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Louise Glück, Premio Nobel per la poesia 2020, Poesie varie, Dialogo e valutazioni, La inadeguatezza della giuria svedese del Premio Nobel

Louise-Gluck

Louise Glück

Mario M. Gabriele

Giorgio,

che ne dici del Nobel dato a Louise Glück? Hanno premiato la poesia tradizionale confermando che altre strade non sono percorribili, mentre in Italia noi proponiamo la NOE con la Poetry Kitchen, la Poesia buffet, Pop-Spot, Pop-Bitcoin, e Pop-Jazz? Siamo da considerarci fuori gioco ? o siamo arrivati a frantumarci con i frammenti e a rivedere ogni cosa asfissiati da molti detrattori alcuni dei quali nei loro Blog non fanno che inquinare la nostra poesia?. Se la Nuova ontologia estetica è tutto questo bisogna stare attenti nel proporre testi decerebrali dando più risorse alla nostra poesia.

Giorgio Linguaglossa

caro Mario Gabriele,

che vuoi che ti dica? Il Nobel alla americana Louise Glück era nell’ordine delle cose dopo il passo falso del Nobel conferito a «Bob Dylan (poeta sui generis)», come scrive giustamente Guido Galdini. Inoltre, la giuria del Nobel è composta da persone che hanno una media di 85 anni, e a quell’età non c’è più voglia di rischiare, i gusti si sono consolidati e sedimentati, ogni novità viene vista con grande sfiducia se non con sospetto, e il risultato finale è questa immobilità del gusto complessivo della giuria; questa scontatezza delle sue scelte era ampiamente prevedibile, e pensare che negli Stati Uniti c’è un poeta che per diapason è cento volte superiore alla mite e timida voce di Louise Glück, un certo Charles Simic. Ma si sa che Simic è un poeta scomodo, visto come un protestatario, un intellettuale non propriamente allineato con l’idea di poesia che hanno i membri della giuria del Nobel che è quella un po’ vecchiotta e ammuffita di una ontologia poetica che vede la poesia come lirica un po’ sliricizzata quanto basta, una lirica che ha il suo focus sulle vicende dell’amore tradito e della umanità infingarda e fasulla.

Cosa vuoi che ti dica della poesia di Louise Glück? Mi sembra una poesia un po’ telefonata, certo ben scritta, con giri di frasi professionali ma con alcune cadute, anzi, con frequenti tonfi come quel verso:

Nessuna disperazione è come la mia disperazione…

che fa oggettivamente ridere. Si tratta di una vecchia e antiquata concezione della poesia, che comunque ci può stare, Louise Glück scrive le sue cose migliori negli anni ottanta e novanta, è una poesia che vuole essere esistenzial-quotidiana, una poesia d’amore (mi vengono i brividi…). Certo, in confronto Charles Simic è un gigante, ma si sa che i giganti danno fastidio, sono ingombranti, troppo ingombranti per l’attempata giuria del Nobel. Ma non mi sorprende questa incapacità, questa inadeguatezza, questo non essere all’altezza dei membri della giuria del Nobel ad esprimere dei verdetti sulla poesia contemporanea; il messaggio che si vuole dare con questa assegnazione nobiliare mi sembra molto ovvio ed evidente: la completa ininfluenza della poesia nel mondo contemporaneo, l’inadeguatezza della poesia ufficiale a parlarci dei problemi del nostro mondo; e leggendo le poesie di Louise Glück questo aspetto risulta evidente.

I cittadini del capitalismo globale sono consapevoli del fatto che la visione del mondo che abbiamo è distorta e dunque siamo tutti diventati dei «soggetti cinici». Questa nozione di soggetti come cinici la riprendiamo dal pensiero di Peter Sloterdijk, il quale avanza l’ipotesi secondo cui l’ideologia dominante sia essenzialmente cinica, ciò che rende inoperoso l’orientamento critico ideologico classico. Secondo Sloterdijk il «soggetto cinico» è consapevole e cosciente della distanza che c’è tra la maschera ideologica e la realtà sociale in cui vive, ma ciò non è sufficiente per far sì che non rimanga fedele alla maschera stessa. Allora, la formula marxista classica che definiva l’ideologia (non sanno quello che fanno ma lo fanno), deve essere corretta: «sanno benissimo quello che fanno, e tuttavia continuano a farlo». La differenza in gioco risiede nel fatto che la ragione di cui parliamo non è più ingenua poiché rappresenta il paradosso di una «falsa coscienza illuminata» (dizione di Slavoj Zizek); i soggetti della ragione cinica infatti sono del tutto consapevoli degli interessi particolari che si celano dietro l’universalità ideologica, cioè del fatto che l’ideologia della disperazione senza disperazione alcuna è l’ideologia dominante del nostro mondo post-ideologico e post-globale, l’ideologia che ci consente la falsa contezza della realtà delle cose, e tuttavia di agire in favore di questa falsa contezza; nonostante questo, nessuno di noi è disposto a rinunciare ai privilegi e ai vantaggi che una tale falsa visione delle cose implica. Ecco il punto. Ecco spiegata  l’ideologia dominante della disperazione senza disperazione alcuna che intride la poesia della Glück e le masse mediatizzate post-globali di oggi in pieno capitalismo globale in crisi. È l’ideologia del nostro tempo che si cura a base di aperitivi e di Roipnol. Siamo quindi giunti in un momento storico in cui dovremmo parlare di post-ideologia? Per rispondere  dobbiamo fare un passo indietro e ritornare al concetto di «fantasia ideologica», affinché si possa dimostrare come la ragione cinica, con il suo distacco ironico e istrionico, lasci comunque intatto il livello fondamentale della fantasia ideologica cioè il livello sul quale l’ideologia organizza la realtà sociale. È necessario quindi ritornare alla definizione marxista «non sanno di far ciò, ma lo fanno» per poi chiedersi se il luogo dell’illusione ideologica sia nel fare o nel sapere all’interno della realtà. Il che poi è la stessa cosa in quanto il cittadino del mondo globale agisce nella realtà a dispetto della sua parziale o totale contezza dell’ideologia che lo acceca. Questa ideologia della falsa disperazione è presente in amplissima misura nei romanzi omiletici e nelle poesie omiletiche che si fanno oggi in Occidente.
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Ma tutto ciò non significa che noi non dobbiamo continuare nel nostro lavoro di svecchiamento della poesia delle «società signorili di massa» del mondo occidentale, come sono state brillantemente definite da un economista italiano. La poesia di Louise Glück è il miglior ornamento che la società signorile di massa di oggi si può agghindare sul petto a mo’ di trofeo, è una poesia decorativa e funzionale alle attese del pubblico benestante mediatizzato e atrofizzato e in falsa coscienza che fa pubbliche donazioni ai poveri e agli orfanelli degli orfanotrofi e che vuole essere confortato, corroborato e consolato della propria falsa coscienza e del proprio squallore. Questa poesia corrisponde perfettamente al canone delle buone maniere e del buon apprentissage, come dire, della figura del poeta nell’organizzazione delle strutture della persuasione delle società signorili di massa.

La poetry kitchen è ovviamente un’altra cosa, la nostra poesia non ha nulla a che vedere con questo reliquiario di tematiche liturgiche, non abbiamo altra scelta che proseguire nel nostro lavoro, ben sapendo che troveremo ferree resistenze da parte della poesia istituzionale. Ma questo lo sapevamo già.

Poesie di Louise Glück

Mattutino

Padre irraggiungibile, quando all’inizio fummo
esiliati dal cielo, creasti
una replica, un luogo in un certo senso
diverso dal cielo, essendo
pensato per dare una lezione: altrimenti
uguale… la bellezza da entrambe le parti, bellezza
senza alternativa… Solo che
non sapevamo quale fosse la lezione. Lasciati soli,
ci esaurimmo a vicenda. Seguirono
anni di oscurità; facemmo a turno
a lavorare il giardino, le prime lacrime
ci riempivano gli occhi quando la terra
si appannò di petali, qui
rosso scuro, là color carne…
Non pensavamo mai a te
che stavamo imparando a venerare.
Sapevamo solo che non era natura umana amare
solo ciò che restituisce amore. Continua a leggere

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IL FRAMMENTO È COLMO DI ESSERE.  INTERPRETAZIONE FILOSOFICA DI UN SONETTO DI RILKE di PETER SLOTERDIJK. Una Riflessione di Letizia Leone

Rilke apollo-torso-

perché non v’è punto qui
che non ti veda. Devi cambiare la tua vita.

Peter Sloterdijk è un filosofo che nella riflessione estetica pratica un metodo creativo fatto di continui dètours, deviazioni, straniamenti e riconfigurazioni semantiche. L’oggetto artistico diventa il materiale da costruzione di un pensiero originale in grado di interpretare le istanze più complesse della contemporaneità. Vere e proprie esplorazioni in libertà che contemplano tutti i generi: musica, letteratura, poesia, architettura, design o Visual Culture con una profondità storica che va «dall’Antichità fino a Hollywood». Si potrebbe parlare di esplorazione circolare che ha il centro in ogni punto là dove l’architettura (con l’edificio del museo ebraico di Berlino, ad esempio) diventa il centro «di una critica della ragione partecipativa»; oppure la serie di film Terminator avvia considerazioni antropologiche sulla base di «una metafisica del cinema d’azione».

Nella prospettiva di Sloterdijk l’arte assume le sembianze di «forma eterodossa del sapere» senza eludere le domande istituzionali della filosofia dell’arte: l’interrogazione sul valore di autenticità dell’esperienza estetica oggi, il suo destino, la sua capacità di intervento nei problemi essenziali dell’umanità o la valenza della sua funzione critica. Quella dell’Arte resta comunque necessità ineludibile anche in tempi di capitalismo multinazionale e mediatico, anche se nell’esperienza estetica non stimoli più tanto l’aspetto storico di una storia dell’arte, ma l’orizzonte antropologico.  In questo il filosofo, in una acrobazia di prospettiva, auspica una storia dell’arte dei procedimenti, e cioè, «le condotte dell’essere umano storico». E sotto osservazione si pone la «difficile esemplarità dell’esercizio pratico di chi la produce, di chi la rilascia nel mondo».

