Per capire il mondo attuale non abbiamo più bisogno della poesia, Top Pop Poesia, Poetry kitchen, Soap poetry e Top picture, Commenti di Slavoj Žižek, Mario M. Gabriele, Marie Laure Colasson, Giorgio Linguaglossa, Poesie di Francesco Paolo Intini, Mauro Pierno

Marie Laure Colasson Struttura Dissipativa e Figura

Marie Laure Colasson, Gambe con calze rosse, e acrilico 30×25 cm, 2020

[L’idea del quadro è nata dalla vista di un manifesto strappato e lacerato dappertutto; rimanevano solo due gambe con calze rosse su delle scarpe nere. Marie Laure Colasson fotografa l’immagine e, giunta nel suo studio, monta l’immagine su una superficie aggiungendovi dell’acrilico]

.

Benvenuti in tempi interessanti

di Slavoj Žižek

«Ci sentiamo liberi perché ci manca il linguaggio necessario per articolare la nostra mancanza di libertà.»

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Per capire il mondo attuale non abbiamo più bisogno della poesia.
L’arte che si fa oggi in Europa è simile al dolcificante che si mette nel veleno.
I piccoli poeti pensano al dolcificante in dosi omeopatiche… i grandi poeti pensano al dolcificante in dosi macropatiche…
È molto semplice: Dopo le Avanguardie non ci saranno più avanguardie, né retroguardie, le rivoluzioni artistiche e non, non si faranno né in marsina né in canottiera. Non si faranno affatto.
Siamo all’interno di un gioco di specchi. Ciò che vediamo sono le illusorie metastasi della realtà. Ripeto,
Faust chiama mefistofele per una metastasi, dal titolo eloquente del libro di Francesco Paolo Intini.

Sorprendono gli intenti esecutivi della coloristica di Marie Laure Colasson e gli incisi narrativi di Mario Gabriele, la maestria comune ad entrambi nel modo dei tocchi, degli affondi, degli incisi, del fraseggio, delle citazioni, nel recupero fulmineo di tracce di memoria e di tracce di rovine, di avatar, di esperienze stracotte. D’istinto, c’è il seguire i punti culminanti o luminosi d’un oggetto; vengono esasperate le relazioni, in modo da imporre all’attenzione dello spettatore il reticolo accidentale o, semplicemente, evenemenziale della datità. Le sensazioni dello spettatore vengono così dinamizzate in un difficile gioco tra la volontà di vedere tutto e magari anche la rimembranza e la negligenza di non vedere null’altro che inezie, aspetti secondari, modellizzazioni esornative. Vengono ad evidenza l’arabesco del contorno e l’intreccio dell’incontro con il superfluo, tra rapide indicazioni, masse cromatiche, stadi accennati, intensità di luci e di ombre, schermi ottici e leggi morfologiche che convivono beatamente, in bilico tra un’ottica coloristica e un’esigenza tattile e mnemonica.

Momenti percettivi dissonanti si continuano e si accostano delineando i contorni di un immaginario già cinematografico. Un racconto visivo con una trama fatta di orme invisibili, di legami celati, di ripostigli oscuri, segmenti letterari, citazioni simili a inquadrature, che ritraggono volti, occasioni, scenari, situazioni, flâneries per disegnare un ordito libero, eppure segretamente organizzato, che sembra replicare le disarticolazioni del nostro modo di vita, tra percorsi, reti, rinvii, in-direzioni, parti che collegano e s-collegano altre parti. Flussi che si intersecano, trasformano il testo in una sequenza che contiene altre sequenze, citazioni che contengono altre citazioni in un gioco di rimandi e di rinvii caleidoscopico. Scrittura narrativa caratterizzata da sorprendenti interruzioni – impressioni quotidiane colte con agili tecniche della ripresa continua e interrotta –, che potrebbero essere interpretati anche come volontarie citazioni del linguaggio filmico.

L’occhio sensibile ai dettagli, alle casualità, a ciò che abitualmente si trascura nella quotidianità, il desiderio di toccare la realtà mentre si fa e si disfa dinanzi a noi, il culto per ciò che è stato dimenticato, smarrito, rimosso. Una visione dialettica della immobilità. Questo è propriamente una scrittura top pop oggi.

Il flâneur, gli avatar, i personaggi da fumetto sono, al pari del regista del film, dei detective, come i commissari nelle poesie di Gino Rago, che si consegnano alle incursioni del caso. Ad accomunarli è il bisogno di saldare sguardi e luoghi, in un gioco che tende a rendere ogni dato liquido e instabile. Fanno il reportage, perlustrano regioni inesplorate, intrattengono un costante dialogo con la datità e la surrealtà, il tutto per avversione della normografia opprimente del mondo odierno. Vogliono captare tutte le voci che, in contemporanea, insistono nella datità. Elaborano una filologia disinvolta per entrare dentro le tessiture del mondo. Analogamente allo straccivendolo benjaminiano, essi si aggirano negli anfratti di una temporalità frantumata e disgiunta, che non si srotola come un filo, ma appare come una corda sfilacciata in mille matasse che pendono come trecce sciolte. Per loro, uno specifico motivo non è un punto fisso, né un processo, non è una linea, ma un arabesco di traiettorie e di conflitti, di spostamenti e di salti. Sanno porre in relazioni tracce marginali, cuciono insieme vestigia, rifiuti, cadute, equivoci, ordinano un catalogo di cascami e di rovine, rinunciano alla facile sintassi del racconto, collezionano minuzie, raccolgono reliquie e oggetti disparati, interrompono cliché, conferiscono spessore a rimozioni e a dimenticanze. Catalogatori di merci usate, interagiscono con il paesaggio delle merci contraffatte e demiurgiche della civiltà globale. Fanno un archivio del disutile e del rimosso.

