Marenco.

    Seguirà l’arrosto di pollo
    Zuppa di suola e grizzly dopo la torta.

    Non c’è un grande spettacolo
    La pellicola filma il suo pubblico.

    Vedemmo pascere sotto lo stesso albero
    termodinamica e miracolo.

    La buccia aderì al frutto.
    Anche il morso ripensò il piacere nella bocca

    Ricoprire di polpa i semi.
    Rimediare allo strappo aggrappandosi allo stelo.

    -Attraversai il Louvre perché era vuoto
    E c’erano atomi di oro che non potevo penetrare.

    (Francesco Paolo Intini)

  6. Carlo Livia

    Caro Lucio, la tua esperienza verbale scaturisce da un unico scenario psico-emotivo, una virulenta profanazione, desacralizzazione, delegittimazione e decomposizione della logica convenzionale, che quasi inevitabilmente assume connotati comico-farseschi. Tale corrosivo umorismo nero neutralizza ogni altra prospettiva mimetica ed emozionale, che affiora in filigrana come risonanza armonica, e spesso con le più icastiche intuizioni:
    “oggi molte teste in controluce sembrano ostriche/ che nel corpo riflettono sentimenti”.
    È una scelta sicuramente dettata da esigenze interiori, non ideologica assunzione di dogmi eteronomi, vi si riflette il tuo carattere anarchico, antidogmatico, la tua fluida carica creativa.
    Non credo che in arte valgano scelte programmatiche, l’adesione a strutture prosodiche o atteggiamenti performativi vale – anche per strutturare una poetica, un gruppo o una scuola di pensiero – ma solo in termini retrospettivi, come risultato comune di scelte autonome e individuali, libere e dinamiche, mai vincolanti.
    Chiedersi se un ascolto di più vaste e metamorfiche prospettive inconsce, la liberazione di elementi e icone più segreti, accoglienti, femminili accrescerebbe lo spettro e la profondità della tua visione è….come chiedere a Cecco Angiolieri perché non è Dante.
    Ma la tua voce è tagliente, incisiva, inconfondibile, testimonia una necessità di denuncia e liberazione per me inestimabile.

    Ti dedico un testo che va nella direzione opposta, verso la riconsacrazione e la nostalgia, in amichevole sfida.

    LA GRANDE BALANCOIRE DANS LE CIEL

    “Ogni canzone
    è uno stagno
    dell’amore….

    E ogni sospiro
    uno stagno
    del grido”

    Federico Garcia Lorca

    Mi sveglia una brezza antica. Un istante obliquo, rinchiuso nell’Utero Nero.
    La Sposa veglia accanto a me, ma è un candelabro col pianto della Madre.

    La finestra immacolata seziona l’Universo. Troppo grigio per essere l’Inferno.

    Occhi del folle che va, vedete l’ingresso?

    La pluie portait des gants pales, pour ressusciter lentement – canta l’Origine, morta nell’incesto.

    A fianco della resurrezione, il panico è irto di farmaci.

    Tornerò dipinta senza veli – dice la Madrina in confessione.

    Il cielo divora candidi levrieri dalle colline degli ultrasuoni di Venere.

    Tramonto e lascio il mio amore sulla spiaggia. Un’onda vi si stende felice, lo bacia e lo cancella.

    Devo mettermi in fila per il Giudizio Finale. Ma prima mi nascondo nel bosco, per cambiarmi gli abiti e i pensieri.

    S’apre una porta. Dentro c’è il pallore della fanciulla che ha ucciso Dio.

    Tout disparait dans la brume de la dame immuable – dice il guardiano.

    Enigmi nudi, in estasi, danzano nel sepolcreto.

    /…./

    Devo ripulire il cielo dai miei peccati. Ma è inutile – dicono – prima o poi tutti finiscono nel fossato delle donne fulve.

    Sul lato oscuro della luna miliardi di Pink Floyd e un solo Principe buffo.

    Il sacrilegio rosa libera la Vergine furiosa.
    Un amplesso d’epoca, dal fondo della voragine, scuote i sigilli.

    /…./

    La fanciulla si apre la strada dal cielo, lottando contro i venti, le acque e il pianto delle chitarre.
    Una campana cieca la segue. Mani scarne la spogliano.
    Dicono che tutto è menzogna.
    C’è solo una vecchia culla vuota, in soffitta, che ricorda tutto.

    /…./

    La donna ragno tesse un intero cielo d’amore.
    Viene Dante e lo chiama Dio.
    Viene Petrarca e ne mostra lacrime e ferite.
    Viene Leopardi e lo riempie d’ombre e di spine.
    Viene Chopin e lo ricopre di brina.
    Viene Dostojevskji e lo profuma d’incenso.
    Viene Nietzsche e lo pugnala alle spalle.
    Viene l’Ultimo e lo seppellisce.