Questo è un altro modo di guardare all’esperienza estetica.

Esercizio, esercizio, esercizio. Leggere, leggere, leggere. Si tratta di «ruotare il palcoscenico concettuale di 90° gradi» e ad una storia dell’arte delle opere e delle immagini rivalutare una storia dell’arte delle pratiche ascetiche che plasmano l’artista…Questo in fondo è un appello a ritornare a pensare dal linguaggio di una economia dominante che ha divorato ogni ambito del vivere. D’altra parte l’affermazione di Heidegger che l’essere che può venir compreso è linguaggio, implica la tesi per cui il linguaggio abbandonato dall’essere diventa chiacchiera.

Nel saggio di Sloterdijk Il comando dalla pietra la convocazione arriva dall’alto dell’opera d’arte, in questo caso una scultura di Rodin, un torso di Apollo vista dallo sguardo ecfrastico di Rilke. L’opera d’arte viene elevata al rango di «cosa» esemplare e comunicante.

Sotto l’influsso di Rodin, il poeta elabora infatti un pensiero estetico che esalta «la preminenza dell’oggetto», il concetto di Ding-Gedicht, poesia-cosa: «da quel momento tutta l’autorità doveva promanare dalle cose stesse, o meglio, da questa cosa singola di volta in volta presente, che si rivolge a me nel momento in cui esige il mio sguardo interamente. Ciò è possibile soltanto perché adesso l’essere-cosa finisce per non significare altro, di per sé, che avere qualcosa da dire».

Il frammento è carico di informazioni e necessita del poeta «in qualità di decoder e latore».

Allora andiamo a leggere la poesia rilkiana del 1908 dedicata al torso arcaico di Apollo, (una cosa, il resto di una scultura intera, un frammento, una vista incompleta, un torso isolato) nella ermeneutica destabilizzante di Sloterdijk. Il monito del verso di Rilke, Devi cambiare la tua vita, è invito alla tensione verticale di modificare il proprio modo di vivere. Accedere allo statuto del saggio. Chiamata di responsabilità etica ed estetica.

[Frammenti da “Il comando dalla pietra” (in P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita, Raffaello Cortina Editore, 2010)]

Foto con quadrato neroReiner Maria Rilke

Il torso arcaico di Apollo

Non conoscevamo il suo capo inaudito
in cui maturarono i pomi oculari. Ma
il suo torso ancora arde come un candelabro,
dove il suo sguardo, ormai scorciato,

si conserva e risplende. Non potrebbe sennò la curva
del suo petto abbagliarti, e scorrendo la torsione delicata
dei lombi non riuscirebbe un sorriso a posarsi
su quel luogo centrale cui spettava la procreazione.

Sarebbe sennò deforme questa pietra e corta
sotto lo spiovere invisibile delle spalle,
e non tremolerebbe come pelo di belva feroce;

e non irradierebbe da ogni suo contorno
come una stella: perché non v’è punto qui
che non ti veda. Devi cambiare la tua vita.

Rainer Maria Rilke
Archaischer Torso Apollos

Wir kannten nicht sein unerhörtes Haupt,
darin die Augenäpfel reiften. Aber
sein Torso glüht noch wie ein Kandelaber,
in dem sein Schauen, nur zurückgeschraubt,

sich hält und glänzt. Sonst könnte nicht der Bug
der Brust dich blenden, und im leisen Drehen
der Lenden könnte nicht ein Lächeln gehen
zu jener Mitte, die die Zeugung trug.

Sonst stünde dieser Stein entstellt und kurz
unter der Schultern durchsichtigem Sturz
und flimmerte nicht so wie Raubtierfelle;

und bräche nicht aus allen seinen Rändern
aus wie ein Stern: denn da ist keine Stelle,
die dich nicht sieht. Du mußt dein Leben ändern.

Lo sguardo del poeta sul corpo mutilo non ha nulla a che fare con il romanticismo del frammento e delle rovine, tipico del secolo precedente, ma indica come l’arte moderna esplori il concetto di oggetto che racconta se stesso con autorità e il concetto di corpo che comunica se stesso mediante un potere effettivo. Continua a leggere

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Le conseguenze sulla Poiesis della ontologia positiva, Peter Sloterdijk, La microsferologia, Mikrosphärologie, lo sviluppo degli spazi dell’intimità e dell’interiorità, La poesia posiziocentrica dell’io, Poesie di Milaure Colasson, Francesco Paolo Intini

Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa, L’essere è ciò che si dice

Può sembrare una annotazione minimal, laterale. Avevo letto quella definizione di «ontologia negativa di Heidegger: “l’essere è ciò che non si dice”», tanti anni fa. E non ero riuscito a capire tutta la portata che conteneva. Poi, leggendo alcuni filosofi di oggi e, in particolare, L’aporia del fondamento (2009) di Massimo Donà, mi sono reso conto che la scoperta di essere giunti ad una ontologia positiva: «l’essere è ciò che si dice», ha conseguenze rivoluzionarie anche sui linguaggi artistici. È stato come un fulmine.

Allora, ho ripensato a tutti i miei tentativi poetici di questi ultimi 35 anni, e tutto mi si è fatto chiaro: la ricerca di un nuovo modo di espressione, che sia sul piano delle arti figurative, musicale e letterario, non può non poggiare su questo punctum fermissimum: l’ontologia positiva.

Mi meraviglia che questo piccolissimo assunto sia sfuggito ai commentatori della rivista, ma qui siamo veramente alla presa di coscienza di una rivoluzione copernicana delle pratiche artistiche.

– l’Essere è ciò che si dice

– è la Circolarità Ermeneutica che presiede il dialogo;

– è il dialogo che apre alla soluzione problematologica;

-il dialogo è l’essenza della poiesis;

– l’incontro è sempre un incontro con l’Altro, l’Altro e l’alterità sono componenti essenziali della poiesis;

– “θεραπεύεσθαι δὲ τὴν ψυχὴν ἔφη, ὦ μακάριε, ἐπῳδαῖς τισιν, τὰς δ’ ἐπῳδὰς ταύτας τοὺς λόγους εἶναι τοὺς καλούς” “L’anima, o caro, si cura con certi incantesimi, e questi incantesimi sono i discorsi belli” Platone nel Carmide – 157/a;

– “Il linguaggio è la casa dell’essere e nella sua dimora abita l’uomo”, Martin Heidegger;

– “L’essere, che può essere compreso, è linguaggio”, H.G. Gadamer;

– la relazione è fatica ed implica che “dire è u-dire”, Umberto Galimberti.

Foto selfie Jack NicholsonMilaure Colasson

Vert de l’ eucalyptus
Rose pale de la rose
Dans la transparence
D‘ un petit verre d‘ eau de vie
Sous l ‘ éclairage d ‘ une lampe de chevet
Sérénité

Oiseaux noirs des campagnes
Leurs cris étranglés
Les corbeaux

La mélancolie sonore
D‘ Erik Satie
Te vide de toute pensée
………………écoute

Une bande de rats
Vêtus de jeans troués
Fumaient des havanes
………pas des prolétaires

Perdre la vue
Michel Onfray
Comment dormir
Comment……………
Comment………………….. 

*

Verde dell’eucalipto
Rosa pallido della rosa
Nella trasparenza
d’un bicchierino  di acquavite
sotto la luce della lampada accanto al letto
Serenità

Uccelli neri delle campagne
le loro grida soffocate
I corvi

La malinconia sonora
D’Erik Satie
Ti svuota di ogni pensiero
….. ascolta

Un branco di ratti
vestiti di jeans bucati
fumavano degli avana
……..non proletari

Perdere la vista
Michel Onfray
Come dormire
Come………..
Come………..

(Traduzione di Edith Dzieduszycka)

Francesco Paolo Intini

[Le visceri di Cartesio]

                                   (a proposito della poesia di Marina Petrillo)

Rimase immobile tentando di mangiarsi le visceri
Non s’era mai visto una bottiglia prendere sul serio

La dannazione della propria anima
e rigirarla a perfezione,

Il tempo fa giochi di concia
poi passano le condanne a lasciare

Argomenti che diventano Si o No.
Essere cristallo, una risposta semplice al nulla.

Lo sguardo impietrito di Dio dal cielo di Michelangelo
l’immortalità e la damnatio del lavoro.

Si va per catene di montaggio fino al quarto cielo
Qui si attendono istruzioni su come interpretare le fondamenta.

Alzano la mano i poveri di spirito. Paolo è atterrito.
Gli altri rimangono nella contestazione.

Questa volta non c’è nulla da trasformare
Gli esperimenti dunque non hanno senso.

Azzerare tutto è improbabile
Si viaggia per teoremi su come eliminare la memoria.

La termodinamica non sbaglia un colpo.
Rimane solo l’osservatore dunque e il gioco fittizio di parole.

Ricostruire le possibilità dopo averle divorate
dove c’era lo spazio si metta il tempo.

Tra le quattro forze se ne trovi una
che dia impulso ad un istante

Essere uguale Nulla
Nulla che diventa Essere.

Facciamo un accenno al filosofo tedesco Peter Sloterdijk il quale svolge un discorso in molteplici excursus attingendo alla letteratura, alla psicanalisi e alle diverse forme d’arte figurativa, guardando all’arte non come qualcosa di omogeneo e fondato, non più possibile per la nostra epoca, ma come ciò in cui può ritrovarsi un atteggiamento autopoietico che non si lasci invischiare nella transitività dell’azione produttiva e del pensiero rappresentativo e dia mostra di sapersi convertire in una prassi esemplarmente decentrata e oblativa.
Il discorso di Sloterdijk è importante perché fornisce una sponda filosofica alla ricerca della nuova ontologia estetica per un’arte che non corrisponda più alla classica convenzione di una forma d’arte rappresentativa.
La poesia italiana, se vuole rinnovarsi, non può non prestare ascolto alla filosofia di oggi.