(Giorgio Linguaglossa)

Fuori da questo elenco, c’è poco spazio da aggiungere, quasi nulla se non sottoponessimo i soggetti-oggetti ad una indagine psicoanalitica; e qui il discorso diventerebbe un punto di contatto fra linguaggio letterario e linguaggio dell’inconscio.

Bisognerebbe considerare anche questi due eventi. a cui non dovrebbero mancare il processo creativo, i tempi di una procedura narrativa o coloristica, proiettati all’esterno come una carrellata di plurieventi, tra aperture e dissolvenze, rapporti distaccati e incrociati, che messi insieme fanno da panoramica o da Pan-Shot come nei film.

Non è tempo di reportage o di identikit di personaggi chiamati.in una sequenza di dati e dettagli al’interno di testi poetici. Non c’è più confronto con la norma, col codice che abbiamo istituzionalizzato con la NOE e il Distico e via dicendo: tutto un mondo specifico e costruttivo a cui Giorgio si era preparato per una nuova antologia e che, purtroppo i soprassalti linguistici hanno messo al muro dissolvendo ogni speranza.

Marie Laure Colasson

Leggiamo la prima strofa di una poesia di Mario Gabriele:

Una Jeep Renegade ferma davanti alle VideoNews.
Signorina Borromeo, l’aspettiamo qui
dove meglio si possono leggere i suoi pamphlets.

Non dicono molto
ma rappresentano episodi di prosa spontanea.

Mi vengono in mente i tantissimi romanzi che si scrivono oggi, che sono in realtà delle cianfrusaglie, dei pettegolezzi sciorinati fatti passare per analisi psicologiche. Ma restano pettegolezzi senza alcuna importanza. Più che flusso di coscienza siamo davanti ad un flusso di cianfrusaglie. E il bello è che vengono presi sul serio e magari gli danno anche il premio Strega! La poesia narrativa postata ieri di Giovanni Giudici è un esempio di poesia racconto (con qualche rima interna) che sarebbe stato meglio trascrivere direttamente in racconto.

La poesia di Mario Gabriele, invece, non la puoi trascrivere in racconto perché manca il racconto, manca il plot. I suoi personaggi sono delle icone, degli emoticon messe lì come semafori che indicano il verde, il giallo e il rosso. È la poesia che si può fare oggi dopo Warhol, a distanza di settanta anni da Warhol. Celan è ancora un poeta dell’umanesimo, probabilmente l’ultimo. In lui non c’è mai un racconto, come invece avviene per la poesia italiana dagli anni sessanta in poi. E poi, mi chiedo, che cosa c’è da raccontare? Puoi raccontare soltanto la “Storia di una pallottola” o la storia di “una Jeep Renegade ferma davanti alle VideoNews”.
Forse la poesia italiana che è venuta dopo Giovanni Giudici non ha ancora fatto i conti con la legittimità del raccontare, di fare racconti in poesia. Non ha ancora capito che i media hanno tolto ogni possibilità alla poesia di accedere al racconto in versi.

Oggi il mondo lo puoi comprendere soltanto se dimentichi il “racconto”, non c’è nulla da raccontare, l’arte deve ripudiare e aborrire il racconto. Mi piace anche la poesia di Carlo Livia (anche lui aborrisce il racconto) ma mi piacerebbe leggere le sue poesie in versione pop top o in versione poetry kitchen. Tutto sommato i suoi angeli, il suo Dio, i suoi demoni io li leggo in versione pop top, come una versione dopo la fine della storia, dopo la fine dell’umanesimo.

I poeti che continuano a scrivere racconti in versi non si rendono conto della vacuità e obsolescenza di un tale indugio?

Francesco Paolo Intini

Francesco Paolo Intini (Noci, 1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016), Natomale (LetteralmenteBook, 2017), Nei giorni di non memoria (Versante ripido, Febbraio 2019) e  Faust chiama Mefistofele per una metastasi, Progetto Cultura, 2020. Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie. Calliope free forum zone 2016) – e una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017).

 VENERE

Una pentola suona il flauto
e Mission dà il LA a Master Chef

“Notizia di una pulce nata mamba.”

Si apre la bara delle chiavi.
E tu risorgi rossa. Ogiva sul tramonto.

Difficile distinguere i putti di Raffaello
Da una sedia elettrica.

