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C’è un «significante eccedente» che caratterizza la poesia contemporanea, top-pop-poesia, poetry-kitchen, pop-corn-poetry, Poesie inedite di Guido Galdini, Carlo Livia, Francesco Paolo Intini, L’esperimento non è riuscito, Caleidoscopio della caduta di Marie Laure Colasson, commento di Giorgio Linguaglossa

Marie Laure Colasson Caleidoscopio, acrilico 30x30 2008

Marie Laure Colasson, In frantumi, acrilico 30×30 cm, 2012

La scrittura poietica di Marie Laure Colasson mette in scena il «In frantumi», un caleidoscopio della caduta verticale, la de-valorizzazione di ogni valore, la «caduta» fino al punto zero della significazione, fino ad un fondo senza sfondo. Di qui la figurazione dei libri in caduta, lo smottamento delle poltroncine  e delle sedie. Ogni elemento del sistema reticolare dei rinvii è se stesso soltanto perché è già in rapporto differenziale con tutti gli altri elementi. È se stesso (autos) in quanto non rimanda a se stesso. Tale è il nomos  che detta all’esperienza della vita il suo ordine  come Lebenswelt  da cui proveniamo ma al quale non possiamo mai attingere in modo diretto, giacché la vita stessa è disseminazione, traccia, rinvio, diversione da se stessa,  espropriazione, spettro dell’auto-distanziamento psicologico e sociale dell’“io”. Ogni segmento di Erleben  è in se stesso sempre altro. La autoeterootobiograficità della poiesis colassoniana è qualche cosa che eccede di gran lunga il genere dell’autobiografia.

 L’autootoeteronomia del discorso poietico innerva l’esperienza di questa scrittura figurale al di fuori dei generi in quanto in-differenza al campo del racconto, in-differenza fra narrazione cronologica, mimetica, figurativa, affresco epistolare, diario, confessione, mixage  di generi allotri. Non vi si trova mai un moto centripeto perché l’“io” non c’è, al suo posto v’è un cinetismo di apertura centrifuga verso l’altro, la disseminazione dei  frantumi e dei sentieri e delle tracce. La caratteristica più evidente della poiesis colassoniana è la  finzionalità, in quanto qualcosa sta sempre per qualcos’altro.

 Così, il finzionale induce il soggetto che si  racconta a indossare maschere, a inseguire la polifonia, la politonia, a dis-identificarsi, e questo accade nel momento in cui la tensione auto-poietica del soggetto tocca il suo apice, rivelando l’autoinganno come necessità per la propria sopravvivenza in quanto soggetto. Il riprodursi della vita è presupposto nel concetto di «sopra-vivenza», in quanto la vita stessa (autos) è «dissimulazione».

 Questa scrittura figurale ospita la disseminazione del sé. Da qui l’insistenza sul tema della «caduta», della de-valorizzazione, della de-fondamentalizzazione del valore e dei significati, della in-differenza tra testimonianza e finzione, tra finzione e lutto. La de-valorizzazione non lascia tracce ma macerie e rottami, la poiesis colassoniana si occupa di questo, della «caduta» di un intero mondo di significati.

 Nel tracciare il profilo di se stessi, disegnando l’autoeterootobiografia, la Colasson aderisce alla poetica della disseminazione, della traccia, del rinvio e delle maschere. La vita è innanzitutto maschera e survie: «dal momento che vi è una traccia, quale che sia, essa implica la possibilità di ripetersi, di sopravvivere all’istante e al soggetto del suo tracciamento, di cui essa attesta così la morte, la scomparsa, o almeno la mortalità. La traccia configura sempre una morte possibile, essa firma [signe] la morte».1

 La traccia rimanda al dialogo fra “auto” e “oto” (radicale che rimanda all’orecchio, organo del corpo sempre aperto all’esterno) e alla scrittura poietica come processo dialettico fra auto, oto ed etero.

(Giorgio Linguaglossa)

1 J. Derrida, Papier machine, Paris 2001, p. 393.

 

Giorgio Linguaglossa

C’è un «significante eccedente» che caratterizza la poesia contemporanea

questo è indubbio, ma ciò che caratterizza la poesia della nuova fenomenologia estetica della top-pop-poesia, della poetry-kitchen o pop-corn-poetry è una particolare idea di «significante eccedente». Pensare questa idea soltanto nel senso semantico come ha fatto lo sperimentalismo e la poesia tardo novecenteschi, a mio avviso sarebbe limitativo. Qui occorre pensare l’«eccedente» nella accezione di uno scarto e di un residuo non assimilabile ad alcun significato stabilito. A questo punto si apre uno spazio di «gioco linguistico» nel senso di Wittgenstein sconosciuto alla poesia del Moderno, impensabile dalla poesia del modernismo del novecento. È questo salto mentale che bisogna fare, altrimenti si ricade inevitabilmente nella poetica del significato e del significante.

«Noi crediamo che le nozioni di tipo mana, per quanto diverse possano essere, considerate nella loro funzione generale… rappresentino esattamente quel significante fluttuante, che costituisce la servitù di ogni pensiero finito (ma anche la garanzia di ogni arte, di ogni poesia, di ogni invenzione mitica o estetica), sebbene la conoscenza scientifica sia capace, se non proprio di arrestarlo, di disciplinarlo parzialmente».1

Lévi-Strauss, citato da Giorgio Agamben, Gusto, Quodlibet, 2015 p. 47 e, in Enciclopedia Einaudi, vol. 6, Einaudi, Torino 1979.

