Due poesie inedite di
Mario M. Gabriele
Il tragitto fu di breve durata.
Non furono i Dichtung
ma le pagine 233-238,
in particolare le pp. 236-237
a cambiare la vista del mondo.
Ciò che Orwell disse, fece rabbrividire mente e pelle
tra assenso e negazione.
Mister Gab,
la Pojetika vorrebbe averla tra gli ospiti
al Convegno sulle frantumazioni dell’anima
nei distici.
Ciò che è detto è detto, si sentì dire come risposta.
Ogni ermeneutica sul verso
è una mobilitazione delle raffigurazioni
e dei momenti.
La prima questione fu di Clark
abbandonando le mani di Charlotte
per una autodifesa del Nulla.
Anche in queste cose
ogni discorso diventa un percorso.
Bisognerà chiedersi se la museruola lasciata al bulldog
rientri nel silenzio dell’Essere.
Le rispondo Signore, ora che ho finito il Master
e posso discutere di Friedler
e della categoria di – visibilità pura-.
E’questione di coscienza,
e di come abbiamo trasmesso la nostra ontologia.
Quel Dichtung di cui parlava
ha bisogno di un mondo reale e tattile,
come le bucce di banane alla Conad.
E’ questo il punto ontogenetico
che ha fatto dire a Sibill:
Oh Paris, le Belles Lettres
allungano i quesiti, li denudano della loro origine
fino a morire nella Senna.
7
Un cocktail di Bull Shit inaugurò l’anno cinese delle candele.
Ci minacciavano Star Wars e L’Uomo che fuma.
Così rimanemmo al tavolo con Sara e Dora Moore
pensando allo scacco matto.
Cara Ketty, sono 14 anni che non mi muovo più dal letto
e ho le allucinazioni durante il giorno, disse Arianna.
C’è un esercizio, una specie di Yoga,
che si attacca al passato come il silicone.
A giudicare le cose come sono andate,
basterebbe che la luna se ne stesse un po’ in disparte.
L’occasione è buona
per dire: Lieber Freund wie geht es dir?
Sembra che Padre Michell, non voglia liberarci dal male
perché legati alla Passione, secondo Madame Bovary.
Sissy non si fa più sentire. E’ caduta nel disincanto
in una stanza di Prinsengracht 263.
Da inizio Gennaio fino alla quarantena
Ghebby ha seguito l’andamento dell’universo digitale.
Ne sa qualcosa Keurin dal suo paesino nella Brianza
che accomuna, mese dopo mese, remainders.
Nessuno sa come prendere un vagone,
ricordare La relatività con le 4 stagioni di Durell.
Kessy ha conseguito la laurea in modalità telematica
chiudendo l’esercizio accademico 2015-2016.
Oggi compie gli anni. Le presenterò mammy,
in photoshop, come quelle in bacheca a Bergen Belsen.
*
Filippo says:
agosto 9, 2020 at 11:12 am
Straordinaria poesia, che all’improvviso appare in un mare di insignificanza poetica e di espressioni formali assurde.
Lucio Mayoor Tosi says:
agosto 9, 2020 at 12:45 pm
Non un cambio soft, è piuttosto un acuto. Anche nella forma “intervista”, estranea alla tradizione, il poeta di talento lascia sempre e comunque il segno. Il distico è alle spalle (come aver vinto la Champions, che ancora non lo sa nessuno). La vita di ciascuno è tutto sommato breve, si lascia un segno là davanti, in quel nulla di cui tutti soltanto parlano. Mando un abbraccio.
da http://mariomgabriele.altervista.org/inedito-mario-m-gabriele-del-09082020/#comment-260
Giorgio Linguaglossa says:
agosto 9, 2020 at 5:23 pm
caro Mario,
penso che la tua pop-poesia possa essere letta da chiunque eserciti una professione utile ma non da un impiegato della pseudo cultura… un negoziante, un orologiaio, un barista, chiunque tranne che da un letterato.
«Noi figli degli anni più belli», recita la pubblicità di Facebook. È vero, adesso noi, figli degli anni più belli abbiamo tra le mani un linguaggio di rottami, di rifiuti, di remainders, ed è con questo che dobbiamo puntellare le nostre capanne per l’inverno che verrà. In distici, in tristici o in quadristici il tuo è un discorso sulla tristizia del linguaggio de-politicizzato che usiamo tutti i giorni. Il fatto è che quel linguaggio si era decomposto già da tempo, il fenomeno era già da tempo sotto i nostri occhi, ma non volevamo vederlo. La decostruzione è già avvenuta e avviene continuamente tutti i giorni e tutti i momenti ad opera delle emittenti dei media che emettono vomito linguistico profumato in miliardi di esemplari. Ma, gratta gratta, resta vomito. E tu, da poeta sub-atomico, lo metti in evidenza, non fai nulla per nascondere, dissimulare o vestire il vomito.