  7. Penso che Lucio Mayoor Tosi abbia in mente un principio indistruttibile, che la scrittura poetica e figurativa debba essere incentrata sulla decostruzione del linguaggio convenzionale e delle parole convenzionali.
    Analogo è il principio che usa Francesco Paolo Intini. Bastano questi quattro versi per capire ciò che voglio dire:

    La distanza si rifocillò in bicchieri di Prigogine
    Bivaccò il metro ai piedi del Municipio

    la matematica avrebbe fatto correre
    I teoremi sui monopattini.

    Anche Mauro Pierno adotta il medesimo principio-guida, e lo pone in essere attraverso la sua personale sensibilità, con una atmosfera psico-emotiva che gli detta come e dove e fino a quando può inoltrarsi.

    Gino Rago ha appreso a maneggiare un linguaggio giornalistico assurdo ed ultroneo pieno di inventiva e di ilare dissacrazione. Anche in lui vige il principio della decostruzione ad oltranza di tutta la seriosità seriosa che la poesia di cui si fabbrica in Italia è piena. Quella serietà non è la vera serietà, è seriosità, arroganza della seriosità posta come dogma da un circolo di letterati che si sostengono a vicenda.

    Nella poesia di Carlo Livia a mio avviso la decostruzione non viene usata per una certa affezione esclusiva alla procedura di derivazione surrealista, anche se si tratta di un surrealismo personalissimo. Ma qui, nella centralità data al surrealismo, la poesia di Carlo Livia rischia di girare come una trottola impazzita intorno ai propri emblemi, alle proprie figure fino alla esasperazione e alla esaustione. Noto infatti la ricorrenza presso tutta la sua produzione poetica delle medesime Figure (la donna, la fanciulla, l’angelo, Dio, la vergine, la sposa, la madrina etc.).

    • Aggiungo una postilla.
      Stavo pensando che la dialettica del fondamento sulla quale si iscrive il linguaggio, non può soltanto essere pensata come fondamento negativo (fundamentum negativum), ma come un fondamento negativo che diventa «positivo» proprio in quanto assunzione del linguaggio su di sé della negatività. Il fondamento che va a fondo dà luogo alla positività del linguaggio che accetta di accogliere il negativum.
      L’accettazione del negativum è questo lasciare andare a fondo il linguaggio della tradizione.

  8. Caro Livia,
    la mia idea di spiritualità nasce dalla disperazione, dal dolore di vivere e dal pensare scientifico. Non credo alla meditazione relax, o alla preghiera relax. Senza psicanalisi non si arriva al profondo. Che poi, quando ci arrivi lo agisci: perché non è conoscenza ma cosa viva, che circola, e quel che sei è un continuo testimoniare, nient’altro.
    Ho conosciuto persone, mistici devoti al femminile. Non è la mia strada. Ricordo che al liceo, l’artistico, per un periodo feci studi sulla stilizzazione della figura umana. Le valutò il mio insegnante, un bravo artista, oggi scomparso, Luciano Baruzzi, il quale mi disse: bene, Lucio, ma non pensi che le donne sudino, siano fatte di carne, abbiano sentimenti, emozioni?
    Sono ateo, vengo da una famiglia di comunisti, e sono stato educato come tutti in Italia dal cattolicesimo. Quindi sono anche cattolico: mi aspetto un premio quando faccio bene, e un castigo se faccio male. Non occorre che arrivino da altri, mi trafiggo da me.
    Siamo stati confezionati dal collettivo, cresciuti non nella jungla ma come piante da balcone. Bene, no? In serra o all’aperto, Importa che ciascuno abbia qualità, e impari a riconoscerle. Lì è in gioco la libertà di vivere. Ho fatto terapia per vent’anni, oggi non capisco come un poeta, specie se di indirizzo esistenziale, possa cavarsela senza un minimo di indagine introspettiva. Nelle poesie sentimentali, o d’amore, che si leggono nella nuova solitudine della rete, io vedo dipendenze affettive e ogni sorta di stortura psicologica. Sicuramente infantili, potenzialmente criminali.
    Vivo come sul palcoscenico, in una scenografia che in tanti momenti mi sembra di straordinaria bellezza… e magari è un vicolo, luna e lampioni. Le due cose insieme fanno poesia.

  9. Giorgio Linguaglossa 25 maggio 2018 alle 7:53

    Non è Aristotele che nel De memoria sostiene che gli umani sono: «coloro che percepiscono il tempo, gli unici, fra gli animali, a ricordare, e ciò per mezzo di cui ricordando è ciò per mezzo di cui essi percepiscono [il tempo]»?. Dunque, possiamo dire che la Memoria sarebbe una funzione della coscienza del tempo. Anzi, dopo Heidegger si dovrebbe parlare di una funzione della temporalità nel suo rapporto con l’esserci, la nostra esistenza si situerebbe negli interstizi tra le temporalità dell’esserci. La temporalità immaginaria e quella empirica. Meister Eckhart ci ha parlato del «vuoto» quale esperienza interiore essenziale per accedere alla dimensione spirituale, ovvero, fare «vuoto» come distacco dai propri contenuti personali per poter accedere ad una dimensione più vera e profonda.

