Tre Strutture dissipative del 2020 di Marie Laure Colasson, Il gesto linguistico e il gesto pittorico, Dalla scrittura a frammenti al polittico e alla poetry kitchen, L’arte insegue il reale o è il reale che insegue l’arte? Dialogo tra Lucio Mayoor Tosi e Giorgio Linguaglossa, Scopo dell’arte è reinventare il reale, Poesie di Mario M. Gabriele, Carlo Livia

Marie Laure Colasson XY Struttura dissipativa 25x60 2020

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa XY, acrilico 80×30 cm, 2020

Marie Laure Colasson YY Struttura dissipativa 2020

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa YY, acrilico 50×30 cm., 2020

Marie Laure Colasson XX Struttura +dissipativa

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa XX, acrilico 50×30 cm., 2020

Ed ecco che la struttura dissipativa di Marie Laure Colasson giunge alla sismografia della luce e delle forme, alla spettrografia come sismografia del frammento, al frammento come linguaggio originario, linguaggio allo stato aurorale incipitario. Perché lo scopo dell’arte è oggi quello di reinventare il reale. Occorreva ripartire dall’alfabeto e dal lessico del frammento e dalla forma frammento, dalle forme primordiali della curva e della semiretta, dalla luce e dal colore per poter costruire una nuova sintassi dove la forma-colore e la forma-limite assumessero un ruolo determinante. Il tratto, il graphein singolare trascrive la sismografia del testo, il luogo-non-luogo che soltanto il frammento può abitare. Ha scritto Lucio Mayoor Tosi: «vedere come può stare un verso lanciato nel vuoto, senza una chiara ragione e soprattutto senza difese. Come un bengala nel buio, un verso nel futuro».

Il commissariamento della poiesis

Il tedio di Dio, la mia ultima opera, pubblicata nel 2018 per i tipi di Progetto Cultura di Roma segna un punto: la scomparsa dell’io  totalitario e panottico che ha fornito il binario della poesia europea dal 1970. L’io oggi non è più il punto di riferimento del discorso poetico. La poesia dell’io e delle sue adiacente che si fa in Europa da alcuni decenni è Kitsch e conformismo senza neanche avere coscienza del kitsch.

 «Il frammento è il sigillo di autenticità dell’arte moderna, il segno del suo sfacelo», ha scritto Adorno nella Teoria estetica nel 1970pensiero quanto mai vero che si insinua all’interno del facere della «nuova poiesis» con lancinante attualità. L’aforisma di Minima moralia che recita Das Ganze ist das Unwahre («il tutto è il falso») è il rovesciamento di un noto passo della Fenomenologia di Hegel che recita: «Il vero è il tutto [Das Wahre ist das Ganze]». La poetica del «frammento» e la poetry kitchen sono la risposta più drastica che la poiesis oggi dà alla Crisi dell’arte, con la consapevolezza che la poiesis del «frammento» è la poiesis del negativo, della negatività assoluta che confuta il «vero» e il «falso», il «vuoto» della «totalità» che abita l’ideologia della compromissione in cui oggi tutti siamo coinvolti. Le immagini della poiesis diventate effimere, serializzate, moltiplicate, e quindi de-realizzate, precipitano nel valore di scambio e nella inautenticità di qualsiasi enunciato che oggi la poiesis possa abitare.

Ad essere revocato nel nulla, e cioè nell’inesistente, è il «valore» della poiesis, è la posizione nel mondo della poiesis, tant’è che non suscita più alcuna meraviglia che le immagini dell’arte siano state sostituite con gli avatar, le copie, le icone. In questo contesto, la diagnosi di Fredric Jameson sul postmodernismo (secondo cui le tipiche armi dell’avanguardia novecentesca: lo choc, la rottura, lo scarto, l’incomunicabilità, il nuovo sono diventate variabili richieste dal sistema, replicabili e serializzate all’infinito) coglie nel segno. Parlare del valore di posizione, di op-posizione della poiesis, è oggi una utopia da anime intonse. Semmai, lo scopo della poiesis non è tanto creare un varco nella significazione ma negare la stessa significazione per sostituirla con il «vuoto» del segno.

«È ormai ovvio che niente più di ciò che concerne l’arte è ovvio né nell’arte stessa né nel suo rapporto col tutto; ovvio non è più nemmeno il suo diritto all’esistenza», ha scritto Theodor W. Adorno nella Teoria estetica.

(g.l.)

Mario M. Gabriele

Una Jeep  Renegade ferma davanti alle VideoNews.
Signorina Borromeo, l’aspettiamo qui
dove  meglio si possono leggere i suoi pamphlets.

Non dicono molto
ma rappresentano episodi di prosa spontanea.

Esterno. Campo vietato. Bandiere a mezz’asta.
Resiste in classifica
L’Enigma della camera 622 di Joel Dicker.

Meg ha in mente un viaggio,
lasciando la speranza ai poveri  e i copecki ai ciechi.