Anche in queste cose
ogni discorso diventa un percorso.
Bisognerà chiedersi se la museruola lasciata al bulldog
rientri nel silenzio dell’Essere
L’hai detto tu: «il discorso diventa un percorso». Andiamo tutti quanti in giro con una museruola, solo che non ce ne accorgiamo, diciamo frasi fatte, frasi obbrobriose per la loro insignificanza. Tutto ciò «nel silenzio dell’essere». Non è drammatico se non fosse comico? Drammatico e demiurgico e demoscopico con un algoritmo che decide del nostro linguaggio de-politicizzato profumato all’aloe. È che «l’essere svanisce nell’Ereignis», «l’essere svanisce nel valore di scambio», ha scritto una volta Heidegger. Davvero, delle frasi così potrebbero sottoscriverle anche un filosofo marxista e magari ne verrebbe tacciato di estremismo infantile. E invece le ha scritte Heidegger.
Se consideriamo la nota tesi dell’esteticità diffusa propria della post-modernità (da internet all’arte pubblica, dagli spettacoli sportivi al design, dalla moda alla pubblicità, ecc.), l’idea di poiesis che ne deriva è un’arte come capacità di formazione di campi di comunicabilità e di intersoggettività, tesi che non può essere accettata se non come principio trascendentale di possibilità, dobbiamo tornare alla lezione di Kant e abbandonare le tesi acritiche che vogliono un’arte comunicazionale intersoggettiva. In tale accezione, la tua è una operazione di dis-attivazione del linguaggio ordinario e comunicazionale per convogliarlo in una nuovo campo intersoggettivo dove quel linguaggio viene denudato e riportato allo statu nascendi, spogliato delle sue proprietà della falsa comunione e comunicabilità e ricondotto alla dignità di un linguaggio ri-appropriato dopo l’esproprio subito ad opera del brigantaggio linguistico mediatico.
Una rapida ricognizione nella nostra libreria, ma anche uno sguardo superficiale alle esperienze artistiche del Novecento (la musica atonale, l’arte concettuale, il ready made, la real thing etc.) può farci facilmente capire che l’arte si riferisce sempre a paradigmi, grammatiche e valori condivisi. Talvolta questi valori sono labili e mutano molto velocemente, altre volte sono più stabili. È che da molto tempo non abbiamo più una tavola di valori stabili e condivisi. In tal senso, l’idea kantiana del sensus communis può essere accettata, una volta sgombrato il campo dalla desueta teoria delle facoltà dell’animo, per pensare l’arte non sulla base di un mondo fattuale e istituzionalizzato, ma in virtù delle sue capacità di istituire mondi possibili di comunicabilità.
Questo è il principio trascendentale dell’arte sul quale è incardinata la proposta di una poetry kitchen. Il trascendentale che tu poni in essere è la nuova comunicabilità intersoggettiva di un linguaggio de-soggettivizzato da algoritmo non più significativo a nuovo campo di possibilità espressive che tu trasponi e traduci in nuova comunicabilità intersoggettiva. Il trascendentale intersoggettivo della tua poiesis può significare l’idea della genesi della nuova condizione di possibilità in quanto condizione di possibilità di un campo di linguaggi denudati e mutilati che vengono dis-sepolti, dis-attivati e ri-attivati in un nuovo campo gestaltico qual è la poiesis. La poetry kitchen è questa dis-attivazione e ri-attivazione di linguaggi usurati e sclerotizzati reintrodotti in una struttura testuale che ne rimarca le magnifiche sorti regressive. E questo è il luogo e la giustificazione dei tuoi sintagmi e dei tuoi polinomi frastici ri-adottati come ready made, come real things che entrano in un nuovo campo linguistico intersoggettivo.
Una volta affermata la «fine della storia» e il tramonto della metafisica, insistere sulla ricerca di una nuova definizione dell’arte, sic et simpliciter, significherebbe commettere una delitto doloso, finiremmo per riutilizzare le categorie metafisiche dell’estetica del novecento dopo averne argomentato l’inefficacia e dichiarato l’esaurimento. E infatti la nuova poiesis non va definita in alcun modo se non come ri-attivazione di un nuovo campo di possibilità comunicazionali ed espressive, messa in opera di una nuova Gestalt.