Guido Galdini (Rovato, Brescia, 1953) dopo studi di ingegneria opera nel campo dell’informatica. Ha pubblicato le raccolte Il disordine delle stanze (PuntoaCapo, 2012), Gli altri (LietoColle, 2017), Leggere tra le righe (Macabor 2019) e Appunti precolombiani (Arcipelago Itaca 2019). Alcuni suoi componimenti sono apparsi in opere collettive degli editori CFR e LietoColle. Ha pubblicato inoltre l’opera di informatica aziendale in due volumi: La ricchezza degli oggetti: Parte prima – Le idee (Franco Angeli 2017) e Parte seconda – Le applicazioni per la produzione (Franco Angeli 2018).

L’esperimento non è riuscito

l’esperimento non è riuscito

di ricongiungere rallentare e disperdere
le cianfrusaglie della nostra vita

di rinunciare prima di aver desistito

di accostare i lati opposti dell’ombra
per ottenere un terzo lato segreto

di sottomettere l’euforia di un ruscello

di avere fatto finta di capire
senza destare il minimo sospetto

di far sempre qualche sogno indeciso
ogni volta che termina l’estate

di restituire quello che ci hanno rubato

di confidare a qualcun altro
ciò che andava taciuto anche a noi stessi

di guardare lo specchio all’improvviso
per smascherarci prima d’esserne delusi

di coniugare tutti i verbi al futuro
per dimenticare un po’ più in fretta il passato

di coniugarli al passato
per difenderci dalla fretta del futuro

di chiedere a chi si sta allontanando
perché cammina fingendo di ritornare

di contare le lettere della parola felicità
ed arrivare sempre fino a sette

di far rotolare le biglie giù da un piano inclinato
per misurare la solitudine dell’attrito

di tracciare due rette parallele
che si separeranno all’infinito

di rallentare la velocità degli istanti

di prevedere il passaggio della cometa
dalla sua coda riflessa in una pozzanghera

di sottintendere quel che c’era da scavalcare

di credere alle promesse dell’equinozio

di attraversare tutto il mondo a occhi chiusi
per rinunciare al fasto dell’apparenza

di ingarbugliare fino a che diventi più chiaro

di sopperire alla cautela dei ricordi
rovistando tra le rovine e i miraggi

di accorgerci che abbiamo seguito
un sentiero che non c’era mai stato

di impedire che l’arrivo diventi
un’abitudine da raggiungere verso sera

di imparare a memoria
le poesie partendo dalla fine
per non raccogliere la sfida dell’impazienza

di separare ciò che resta da vendere
da ciò che si può soltanto regalare

di regalare a tutti qualcosa di rosso

di riconoscere la fuga delle stagioni
dalla diminuzione delle parole
e dall’aumento dei sottintesi

di terminare prima che faccia buio
gli esperimenti non riescono quasi mai

 

Carlo Livia

Carlo Livia è nato a Pachino (SR) nel 1953 e risiede a Roma. Insegnante di lettere lavora in un liceo classico. È autore di opere di poesia, prosa, saggi critici e sceneggiature, apparsi su antologie, quotidiani e riviste. Fra i volumi di poesia pubblicati ricordiamo: Il giardino di Eden, ed. Rebellato, 1975; Alba di nessuno, Ibiskos, 1983 (finalista al premio Viareggio-Ibiskos ); Deja vu, Scheiwiller, 1993 (premio Montale); La cerimonia  Scettro del Re, 1995; Torre del silenzio, Altredizioni, 1997 (premio Unione nazionale scrittori ); L’addio incessante, ed. Tindari, 2001; Gli Dei infelici, ed. Tindari, 2010. Con Progetto Cultura, nel 2020 è uscita la raccolta, La prigione celeste.

Un amour appelé adieu

La Visione mi trasforma in ripostiglio.

È l’urlo dell’insetto che solleva la notte.
Mostra la soffitta malata, senza Padre.

Il Santo beve l’ultima goccia di sposa dal canto dei boscaioli.
Nel lampione drogato la morte alleva i suoi tesori.
Gesti d’acquario, solitudini olandesi. Volti velati intorno all’amplesso che brucia.

Nous vivono dans un suicide eternel, de l’istant blesse’ par le filles en fleur.

Lei m’invoca dal buio ornamentale. Libero la sua tristezza dal bestiame furioso.

Nel viale appena risorto, mangiamo e beviamo la sera che ci ha diviso.
Insieme possiamo capovolgere l’abisso – dice.

La via è piena di cadaveri ribelli, coperti di lunghe estasi.
Canzoni nubili espatriano in un autunno osceno.
Passano cipressi, in un sogno torbido.

Sotto il piedistallo vuoto, bestie dementi danzano e sventagliano l’Immortale.

/…/

Lady Dark, sauve-nous de ton eclair initial.

Uccelli e orologi trapuntano l’angoscia. Gridano che l’ora è giunta.
Invece giunge l’Altro. Il Raggio Fossile, che distrugge il tempio.
Il profumo della Dea fugge sugli spalti.