«Sloterdijk sostiene che in ambito estetico «l’opera d’arte può ancora dire qualcosa perfino a noi, che abbiamo disertato la forma, perché essa, in
maniera del tutto palese, non fa propria l’intenzione di opprimerci».1
I titoli dei volumi mostrano fin dall’inizio un’attenta sensibilità per le immagini materiali discusse nell’analisi psicanalitica del filosofo francese Gaston Bachelard, le cui opere vengono citate direttamente da Sloterdijk come una delle fonti principali dell’immaginario da cui vengono estratti i concetti psichici e filosofici di sfere. 2

La matrice dell’immagine è il fondamento del pensiero con cui Sloterdijk sviluppa il suo discorso, e lo accompagna per tutta la sua opera. Dalle immagini archetipiche, Sloterdijk ritrova un tesoro di espressioni da cui il pensiero attinge mantenendo sempre una visione d’insieme mediata dal vissuto psichico della dimensione inconscia. Sloterdijk attinge in diversi modi e tempi a tutta l’esperienza umana e non, contraddistinta, nel suo aspetto
essenziale e più accademico, da una ripresa ed estensione del volume heideggeriano Essere e tempo, per completare quel lavoro di ricerca del dove, che a detta dell’autore Heidegger ha interrotto bruscamente, preferendogli un chi. Sloterdijk quindi si preoccupa prima di tutto di fondare un
Essere e Spazio, e di farlo non solo attingendo alla filosofia e alla poesia, ma anche, tra gli altri, alla psico-ontologia di Jung. 3

Il suo scopo risulta nella presentazione di una filosofia ibrida alla ricerca di un fondamento archetipico oggettivo comune a tutti gli uomini, che ricalchi allo stesso tempo tutta la storia dell’Homo Sapiens, intesa come storia degli spazi psico-ontologici, dai primi sussulti di vita dell’embrione nell’utero materno ai grandi eventi cosmologici, trasformatori dei luoghi umani.

Il filosofo di Karlsruhe riprende l’immagine della sfera introducendo la sferologia (Sphärologie): lo studio di tutta l’esistenza umana, (pre-)individuale e collettiva, intesa come forma psicoantropologica sferica. Nella sferologia vengono distinte tre aree di studio, una per ogni volume.

La microsferologia (Mikrosphärologie) è lo sviluppo degli spazi dell’intimità e dell’interiorità, chiamati bolle, ricercati a partire dall’unità originaria prenatale tra embrione e grembo materno, precedente la costituzione di un vero e proprio soggetto. Sloterdijk si concentra qui brevemente sul noggetto (Nobjekte), una nuova classe ontologica di oggetti introdotta dal collega Thomas Macho, per indicare il rapporto mediale e bipolare che interessa il soggetto non ancora formatosi. Una relazione archetipica che va oltre la fenomenologia, esplorata attraverso la mistica indiana e la psicologia prenatale, che offre la struttura originaria su cui si modellerà poi la costituzione psichica dell’individuo e la sua esistenza nel mondo.
[…]
La prerogativa dell’immaginale è particolarmente rilevante qui, dato che Jung, Bachelard e Sloterdijk, ma anche Nietzsche e Heidegger, parlano e raccontano con immagini non nel senso di metafore o allegorie, ma di realtà effettive che formano direttamente l’esperienza del mondo del soggetto.
L’immagine è incorporazione del reale, nella propria I interiorità come nel mondo esterno.5
[…]
Tra le immagini dell’archetipo del Sé legate alla terra, si vedrà che in particolare sono i motivi materni a sorgere. Questo perché, come già sosteneva
Jung, l’archetipo si sviluppa nello spazio attraverso il comportamento animale, come pattern of behaviour , una delle definizioni che ha sviluppato in particolare la collaboratrice e psicanalista Jolande Jacobi.
In perfetto parallelismo con Sloterdijk, che riprenderà lo stesso discorso, l’uomo riceve l’impressione archetipica del rotondo a partire da reminiscenze inconsce prenatali.
Dall’utero materno, esperito attraverso l’unione mistica e il processo di individuazione, si ricava la forma originaria per organizzare l’abitare umano.
Il tutto viene esposto sulla base dell’unus mundus, cioè la corrispondenza psichica tra soggetto e oggetto, interiorità ed esteriorità, una medialità di completa co-interdipendenza e relazione estetica tra singolo, paesaggio e mondo, microcosmo e macrocosmo. Continua a leggere

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Tenere aperto il Tempo: il museo e la parola. Daniel Libeskind,  Peter Sloterdijk e tre poesie di Paul Celan. Un appunto sulla Memoria di Letizia Leone

Auschwitz Ingresso

Auschwitz Ingresso

Il museo è lo Jüdische Museum di Daniel Libeskind, la parola è la poesia di Paul Celan. L’ approccio analogico teso a illuminare ambiti apparentemente lontani tenta di ricontestualizzare il discorso sulla Memoria nell’ «illeggibilità di questo mondo» in sintonia con il pensiero di Primo Levi, là dove il male assoluto dell’Olocausto rientra negli eventi inspiegabili e incomprensibili. E si cita Primo Levi tra coloro che non riuscendo a richiudere il tempo, la frattura incandescente del trauma, hanno drammaticamente scelto il suicidio.  Come Paul Celan che nell’aprile del 1970 si getta dal ponte Mirabeau nelle acque della Senna.

Illeggibilità, eppure oggi anche oblio della memoria, semplificazione ed estremismo: «La nostra è effettivamente un’epoca di estremismi. Viviamo sotto la minaccia continua di due prospettive egualmente spaventose, anche se apparentemente opposte: la banalità ininterrotta e un terrore inconcepibile». (S. Sontag)

Che cos’è la banalità che Hannah Arendt referta filosoficamente nella sua diagnosi di un’epoca? Non l’ovvio, ma l’assenza di idee sulla vita e le cose, l’ottusità. Eichmann, questo Lucifero assimilabile al nostro vicino di casa «non capì mai cosa stava facendo, (…) non era uno stupido; era semplicemente senza idee (una cosa molto diversa dalla stupidità) e tale mancanza di idee ne faceva un individuo predisposto a divenire uno dei più grandi criminali di quel periodo».  

Ora se «l’opera di Celan, nel suo insieme, forma una massa ancora largamente oscura e impenetrata», (Giuseppe Bevilacqua) il Museo di Libeskind è l’unico edificio al mondo a non avere un accesso, una porta, sebbene le facciate siano attraversate in modo obliquo da tagli, lacerazioni o i buchi di 1500 finestre una diversa dall’altra…cesure, ferite. Vuoto solido e spazio inaccessibile, una vera e propria rifondazione architettonica nel modo di concepire la grammatica dello spazio, “Between the lines” (fra le linee), come suggella il titolo del progetto del museo.  Un edificio a forma di linea spezzata, zigzagante. Un fulmine precipitato nel cemento. Il polacco Libeskind ha scritto: «Il concetto di base è molto semplice: costruire un museo intorno a un vuoto che permei di sé l’intero edificio e sia fisicamente avvertito dai visitatori». Sottrarre alla circolazione, sottrarre alla leggibilità ciò che è indicibile. Gioco della massa con il vuoto. «Between the lines» potrebbe essere una definizione adattabile al verso di Paul Celan? Tra le linee.  Tra filo spinato e corona di spine…

La spina che diede il segnale d’inizio / Cresce attraverso le culle  

Spaesamento, decentramento. Il vuoto, il non-dicibile, il silenzio che smonta la linearità del verso.

E si pensi al silenzio, alla mancanza di parole tra Celan e Heidegger il 25 luglio 1967 a Todtnauberg nel loro incontro epocale:

nella Hutte,/ la riga del libro/ – quali nomi ha accolto/prima del mio? – la riga/ in questo libro/inscritta di/ una speranza, oggi,/ dentro il cuore, per una/parola/a venire/ di un uomo di pensiero,/ prati silvestri, umidi e in dislivello,/ orchidea e orchidea, una ad una,/ parole crude, più tardi, in viaggio,/ senza veli,/ chi ci guida, l’uomo,/ ascolta anche lui,/ percorsi a metà/ i sentieri di tronchi/ nell’alta torbiera,/ umido,/molto.

(Paul Celan, Todtnauberg)

bertolt brecht il binario che porta ad Auschwitz

il binario che porta ad Auschwitz

Il fallimento della parola tra il filosofo dell’Essere e il poeta della Todesfuge, il poeta che ha innalzato il più alto monumento lirico della Shoah in lingua tedesca.  

Chissà se l’architetto al quale è stato conferito l’incarico della costruzione del museo ebraico di Berlino si sarà confrontato con la poesia di Celan quando si è trattato di pensare una nuova poetica dello spazio. Perché Libenskind ha smontato le categorie architettoniche.

Peter Sloterdijk in un saggio sull’arte di Lebenskind chiarisce il proposito dell’Imperativo estetico sotteso alla costruzione dello Jüdisches Museum:

«Se l’edificio museale libeskindiano è potuto diventare un mito in breve tempo, ciò è stato possibile soprattutto perché, attraverso la presenza di voids, quegli spazi vuoti e cavi che tagliano la costruzione secondo un ritmo segreto, vi si dischiude nella sua più sensibile evidenza una differenza della quale tutti gli altri edifici hanno solo una cognizione implicita.

Si potrebbe arrivare a pensare che, attraverso forze tettoniche anomale, gli scantinati siano stati sollevati al di sopra delle linee del pavimento, come se non volessero più a lungo rassegnarsi al loro status sotterraneo. Al secondo sguardo diventa chiaro che non si ha a che fare con scantinati impazziti, e neanche con la proiezione di un ipotetico inconscio architettonico. In effetti i voids libeskindiani articolano un evento che riguarda la grammatica dello spazio: essi vanno a toccare non solo il mito del Master Plan, ma anche la dogmatica relativa alla visione d’insieme e alla percorribilità ininterrotta di uno spazio-ambiente interamente costruito.