Mario M. Gabriele è nato a Campobasso (Molise) dove vive. Poeta della cosiddetta Quinta Generazione, è stato Presidente del Centro Studi di Poesia e di Storia delle Poetiche. Ha pubblicato per la poesia le opere: Arsura ( 1973), La Liana (1973), Il cerchio di fuoco (1976), Astuccio da cherubino (1978)-(1985), Carte della Città Segreta (1982), Il giro del lazzaretto (1985), Moviola d’inverno (1992), Le finestre di Magritte (2000), Bouquet (2002), Conversazione galante (2004), Un burberry azzurro (2008), Ritratto di Signora (2014), L’erba di Stonehenge (2016), La porte ètroite (2016), In viaggio con Godot (2017), Registro di bordo (2018), Remainders (2020). Ha pubblicato opere di saggistica e monografie di Autori italiani del Secondo Novecento, tra cui Poeti nel Molise, La poesia nel Molise, Il segno e la metamorfosi, Poeti molisani tra Rinnovamento, Tradizione e Trasgressione. Giose Rimanelli, da Alien Cantica a Sonetti per Joseph, passando per Detroit Blues. La dialettica esistenziale nella poesia classica e contemporanea, Carlo Felice Colucci, Poesie. La poesia di Gennaro Morra. La parola negata (Rapporto sulla poesia a Napoli). È presente in Febbre furore e fiele di Giuseppe Zagarrio, Progetto di curva e di volo di Domenico Cara, Poeti in Campania, di G.B. Nazzaro, Le città dei poeti, di Carlo Felice Colucci, Psicostetica, di Carlo di Lieto, in Critica della Ragione sufficiente di Giorgio Linguaglossa, e nella Antologia di poesia contemporanea Come è finita la guerra di Troia non ricordo, a cura di Giorgio Linguaglossa con traduzione in inglese di Steven Grieco Rathgeb e prefazione di John Taylor. Ha pubblicato sulle riviste: Tuttolibri, Quinta Generazione, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier, Riscontri e su L’Ombra delle parole. Alcuni suoi polittici sono stati pubblicati sul Quotidiano “La Repubblica” pag. 19 del 15 Giugno 2019 dalla redazione napoletana, a cura di Eugenio Lucrezi. Cura il Blog di poesia italiana mariomgabriele.altervista.org.
dal blog di Lucio Mayoor Tosi:
Primo pomeriggio
di Lucio Mayoor Tosi
Un sottopentola, o tovaglietta. Di paglia, un po’ sfrangiata ai bordi.
Per forza di colore bordò. Chiaramente usata.
Anche farsi una sigaretta. Tavolo con casamenti per l’intero universo.
Nessun profilo, tutte le cose messe di fronte.
Quando d’improvviso. / E’ l’ora dei nani, tre quattro mosse
in paradiso di coscienza. E lì scavare, scavare.
Grigio, colore dominante. Acqua di colonia. Blu e nero
il monitor confinante col cimitero.
Un campo di luce più ristretto di quello del sole. Ora
primo pomeriggio. Raggi dal sottosuolo bene attivi.
Fermo come impalcatura ascolto. Se cuore e bellezza
siano confinanti.
«Confina con me. Il sottopentola» dissi. Quindi lei
sbattè la porta. E giurò di non vedermi mai più.
L’importanza di ogni cosa è misurabile scandendo
ogni sillaba del prontuario “Nuovo tempo”. Metodi
per il soccorso giornaliero. Homo sapiens. Prima
del digiuno. Lui e la sua coorte di oggetti.
giorgio linguaglossa 25 agosto 2020 alle 7:45 am
Una poesia, quella di Lucio Mayoor Tosi, senza alcun principio gerarchico, direi anarchica, con un metro polisillabico in distici che sta lì come una sentinella armata, ma armata di che?, di nulla, direi, perché la poesia è costruita senza alcuna costruzione, sembra nata già decostruita, già rottamata e buona per la pattumiera del non riciclo. Sembra quasi che l’autore di Candia Lomellina si diverta a produrre scarti non riciclabili, scarti inquinanti ma non tossici, scarti che aggiungono inquinamento a inquinamento, così, giocando spensierato e alleggerito da tutti i pesi, perché l’importanza di ogni cosa (non) è misurabile, e l’homo sapiens se ne sta lì «Lui e la sua coorte di oggetti»
A Roma, più che altrove, ma ovunque, sono un dislocato. A Roma più che in altri posti, ma ovunque, mi sento un flâneur.
E la prima domanda che si fa un individuo dislocato o che si percepisce come un dislocato, o come un flâneur, non è più «Chi sono?», ma
« Dove sono?».
Al mutamento della domanda fondamentale da «Chi sono?» a «Dove sono?» si va dal paradigma temporale a quello spaziale.