Qualcuno, che mi sognava, si è svegliato.
O è la mia anima, che falsifica gli approdi.

Anche se il cielo svende i suoi celebri dipinti,
il vento fruga le nudità delle navate,
un tumulto di bambole tramuta la pietà in seta,
lei emigra in trasparenza su antiche praterie,
tutta sola e nuda come una vaga promessa,

la Mariee mise a nu par ses celibateires, quittez la ceremonie,

noi non possiamo più svanire.

 

Francesco Paolo Intini

Francesco Paolo Intini (Noci, 1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016), Natomale (LetteralmenteBook, 2017) e Nei giorni di non memoria (Versante ripido, Febbraio 2019). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Ha pubblicato nel 2020 Faust chiama Mefistofele per una metastasi(Progetto Cultura).

JEAN

Il volo ebbe una fermata.
Una fantasia Disney in una macelleria.
Foto di gruppo con dama di carità

Alla discesa di deportati seguì
il licenziamento di Heydrich solo perchè
l’ammoniaca usciva dalle piombature
E avrebbe fatto bene uno scolo nell’inconscio.

A Long Island si assistette all’ irruenza di un vagabondo.
Il Tempo si poteva regolare anche così.

Ostriche e vuoti sostavano nei campi del Sud Est.
Greggi e poi eserciti, trincee che rifiutavano la datazione
Pur di stare in un frullato..

Non s’era mai visto perdere così lo scappamento.
Qualcuno deve divertirsi a costruire orologi
per differenziarli dagli Dei.

Stalattiti che tornavano dalle doline.
Cartesio rottamato nell’ Origine del mondo.

Sull’ asse si piazzò il denaro, a sbalzi,
con un passo di trapezista e uno da croupier.

Ordinate addolcivano le battute
come un parrucchiere i bigodini di Jean Harlow.

Quanto vale la bellezza di un verso?
Meglio un proiettile o un neutrone?

Da “capitale umano” al rigo successivo
Col passo di una chiave inglese sull’avambraccio
l’imbottitura di una tigre morta.

Basta dire che l’enjambement è perfetto
per aguzzare le orecchie a una tuba:
-Ho visto un banchiere nuotare da una tempia all’altra!

Il tempo di accendere un fiammifero
E vedere penne smuovere il culo.

-Era tango ma sembrava olio di ricino
per convincere una rosa al sonoro.

 

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Lucio Mayoor Tosi gallina 2020

Lucio Mayoor Tosi, Gallina, acrilico 50×70, 2020

Due campiture di colore. La parte superiore rosso magenta, la parte inferiore, che occupa due terzi della superficie, di un verde ricco di giallo. Perfettamente al centro una gallina di colore nero con cresta rossa. È una magnifica rappresentazione del «bello» della nostra epoca. Il «bello» è ciò che si presenta come un fuori-piacere, un fuori-rappresentazione. Il «bello» è ciò che non può essere fondato, perché prima di esso non c’è nulla. Il «bello» è un fuori-significato. Ciò che la poetica pop-corn indica è proprio questo. E, se non v’è significato, non vi può essere neanche una ermeneutica. Il punto di inizio è, immediatamente, anche punto di fine. Non v’è nulla oltre di esso e non v’è nulla prima di esso, il quadro mostra una icona assoluta che non parla né all’intelletto né alla ragione né all’inconscio, che non si dà come un sapere ma neanche come un non-sapere. Semplicemente, è un fuori-significato, un drastico rifiuto del significato, un drastico rifiuto del giudizio e del valore di scambio. E qui cade ogni contraddizione, se pur ve ne fosse alcuna. Tutto e nulla potrebbe essere detto, ma ciò non infirmerebbe il fuori-significato del quadro il quale è bastante a se stesso, non dice nulla, precede la logica del linguaggio articolato. È un assoluto. E, come ogni assoluto, non parla.
(Giorgio Linguaglossa)

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Fantastico commento! Luce che rischiara le menti. Io troppo preso a capire il nuovo rosso-Ferrari, il giallo acido delle mele acerbe, quali simboli di vita, odierna e futura.
(Lucio Mayoor Tosi)

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Sono contento Lucio che il mio commento ti sembri illuminante. Ne ho parlato ieri sera con Marie Laure Colasson e lei è rimasta molto impressionata dalla tua “gallina”. Ha detto che è qualcosa che sconvolge. Ma non mi ha saputo dire nient’altro, tranne che la gallina è stata posta perfettamente al centro del quadro. Al centro della rappresentazione una volta c’era l’uomo. L’umanesimo europeo ha sempre tenuto fermo questo punto…Oggi, dopo la fine della metafisica e la fine dell’umanesimo, abbiamo le idee più chiare. E pensare che la Colasson fa una pittura apparentemente molto lontana dalla tua, eppure ha immediatamente colto il nocciolo della tua “gallina”. È evidente che certe cose sono nell’aria, e tutti possono coglierle. Tutti e Nessuno. Senza ricerca, senza semina, non c’è raccolto. Molti pittori o poeti cercano le scorciatoie, ma con le scorciatoie non si va da nessuna parte. La tua “gallina” è un Assoluto. E nell’Assoluto c’è Dio. Ovvero, il Nulla.
(Giorgio Linguaglossa)

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Gino Rago

Storia di una pallottola n.13

Burt Lancaster nella famosa scena de “Il Gattopardo”.
Sala degli specchi di Palazzo Rovitti.
Marie Laure Colasson esce da un quadro di Matisse
ed entra nel film “Il Gattopardo”.