Sacco, Vanzetti…”SILENCE”
La clessidra dei bimbi morti al secondo.

Tecnologia che affranca la pantera dall’ indios
contraddice Bolsonaro.

Te ne vai ma la pubblicità resta salda ai pubblicitari
Nano-cellula contro nano-offerta.

Filini arbitro e santo subito.

Yersinia questa volta
Come a rifocillarsi del pan degli angeli

UGO

Italia Germania 1 a 2.
Tasse e Müller arrivano con puntualità di donna.
Rivera torna negli spogliatoi.

Ma poi giochiamo a sorvegliarci. Una disconnessione è una pausa di pranzo, una sigaretta fumata all’ombra del panottico.

Uno che distribuiva volantini anche da morto
Pattinò con gli occhi chiusi. Usò un barattolo di fagioli per
Affiggere il Manifesto e berci sopra primitivo.

La Nazione delle alici urlò dal fondo del Tirreno.
Chiudersi a testuggine non funziona con le megattere.

Jobs, ma come poteva non chiamarsi così?
Azzardò una partita di fegato andata a male
per la luce del sole .

All’interno invece c’è solo tuorlo nero.
Ne verrà fuori Montalbano, lo sfondo di materia scura
sulle braghe.

Zig zag di una zanzara nella mano destra.

-Stavamo per perdere la pazienza ma ci ritrovammo
Davanti a una decapottabile .
Il tritolo generò un ratto che perse sangue e pulci
Per le vie di Praga, poi stramazzò abbassando la coda.

Un colpo d’appendicite sul set del Settimo Sigillo.

Italia-Germania 1-1 .
Fantozzi alza il finestrino della bianchina.

Mauro Pierno

L’hai detto Madame!
L’hai appena affermato
e subito riconosciuto nella semplice traiettoria,
la testa di cavallo nella tela del pittore, covid garden,
l’ogiva che trapassa colorata, tutto un testo, sono
il pensiero tutto dipinto del virus,
sono
della stessa natura indeterministica,
sono l’antimateria
del realismo temperato,
non terminale.

16 commenti

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16 risposte a “Per capire il mondo attuale non abbiamo più bisogno della poesia, Top Pop Poesia, Poetry kitchen, Soap poetry e Top picture, Commenti di Slavoj Žižek, Mario M. Gabriele, Marie Laure Colasson, Giorgio Linguaglossa, Poesie di Francesco Paolo Intini, Mauro Pierno

  1. tiziana antonilli

    Parlare, come fa Linguaglossa di , ‘ incontro con il superfluo’, ‘legami celati, orme invisibili, ripostigli oscuri’, e ancora ‘ ciò che è stato dimenticato, smarrito, rimosso’, e per finire ‘tracce marginali, vestigia, rifiuti, cadute, equivoci ‘ , rimanda, a mio parere, all’essenza dell’arte .Essa dovrebbe essere, per sua natura, non utilitaristica, non dovrebbe, cioè , avere un fine, un ‘utile’, solo così può svincolarsi dall’economia capitalistica che deve sempre perseguire, per sua natura, un fine, un obiettivo, un utile.

  2. Il sistema istituzionale dell’arte ha la funzione di legittimare le scelte del mercato, di promuovere gli artisti, di sollecitare l’acquisto da parte dei collezionisti, di gestire gli eventi mediante le strategie di marketing e di pubblicità mutuate dalla sfera commerciale. Nasce così la figura odierna del “curator”, ben diversa da quella tradizionale del critico che aveva il compito di interpretare l’opera, contestualizzarla storicamente e culturalmente, rivelando e divulgando le eventuali innovazioni formali e i molteplici livelli di significato. Al contrario, la nuova figura è una sorta di manager che seleziona le opere e ne progetta il packaging promozionale, alimentando quei fenomeni di spettacolarizzazione che contraddistinguono il mondo dei media, non solo, ma inserendo l’opera artistica nel sistema del packaging non fa altro che celebrare e rafforzare il sistema, anche mediante la utilizzazione di opere anti-sistema.

  3. José Ortega y Gasset ( Meditazione sulla cornice, in id., Lo spettatore, a cura di C.Bo, Milano, Guanda, 1984, p. 85) considera la funzione di delimitazione, assolta dalla cornice, come una “soglia” attraverso la quale accedere alla dimensione dell’immaginario,luogo di passaggio tra realtà e finzione: «il quadro è un’apertura di irrealtà che avviene magicamente nel nostro ambito reale. Quando guardo questa grigia parete domestica, lamia attitudine è, per forza, di un utilitarismo vitale. Quando guardo il quadro, entro in un recinto immaginario e adotto un’attitudine di pura contemplazione».