E’ ciò che è successo nel passaggio da I platani sul Tevere diventano betulle alle Storie di una pallottola. Lo spazio che prevale sul tempo. Lo spatial turn.
Leggo con piacere la tua anteprima critica, caro Giorgio, su REMAINDERS, che chiude una quadrilogia iniziata con L’Erba di Stonehenge (2016), seguita poi da In viaggio con Godot (2018), e Registro di bordo (2019). Sono lieto che essa faccia da Prefazione in questo mio ultimo libro già in prime bozze presso le Edizioni Progetto Cultura.
Cito qui un tuo passaggio critico dove ” Il trascendentale è la nuova comunicabilità intersoggettiva di un linguaggio de-soggettivizzato da algoritmo non più significativo a nuovo campo di possibilità espressive che tu trasponi e traduci in nuova comunicabilità intersoggettiva. Il trascendentale intersoggettivo della tua poiesis può significare l’idea della genesi della nuova condizione di possibilità in quanto condizione di possibilità di un campo di linguaggi denudati e mutilati che vengono dis-sepolti, dis-attivati e ri-attivati in un nuovo campo gestaltico qual è la poiesis.”
Sciogliere la rigidità di certe forme linguistiche deve essere prerogativa principale di ogni poeta che si addentri in una nuova task force linguistica, se si vuole veramente procedere ad un rinnovamento ontologico, attivando le differenze e le relazioni con altre culture, in modo da frenare l’invadenza di vecchie monografie psichiche, che non fanno altro che prorogare l’origine della personalità dalla quale deriva ogni spinta verso la convivenza con il Normale.
Un grazie e cordiali saluti. Mario.
In onore di Mario Gabriele maestro indiscusso della poetry kitchen.
Storia italiana del Covid19
X parte
Madame Bonjour fece capolino dal sipario adiacente alla camera degli ospiti.
Disse: «Wie steht es um dieses Nichts?»*
Dalla borsetta di coccodrillo uno stiletto appuntito
con il manico di madreperla istoriato da un drago amaranto
Prese a bighellonare nell’atrio
fin quando non incontrò una palla rossa con degli aculei.
«Sono il Covid19», disse la palla rossa.
«Das Nichts nichtet», interloquì Madame Hanska.
La trans Betty Nutella ebbe un attacco di asma
prima della copula con Anonimo veneziano.
Il nano Proculo si rivolse al suo collega Fasullo
sul far della notte.
«Il nulla non annienta non nega l’ente, anzi l’accompagna
nel suo presentarsi».
«Bisognerebbe interrogare il Nulla», pronunciò.
E tacque.
Non è una poesia che si scrive dall’oggi al domani. Credo che Giorgio abbia avuto tempi diversi nel protocollarla. Alla fine, per sintesi, e inserimenti pluringuistici, ne viene fuori un bel respiro di autentica griffe poetry kitchen.E’ questo il campo in cui bisognerebbe operare dando alla poesia una nuova forma e un nuovo equilibrio di elementi.
caro Mario,
devo ammettere che ogni volta che leggo le tue poesie scopro una grande affinità, una vicinanza stilistica tra il mio modo di fare e pensare la poesia e il tuo modo davvero eccellente di scrivere.
Di solito non sono avvezza a fare dei complimenti ma nel caso della tua poesia devo essere sincera e dichiarare con franchezza che, a mio avviso, tra i poeti europei che ho letto tu stai nei primissimi posti, e mi chiedo anche come succeda che in Italia un poeta del tuo livello non venga riconosciuto per quel che merita.
Il tuo stile è incentrato sulla interruzione, sul salto, sulla smagliatura semantica… insomma, non concede al lettore alcuna tregua e lo lascia sempre disorientato, stordito, inquieto, non gli fornisce alcuna risposta pacificatoria.
Con ammirazione
Marie Laure Colasson
gentile Marie Laure Colasson,
la tua nota mi risolleva di fronte al tempo che passa e inaridisce anima e corpo. La mia reazione a questo tipo di poesia, nella quale ti avvicini come un riflesso di luce, ravvisando una reciprocità di stile, sta nel fatto che la pluralità degli oggetti e dei soggetti, e le questioni irrisolvibili dell’esistenza, sono per me quesiti non traducibili, per i quali a decrittografarli ci vorrebbe un buon samaritano che non sono.