Confessa ad Angelica che ama Tancredi.
«Il Logos è la questione fondamentale»
replica Angelica prima del famoso valzer.
«È colpa del regista, dopo quella scena non fui più la stessa.
I merletti, le sete, i pizzi, il guardinfante,
il bustino stretto alla vita…».

Una comparsa con la camicia rossa da garibaldino
irrompe nella sala.
È geloso di Angelica.
Uno sparo nella sala degli specchi.

La pallottola colpisce il lampadario di Murano,
vaga per il soffitto,
cade un candelabro con tutte le candele,
sfiora un comodino laccato con i fiori appena arrivati da San Remo,
manda in frantumi alcuni specchi,
e si infila in un guanto, in un tiretto rococò del salone da ballo
del Palazzo del Principe di Salina.

Dal balcone del Palazzo cadono reggicalze francesi, portafiori,
una giara, cannoli, frutta candita,
ricotte, cassate, biscotti di marzapane,
una granita di caffè,
e il libro di Filomena Rago, “Immagine di una immagine”.

Il Principe Fabrizio telefona all’Ufficio Informazioni Riservate.
«Arrestate Tomasi di Lampedusa. È lui l’assassino.
Bisogna fermare la storia,
altrimenti Antonioni ne farà un film
e lo scrittore ci scriverà un romanzo.
Se vogliamo che tutto rimanga com’è,
bisogna che tutto cambi».

Marina Petrillo

THE FACTORY- LA SERIALITA’ DE “IL SENZA NOME”-

Seriale, il mondo attraversa la sua primi-genia.
Ibride contaminazioni permeano volti in disuso.

The Factory accresce l’immortalità a coefficiente numerico.
Volge il tempo enucleando suoi gli atomi.

Il tredicesimo Arcano soggiace al sofismo
se sia la Caballah il vertice del Nulla.

Expinge in battito la popular art condivisa
a metamorte, già traccia di transumanesimo.

In exemplum irrompe il bassorilievo dell’esistente replicato
a indivisa specie, ove sogni espirano virtù.

Trae nettare il disperante gesto a immota Genesi
mentre ultima la divinità trafuga la Sua immagine iconoclasta.

(Ispirata a SPARI DI WARHOL di Francesco Paolo Intini)

Una piattaforma multimediale, toponomastica evocativa. Entropia del divenire avverso alla statica. Suono di Cage invariato nel silenzio cosmico. Memoria della musica inferta a vedovanza. Traduce assenza il movimento, apice e abisso. L’ipotesi virtuale àncora il reale a grado infermo. Pone dicotomia l’assenso in negazione, bipolarità umana ascesa. Vertigine.
Punto di rientro metafisico antecedente ogni piano di realtà. “Significante fluttuante”.

(Suggestioni evocate dal video di Gianni Godi).

Giorgio Linguaglossa

la Storia di una pallottola (nn. 1-13) di Gino Rago è la folle ricerca della Verità, la Cosa perduta e mai più ritrovata. È un nostos, un viaggio a ritroso e sghembo tra realtà, finzione, fantasia e rappresentazione… in una dimensione che è, esattamente, il fuori-dimensione, il fuori-significato.

La Cosa perduta non è d’altronde qualcosa di effettivamente perduto che possa essere ritrovato magari attraverso un ritorno alla natura originaria. La Cosa è il prodotto del “taglio significante” che ha permesso al soggetto di diventare “soggetto umano”, gettato in una (per sempre) “imperfetta” esistenza nel simbolico. L’allucinazione della Cosa perduta attesta proprio la strutturale imperfezione della soggettività umana; segna ciò che “ci manca”, sia nel senso che è “quel che” ci manca per “essere”, sia nel senso che “ci manca”, ciò che va da un’altra parte permettendoci così di esistere. La Cosa, das Ding, è l’attrazione fatale potremo dire, perché è ciò che manca ma anche è ciò che, se (ci) fosse, sarebbe per noi la distruzione e la morte. Cercata in quanto causa di un desiderio che può perdersi fino alla morte, con essa il soggetto ha a che fare da che eksiste al/nel mondo; da che eksiste il soggetto deve fare i suoi  conti con questo “fuori mondo”, con questo “immondo”.
Scrive Lacan:

«Das Ding è originariamente ciò che chiameremmo il fuori-significato. È in funzione di questo fuori significato,e di un rapporto patetico con esso, che il soggetto conserva la sua distanza e si costituisce in una modalità di rapporto e di affetto primario, antecedente a qualunque rimozione».1

1 J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), testo stabilito da J. A. Miller, edizione it. a cura di G. B. Contri, Einaudi,Torino 1994, p. 65.

*

Per Nietzsche l’arte è «il massimo stimolante della vita»1, ma solo perché l’arte è una forma della “volontà di potenza” e non perché sia un mero strumento di sovra-eccitazione nervosa. Già nel 1882 Nietzsche scriveva:

«La nostra epoca è un’epoca di sovraeccitazione, e proprio per questo non è un’epoca di passione;si surriscalda continuamente perché sente di non essere calda – in fondo ha freddo».