    Flashmob (dall’inglese fash: rapido, improvviso, e mob: folla) è un termine coniato nel 2003 per indicare una riunione-lampo in uno spazio pubblico, un evento di massa generalmente scherzoso e di brevissima durata, organizzato tramite internet (email, social networks) o telefonia cellulare. Di solito la finalità dei fashmob è di intrattenimento o spettacolo, anche se talvolta la tecnica è stata utilizzata per motivazioni pubblicitarie o politiche o per organizzare proteste improvvise. Durante un concerto, tenutosi a Chicago l’8 settembre 2009, mentre il gruppo hip hop statunitense Black Eyed Peas si esibiva nel noto successo musicale I Gotta Feeling, il pubblico ha iniziato gradualmente a ballare,seguendo dei passi precisi a ritmo di musica e improvvisando così uno spettacolo digrande effetto. Anche in Italia si sono verificati casi di flashmob dance: il 4 ottobre 2009, a Napoli, un gruppo di giovani si è radunato in Piazza del Plebiscito e, in onore del celebre cantante scomparso Michael Jackson, si è scatenato, con l’ausilio di un impianto audio, nella coreografia della canzone Beat It. La performance è stata ripetuta, durante la stessa mattina, in altre zone della città, facendo a ogni spostamento più proseliti.

    Nell’odierna società dello spettacolo il corpo esposto, messo inscena attraverso i media, ha acquistato nuova centralità anche nella cultura popolare e l’aspetto esteriore, soprattutto tra i più giovani, è spesso considerato strumento indispensabile per avere facile successo. Lo dimostra il crescente proliferare dei saloni di bellezza, degli stabilimenti termali per la cura e il benessere fisico ( Beauty Farm e Spa) e dei centri di chirurgia estetica. Una semplice ricerca sul motore Google attesta una prevalenza senza confronto dei siti attinenti quest’estetica“dal basso” piuttosto che quelli relativi all’omonima disciplina filosofica. In una società in cui Picasso può designare prima un profumo epoi persino un’automobile (dell’azienda Citroën), e Hegel, con il prestigio del suo nome, può conferire una patina autorevole e distintiva a un istituto di bellezza, è evidente che i filosofi non possono semplicemente voltarsi con indifferenza dall’altra parte.

    L’arte oggi pone complessi interrogativi ontologici, cui già da tempo l’estetica, soprattutto di area analitica, cerca di dare risposta. In Italia,Dino Formaggio
    costatava già negli anni Settanta, che questa categoria non è più definita da norme in grado di stabilire a priori cosa vi possa essere incluso o no, ma si apre a una pluralità di orizzonti. È un insieme di attività che utilizzano nuovi media creativi ed espressivi, ricorrendo anche a strumenti tecnologici e digitali. Per indicare quest’ampio spettro di pratiche, spesso non immediatamente riconoscibili, manca un termine appropriato e omni comprensivo se si prescinde dall’indicazione cronologica (arte contemporanea). Pertanto si utilizzano appellativi volti a evidenziare o il genere o i mezzi adoperati o alcune caratteristiche trasversali (arte relazionale, interattiva ecc.). Nella letteratura analitica, invece, ricorre spesso la connotazione borderline
    per opere, difficilmente classificabili, che pongono problemi circa alcuni aspetti considerati irrinunciabili nella concezione tradizionale: ad esempio opere che «intrattengono un rapporto negativo con le nostre richieste “normali” di risultare identificabili con un oggetto o un evento, o di esibire proprietà estetiche.

  4. Non male l’esecuzione pop della Colasson, aggiornata su Banksy e il linguaggio sui muri. Non sono sostenitore della tecnica mista, si tratta di capire quale sia l’intento. Se si tratta di operazione critica, Giorgio dovrebbe andarci a nozze. Ora è nel pop. Ma non è detto che duri a lungo 😉

  5. caro Lucio,

    il linguaggio poetico ha luogo nel costitutivo e ineliminabile luogo-non-luogo; non si dà, nell’alveo della metafisica occidentale (nella riflessione sul linguaggio, come in quella sull’essere, come in quella sul politico); non si dà positivo senza negativo: non c’è esistenza senza vuoto, non c’è parola senza silenzio, non si dà il linguaggio senza il silenzio delle parole.
    Ecco, precisamente, in questa dialettica del fondamento la poiesis si scopre internamente bifide e auto contraddittoria: perché parla il positivo sul fondamento di un negativo, perché poggia su una duplice negatività, sulla negatività del Dasein e sulla negatività del linguaggio.

    Scrive Giorgio Agamben:

    La sfera dell’enunciazione comprende, dunque, ciò che, in ogni atto di parola, si riferisce esclusivamente al suo aver-luogo, alla sua istanza, indipendentemente e prima di ciò che, in esso, viene detto e significato. I pronomi e gli altri indicatori dell’enunciazione, prima di designare degli oggetti reali, indicano appunto che il linguaggio ha luogo. Essi permettono, così, di riferirsi, prima ancora che al mondo dei significati, allo stesso evento di linguaggio, all’interno del quale soltanto qualcosa può essere significato. La scienza del linguaggio coglie questa dimensione come quella in cui avviene la messa in opera del linguaggio, la conversione della lingua in parola.
    Ma, nella storia della filosofia occidentale, questa dimensione si chiama, da più di duemila anni, essere, ousia.
    Ciò che sempre già si mostra in ogni atto di parola […] , ciò che, senza essere nominato, è sempre già indicato in ogni dire, è, per la filosofia, l’essere.
    La dimensione di significato della parola “essere”, la cui eterna ricerca e il cui eterno smarrimento […] costituisce la storia della metafisica,
    è quella dell’aver-luogo del linguaggio e metafisica è quell’esperienza di linguaggio che, in ogni atto di parola, coglie l’aprirsi di questa dimensione e, in ogni dire, fa innanzitutto esperienza della“meraviglia” del linguaggio sia. Solo perché il linguaggio permette, attraverso gli shifters, di far riferimento alla propria istanza, qualcosa come l’essere e il mondo si aprono al pensiero. La trascendenza dell’essere e del mondo – che la logica medievale coglieva nel significato dei trascendentia e che Heidegger identifica come struttura fondamentale dell’essere-nel-mondo – è la trascendenza dell’evento di linguaggio rispetto a ciò che, in questo evento, è detto e significato; e gli shifters , che indicano, in ogni atto di parola, la sua pura istanza, costituiscono (come Kant aveva perfettamente colto attribuendo all’Io lo statuto della trascendentalità) la struttura linguistica originaria della trascendenza. 1

    La voce, la phoné animale è, sì, presupposta dagli shifters, ma come ciò che deve necessariamente esser tolto perché il discorso significante abbia [a sua volta] luogo.
    L’aver-luogo del linguaggio fra il togliersi della voce e l’evento di significato è l’altra Voce, la cui dimensione onto-logica abbiamo visto emergere nel pensiero medievale e che, nella tradizione metafisica, costituisce l’articolazione originaria del linguaggio umano.
    Ma, in quanto questa Voce […] ha lo statuto di un non-più (voce) e di un non-ancora (significato), essa costituisce necessariamente una dimensione negativa. Essa è fondamento, nel senso che essa è ciò che va a fondo e scompare, perché [a loro volta] l’essere e il linguaggio abbiano luogo. Secondo una tradizione che domina tuttala riflessione occidentale sul linguaggio, dalla nozione di gramma dei grammatici antichi fino al fonema della moderna fonologia, ciò che articola la voce umana in linguaggio è una pura negatività. […] La Voce, come shifter supremo che permette di cogliere l’aver-luogo del linguaggio, appare, dunque, come il fondamento negativo su cui riposa tutta l’onto-logica, la negatività originaria su cui ogni negazione si sostiene. Per questo l’apertura della dimensione dell’essere è sempre già minacciata di nullità: […] perché la dimensione di significato dell’essere è aperta originariamente soltanto nell’articolazione puramente negativa di una Voce.2

    Chi chiama, nell’esperienza della Voce è, per Heidegger, il Dasein stesso dal profondo del suo esserespaesato nella Stimmung. Giunto, nell’angoscia, al limite dell’esperienza del suo esser gettato, senza voce, nelluogo del linguaggio, il Dasein trovaun’altra Voce, anche se una voce che chiama solo nel modo del silenzio. Il paradosso, qui, è che la stessa assenza di voce del Dasein, lo stesso “vuoto silenzio” che la Stimmung gli aveva rivelato, si rovescia, ora, in una Voce, si mostra, anzi, come sempre già determinato e accordato (gestimmt) dauna Voce. Più originario dell’esser gettati senza voce nel linguaggio è la possibilità di comprendere il richiamodella Voce della coscienza, più originaria dell’esperienza della Stimmung è quella della Stimme.
    Ed è solo inrelazione al richiamo della Voce che si rivela quella più propria apertura del Dasein che il paragrafo 60 presentacome un “tacito e capace di angoscia autoprogettarsi nel più proprio esser-colpevole”. Se la colpa scaturiva del fatto che il Dasein non si era portato da sé nel suo Da ed era, perciò, fondamento di una negatività, attraverso lacomprensione della Voce il Dasein, deciso, assume di essere il “negativo fondamento della propria negatività”.
    È questa doppia negatività che caratterizza la struttura della Voce e la costituisce come più originale e negativo (cioè abissale) fondamento metafisico.3

    … se la metafisica non è semplicemente quel pensiero che pensa l’esperienza di linguaggio a partire da una voce (animale), ma se essa pensa invece già sempre questa esperienza a partire dalla dimensione negativa di una Voce, allora il tentativo di Heidegger di pensare una “voce senza suono” al di là della metafisica ricade all’interno diquesto orizzonte. La negatività, che ha il suo luogo in questa Voce, non è una negatività più originaria, ma indica anch’essa, secondo lo statuto di shifter supremo che le compete all’interno della metafisica, l’aver-luogo del linguaggio e l’aprirsi della dimensione dell’essere. L’esperienza della Voce – pensata come puro e silenzioso voler-dire e come puro voler-aver-coscienza – svela ancora una volta il suo fondamentale compito ontologico. L’essere è la dimensione di significato della Voce come aver-luogo del linguaggio, cioè del puro voler-dire senza detto e del puro voler-aver-coscienza senza coscienza. Il pensiero dell’essere è pensiero della Voce.4

    1 G. Agamben, Il linguaggio e la morte, pp. 36-37
    2 Ibidem pp. 49-50
    3 Ibidem pp. 74-75
    4 Ibidem p. 76

  6. Una idea di Letteratura

    La letteratura è la proiezione sul piano immaginario dell’attività reale dell’uomo; il lavoro, la proiezione sul piano reale dell’attività immaginaria dell’uomo.
    Tutte e due nascono insieme.
    L’una, designa metaforicamente il Paradiso perduto e misura l’infelicità dell’uomo.
    L’altro, progredisce verso il Paradiso ritrovato e tenta la felicità dell’uomo.