Apprezzo la tua poesia, non solo, ma quando Giorgio espone i tuoi acrilici, mi soffermo ammirando la tecnica del colore che mi porta in universi geometrici dove l’immaginazione ha diversi aspetti fisici e psichici. Auguri per il doppio lavoro artistico che svolgi in tempi in cui l’Arte ha bisogno di maggiore attenzione, ringraziandoti del gentile pensiero. Con cordialità, Mario Gabriele.
caro Mario,
Warhol diceva che «Più guardi la stessa identica cosa, più perde di significato, e più ti svuoti e ti senti bene».
È una annotazione interessante. Pensiamo alla Gioconda. Più la guardiamo più essa perde di significato. Come può avvenire questo fatto? Semplice, non è la Gioconda che è cambiata, siamo noi che guardiamo la Gioconda ad essere cambiati. E chi ha prodotto questo fatto? Semplice, è il nostro modo di vita che lo ha prodotto, esso richiede che guardiamo a tutto con la coda dell’occhio, mediante uno sguardo distratto, dinoccolato, mentre stiamo sul tram e gettiamo fuori dal finestrino uno sguardo sul traffico.
Oggi noi non sappiamo guardare in altro modo che con uno sguardo distratto. È una maledizione. Non sappiamo più guardare una cosa o una persona con uno sguardo diretto e fisso. Perche? Perché il mondo non ci interessa più, ovviamente…
È qualcos’altro che ci interessa.
Per Adorno l’arte dell’intrattenimento, la quale «viene amministrata, integrata, qualitativamente rimodellata dall’industria culturale» (Adorno, Teoria estetica, p. 24) ha ormai da tempo minato l’arte. Di fatto, tale situazione comporta che l’arte è «divenuta in amplissima misura un’impresa guidata dal profitto: un’impresa che prosegue finché rende e con sua perfezione aiuta a superare l’inconveniente di essere già morta» ( Ivi., p. 26).
Mario Gabriele, Francesco Paolo Intini, Marie Laure Colasson e Lucio Mayoor Tosi nei loro recentissimi lavori poetici, proposti da Giorgio Linguaglossa su L’Ombra delle Parole, suggellano, accanto alla definitiva messa in discussione della idea di letteratura, in generale, di poesia, in particolare, come sfera che offre esperienze essenzialmente intime, private, meditative, rarefatte, e come tali non direttamente accessibili al pubblico, una consapevolezza lucida di un mondo contemporaneo nel quale, invece, si assiste ad una inedita e intensa “circolazione”, una sorta di nuovissima osmosi tra sfera privata e sfera pubblica in modo tale che l’una compenetra l’altra e la modifica.
Ma in Intini e in Gabriele, in Mayoor Tosi e nella Colasson si coglie la presa di coscienza di ciò che nello spatial turn viene indicato come un nuovo ordin, «un nuovo ordine di instabilità nella produzione delle soggettività moderne».
Le cause di ciò sono molteplici (migrazioni volontarie o obbligate, contaminazioni d’ogni genere, globalizzazione, nuovi stati emergenti, ecc.) ma è chiaro che sempre di più si va diffondendo una nuova coscienza geografica multicentrica, decentrata, di fronte a immagini in movimento che incrociano quelli che la geocritica indica come «spettatori deterritorializzati».
Di fronte a questi nuovissimi fenomeni nei quali immagini e persone si sovrappongono in maniere spesso imprevedibili, e inattese, la poesia nuova che ne prende atto deve “inventarsi” il linguaggio adatto e la forza di questi quattro poeti, ( Intini, Gabriele, Colasson, Mayoor Tosi), sta nel fatto, assolutamente prezioso perché non facile, di essere riusciti a darsi questo linguaggio in grado di includere al suo interno mass-media e giornalismo, cinema e video, musica rock e folk, scienze umane e scienze dure, e altro…
Altro che l’Io della falsa vergogna novecentesca di essere poeta, altro che l’Io-centro-del-mondo-e-delle-storia della luna, del fiore, del cuore, del sole, dell’amore, fra emozionalità e assenza di pensiero, fra idillio, elegia, lirismo di pasta frolla…
L’energia e il ritmo dei loro pensieri è la forza interna dei versi dei quattro poeti Gabriele, Intini, Colasson, Mayoor Tosi i quali deridono dogmi, pregiudizi, false verità d’ogni tipo deridendo ogni forma di potere, come a dire che la poesia si rinnova con la «altra» poesia non dall’esterno della poesia. Qui si tratta di possedere in pieno, e in esso sapersi muovere, quello che diremmo l’umanesimo critico, l’unico in grado di restituirci la coscienza di un mondo non più confinato nei compartimenti stagni dell’arte, della cultura, della storia, della scienza, della religione, della filosofia, ma mischiato, confuso, vario, complicato dalla nuova e complessa compressione spazio-tempo.
Gino Rago