Se la storia lasciasse crescere edifici, dovrebbe mantenere aperti –o meglio, liberi – in essi spazi che rimarrebbero inaccessibili e inabitabili. A chi, in quanto parte in causa della storia dell’ebraismo europeo del XX secolo, pensa in modo nuovo lo spazio, deve interessare che sia salvaguardato il ricordo di avvenimenti che non possono rientrare nella piena disponibilità degli abitanti. È impossibile abitare nella Grande Sciagura – e nondimeno in una casa nella quale la storia manda in frantumi i cristalli, si deve trattenere nella presenza una dimensione che tenga conto di questa inabitabilità. Interpretati su questo piano, i voids incarnano il simbolismo dell’assenza. Essi configurano una radicale messa in forma del mondo dei morti dentro il mondo dei vivi. Ma poiché manca loro la convivialità e la comunicatività che possono annettersi comunemente a una tomba, essi alludono a maggior ragione ai non sepolti, a coloro che scomparvero nella catastrofe senza lasciar traccia. I voids si possono pertanto leggere come manifesti irenici.

Se i comuni cimiteri –  stando al loro nome tedesco – rappresentano delle enclave protette da muri di cinta all’interno dello spazio sociale, nelle quali i morti e i viventi si possono incontrare in una remota prossimità, gli spazi lasciati liberi formano in Libeskind in una certa misura delle enclave ontologiche e dei metacimiteri che conferiscono una forma all’impossibile commercio tra i viventi e le vittimi della Grande Sciagura. Essi incarnano la severa pace di una memoria del non rappresentabile. In questo senso, configurano una via d’accesso ebraica alla cifra del sublime. Gli spazi vuoti permettono a ciascun osservatore di vedere i confini dell’osservare stesso: con giustizia sublime essi respingono ogni avvicinamento e trattengono tutti i visitatori nella medesima distanza; nessun singolo si può appropriare di questi spazi e farne il proprio punto di osservazione. Né l’architetto, né  alcun altro interprete privilegiato della storia hanno accesso a questi spazi dell’assenza. Proprio per questo i volumi vuoti si offrono come un modo per partecipare di qualcosa che di per sé si sottrae alla partecipazione.

Sottraendo alla circolazione alcuni volumi del suo edificio, Libeskind modifica l’esperienza degli spazi accessibili. In tal modo rende chiaro che il significato dell’architettura non può mai limitarsi all’applicazione di geometrie tridimensionali a contenuti umani. In quanto tale, lo spazio abitato dagli uomini viene svelato come grandezza polisemica…Proprio in quanto spazi-di- nessuno i voids sono spazi per qualcuno. Essi marcano il dominio dello straordinario, nel quale i morti sono chiamati alla coesistenza.»

Paul Celan trattiene nella presenza del suo fare poetico la stessa dimensione di inabitabilità, di indicibilità, là dove il visibile si oppone all’invisibile aprendo alla vertigine dell’abisso o dell’Enigma. Nelle ultime poesie, in «quell’eloquente, grandioso ammasso di rovine che gli ultimi libri ci pongono sotto gli occhi» (…)  si sfiora la negazione della parola stessa nella lucidità straniante delle immagini: uno starà a testa in giù nella parola “basta!”… lì accanto, nella fanghiglia,/ancora s’attorcigliano/ parole dette… Continua a leggere

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LETIZIA LEONE: LA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA – Due poesie di  Mario Gabriele e Giorgio Linguaglossa con un Commento aggiunto di Giorgio Linguaglossa

 locandina antologia 3 JPEGLetizia Leone

Commento a due testi di Mario Gabriele e Giorgio Linguaglossa

Parlare di nuova ontologia estetica significa conferire alla poesia portata ontologica, se concordiamo con Vattimo nel pensare che ontologia altro non è che interpretazione della nostra condizione o situazione, giacché “L’essere non è nulla al di fuori del suo “evento”, che accade nel suo e nostro storicizzarsi”. Ma al nostro orizzonte pertiene anche la fine di una idea di Storia come processo unitario, là dove ogni ideale di progresso si svuota dall’interno, non “C’è una storia unitaria portante, ma disseminazione delle Storie, i “centri” si sono moltiplicati, così come insufficiente risulta l’idea di tempo lineare e progressivo. Inoltre sono convinta che l’esperienza post-metafisica della Verità è una esperienza estetica e retorica, come afferma Heidegger, per questo le categorie sulle quali una nuova ontologia estetica deve muoversi e riflettere sono molte, sempre in riferimento a quella che è l’esperienza poetica e magari partendo da testi esemplificativi. Così come avviene sulle pagine dell’”Ombra”.
A questo proposito propongo questa mia parziale lettura di due testi esemplari che offrono l’opportunità di fissare alcune considerazioni sul frammento e l’estraneità: La notte celò i morsi delle murene di Mario Gabriele e Il corvo è entrato dalla finestra di Giorgio Linguaglossa.

Onto Gabriele

Mario M. Gabriele nella grafica di Lucio Mayoor Tosi

Mario M. Gabriele

(da L’erba di Stonehenge, Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016)

(3)

La notte celò i morsi delle murene.
Tornarono le metafore e gli epistemi
e una folla “che mai avremmo creduto
che morte tanta ne avesse disfatta”:
Wolfgang, borgomastro di Dusseldorf,
Erich, falegname in Hamburg,
Ruth, vedova e madre di Ehud e di Sael,
Lothar e Hans, liutai.

Questa è la casa: -Guten Morgen, Mein Herr,
Guten Morgen-, disse Albert.
Qui curiamo le piante e le orchidee,
offriamo sandali e narghilè ai pellegrini
in cammino verso Santiago di Compostela.
Sui gradini dell’Iperfamila,
tra stampe di Kandinskij e barattoli di Warhol,
Moko Kainda sognava l’Africa di Mandela.
-“Doveva essere migliore degli altri
il nostro XX secolo”- scriveva Szymborska,
tanto che neppure Mss. Dorothy,
chiromante e astrologa,
riuscì a svelare le carte del futuro,
né Daisy si dolse del sole africano,
ma dei muri che chiudevano
le terre di Samuele e di Giuseppe.
E non era passato molto tempo
da quando Margaret e Jennifer
(che pure in vita dovevano essere
due anime perfette e pie),
volarono in cielo.

L’alba illuminava gli angoli bui, gli slums.
Era ottobre di canti e heineken
con la foto della Dietrich sul Der Spiegel.
Riapparve la luce,
ed era tuo il lampo sulle colline
bruciate dall’autunno.

Ma è malinconia, mammy,
quella che ha preso posto nella casa
dove neanche le preghiere ci danno più speranza.
Fuori ci sono il drugstore e il giardino degli anziani,
l’eucaliptus e il parco delle rimembranze,
la guardia medica per il tuo tremore Alzheimer.

Fra poco la neve coprirà il poggetto.
Ci sarà poco da raccontare
a chi rimane nella veglia,
dove c’è sempre qualcuno
che parla della lunga barba di Dio
come una cometa
nella notte più silente dell’anno,
quando il gufo da sopra il ramo
sbircia il futuro e vola via.

Giorgio Linguaglossa nella grafica di Lucio Mayoor Tosi

Giorgio Linguaglossa

(da Risposta del Signor Cogito inedito, 2014)

Il corvo è entrato dalla finestra

Il corvo è entrato dalla finestra.
Una stanza. Atelier del pittore.

C’è solo l’ombra del pittore distesa sul pavimento.
Un cavalletto e una tela bianca.

Il pittore dipinge il mare e un sole livido.
Il sole prende vita dal quadro e se ne va.

Nel quadro è rimasto solo il mare.
Anche il mare se ne va.

E resta un abito in gessato bianco in una barca
che rema verso una proda.

Ma la stanza è vuota, il mare non c’è.
Il Campari rosso è nel calice di cristallo

che il Signor K. sorseggia.
[…]
Osservo il suo pomo di Adamo, che va su e giù.
Un’ombra bianca si guarda il volto nello specchio.

Nello specchio il calice del Campari. E l’ombra.
Ombre bianche escono dalla tromba delle scale

(al trentunesimo piano della Fifth avenue)
nascono dal cimitero chiamato terra

e vanno verso il mare. Si spogliano nude.
Entrano nel mare. Bevono il sonno a sazietà.
[…]
Le ombre nere bevono il sonno bianco.
Le ombre bianche bevono il sonno nero.

Il direttore d’orchestra ripiega le sue ali nere
dietro le spalle, e chiede al musicista:

«Suonate qualcosa, Signore?».
«Non c’è nessuno qui, sono tutti

[…]

morti». «Non posso suonare».

Finestre buie, Finestre nere. Porte buie. Porte nere.
Non c’è musica. Brusio di fondo.

Il musicista imbraccia l’archetto.
Il violino si avvicina al fuoco.

Tra poco dalla finestra entrerà il ghiaccio.
[…]
Bussano a una porta. La maniglia di ottone
gira con un flebile stridio: è il Signor K.

«Vostra Grazia…».
Il Campari si dirige verso le labbra del Signor K.

L’archetto cammina verso il violino
le mie dita corrono verso l’archetto.

Il fuoco incespica, s’impenna, li insegue,
tra poco li raggiungerà.
[…]
«Quale “capriccio”, Vostra Grazia?».
«Paganini, l’ultimo, il ventiquattresimo».

In poeti della statura di Mario Gabriele e Giorgio Linguaglossa, diversi per stile ed esperienze ma accomunati da una sorta di gioia sperimentale, la valorizzazione del frammento è calata nella complessità di una progettualità filosofica, anzi per meglio dire “fenomenologica” della Poiesis. Una fenomenologia qui intesa come concetto di metodo, come procedimento basato sul distanziamento psicologico.

Antonio Sagredo Letizia Leone sorridono 2

Letizia Leone e Antonio Sagredo, Roma, 2017

In linea generale L’io lirico emozionale, categoria obsoleta, ha abdicato a favore di un congegno ottico neutrale fluttuante e decentrato: da qui la configurazione di modalità espressive nuove. Il sentiero è quello di una poesia che parta da una posizione di neutralità rispetto ai concetti di “oggetto” e “soggetto”, una poesia che non risulti affatto consolatoria ma tendente ad inasprire la relazione di estraneità con il mondo. Scrive a proposito Linguaglossa: “Partecipe di un movimento animato da un’assenza, il poeta non solo si troverà così a scrivere in un’assenza, ma a diventare soggetto all’assenza”.