    Raymond Queneau

  7. Poetry kitchen

    L’ultima poesia di Les choses de la vie
    di Marie laure Colasson.

    33.

    un deux deux
    si si non
    ouvre la valise
    deux un cinq
    non non si
    cri d’un oiseau
    deux cinq sept
    non si non
    monte les escalier
    trois deux deux
    non si si
    dans la valise une robe en dentelle rouge
    deux un sept
    si si non
    enfile la robe en dentelle rouge
    deux un deux
    si non si
    c’est ton tour
    cinq un deux
    si si si
    mèfiez vous d’elle
    trop belle envoutante
    fermez les portes les fenêtres
    c’est la mort la mort
    ne sait pas compter
    ne sait pas dire non
    mais n’oublie pas del mettre du rouge à lèvres

    *

    uno due due
    sì sì no
    apri la valigia
    due uno cinque
    no no sì
    grido di un uccello
    due cinque sette
    no sì no
    sali le scale
    tre due due
    no sì sì
    nella valigia una veste di pizzo rossa
    due uno sette
    sì sì no
    infila la veste di pizzo rossa
    due uno due
    sì no sì
    è il tuo turno
    cinque uno due
    sì sì sì
    diffidate di lei
    troppo bella invitante
    chiudete le porte e le finestre
    è la morte la morte
    non sa contare
    non sa dire no
    ma non dimentica di mettersi il rossetto sulle labbra

    La collocazione estetica della «verità» («la messa in opera della verità» di Heidegger) è una ubicazione privilegiata, un luogo abitabile? Se intendiamo in senso post-moderno, e quindi post-metafisico, la definizione heideggeriana di nichilismo come «riduzione dell’essere al valore di scambio», comprendiamo appieno il tragitto intellettuale percorso da una parte considerevole della cultura critica: dalla «compiuta peccaminosità» del mondo delle merci del primo Lukacs alla odierna de-realizzazione delle merci che scorrono, come una fantasmagoria, dentro un gigantesco emporium, al «valore di scambio» come luogo della piena realizzazione dell’essere sociale.
    Il percorso della «via inautentica» per accedere al discorso poetico nei termini di cultura critica è qui una strada obbligata, lastricata dal corso della Storia. L’ubicazione poetica della verità è un luogo inabitabile. Della «totalità infranta» restano una miriade di frammenti che migrano ed emigrano verso l’esterno, la periferia ed approdano sulla pagina bianca. Il discorso poetico, come esperienza estetica significativa dell’iper-moderno, è diventato un luogo inabitabile. Occorre prenderne atto. La poesia moderna parte da qui, dalla presa di coscienza della rottamazione delle grandi narrazioni e dalla consapevolezza che il suo luogo-non-luogo è diventato poeticamente inabitabile.

    (Giorgio Linguaglossa)

  8. “L’essere è la dimensione di significato della Voce come aver-luogo del linguaggio, cioè del puro voler-dire senza detto e del puro voler-aver-coscienza senza coscienza. Il pensiero dell’essere è pensiero della Voce.”

    Affinché queste enunciazioni possano trovare riscontro nell’esperire, cioè a dire nell’evento, è necessario porsi nella condizione del testimone (silenzioso ascoltare e osservare). Ed è questa, a mio avviso, la condizione che precede la Poiesis. L’osservazione non selettiva degli eventi, che è pura testimonianza, fornirà materiale di risorsa (conscio e inconscio) utile alla scrittura, che è resa dei sogni. Nulla di vero può essere detto. Ma può essere detto. Finché non si comprende il gioco, per cui nel dire si finisce inevitabilmente in braccio alla ragione, tutte le costruzioni qui imbrigliate diventeranno materia, cioè altro rispetto alla loro sostanza originale. Tutto si esaurisce nel voler dire, che in sé non avrebbe alcun contenuto in quanto è il linguaggio a disvelare, con effetto sorpresa, ciò che il testimone ha in serbo, e a sua insaputa. Da qui la freschezza sorgiva dei versi in poesia?
    Altra cosa è la manipolazione dei significanti. Ma questo attiene alle cose del mondo.
    A chi agisce nel linguaggio – come in giardino, l’incessante fiorire degli eventi – tenuto conto dell’odierna semplificazione (avversa alla complessità) basterà un dire sufficiente, che il resto verrà dall’intenzione. Una buona parola può valere quanto e più di un libro: oggi, poi, che si fa quasi tutto per mestiere.
    Così anche un buon dipinto, perseguirà l’estetica sufficiente a-rendere l’idea del ben eseguito. In questo modo può darsi che la pittura si salvi e trovi posto nell’ambito delle idee.