Un Web-designer accende il PC
per correggere i fogli di Criminal Found.

Rivediamo i Mondi di Oz
anche se Turner lo fa di malavoglia.

Il cane bassotto
non trovò le tracce dell’assassino della piccola Maddie.

Tace la radio Deejay. Non c’è nessuno
che ascolti gli Scorpions.

Tornano in gioco Hamm e Clov
nella Febbre del Sabato Sera.

Volano i tweet. –Andrà tutto bene.
Ne sono sicuro- ,  disse il tutor su Instagram.

Si è fatto tardi. Silenzio blu notte
con flash mob lungo il colonnato.

Una farfalla muore sul poster di Guernica.
La guardo se mai dovesse volare via.

TM 22 è il numero del Call Center
per vedere Shining di Stanley Kubrick.

-Manca l’attitudine a produrre verità e trarre un film-
disse il critico all’autore della sceneggiatura.

Schermo piatto.Colore nero.
Diffusione di lampade Led in Galleria.

Miss Klary  stava dietro ad una storia
dopo i dati dei subplots.

Voce di fondo e inquadrature a fumetti
nelle mani  di un viaggiatore nel mondo.

Dolly voleva riprendere il cielo con uno Zoom
e ricavarne una Metafisica.

-Va bene, puoi provarci.
Saranno le nuvole a distrarti-,
disse  Seanbook, manager del Progetto Outline
affiliato alla Glenn Artur jr e Company di Filadelfia.

Ginsberg, in quarantena, chiedeva Howl.
Voleva mettere qualcosa di suo e della Corea
con uno shock  stellato di misericordia.

caro Mario,

Per capire il mondo attuale non abbiamo più bisogno della poesia.
L’arte che si fa oggi in Europa è simile al dolcificante che si mette nel veleno.
I piccoli poeti pensano al dolcificante in dosi omeopatiche…
È molto semplice: Dopo le Avanguardie non ci saranno più avanguardie, né retroguardie, le rivoluzioni artistiche e non, non si faranno né in marsina né in canottiera. Non si faranno affatto.
La tua poesia, caro Mario, è l’epitaffio più sincero che oggi si possa scrivere per il cadavere della poiesis.

(Giorgio Linguaglossa)

caro Giorgio,

La mia perplessità è un’altra: ci sono voluti anni per mettere a punto un discorso critico sulla scrittura a frammenti, anni per creare in distici (tra l’altro, allo scopo, penso io, di stabilire una situazione d’obbligo alla poesia, non divagante ma per aprire gli occhi, svegli nel sogno), anni per la struttura a polittico (come per allargare confini), per poi ripiegare sul verso libero, anche se in forma di casamatta, cioè di architettura non per upper class… ora Pop, tra Rushdie e il Tarantino di Pulp Fiction, la più avanzata cinematografia. Tutto questo mentre sento crescere, nel mio piccolo mondo, il bisogno di riordinare (il mio stupore nell’accorgermi di stare nel marasma con simil doppi ottonari e novenari)… Abbiamo riaperto le danze?

(Lucio Mayoor Tosi)

caro Lucio,

penso che scopo dell’arte sia quello di reinventare il reale. Come apparirà chiaro leggendo la poesia di Intini o di Gino Rago, nella nuova ontologia estetica, la forma grammaticale non è una eco visibile di un pensiero invisibile che si trova nella cellula monastica dell’io del poeta. Al contrario, è la forma grammaticale che determina ciò che io penso, è la struttura grammaticale e la struttura sintattica che determinano ciò che io penso. L’io è quindi un epifenomeno. Ecco spiegato perché nella nuova ontologia estetica l’io è quasi assente, o, se è presente, è presente come un io tra i tanti. Il significato è un evento secondario del linguaggio, direi un evento terminale, l’evento primario sta a monte del significato e, a rigore, a monte del linguaggio, alla sorgente del linguaggio. L’evento è l’atto sorgivo del linguaggio.

Per Wittgenstein il significato non è un evento mentale: Quando Wittgenstein nelle sue osservazioni filosofiche, analizza il grido «Lastra!» che il muratore dice al manovale di passargli una lastra, cioè che qualcuno deve portargli una lastra, vuole far capire che tutto dipende dal modo in cui quel grido è usato, dal contesto in cui accade e, più in generale, dall’insieme delle relazioni che sussistono tra i parlanti, non da ciò che eventualmente passa per la mente di chi parla. Ma ciò è quanto dire che non possiamo fare riferimento al pensiero per considerare incompleta una forma linguistica: ciò che pensiamo, per Wittgenstein, non determina il significato delle nostre parole.