Ecco prefigurata l’epoché filosofica, la “sospensione del giudizio” insieme alla sospensione sentimentale ed emozionale quale motivo ispiratore della modernità:
“Negli anni, la fenomenologia si appropria anche delle immagini in movimento (…) agli universi interiori della rappresentazione (e) ben presto si accorge anche della permanente creazione cinematografica da parte della coscienza e trarrà la conclusione che ciò richieda una specifica analisi filmica, la quale si presenta come teoria della coscienza interna del tempo. Le immagini di cui parliamo vengono catturate con una fotocamera noetica. Quando le pellicole sono impressionate e tolte dagli acidi della contemplazione interiore, le fotografie ottengono uno status filosofico rilevante anche dal punto di vista archivistico e museale: nell’esercizio più importante di tutti, quel che conta è sviluppare le immagini tratte dall’esistenza in quanto fenomeni.” (Peter Sloterdijk)

Ecco le immagini come fenomeni nei testi di Gabriele e Linguaglossa.
E se è vero che la poesia tende a mediare la coscienza complessa del proprio tempo, questa in particolare è poesia speculativa, marchiata dalla fine di ogni pensiero antropocentrico, unitario e sistemico; è poesia aperta, in movimento dove i frammenti lirici disseminati nel flusso caotico dei materiali testuali articolano una mappa di stimoli, straniamenti, atti a far emergere una Stimmug, un Mood, uno stato d’animo.

Uno stato d’animo addirittura molto vicino a quello che Heidegger in Che cos’è la metafisica ridefinisce come Angst (Angoscia), la condizione emotiva che apre la comprensione del niente: “angoscia è sempre angoscia di…, ma non di questo o di quello. L’angoscia di… è sempre angoscia per…, ma non per questo o per quello. Tuttavia, l’indeterminatezza di ciò di cui e per cui noi ci angosciamo non è un mero difetto di determinatezza, bensì l’essenziale impossibilità della determinatezza”.
«Tutte le cose e noi stessi affondiamo in una sorta di indifferenza»;
«Nel dileguarsi dell’ente, rimane soltanto e ci soprassale questo “nessuno”. L’angoscia ci rivela il niente»;
«Nello stato d’animo fondamentale dell’angoscia noi abbiamo raggiunto quell’accadere dell’esserci nel quale il niente è manifesto, e dal quale si deve partire per interrogarlo»;
Il mondo dilegua nel non-senso, nella non-significatività e allora l’angoscia si rivela in quanto “emergenza” del niente. Si può allora affermare che per certi versi, i due testi in esame, parlano di Spettri? I resti spettrali di una tradizione umanistica andata in frantumi?

La storia delle cose comincia dai loro spettri. La morte garantisce loro un tempo che va oltre la storia: esso inizia nelle necropoli preistoriche, tra i miseri resti di utensili, armi, attrezzi, vasellame, sparpagliati intorno ai fantasmi di uomini e donne che fluttuano leggeri su mucchietti di ossa polverose. Là dove s’intravedono evanescenti larve, gli oggetti continuano implacabili a narrare, nel loro linguaggio segreto, vicende che si perdono nella profondità del tempo…

Intorno ad essi aleggiano ancora gli spettri di coloro che li usarono nel corso di una vita, alla quale essi sopravvissero con l’indifferente invincibilità delle cose… Le energie tipicamente umane del bisogno e del desiderio aleggiano intorno a loro, ma come instabile memoria, segno indecifrabile di una storia che essi hanno interpretato da protagonisti, prima di svanire nell’ambiguità di un’apparenza, sempre pronta però a offrire a chiunque i propri servigi. (Maurizio Vitta, Le voci delle cose, Einaudi 2016).

Queste considerazioni riferite agli oggetti d’uso, possono essere riferite anche agli oggetti spirituali, (tracce spettrali, Ombre bianche, Ombre nere, inserzioni citazionistiche, larve di memoria, “apparenze sempre pronte ad offrire i loro servigi”) che emergono nottetempo dai sepolcri umanistici… Ad esempio il patrimonio dei classici, mera merce artistica e culturale alla quale ormai è riservato un destino museale. L’ “Inverno della cultura” è l’impossibilità della trasmissione e dell’assimilazione, è la fruizione pubblicitaria, collezionistica, superficiale, sepolcrale, citazionistica.

Così nella poesia di Mario Gabriele una sorta di metrica cinematografica configura il testo come una concentrazione di citazioni implicite e frammentate. L’articolazione intemporale e incantatoria snoda una sorta di recitativo di allusioni eliotiane, o per meglio dire interferenze, nell’accelerazione anonima ed incoerente degli eventi. Finita l’ispirazione e gli stimoli alla creazione di una grande letteratura, al “poeta dell’assenza” restano le apparenze, le ombre spettrali, il cabaret dei lustrini e dei detriti letterari.
Mentre Linguaglossa aggancia il lettore con la torsione surrealista dell’Ekphrasis.
“Il corvo è entrato dalla finestra” in un gioco di specchi, rifrazioni e allusioni effimere: i canoni estetici della rappresentazione tradizionale falliscono e anche “il mare se ne va” esce dal quadro, abbandona la scena. L’arte era truccata…il Campari, il“Capriccio”, l’ultimo…il ventiquattresimo. Creare una Stimmung come sottofondo musicale, l’Angoscia, per un dialogo “autentico” con gli spettri…

Alfredo de Palchi Sabino Caronia, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Commento di Giorgio Linguaglossa “La poetica del vuoto del Dopo Il Moderno” di Mario M. Gabriele

Credo che nella situazione del Dopo il Moderno alla poesia non rimanga altro da fare che sopravvivere in attesa di tempi migliori. È questo l’assunto di base della poesia di Mario Gabriele, un poeta della periferia, relegato nello sperduto Molise, a Campobasso, lontano dagli echi delle fucine poetiche di Roma e di Milano. In questa condizione, allontanatisi gli echi dello sperimentalismo novecentesco e le ipotesi di mini canoni che, tra l’altro, nel Sud non avrebbero ragione di essere, per Mario Gabriele l’essenziale era ripristinare il contatto con il lettore, ripartire dal correlativo oggettivo di Eliot, ricucire gli strappi inferti alla forma-poesia del secondo Novecento, suturare le ferite con la tintura di iodio, elaborare una «materia» poetica che facesse uso della narrativa e della saggistica per irrobustire il dettato poetico. Il registro stilistico di Ritratto di Signora viene così improntato a una decisa propensione per la metonimia, sostenuto dalla giustapposizione di elementi dissimili o incongrui, di digressioni e di inserti narrativi che offrissero nuove possibilità di significazione per mettere in evidenza ciò che sta oltre la tradizionale parola poetica, lontano dalle associazioni semantiche tradizionali, magari corredata da una fitta interpunzione, di citazioni implicite ed esplicite, di riferimenti toponomastici ed onomastici, corredata da associazioni ed elencazioni coordinate per asindeto e per paratassi, il tutto volto a raffigurare il disagio e lo spaesamento esistenziale del mondo moderno, non solo dell’io, il caos del mondo, mediante correlativi oggettivi e traslati e cablaggi spaesanti.

Sta qui l’elemento di distinguibilità della poesia di Mario Gabriele, sta qui la rottura con i canoni dello sperimentalismo e con l’eredità della poesia post-montaliana del dopo Satura (1971), vista come la poesia da circumnavigare, magari riprendendo da essa la scialuppa di salvataggio dell’elegia per introdurvi delle dissonanze, delle rotture e tentare di prendere il largo in direzione di una poesia completamente narrativizzata, oggettiva, anestetizzata, cloroformizzata. Di qui le numerose citazioni illustri o meno (Mister Prufrock, Ken Follet, Katiuscia, Rotary Club, Goethe, busterbook, kelloggs al ketchup, etc.), involucri vuoti, parole prive di risonanza semantica o simbolica, figure segnaletiche raffreddate che stanno lì a indicare il «vuoto». Il tragitto, iniziato da Arsura del 1972, e compiuto con quest’ultimo lavoro, è stato lungo e periglioso, ma Gabriele lo ha iniziato per tempo e con piena consapevolezza già all’indomani della pubblicazione del libro di Montale che, in Italia, ha dato la stura ad una poesia in diminuendo, che da noi è stata interpretata come una possibilità di scrittura poetica finalmente privata del pentagramma tonale e timbrico della grande tradizione metafisica, come un rompete le righe e un gettate le armi, con una cultura nutrita di scetticismo piccolo-borghese. Una resa alla democrazia parlamentare della forma poetica e del discorso poetico. Mario Gabriele riprende da qui, innalza il tono prosodico mentre che abbassa il lessico.

Sintomatico di tale percorso è l’ultima poesia qui presentata: «Glossario terapeutico», dove è evidente che l’autore ironizza con una abbondanza di citazioni e di rimandi sulla propria materia poetica prendendone le distanze, ironizza sulla desertificazione del linguaggio poetico di oggi, non più in grado di veicolare una lirica che non sia post-lirica, dalla quale viene bandito ogni riferimento ad una presunta «bellezza» e al «poetico». Si ha la sensazione che l’oggetto della riflessione di Gabriele sia «la morte della poesia» e una «poetica del vuoto». In un certo senso, questa è una poesia che medita sulla propria morte annunciata, una metapoesia, una poesia che sta fuori della poesia, che si situa a distanza dalla poesia. Metapoesia sulla metapoesia, dunque, come nella composizione di apertura «Cara Juliet» che rifà il verso a una raccolta di Alfredo Giuliani del 1965, Povera Juliet. Il titolo della raccolta, anch’esso ironico, Ritratto di Signora (2014), riprende un topos classico, un titolo adottato dalla scrittura narrativa, in ciò perseguendo con la poesia lo stesso tragitto ermeneutico seguito dal romanzo, da quello famoso di Henry James (The portrait of  a Lady) fino al recente Foto di gruppo con Signora (1971) di Heinrich Böll.