    È da qui che ha inizio la riflessione poetica dei poeti nuovi dei poeti esistenzialisti della nuova ontologia estetica, dal punto di congiunzione tra temporalità e memoria. Quel punto opaco, insondabile dove hanno avuto luogo gli eventi significativi, paradossalmente opachi, quei momenti di lacerazione dell’esistenza che noi percepiamo distintamente attraverso la lente della memoria. Ma che cosa sia quella lacerazione e che rapporti abbia con la memoria, è davvero un mistero.

    Bene illustrano questa condizione spirituale i tropi adottati dalla nuova ontologia estetica, in particolare i concetti di disfania e di diafania, in una certa misura, concetti gemelli che indicano il «guardare attraverso» della diafania e il «guardare tra» della disfania. La parola poetica si situerebbe dunque «tra» due manifestazioni (Phanes è il dio della manifestazione visibile, la luce,) e «attraverso» esse. È in questo guardare obliquo, in diagonale che si situa il discorso poetico della «nuova ontologia estetica», dove il tempo dello sguardo indica la temporalità dell’esserci.

    La metafora è il non identico sotto l’aspetto dell’identità.

    I grandi poeti lavorano incessantemente per tutta la vita attorno ad alcune poche metafore, ma per giungere alle metafore fondamentali occorre un pensiero poetico che speculi intorno alle cose fondamentali, ecco perché soltanto il pensiero mitico riesce ad esprimersi in metafore, perché nel mito la contraddizione e la metafora sono di casa e tra di esse non c’è antinomia e una medesima legge del logos le governa. In questa a quartina di Zbigniew Herbert è rappresenta una metafora fondamentale:

    il proiettile che ho sparato
    durante la grande guerra
    ha fatto il giro del globo
    e mi ha colpito alle spalle

    perché istituisce una contraddizione assoluta che soltanto la metafora assoluta può racchiudere, dove l’assurdo della denotazione collima con il rigore del pensiero intuitivo. Nella metafora viene immediatamente ad evidenza intuitiva l’eterogeneo e il contraddittorio che permea l’esistenza quotidiana degli uomini. «Veri sono solo i pensieri che non comprendono se stessi», scrive Adorno in Dialettica negativa, assunto che viene invalidato dal pensiero della communis opinio ma che è inverato dall’esperienza della metafora nella poesia, dove essa si rivela essere un concentrato di impossibilità drasticamente verosimile ed immediatamente intuitiva.

    T.W. Adorno, Dialettica negativa, Verlag, 1966, trad. it. Einaudi di Carlo Alberto Donolo, 1970 p. 42

    *

    Alfonso Cataldi 25 maggio 2018 alle 10:23

    Sinestesie

    Eravamo tra i minimi discorsi nel bar di via Carfagna
    quando l’altro mio alter ego prende il largo.
    S’inalbera ed esce, sbattendo la porta.
    Così un gruppo di tedeschi litigioso

    si siede al tavolino
    in pieno centro urbano
    e continua la nostra discussione.

    Giacomo sveglia l’intero vicinato strillando
    «il pezzo-schizo» di Jannacci
    davanti lo skyline che muta
    intorno a Porta Nuova:

    “Giacomo ha fame. Paninutto!!”

    Una mamma mette in pausa l’ultimo tutorial pubblicato su Donna Moderna.
    Si domanda se ha una faccia in più
    oppure in meno
    l’origami
    strapazzato tra le dita.

    Il maestro Robert J. Lang dice di ritenere la questione troppo ingenua
    la ripiega nello stipo dietro gli accadimenti di giornata
    da stivare in poco spazio
    tra i satelliti
    del punto-vita.

  10. La Censura di Radio Tre ad un poeta
    – Programma Farehnheit di Poesia.

    Gentile direttore Radio Tre,
    mi chiamo Giorgio Linguaglossa, curo per l’editore Progetto Cultura di Roma una collana di poesia che ha pubblicato libri importanti. Ho chiesto a laura Zanacchi e a Loredana Lipperini se potevo inviare una copia del libri più significativi per la rubrica di poesia, ma non ho ottenuto mai risposta.
    Ritengo questo comportamento non accettabile e male educato. la mia biobibliografia parla per me. Ritenevo, forse ingenuamente alla mia età di 70 anni, che sarei stato considerato almeno degno di una risposta.
    Sarei lieto di poter ricevere una risposta, anche negativa, dal direttore del programma radiofonico.
    Distinti saluti.*
    g.l.

    *sms inviato il 19 luglio 2020

  11. L’impensato al pensiero segnala delle alternative, crea uno spazio di relazione di senso…

    (Michel Meyer)

  12. L’ha ripubblicato su RIDONDANZEe ha commentato:
    ma è che le parole non sono fatte per comunicare, Lucio Tosi lo sa bene, sono ordigni fatti per ingannare e irretire gli uomini, non sono portatori di buone intenzioni o di alate metempisicosi dello spirito, sono degli strumenti acuminati e affilati con cui puoi far male se davvero le pensi in relazione ai loro significati consolidati.
    (Linguaglossa)

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