L’epoca a lui contemporanea gli si manifesta come un’epoca di affetti frenetici e fugaci ma anche come epoca priva di grandi passioni. Chi è in preda agli affetti si disperde in uno stato sentimentale confuso, vago, sovra-eccitato ma senza centro, mentre la passione, specie la grande passione, raccoglie la soggettività nel suo centro di forza e le consente di aprirsi al mondo,
volendo al-di-là-di-sé, ben al di là delle proprie convenienze e interessi. La passione così intesa ci fa capire qualcosa di ciò che Nietzsche chiama “volontà di potenza”. Continua a leggere

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Video di Gianni Godi con musiche di Antonio Amendola, Poesie, Storia di una pallottola di Gino Rago, Al 103esimo KIRK, di Francesco Paolo Intini

[il video di cui al link sopra riportato, è stato costruito utilizzando le notazioni grafiche su fogli di carta di Antonio Amendola e ascoltando il suono da lui creato. Poco prima della fine del video  potrai leggere spiegazioni più dettagliate.
Gianni Godi]

.

caro Gianni,
grazie innanzitutto per il tuo lavoro, per noi è importantissimo questo incontro tra arti e poetiche artistiche diverse: poesia, romanzo, pittura, video-art e musica. È questo il nuovo modo di pensare e di condividere la nuovissima pop-arte, pop-poesia, pop-video-art, la poesia non può vivere da sola, non può sopravvivere nel suo «splendido» isolamento che è diventato solipsismo autarchico, la poesia ha bisogno del confronto critico e dello scambio tra tutte le arti e con il pensiero filosofico.
Se la patafisica è la scienza delle soluzioni immaginarie, per la pop-poesia non ha senso parlare di «soluzioni immaginarie», la pop-poesia avverte l’esigenza di reinventare il reale come finzione, come gioco di specchi, come costruzione e decostruzione ad un tempo del linguaggio nel linguaggio.
Non si tratta di una riscrittura segnica della realtà, perché la realtà come noi la intendiamo non esiste, ma è già, in quanto tale, frutto di una simulazione; si tratta piuttosto di porre in essere una dissimulazione auto ironica della realtà, perché essa viene distrutta e insieme ricostruita proprio nel non-luogo che la contiene: nello specchio del linguaggio.
L’altra sera Marie Laure Colasson, dopo aver visionato il video di Gianni Godi, ha riconosciuto la grande capacità dell’autore di reinventare il linguaggio poetico in un altro linguaggio, un linguaggio simulacrale fatto di avatar, emoticon, figure tridimensionali che si avvale della stessa grammatica del web per ricostruire un video secondo un modernissimo concetto di spazio simulacrale-virtuale. Ha fatto un pop-video, se così possiamo dire.
(Giorgio Linguaglossa)
Per come la vedo io, Pop è scrivere nel geroglifico del banale. Merito dell’arte pop è quello di rendere manifesto e riconoscibile il banale. Dopo l’epoca della grande narrazione, il passo successivo. Nomi e oggetti del vecchio mondo, ancora qui: autentico vintage.
(Lucio Mayoor Tosi)
…lo finisco il pensiero. Il pop pensiero è l’autentico presente che a un certo punto ci siamo dimenticati che per una serie di ingolfamenti temporali torna finalmente a galla. Dalla deriva, dall’esclusione, a cui era stato sottoposto o riapparendo se preferite. Mi vengono in mente le tanto care missive che quell’instancabile di Rago ha inviato a Ewa Lipska, il prototipo delle lettere alla Maria nazionale. Ergo, quindi Ingravallo e li che deve indagare. Madame Colasson ha un gancio perfetto col buona camicia televisivo. (Uno dei miei scrittori preferiti è Sebastiano Vassalli per come riesce ad essere cronista e protagonista in una sua storia è strabiliante. Un teatro tutto suo, grande!). Termino. Cosa voglio dire? Appunto. Che c’è sempre una parte del presente che dovrà diventare futuro, e viceversa, che dovrà diventare passato.
La pop poesia è il presente che affiora.
(Mauro Pierno)

Gino Rago

Storia di una pallottola n. 10

Metro B. Fermata Colosseo. Sale il Fantasma del Louvre.
Porta una mascherina. Gialla.

Milaure Colasson con la sua Birkin è in fondo alla carrozza.
Sale nella metro il filosofo Stavrakakis.
«È Belfagor! Fermatelo! Le fantôme du Louvre!», grida.

Un agente in borghese pedina Marie Laure Colasson.
«Signora, pardon, mi sono invaghito di lei, non creda a Belfagor, non è possibile,
è una invenzione di Victor Hugo…».

Madame Colasson:
«Monsieur, è tutta colpa di Juliette Gréco.
Rivolga istanza all’Ufficio Informazioni Riservate».

Da una Beretta calibro 9 una pallottola di gomma
colpisce in pieno un kit anti-Covid-19 (mascherina e visiera in plexiglas)
fissata con una molletta sul filo dei panni del balcone del quinto piano.
Il filosofo Stavrakakis litiga con il filosofo Žižek.