Letizia Leone diwali

Letizia Leone

Letizia Leone è nata a Roma. Si è laureata in Lettere all’università  “La Sapienza” con una tesi sulla memorialistica trecentesca e ha successivamente conseguito il perfezionamento in Linguistica con il prof. Raffaele Simone. Agli studi umanistici  ha affiancato lo studio musicale. Ha insegnato materie letterarie e lavorato presso l’UNICEF organizzando corsi multidisciplinari di Educazione allo Sviluppo presso l’Università “La Sapienza”. Ha pubblicato: Pochi centimetri di luce, (2000); L’ora minerale, (2004); Carte Sanitarie, (2008);  La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi (2013); AA.VV. La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (a cura di G. Alfano), Perrone, 2011. Nel 2015 esce Rose e detriti testo teatrale (Fusibilialibri). Un suo racconto presente nell’antologia Sorridimi ancora a cura di Lidia Ravera, (Perrone 2007) è stato messo in scena nel 2009 nello spettacolo Le invisibili (regia di E. Giordano) al Teatro Valle di Roma. Ha curato numerose antologie tra le quali Rosso da camera (Versi erotici delle maggiori poetesse italiane), Perrone Editore, 2012. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma,, 2016)

 

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Sfere di Peter Sloterdijk: Narrare in condizioni postmoderne,  la campana a morto della “modernità”, Un tentativo postmoderno di descrivere il mondo, Le tre fasi della globalizzazione, Globalizzazione terrestre, Globalizzazione elettronica di Antonio Lucci

Not Vital, 700 Snowballs

Not Vital, 700 Snowballs

da http://www.doppiozero.com

Narrare in condizioni postmoderne

Nel 1979 il filosofo francese Jean-François Lyotard dà alle stampe un pamphlet di circa un centinaio di pagine, tratto da una ricerca sul “sapere” commissionata in origine dal governo canadese, che diventerà decisivo per la storia delle scienze umane in generale e della filosofia in particolare: La condizione postmoderna.

La tesi di base è nota: Lyotard sancisce la fine della modernità, facendola coincidere con l’impossibilità di porre mano – per il filosofo come per lo storico della cultura e delle civilizzazioni – a una “grande narrazione”, cioè a una storia che possa essere “macrostoria”, vale a dire una storia complessiva e comprensiva della civiltà. Lyotard, con ironia e semplicità, sostiene che, alla luce del “secolo breve” e delle acquisizioni dello strutturalismo, ogni tentativo di ricostruzione che voglia dire la totalità sull’uomo e dell’uomo ricade inevitabilmente nella violenza della totalizzazione, e nell’ingenuità di una descrizione che non può, costitutivamente, rendere giustizia a ciò che è stato detto, fatto, pensato, narrato, costruito, reso arte, immaginato nella sua molteplicità e irriducibilità ad unicum.

Ogni narrazione è una prospettiva, che ha una storia e una geografia concreta e delle premesse (più o meno) inconsce, che la condizionano inevitabilmente dall’origine. Pensare di liberarsene è illusorio e tracotante: siamo consegnati irrimediabilmente e irriducibilmente – condannati – al frammento.

Quest’idea è stata una determinante portante per più di un trentennio all’interno delle scienze umane europee, e un costante avversario teoretico (il che ne attesta la diffusione e, in qualche modo, la legittimità anche se in forma negativa) per quelle di origine, metodologia e “stampo” anglo-americano.

 Tiziana Contino, Honey Money

 filosofia peter sloterdijk bolle 1Peter Sloterdijk: un pensatore sulla scena

Nel 1998, forse per la prima volta da quando la campana a morto della “modernità” (per lo meno, quella filosofica) era stata suonata da Lyotard, un filosofo ha tentato di rompere l’interdetto lanciato dal francese sulle grandi narrazioni: in quell’anno esce infatti in Germania il primo volume della trilogia di Sfere, a firma Peter Sloterdijk.

Sloterdijk (che è nato a Karlsruhe, nel sud della Germania, nel 1947) è nell’ambito delle scienze umane una figura nota e controversa: si è sempre posto ai margini del discorso filosofico accademico (è da anni rettore, dopo esserne stato docente, della Hochschule für Gestaltung di Karlsruhe, un’accademia di belle arti della provincia tedesca, che pur se innovativa e all’avanguardia nel proprio settore, di certo non è uno dei grandi atenei che hanno fatto la storia della filosofia tedesca), è stato anche conduttore di un programma televisivo, Das philosophische Quartett, dedicato a problemi di cultura e di costume, analizzati con piglio e ospiti provenienti principalmente dal campo della filosofia e della storia della cultura (il che potrebbe dire qualcosa di interessante anche all’Italia, su come la filosofia possa essere un metodo di divulgazione di alto livello – Sloterdijk infatti era presentatore, non ospite – e non debba ridursi necessariamente all’expertise del singolo, invitato e interrogato su una materia specifica), e autore di uno dei libri di filosofia più venduti di sempre in Germania, La critica della ragion cinica, che nel 1983 raggiunse la quota record di 150.000 copie vendute (e che recentemente è tornata disponibile – in versione ridotta rispetto all’originale – anche nel nostro paese).

Ma Sloterdijk è stato anche, proprio a ridosso della pubblicazione del primo volume della trilogia di Sfere (traendo da ciò non poca visibilità – Sloterdijk è anche un abile promotore di se stesso), colui che ha detto al grande padre filosofico della cultura tedesca del dopoguerra, Jürgen Habermas, che “la teoria critica è morta”, sulla scia di una feroce polemica culturale che aveva visto Habermas attaccare (infondatamente, bisogna dire) Sloterdijk per presunte tesi para-eugeniste, che egli avrebbe sostenuto nel breve saggio Regole per il parco umano, uno dei lavori più interessanti di Sloterdijk dal punto di vista teoretico.

  Un tentativo postmoderno di descrivere il mondo: la trilogia di Sfere

Adesso i primi due volumi di Sfere, opera monumentale (più di 2000 pagine complessive, divise in tre tomi) da poche settimane sono finalmente disponibili anche al pubblico italiano, grazie alla meritoria opera dell’editore Raffaello Cortina di Milano, che sembra aver da qualche anno preso seriamente in carico il compito di importare Sloterdijk nella nostra nazione.

Dopo una prima edizione del 2009, ad opera del pioneristico editore Meltemi – tra i primi a investire massicciamente su Sloterdijk, all’epoca – viene ristampato, con traduzione e curatela quasi inalterate, e con una prefazione leggermente rivista di Bruno Accarino, il primo volume della trilogia: Sfere I. Bolle Microsferologia; e presentato per la prima volta in traduzione italiana il II volume della medesima opera: Sfere II. Globi Macrosferologia.

La buona prefazione di Accarino ha il merito di introdurre il lettore al milieu filosofico – o meglio, a uno dei milieux filosofici – a cui Sloterdijk può essere avvicinato: quello dell’antropologia filosofica tedesca. Questa corrente filosofica, che ha visto la propria teorizzazione e il massimo splendore nella prima metà del secolo scorso (ad opera di pensatori tanto decisivi quanto oggi parzialmente dimenticati, come Max Scheler, Helmuth Plessner e Arnold Gehlen), tentava di porre in stretto dialogo i risultati delle scienze della vita con un’immagine organica dell’uomo nel suo mondo.

Se pure – come andremo a vedere – Sfere I può essere ricondotto a questo tipo di interesse scientifico, ci sembra che Accarino (ed è questa forse l’unica pecca della sua prefazione, che resta comunque la migliore, fino ad oggi, di quelle scritte in Italia ai volumi di Sloterdijk) tenda a sottovalutare fortemente e volutamente (fino alla dichiarazione esplicita nella nota 112 a p. LXV) la tradizione epistemologica francese in generale, e Michel Foucault in particolare, tra le fonti e gli interlocutori privilegiati di Sloterdijk, che al contrario spesso ha personalmente dichiarato quanto Foucault sia stato decisivo per il suo percorso filosofico, e che – dopo Sfere – si è dimostrato debitore e in un suo particolarissimo modo addirittura (potremmo azzardare, con una forzatura) “continuatore” delle analisi foucaultiane nel suo testo di maggiore rilevanza dopo la conclusione della trilogia, dal titolo Devi cambiare la tua vita.

Di cosa parlano i tre volumi di Sfere

Il primo volume di Sfere rappresenta il tassello fondativo della trilogia, di cui può essere così brevemente schematizzata la composizione:

Sfere I rappresenta il culmine e la summa delle analisi sulla costituzione del soggetto che avevano occupato la riflessione di Sloterdijk fin dall’interesse per l’autobiografia espresso nella sua tesi di dottorato e nei lavori successivi, scritti tra gli anni ’80 e la fine degli ’90 del secolo scorso.

Sfere II è un’ampia fenomenologia dello spirito nell’epoca della globalizzazione, che per il Nostro comincia con la formulazione filosofica delle prime immagini del mondo unitarie, del mondo inteso come cosmos, da parte dei filosofi greci, e tramonta inesorabilmente con l’epoca delle grande scoperte geografiche di Cristoforo Colombo e Magellano.

Sfere III (ancora non disponibile in italiano, e che forse è il volume dal maggior valore teoretico della trilogia, assieme al primo) conclude l’opera, fornendo un tentativo di descrizione del mondo contemporaneo, in cui il concetto di sfere si è dissolto in quello di schiume.

Mauro Bonaventura sphere_red_man_giant

Mauro Bonaventura sphere_red_man_giant

Soggetti, Oggetti, Noggetti: Sfere I. Bolle

L’argomento di Sfere I può essere definito un’archeologia dell’intimo. Sloterdijk indaga la costituzione dell’individuo fin dalla fase della sua gestazione nell’utero materno, costituendo con gli strumenti teoretici della psicologia del profondo, della medicina e della storia della cultura, un’antropologia filosofica che non sfugga ingenuamente al confronto con le scienze moderne, ma che se ne giovi per elaborare una teoria complessa della soggettività umana, da cui partire per reinterpretare la storia della filosofia e delle civiltà occidentali.