  9. Sulla Poetry kitchen

    caro Lucio,
    la poetry kitchen assume in sé il più alto grado di consapevolezza della negatività. Oltre di essa la nuova poiesis non può andare, la nostra epoca ci sbarra la strada.

    Scrive Agamben:
    «Dunque il linguaggio è la nostra voce, il nostro linguaggio. Come tu ora parli, questo è l’etica
    […]
    La negatività entra nell’uomo perché l’uomo ha da essere questo aver-luogo, vuole cogliere l’evento di linguaggio» (Il linguaggio e la morte, p. 43). Subito dopo Agamben si chiede: «che cosa, nell’esperienza dell’evento di linguaggio, getta nella negatività?
    […] Com’è possibile che il discorso abbia luogo, si configuri, cioè, come qualcosa che possa essere indicato?» (ibidem).

    Le domande inquietanti di Agamben gettano un fascio di luce sulla nuova poiesis, la decostruzione agambeniana giunge al suo compimento. La risposta è nell’individuazione della «voce» come dispositivo fondamentale, nel senso di dialettica del fondamento, della negatività, come «dimensione ontologica fondamentale»(p. 45), e dunque come luogo negativo (non-luogo) dell’aver luogo dell’onto-logia dell’Occidente.
    In questo passo giungiamo all’ultimo lido del nichilismo della ontoteologia. Nel futuro soltanto un’altra ontoteologia non più fondata sulla negatività della «voce» potrà liberarci da questa condizione di negatività.

  10. caro Lucio,

    dal punto di vista del nostro fare poiesis la nostra poesia è il nostro linguaggio, la nostra estetica è la nostra poetica e la nostra poetica è la nostra politica.
    Non si danno sfere separate, come credeva la metafisica del novecento, ma siamo tutti abitanti di una unica dimensione. «Come tu ora parli, questo è l’etica», scrive Agamben.
    Nella modalità in cui tu parli, in cui e per cui qui noi parliamo, il linguaggio ha positivamente luogo, qui è l’etica. E io direi che qui è anche la poetica. L’etica e la poetica sono, in quanto coincidono, nel ‘come’, nella modalità, e la modalità è, in quanto è nell’aver-luogo della parola.
    In gioco, nell’etica come anche nella poetica che sono in qui in questione, sono tanto il linguaggio quanto l’ontologia: l’onto-logica.
    Oggi soltanto attingendo una parola senza destino e senza identità, possiamo accedere alle regioni della poiesis.

    • Stanco di tutto ciò che viene dalle parole, parole non linguaggio,
      Mi recai sull’isola innevata.
      Non ha parole la natura selvaggia.
      Le sue pagine non scritte si estendono in ogni direzione.
      Mi imbatto nelle orme di un cerbiatto.
      Linguaggio non parole.

      (Tomas Tranströmer)

  11. Carlo Livia

    A prima vista il paradigma formale della poesia della Colasson potrebbe essere riferito alla trasgressione iconoclasta, ludica del futurismo (Palazzeshi, Buzzi, ecc.), ma dal forzato accostamento di elementi semantici eteronomi e aporetici , scaturisce un’emozione molto più profonda dell’apparente giostra di immagini e provocazioni da naif ingenuo e fanciullesco.

    È una sorta di fuoco divino, che spinge a varcare i confini della ragione, per sciogliere i lacci che rinchiudono nella prigione della logica convenzionale, per trovare la libertà di un nuovo pensiero, la salvezza dalla menzogna del “mondo come rappresentazione”( Montale).

    “Io non sono prigioniero della mia ragione. Ho detto: Dio. Io voglio la libertà della salvezza. Come perseguirla?….. Se Dio mi accordasse la calma celeste, aerea, la preghiera – come gli antichi santi…” (Arthur Rimbaud).

    Anche per Kafka la scrittura era una “forma di preghiera”, un sortilegio per condurre in una dimensione di misticismo meta-psichico, di gnosi esoterica, in cui ognuno è completamente libero da pastoie ideologiche, di cui vengono esplicitate antinomie, dissonanze, assurdità. Ma è anche solo di fronte alla Legge ( Divino, Assoluto, Trascendenza ).
    “Come mai, se tutti vogliono entrare nella Legge – chiede l’uomo di campagna al Guardiano – in tanti anni non ho mai visto nessuno?
    “Questa porta era destinata solo a te. E ora (quando tu muori) vado a chiuderla”.

    Kafka, un ebreo senza fede, assimilato al formalismo religioso vacuo e insulso della borghesia austro-ungarica dell’ottocento, è l’esempio del semita sradicato, emarginato, senza un suo mondo culturale, dunque “immondo”, contro cui si scaglia Heidegger nei Quaderni neri. Ma è proprio dalla sensibilità vulnerata, profetica dei poeti come lui che possiamo cogliere l’ineludibile urgenza di un mutamento ontologico, antropologico per convertire la nostra cultura.