Ingravallo dice che Linguaglossa è un sovversivo.
Una volante a sirene spiegate.
Tre giubbotti antiproiettili fanno irruzione al quinto piano di via Pietro Giordani.
Uno, due, tre spari.

Sequestrano tute, occhiali cinesi, una videocamera a raggi infrarossi,
guanti in lattice, un termoscanner, una soluzione idroalcolica, un reagente,
due confezioni di amuchina, mascherine chirurgiche FFP2, tamponi.
Cadono sulla strada dei vasi da fiori sulla testa di due clienti
proprio davanti al negozio di vini sfusi.

Apericena da Rosati a Piazza del Popolo.
Marie Laure Colasson incontra Catherine Deneuve.
Parlano di quella scena che girò tutta nuda in “Belle de Jour”.

Da una finestra:
«Quelli eran giorni, sì, erano giorni. Noi ballavamo anche senza musica…».
Vittorio Gassman parcheggia l’auto sportiva a Piazza del Popolo
nel film “C’eravamo tanto amati” (1974), regia di Ettore Scola con Nino Manfredi,
Stefania Sandrelli e Giovanna Ralli.

Ripostiglio di sartoria teatrale al primo piano di via Gabriello Chiabrera:
manichini, scampoli, aghi, spolette, fili di seta, bottoni, ditali.
Montale sta provando una giacca di velluto a coste fini:

«Ahimè, la Musa mi ha abbandonato,
questi giovinastri preferiscono gli stracci, le discariche abusive, la plastica,
i cassonetti della immondizia…».

Marie Laure Colasson

Egregio poeta Gino Rago,

innanzitutto prendo le distanze da quel poliziotto in borghese che mi ha pedinato durante tutto il mese di agosto in pieno solleone… il figuro non faceva che sbirciare la mia gonna… e poi sono desolata che in questa triste vicenda con il commissario Ingravallo sia stata investita anche l’Ambasciata di Francia cagionando un incidente diplomatico. Tutto ciò per le intemperanze di un commissario inadeguato e incompetente. Sono contenta che Ingravallo sia stato rimosso dal suo incarico e rispedito a Campobasso, suo paese natale. Questo pettegolezzo mi è stato riferito dal Signor Linguaglossa il quale è un notorio “sovversivo” come bene sanno i servizi deviati di stanza nel bel Paese.
Però devo dirLe che il mio incontro con Catherine al caffè Rosati di piazza del Popolo è stato molto piacevole e con lei ho scambiato due chiacchiere sulle nostre rispettive “nudità”.
Non le nascondo, comunque, il mio apprezzamento franco e disinteressato per la sua Storia di una pallottola n, 10…
Aspetto con impazienza il seguito della Storia malfamata. Ma, per favore, non mi faccia più incontrare con quel buzzurro di Ingravallo!
Affettuosamente,
Milaure

Francesco Paolo Intini

Al 103esimo KIRK

Caricare Kirk di responsabilità.
Metterlo in un quadro e fargli suonare la chitarra
Perché non ha fatto “La strada” e non è entrato nel cast di “ Persona”

Kirk non ebbe scelta, rientrò dai 104 nel 70 a.C.
Fu vera gloria suonare sul monocordo “Libertà o Morte”
E Goya alla cinepresa
-Non è così che si alzano le braccia e si pronuncia “VIVA”.
stai presenziando l’ Oscar o l’Aspromonte?

In un genoma comunismo e critica cinematografica:
a ognuno secondo il sogno.

Mc Carthy? Una funzione di stato.
Il leninismo una vampa di calore.

Uomini e caporali sul campo di battaglia.
Da che parte è la guerra?

La classe operaia impara dai ricci a sotterrarsi.
E dopo i titoli di coda la Via Lattea fino a Capua.

Scartavetrando azzurro cenere
Soltanto un lampo di pessimismo
croce n. 2020 in un campo di papaveri

Si intravede l’etichetta di un pomodoro
Spartacus con le istruzioni di una battaglia 3D.
Michelangelo al rifiuto della Pietà

Poi perde la vita banalmente
per evitare che un ramarro finisca tra le ruote

 

SPARI DI WARHOL

C’è uno sbuffo tra le silver clouds
e dalle inferriate sfugge acroleina.

L’ala del corvo fa un cigolio
-Papà è lo sportello della cinquecento

L’albero della piazza ha dato i fichi in pegno
ma ci ha guadagnato investendo a Singapore.

C’è da credere a quello di Hong Kong.
Ride Ollio della libertà.

Bisogna riscaldare la scena milioni di gradi
per avvicinarlo a Lenin.

Dopo tutto la produzione di un pensiero pulito
richiede che si brucino due cartoon.

È’ scritto che qualcosa si perda nel telecomando.
Partono missili a zig zag. Acqua brucia nei polmoni.

L’accostamento in olio bollente
schiude l’uovo dell’universo.

Bucefalo scaccola le sue narici.
Alessandro ride a quaranta denti.

Totò compra la Cappella Sistina.

 

FIRME DI PRESENZA.

L’uomo di Cromagnon si affacciò con un pacco da firmare.
Chi era Dio tra loro?

L’autentica è scomparsa e duole stare in piedi dal big bang.