Sloterdijk ritiene che il periodo di gestazione sia quello fondamentale per la costituzione della soggettività umana, soprattutto a livello di retaggio psichico. Questo è il punto basilare in cui si distacca da Freud (ma anche dei critici di Freud entro il contesto della psicanalisi), introducendo il concetto, mutuato dal filosofo della cultura austriaco Thomas Macho, di noggetto, Macho è un pensatore purtroppo ancora poco noto in Italia, delle cui opere, che spaziano in un orizzonte vastissimo dalla psicoanalisi alla critica dell’economia, dal tema della morte a quello dell’animale, sarebbe necessaria una maggiore diffusione, anche solo per comprendere meglio molte delle teorie su cui si basano gli assunti sloterdijkiani, che dall’amico Macho riprende molte idee.

Sloterdijk definisce i noggetti come realtà che spiazzano l’osservatore, ponendogli di fronte qualcosa che non ha ancora una presenza oggettiva, oggetti non dati, realtà che aboliscono la divisione soggetto/oggetto, perché la precedono.

Il primo noggetto di cui Sloterdijk tratta – si potrebbe addirittura arrivare a sostenere che in tutta la sua speculazione filosofica non tratterà d’altro – è la madre come ricettacolo d’intimità, come pura interiorità, come vulva, come grotta, come porta tra l’interno preoriginario e l’esteriorità come unica realtà che ci sia propriamente data. Noggetto sarà però anche il feto, che ancora non è un soggetto, ma che neanche si può definire un oggetto.

Vengono qui criticate le tre fasi che secondo la psicoanalisi freudiana danno la descrizione delle relazioni precoci (orale, anale, genitale) come inficiate fin dall’inizio dalla petitio principi della necessità del rapporto a un oggetto. In particolare nell’ultima fase, quella genitale, che per Freud è la più importante, in quanto condurrebbe al processo di formazione del soggetto.

A tali tre fasi vengono preposte (senza che per questo si possa tra di essi stabilire né una gerarchia né una consequenzialità cronologica) altri tre stadi, regimi di medialità radicale pre-orali, caratterizzati dalla loro configurazione noggettiva (che comporta l’abolizione della relazione soggetto/oggetto), che, sulla scorta delle più recenti indagini sulla struttura dello sviluppo prenatale, dovrebbero descrivere in maniera più completa il rapporto madre-feto.

L’importanza che Sloterdijk, nel proseguo della sua trilogia, darà a queste tre fasi sarà enorme: ciascuna di esse sarà il cardine su cui si baserà la sua teoria interpretativa della realtà, della storia e della cultura.

Hamburger Banhof, Berlino, Città trasparenti

Hamburger Banhof, Berlino, Città trasparenti

Le tre fasi

La prima fase pre-orale è una fase coabitativa fetale in cui vi è l’esperienza della presenza sensoriale dei liquidi, dei corpi e dei limiti della caverna uterina. Qui, quale precursore della realtà che diverrà poi il mondo, è presente un regno intermedio fluidico, l’ambiente uterino prenatale materno.

Questa prima fase, secondo Sloterdijk, si riproporrà di continuo, prepotentemente, in quanto l’abitare, inteso come essere-nello-spazio, costruire-lo-spazio, abitare-uno-spazio-umanizzato (e umanizzante) sarà la caratteristica fondamentale dell’essere umano: per Sloterdijk infatti l’uomo sarà null’altro che quell’animale che crea e abita uno spazio. Il II e il III volume di Sfere saranno dedicati principalmente all’esplicazione – su coordinate storiche, filosofiche e culturali sovraindividuali e intersoggettive – di tale concetto. L’immersione del feto nel liquido amniotico e nel sangue, e il rapporto con la placenta, sono le altre caratteristiche fondamentali di questo stadio.

Hamburger Banhof, Berlino, Città trasparenti

Hamburger Banhof, Berlino, Città trasparenti

La seconda fase pre-orale è l’iniziazione psico-acustica del feto nel mondo sonoro uterino, in cui viene posta l’attenzione sull’importanza della voce come cordone ombelicale che unisce ancora, dopo il parto, il neonato con la madre, e che sarebbe il germe di ogni comunicazione futura.

Sloterdijk dedicherà un altro capitolo (il VII) di Sfere I all’approfondimento del rapporto del feto con la musica e con l’udito in generale.

L’ultimo stadio pre-orale è quello della fase respiratoria.

Se, come visto, la prima vera esperienza del soggetto in fieri è quella dell’immersione in un medium fluido entro delle delimitazioni spaziali concretamente presenti, seppur nella loro vaghezza, si può da qui dedurre l’importanza che l’analisi dei media assume nelle considerazioni di Sloterdijk.

Peter Sloterdijk

Peter Sloterdijk

Una volta definito l’essere umano come un abitatore dell’interno, a causa dei propri retaggi noggettuali, tutta la trilogia di Sfere, e lo stesso concetto di sfera, possono essere descritti come dei tentativi concettuali di spiegare il fenomeno-uomo alla luce del suo rapporto con il proprio dove: una topologia dell’essere, come lo stesso Sloterdijk l’ha definita.

Queste – naturalmente – sono solo alcune delle direttive individuabili entro l’opera che stiamo presentando, che consta di 593 pagine di analisi fitte e variegate, ma di certo sono quelle che danno all’opera la sua struttura teoretica portante. Intorno ad esse si affastellano descrizioni tra le più disparate, esempi della geniale poliedricità sloterdijkiana, come i capitoli sul doppio, sull’angelo, su Giotto: tutti esempi di come, nella storia della cultura e della civiltà occidentale le forme-di-vita noggetuali abbiamo avuto retaggi che si sono esplicati nei campi più diversi: dalla letteratura alla religione, dalla pittura ai circhi e ai cabinet des curiositées.

Hamburger Banhof, Berlino, Città trasparenti

Hamburger Banhof, Berlino, Città trasparenti

Passare la sfera: dalle bolle ai globi

 Per comprendere appieno l’inanellamento argomentativo tra i vari volumi di Sfere, e in particolare per comprendere come sia possibile il passaggio dal primo al secondo volume della trilogia, è forse utile a questo punto chiarificare il significato del titolo, ma ancor più dei sottotitoli, di quest’opera, partendo dal concetto di sfera.

L’opera di Sloterdijk è costellata di definizioni di sfera, a volte anche molto distanti l’una dall’altra. Una delle più complete è forse la seguente:

 E la ragione per la quale la ricerca del nostro dove è più sensata che mai risiede nel fatto che essa si interroga sul luogo che gli uomini producono per avere ciò in cui possono apparire quello che sono. Questo luogo porta in questa sede, in memoria di una tradizione rispettabile, il nome di sfera. La sfera è la rotondità dotata di un interno, dischiusa e condivisa, che gli uomini abitano nella misura in cui pervengono a essere uomini. Poiché abitare significa sempre costruire sfere, in piccolo come in grande, gli uomini sono le creature che pongono in essere mondi circolari e guardano all’esterno, verso l’orizzonte. Vivere nelle sfere, significa produrre la dimensione nella quale gli uomini possono essere contenuti. Le sfere sono delle creazioni di spazi dotati di un effetto immunosistemico per creature estatiche su cui lavora l’esterno. (Sfere I, pp. 21.22)

Peter Sloterdijk

Peter Sloterdijk

La sfera ha dunque principalmente a che vedere con la spazialità e la creazione di spazio: è la risposta trovata da Sloterdijk alla domanda sul nostro dove, che comprende un rapporto di mutuo e reciproco rimando tra interno ed esterno, tra creare spazi e abitare. La microsferologia, come viene contrassegnata dal sottotitolo del primo volume della trilogia, descrive le bolle, ossia l’unità originaria costitutiva di quello che sarà l’individuo, le cui parti fondamentali sono l’insieme delle non-relazioni noggettuali che abbiamo descritto.

Analizzare le microsfere significa dunque analizzare l’uomo in quanto abitatore dell’interno, quale essere strutturato da una spazialità originaria, che egli tenterà di ripetere sempre e ovunque con ogni mezzo, una volta uscito dall’utero materno.

Sloterdijk sosterrà, incisivamente, che la storia della tecnica umana è la storia dell’uterotecnica: il tentativo, incompleto per antonomasia, di riproporre al di fuori dell’utero le condizioni intrauterine. Tali condizioni non includono solo la spazializzazione e il creare spazi, ma anche una vera e propria ossessione mediologica: l’immersione originaria nel medium fluido nel grembo materno e i brandelli comunicativi appartenenti alla fase orale psico-acustica perseguiteranno il soggetto in tutta la sua storia, che sarà costellata da continui tentativi di creare media perfetti per una comunicazione illimitata, ripetizione dello stadio primordiale.

Qui si effettua anche il passaggio dalla microsferologia alla macrosferologia: quest’ultima, il cui itinerario viene esplicato nel II volume della trilogia Sfere, che dal primo è preparato, coincide con la storia dell’uomo occidentale dalla grecità all’epoca delle grandi esplorazioni, ed è una fenomenologia dei tentativi (la cui somma è l’insieme delle religioni, delle filosofie, delle arti, dei commerci e delle entità politiche dispiegatesi nel corso della storia) fatti dagli uomini per crearsi

Dal primo al secondo volume

Per esemplificare e chiarire il passaggio dal primo al secondo volume e i temi principali di quest’ultimo può forse essere utile – nella grande massa di materiali contenuti nelle 942 pagine della traduzione italiana – proporre nuovamente un “taglio”, l’analisi di un tema specifico che possa dare al lettore un’idea dell’argomento e dello svolgersi generale del testo.

A mio parere, particolarmente utile a questo scopo può essere un’analisi dei capitoli II e III e VIII di Sfere II.