    La metafisica, che per secoli ha alienato l’Essere in un Altrove in cui ha finito per dissolversi, ha trionfato, si è compiuta nel nostro mondo della teologia scientifica, nichilistica, consumistica, devastatrice. Eclissandosi ogni Trascendenza, l’uomo si concentra nevroticamente sugli enti, di cui conosce solo l’aspetto materiale, la loro apparenza sensibile, illusoria, come in una mistificazione di cui ha perso memoria.

    “La luce è sepolta con chiodi e catene
    in impudica sfida di scienza senza radici”. ( Federico Garcia Lorca).

    Ma qualcosa di indistruttibile, di oltre-umano, risuona al centro del nostro sentire, come un richiamo inestinguibile.

    “Il sentimento è tutto. La parola è soltanto suono e fumo” ( Goethe, Faust).

    Ma è impossibile ritornare alle “Madri”, perché lì le forme si dissolvono. Dio, anche a Mosè, nasconde il suo volto, è “Colui che è “, infinito, non de-finibile, dunque non conoscibile, almeno in forma concettuale.

    Eppure la poesia non cessa, in forme oscure, asintotiche, analogiche, di ritornare all’Origine. “Poesia: lingua allo stato nascente.” “Questo nome infinito dato a ciò che è vano e mortale” (Paul Celan).

    In questo ricondurre la lingua al proprio confine, nel suo misterioso scaturire dall’abisso dell’indifferenziato, prima di precipitare nei paradigmi del pensiero convenzionale, il poeta inquisisce ossessivamente un’indefinibile dimensione soteriologica.

    “UNA VOLTA
    m’accadde di udirlo,
    lavava il mondo,
    non visto, per tutta la Notte,
    inconfutabile.

    Uno ed Infinito,
    annichilito,
    ichilire.

    E fu luce. Salvezza. ( Paul Celan )

    Ichilire traduce “ichten”, neologismo per indicare “diventare io”. Anche questa una reminiscenza evangelica del mistero dell’incarnazione, del Dio che diventa uomo, abita in noi, ma in ciò manifesta il massimo della sua trascendenza, onnipotenza, mistero e carità.
    Solo alla luce di queste immagini poetiche possiamo imparare a pensare in modo nuovo, pienamente umano, redento.

  12. milaure colasson

    caro Carlo Livia,

    a dirti il vero, io non so come è scaturita questa poesia. O meglio, so qual è stata l’origine empirica che ha dato luogo all’idea della poesia, ma non lo dico… anche perché non è necessario conoscere la scaturigine di una cosa per capire quella cosa.
    Condivido in pieno la frase di Slavoj Žižek:

    «Ci sentiamo liberi perché ci manca il linguaggio necessario per articolare la nostra mancanza di libertà.»

    E’ che di frequente ci manca il linguaggio per esprimere la nostra mancanza di libertà. Forse la poesia vuole dire anche questo.
    Condivido anche la frase di Agamben: “il nostro linguaggio è la nostra etica”.

    con viva cordialità
    m.c.

  13. https://lombradelleparole.wordpress.com/2020/07/15/top-pop-poesia-poetry-kitchen-soap-poetry-e-top-picture-commenti-di-mario-m-gabriele-marie-laure-colasson-giorgio-linguaglossa-poesie-di-francesco-paolo-intini/comment-page-1/#comment-66328
    copio e incollo un commento inviato da Adriana Gloria Marigo

    Caro Giorgio,
    finalmente ho potuto leggere l’articolo con poesia di Marie Laure Colasson, tua argomentazione sull’impossibilità del discorso poetico di essere luogo esteticamente abitabile, opera pittorica di Marie Laure.
    Apprezzo il testo francese (la traduzione, non sovrapponibile all’originale – del resto è impossibile – restituisce il senso di smarrimento e ricerca che avverto nei versi di Colasson, come se la nostalgia dell’oggetto smarrito con potere rassicurante non fosse solo necessaria presenza ma, con l’avvento della presenza, investitura, regalità, autenticazione): le sonorità aderiscono – come abito bagnato al corpo – alla forma destrutturata che, non immobile, evoca il movimento spezzatamente ossessivo dell’inseguimento-ricerca di qualcosa che è sparito, lasciando aleggiare l’esperienza della traccia.
    Mi chiedo: l’oggetto sparito, l’inquieta assenza, è la dimensione estetica, l’aisthesis nel significato greco, originario, di “percepire attraverso la mediazione del senso”, ovvero non una branca della filosofia, ma l’aspetto della conoscenza che riguarda l’uso dei sensi?
    Se è questo l’oggetto assente, allora siamo proprio nella necessità di attraversare la frontiera: l’assenza riguarda tutto il sistema uomo e, laddove dovrebbe fiorire il massimo dell’umanità, ovvero il pensiero in ogni piano dello scibile, troviamo, dopo la dissipazione del bene, la frammentazione impossibile a riorganizzarsi nell’insieme musivo.

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