La penna è sul muro.
Calcinaccio che conserva gli occhi di cerva
E l’ordine dal più sudato al meno.

L’ odore ha la sua parte proibita.

HAL 9000 dunque e dopo un astronauta.
Palpa la camicia per riconoscere il male al petto.

Graffio di Caino sulla visiera.
Si diede da fare nella metallurgia e scoprì qualcosa che poi gli fruttò ricchezza.

Assomigliava al Neanderthal,
un brav’uomo deceduto durante una rapina in banca.
Ci morirono delle guardie giurate.

Sbrigarono la faccenda all’alba
e si accusarono a vicenda pur di nascondere
un tizio somigliante a Lorca.

La conservazione nell’inconscio è perfetta.
Soltanto di notte esce qualche indizio sulla vera identità.

In sostanza anche i versi furono assorbiti,
caddero giù per il pendio e si fissarono nella foiba.

Una stalattite ride del cobra su Wall Street

 

Giorgio Linguaglossa

C’è un «significante eccedente» che caratterizza la poesia moderna e contemporanea, questo è indubbio, ma ciò che caratterizza la poesia della nuova fenomenologia estetica della top-pop-poesia, della poetry-kitchen o pop-corn-poetry è una particolare idea di «significante eccedente». Pensare questa idea soltanto nel senso semantico come ha fatto lo sperimentalismo e la poesia tardo novecentesca, a mio avviso sarebbe limitativo. Qui occorre pensare l’«eccedente» nella accezione di uno scarto e di un residuo non assimilabile ad alcun significato stabilito; a questo punto si apre uno spazio di «gioco linguistico» nel senso di Wittgenstein sconosciuto alla poesia del Moderno, impensabile dalla poesia del modernismo del novecento. È questo salto mentale che bisogna fare, altrimenti si ricade inevitabilmente nella poetica del significato e del significante.

«Noi crediamo che le nozioni di tipo mana, per quanto diverse possano essere, considerate nella loro funzione generale… rappresentino esattamente quel significante fluttuante, che costituisce la servitù di ogni pensiero finito (ma anche la garanzia di ogni arte, di ogni poesia, di ogni invenzione mitica o estetica), sebbene la conoscenza scientifica sia capace, se non proprio di arrestarlo, di disciplinarlo parzialmente».1

Lévi-Strauss, citato da Giorgio Agamben, Gusto, Quodlibet, 2015 p. 47 e, in Enciclopedia Einaudi, vol. 6, Einaudi, Torino 1979.

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Sulla pop-poesia, top-pop-poesia o poetry-kitchen, Poesia inedita di Mauro Pierno, Pop è scrivere nel geroglifico del banale, Lucio Mayoor Tosi, Covid garden, acrilico, 2020, Commento di Giorgio Linguaglossa

Lucio Mayoor Tosi Covid Garden Blues 40x50 cm acrilico

Lucio Mayoor Tosi, Covid Garden Blues acrilico 50×70 cm, 2020 – 

Non il prodotto in sé né soltanto il suo significato, ma gli stessi significanti sono diventati ormai oggetti di consumo, che raccolgono il proprio potere e fascino dall’essere strutturati per costituire un codice segnaletico. Il colore-segno è stato talmente svuotato di soggettività, analogamente alla merce, che vive nella cromia e nella cromatura, nella doratura metallizzata delle automobili bicolori e del design di questi ultimi anni. È stata questa la triste sorte capitata al colore nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, tanto da renderlo inutilizzabile ai fini dell’arte figurativa e figurale, in quanto il sistema figurativo è stato catturato dal sistema di significazione che lo ha ridotto a stigma di differenze e sintesi di un macro processo di differenze sempre eguali. Il valore dell’oggetto-colore si è venuto così a costituire a partire dal codice di correlazione, che a sua volta non richiede alcuna ermeneutica semiologica o semantica. Il feticismo della merce si riflette nel feticismo del colore sul piano del significante nella produzione degli oggetti seriali e delle forze (ri)produttive. Non è tanto il significato del singolo oggetto a conferire valore all’oggetto, ma è la struttura di significazione relativa e di scambio quella che decide del suo valore. Non è il feticismo dell’oggetto-colore a sostenere lo scambio, ma è il principio sociale dello scambio che sostiene il valore feticizzato dell’oggetto-colore.
In Lucio Mayoor Tosi l’oggetto-colore esercita il proprio fascino in quanto il soggetto dimentica in esso la propria soggettività alienata, proprio come in un taumaturgico gioco di specchi. Il feticismo è alimentato dal gioco di specchi e dal desiderio di socialità che si esprime appunto come sistema di scambio di segni, come sortilegio, atto magico, struttura di differenze che agisce attraverso il coinvolgimento di un soggetto preso e catturato nel sistema di differenze sempre eguali, nel sistema semiotico-semantico. Il valore non si acquisisce nella differenza e nello scambio che, tra l’altro, coinvolge e struttura gli stessi soggetti come oggetti, quali partecipanti affascinati dalle regole del gioco, ma in un sistema di relazioni segniche che decidono del valore. Ed è quello che fa Lucio Mayoor Tosi ribaltando i piani e rovesciando il tavolo di gioco. Simulazione, dissimulazione, reversione dell’ordine simbolico appartengono al gioco simulatorio del sortilegio. Lucio Mayoor Tosi decide di impiegare il sortilegio. Il “garden” del Covid19 mette allo scoperto la inanità di ogni figuralità che voglia porsi il compito della mimesis. Anche l’astratto viene colpito dal tabù della nominazione e della rappresentazione, ciò che resta sono dei segnetti di colori su spazi tonali di acrilico, spazi neutralizzati di segni neutralizzati. Così, a neutralizzazione avvenuta, si avvera il naufragio della pittura post-Covid, possibile soltanto nella forma della pictura-kitchen, pop-pictura, pittura come simulazione in vitro del banale-reale, pittura come replicazione all’infinito della propria inibitoria capacità di replicazione nel reale. Pictura come capacità virale di replicazione nel tessuto recettorio della ricezione semantica. Pictura come deposizione della propria potenza semantica inibita nell’atto imbonitorio del fare poiesis.
(Giorgio Linguaglossa)