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Nel primo di essi, dal titolo Ricordi del contenitore. Sul fondamento della solidarietà nella forma inclusiva (Sfere II, pp. 173-221), vi è la già accennata frase sloterdijkiana (mutuata da Dieter Claessens), che risulta paradigmatica per comprendere il passaggio dalle microsfere alle macrosfere: «Ogni società è un progetto utero-tecnico» (ivi, p. 180).

Dunque il retaggio della prima fase noggettuale si esplica nei processi originari d’insulazione non solamente nella ripetizione tecnica della situazione d’inclusività protettiva data dall’abitare intrauterino, ma anche dalla necessità di compartecipazione e condivisione originaria dello spazio.

 La presentificazione materiale dei benefici forniti dall’essere-insieme è data, architettonicamente, dal muro di cinta: confine visibile della prima macrosfera, esso segna l’inizio del noi.

Il passo dall’inclusività fonte di privilegi all’inclusione costrittiva e portatrice di sofferenze è però breve: la dimensione ne viene data dal crescere in dimensioni sempre più imponenti delle mura delle città, fin dalle epoche più antiche della storia (si pensi alle mura di città come l’antica Babilonia), fino a diventare microcosmi da cui uscire (e in cui entrare) diventa sempre più complesso; le mura ciclopiche – infatti – divengono il simbolo della facoltà, monopolio del potere, di includere tutto ciò che si considera proprio in un ambito controllabile: dal noi si passa al mio.

Con la nascita delle fortificazioni nascono secondo Sloterdijk anche i primi impianti di potere totalizzanti: Sloteredijk interpreta come una proiezione metafisica di questo bruto fatto materiale il sorgere delle dottrine (ad esempio quella gnostica e quella manichea) che considerano ciò che è mondano e corporeo come prigioni, e vedono come la vera vita quella dell’anima, che ha patria nel puro fuori.

Moncalieri Proposte Donna, Sfere e cerchi d'autore a cura di Silvana Nota

Moncalieri Proposte Donna, Sfere e cerchi d’autore a cura di Silvana Nota

Queste immagini del mondo avrebbero però subito un sorpasso cognitivo, una sconfitta, da parte delle metafisiche dell’inclusività, che avranno la loro massima teorizzazione nell’ontologia filosofica greca e nella metafisica religiosa cristiana; la sfera ontologica parmenidea, e la sfera teologico-inclusiva del cristianesimo avranno secondo Sloterdijk il loro successo millenario perché in grado di dare una spiegazione immunologica particolarmente soddisfacente del reale, una spiegazione in cui il tasso d’inclusività è assoluto: la sfera cosmica sarebbe, secondo tale visione, la macro-parete che rende il genere umano unito nella grande casa datagli da Dio.

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roberto cicchinè untitled 2009

Sfere locali, sfere globali, sfere infrante: Sfere II. Globi

Nel capitolo III di Sfere II dal titolo Arche, mura, confini del mondo, sistemi immunitari. A proposito dell’ontologia dello spazio circondato da mura (Ivi, pp. 223-318), Sloterdijk offre un esempio di come le sue analisi possano passare rapidamente dal piano della storia della metafisica, della religione e della filosofia a quello della storia materiale. Qui infatti Sloterdijk analizza le figure inclusive dell’arca e delle mura di cinta intendendole come dei sistemi immunitario-inclusivi concreti: l’arca per Sloterdijk è l’idea di spazio più radicale dal punto di vista morfologico che gli antichi seppero concepire; essa esprimerebbe infatti l’idea che il mondo interiore artificiale può diventare, in date circostanze, l’unico medium vivibile, di fronte a un mondo esterno ormai invivibile con cui ogni legame viene tagliato.

 L’arca rappresenterebbe a livello simbolico la rottura con l’illusione materna: l’uomo diventa adulto ontologico perdendo la propria fiducia nella bontà della natura, e riponendola invece nel “contratto” con cui Dio, dopo il diluvio, assicura all’uomo che in futuro non vi sarà più annichilazione alcuna.

La trattazione sloterdijkiana passa poi dall’arca alla città, che è in qualche modo un’arca “approdata”: tutto nella grande città è volontà di dominio e opera umana, e nulla fa pensare alla possibilità di una sua scomparsa (diversamente da ogni cosa che compare al mondo, in natura). Chi vive in una città non solo ne è protetto, fisicamente e psicologicamente, ma è anche votato ad essa: alla sua costruzione, mantenimento, protezione, espansione a danno di altri déi-città.

Peter Sloterdijk

Peter Sloterdijk

Le mostruose città antiche esprimerebbero nella loro smisuratezza il proposito di rendere tutto lo spazio esterno uno spazio interno animato: con le grandi città antiche, secondo Sloterdijk, politica, architettura e teologia si alleano in un progetto macroimmunologico.

 Infatti, quando l’antico re ordinava la costruzione della città, egli si poneva nella posizione del dio creatore di un cosmo, e in quanto tale aveva il privilegio di poter dirigere dalle torri il proprio sguardo ovunque (esemplificando così un modello fisico di onniscienza). Le mura, in questo contesto, trasformeranno progressivamente e inesorabilmente la loro funzione simbolica: esse rappresenteranno sempre più l’idea dell’inaccessibilità del divino e al contempo della sua inclusività totale.

Dunque la muraglia sarebbe addirittura un’epifania, il lato di esibizione di un’interiorità emanante, che non permette dubbi sul potere di chi la costruì: Dio è presente nelle mura e celato dalle mura. È così che secondo Sloterdijk nascono l’immagine del dio costruttore e artigiano, che sostituisce quella arcaica della Grande Madre con quella della fabbrica, e conseguentemente le religioni di redenzione orientali: dall’idea che chi ha costruito l’uomo può anche salvarlo e comprenderlo.

Peter Sloterdijk

Peter Sloterdijk

 Secondo Sloterdijk le mura ciclopiche mesopotamiche testimoniano un cambio di formato dell’immaginazione, sono un sintomo ontologico di crisi: esse rappresentano il primo segno che l’esteriorità ha infettato la bolla microsferico-familiare fino ad ora impermeabile ad essa; nelle città fortificate lavorarono per secoli migliaia di uomini al fine di dimostrare che tutto ciò che è può essere contenuto in una forma.

Sloterdijk ritiene che questo valore psichico e simbolico delle mura inclusive sia reso evidente dai motivi che hanno portato al loro tramonto: quando si affermarono sistemi inclusivi migliori (e più a basso costo), vale a dire le metafisiche religiose, in cui gli esseri umani venivano inclusi senza doversi spendere in una vita di sforzi al fine dell’erezione di mura ciclopiche, la fortuna delle grandi città dalle mura ciclopiche tramontò.

 La storia di come le immagini del mondo metafisiche abbiano creato una Macrosfera inclusiva, e di come questa sia tramontata, sono riassunte da Sloterdijk nell’illuminante capitolo VIII del testo (dal titolo L’ultima sfera. Breve storia filosofica della globalizzazione, che fu, come capitolo a se stante, il primo testo tradotto di Sloterdijk in italiano, alla fine degli anni ’90 per l’editore Carocci, che alimentò l’equivoco, in parte non ancora dissipato, che Sloterdijk fosse un filosofo della globalizzazione, cosa che non è affatto).

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Saturno visto dalla sonda Cassini

Le tre fasi della globalizzazione

Sloterdijk narra lo svolgersi, svilupparsi e il deflagrare di quelle che egli ritiene siano state le tre fasi della globalizzazione:

Globalizzazione cosmo-uranica (o onto-morfologica): ha i caratteri simbolici della creazione di un’immagine del mondo unitaria, attraverso gli strumenti metafisico-unitari e immunologici che abbiamo sopra brevemente ripercorso. Essa si compì definitivamente con la creazione di quel macro(-sferico-)sistema immunitario che era l’onto-teo-logia cattolica di derivazione greca.

 Globalizzazione terrestre: è l’argomento principale del capitolo VIII. Esso tratta del periodo 1492-1945 quale insieme in sé compiuto di eventi, che Sloterdijk ritiene siano gli unici a poter essere a buon diritto definiti come storici. La storia per Sloterdijk è la storia dell’appropriazione di spazi, avvenuta entro una cornice simbolica preparata da centinaia di anni di globalizzazione cosmo-uranica. La storia delle conquiste, dell’esportazione della sfera monologica cristiana, è La storia.

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Saturno ripreso dalla sonda Cassini

Per Sloterdijk il movimento storico-globale che ha visto il suo culmine col viaggio di ritorno di Magellano, ha realmente trasformato il nostro globo, in una sfera. Ma questa sfera, nel momento in cui è stata acquisita in quanto tale, quale monade geologica, è diventata anche l’ultima. L’acquisizione materiale della Terra quale luogo totalmente esplorato, conosciuto, acquisito, le cui mappe non presentavano più vuoti di conoscenze riempiti da mostri della fantasia, tale acquisizione è da considerarsi totale e sintetica. Essa ha unito in sé il pensiero teorico della sfera, quale era stato concepito da Parmenide e dal cristianesimo, a quello pratico della globalizzazione effettuata tramite navi e merci, scali in porti stranieri e guerre di conquista. Ma la grandiosità di quest’epoca si è conclusa quando la Terra ha imposto ai suoi abitanti, coloro che percorrono la sua superficie, la considerazione della propria limitatezza, unita al suo non essere inserita in uno schema immunitario d’inclusività globale. Gli uomini, da esseri fatti a immagine dell’unico Dio, che percorrevano per Suo volere la Sua creazione e che la dominavano sia materialmente che teoreticamente (quale luogo inserito in un ben preciso contesto cosmico, che la visione del mondo tolemaica pretendeva di conoscere perfettamente), diventano coloro che si rendono conto che il mandato del Dio cristiano può entrare in competizione con quello di altri dei, di altri sistemi immunitari.

 Globalizzazione elettronica: è quella che si svolge attualmente nel mondo contemporaneo. Nell’ultimo stadio della globalizzazione i media non sono più tanto fisici (navi, galeoni) quanto telematici ed elettronici (onde radio, sistemi satellitari, televisione, internet, aerei).

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