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Ringrazio, Giorgio. Vero, le relazioni segniche decidono del valore… il piacere estetico è rivivere l’atto, il gesto (come appunto nella passata corrente della pittura gestuale, occidentale e orientale). Però manca lo psico dramma informale, dove si riempiva tutto… Al contrario, io metto vuoto e segni di diversa grafia. Come di un Pollock rasserenato, non più tormentato da se stesso ma aperto a diverse contaminazioni. Come dici tu: ” è il principio sociale dello scambio che sostiene il valore feticizzato dell’oggetto-colore”. In qualche modo, questo mio “Covid Garden Blues” è un’opera partecipata. Voci diverse, musiche e rumori. Il tempo, poi, unisce i colori.
Dal pensare postmoderno ho tratto maggiore libertà d’azione. Posso fare un’operetta come questa con citazioni Pollock, Keith Haring o Basquiat, e altre dove recupero Kandinsky. Ma ragionando, non ci si ammala di aids o di alcolismo. E’ pittura fredda.
(Lucio Mayoor Tosi)

*

È il «reale» che ha frantumato la «forma» panottica e logologica della tradizione della poesia novecentesca, i poeti della nuova ontologia estetica si limitano e prenderne atto e a comportarsi di conseguenza.
Se la patafisica è la scienza delle soluzioni immaginarie, per la pop-poesia non ha senso parlare di «soluzioni immaginarie», la pop-poesia avverte l’esigenza di reinventare il reale come finzione, come gioco di specchi, come costruzione e decostruzione ad un tempo del linguaggio nel linguaggio.
Non si tratta di una riscrittura segnica della realtà, perché la realtà come noi la intendiamo non esiste, ma è già, in quanto tale, frutto di una simulazione, di un gioco di carte; la pop-poesia o la poetry-kitchen di Mauro Pierno pone in essere una dissimulazione auto ironica della realtà, perché essa viene distrutta e insieme ricostruita proprio nel non-luogo che la contiene: nello specchio del linguaggio.
(Giorgio Linguaglossa)

*

Per come la vedo io, Pop è scrivere nel geroglifico del banale. Merito dell’arte pop è quello di rendere manifesto e riconoscibile il banale. Dopo l’epoca della grande narrazione, il passo successivo. Nomi e oggetti del vecchio mondo, ancora qui: autentico vintage.
(Lucio Mayoor Tosi)
Lucio Mayoor Tosi royal-coronavirus

Lucio Mayoor Tosi, Covid garden 40×50, acrilico, 2020 – Se guardo portando attenzione agli spruzzi e ai segni, l’opera diventa pioggia che cade su l’ombra di un’astronave di passaggio. Più spesso, rivedendolo in fotografia, è l’ombra ad attirare l’attenzione. Sembra la testa di un cane, o di un cavallo. Ma il tema è Coronavirus in dose massiccia. Nell’aere, tra fili di paglia e sangue.

Lucio Mayoor Tosi Covid garden, 40x50, 2020

Lucio Mayoor Tosi, Covid garden 40×50, acrilico, 2020

Mauro Pierno Compostaggi

Libro di Mauro Pierno in corso di stampa

Mauro Pierno

Tutti allo stesso tempo
(Ossia un concerto di voci
Ovvero coincidenze)

Personaggi:
Emme
Erre
Emmea
Ci
E
Gi
A
Effe
Esse

L’operatore, ovvero

studio teatrale 22.04.90
rivisitazione maggio 2020

AMBIENTAZIONE: (nove posti a sedere disposti a diversa altezza; agli estremi di essi alcune file di scatole tutte uguali. Nove individui occupano i rispettivi posti e a ritmo si passano le scatole. Tutti sono vistosamente scalzi. S, ad un estremo, avrà il compito di ripristinare la fila di scatole; dall’altro capo, M, avrà cura di riproporre il giro delle stesse. Gli altri personaggi: R, Ma, C, E, G, A, F.)

(Terminando il giro silenziosamente)
M
R
Ma
G :
A :
F :
S : vuota!

M: Incomincio ad essere stanco.
R: che senso ha?
Ma: appunto che senso ha?
C: …” Che senso ha?” Cosa?
E: questa ricerca suppongo?!
G: no, no…forse il senso…
A: …ho inteso!
F: io niente!!!
S: centro quarantatré! Vuota! Continua a leggere

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