Quando metto sotto accusa il capitalismo internazionale non mi passa per la mente un giudizio già preso perché so che ciò che io chiamo il mio pensiero è una diretta conseguenza dello stato delle cose che il capitalismo determina nel mondo. Io non sono un populista che mescola patate e pomodori e arsenico, io mi limito ad argomentare che le patate e i pomodori sono cose diverse dall’arsenico, anche se tutti e tre questi prodotti sono manufatti del capitalismo. Il marxista comunista che esprime un pensiero critico sa che il significato che noi diamo alle nostre parole è un epifenomeno del linguaggio che viene impiegato. Ma una poesia di Intini o di Gino Rago o di Marina Petrillo sono cose diverse proprio in quanto manufatti distinti, ma sono tutti prodotti del sistema capitalistico e del pensiero critico che si innerva nel linguaggio.

Wittgenstein ci dice che un gesto linguistico ha un significato non già in virtù dei pensieri che attraversano la mente di chi parla, ma in ragione della sua appartenenza ad un determinato «gioco linguistico». Ne segue che alla forma grammaticale del linguaggio non è affatto chiesto di rispecchiare i pensieri che abitano e sgomitano nella nostra mente mentre la esterniamo, poiché il senso di una proposizione dipende dall’uso che se ne fa in una circostanza determinata. E ogni nuova circostanza determina un nuovo «gioco linguistico», e così il «gioco» va avanti e il «significato» delle parole cambia, si modifica. Ciò che pensiamo non determina il significato delle nostre parole. Il significato è determinato dal «gioco» di innumerevoli fattori che intervengono all’interno del campo del linguaggio.

Scrive Wittgenstein:

«quanti tipi di proposizioni ci sono? Per esempio: asserzione, domanda e ordine? — Di tali tipi ne esistono innumerevoli: innumerevoli tipi differenti di impiego di tutto ciò che chiamiamo «segni», «parole», «proposizioni». E questa molteplicità non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte; ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giochi linguistici (come potremmo dire) sorgono e altri invecchiano e vengono dimenticati. (Un’immagine approssimativa potrebbero darcela i mutamenti della matematica). Qui la parola «gioco linguistico» è destinata a mettere in evidenza il fatto che il parlare un linguaggio fa parte di un’attività, o di una forma di vita. Considera la molteplicità dei giochi linguistici contenuti in questi (e in altri) esempi: comandare e agire secondo il comando — Descrivere un oggetto in base al suo aspetto e alle sue dimensioni — Costruire un oggetto in base a una descrizione (disegno) — Riferire un avvenimento — Far congetture intorno all’avvenimento — Elaborare un’ipotesi e metterla alla prova — Rappresentare i risultati di un esperimento mediante tabelle e diagrammi — Inventare una storia; e leggerla — Recitare in teatro — Cantare in girotondo — Sciogliere indovinelli — Fare una battuta; e raccontarla — Risolvere un problema di aritmetica applicata — Tradurre da una lingua in un’altra — Chiedere, ringraziare, imprecare, salutare, pregare».1

(Giorgio Linguaglossa)

1 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, § 23.

caro Giorgio,

Ma tu pensi davvero che io abbia avuto un pensiero a monte, o peggio una opinione in merito alla vicenda di Silvia Romano, tale da dover essere comunicata in poesia? Questa mia è una risonanza, un prestito, un guazzo figurativo, una restituzione dovuta a quanto nella mente ho recepito della bagarre pseudo politica di questi ultimi giorni.
Di solito evito la poesia dedicata, ma ho avvertito il momento favorevole al non senso. In momenti così posso scrivere qualsiasi cosa. E’ accaduto.
Il non senso è scrittura che si fa con il vuoto, non può darsi con alcun progetto. Quindi, per restare nel tuo pensiero, il non senso sfugge al sistema capitalistico, come a qualsivoglia ideologismo. Caro Giorgio, io non mi pre-occupo di essere di sinistra, penso di essere l’unico comunista sereno che esiste al mondo. Non indugio su l’istinto di morte perché so che morte e vita, una forza e l’altra, sono Yin e Yang che si intersecano, e una va nell’altra sicché l’immagine a me non pare affatto divisa, o contrapposta. Anche questo è “pensiero critico che si innerva nel linguaggio”.

(Lucio Mayoor Tosi)

caro Lucio,

io alle poesie a tema non ho mai dato credito. Si tratta di poesia-a-tesi. E la poesia, la Musa rifugge da ogni tesi, foss’anche la più nobile. In questo senso la tua poesia è bella, ma è troppo «direzionata», alla fine non dice niente di più di quel che dice, rientra nel «significato» che volevasi dismettere e far uscire dalla finestra.

Se leggi la prima e poi la seconda versione della “Storia di una pallottola” di Gino Rago, ti accorgerai che nella prima stesura la poesia era troppo fedele al «significato», nella seconda invece si è liberata del e dal «significato» e il risultato è senz’altro migliore.

Questa strenua lotta al significato contraddistingue tutta la poesia della nuova ontologia estetica, è una lotta incessante perché il «significato» ci circonda da ogni parte e ci soffoca e la Musa muore soffocata dai truismi.

Tu dici che «il non-senso sfugge al sistema capitalistico»? Io invece penso che il sistema capitalistico è il regno del non-senso complessivo perché è fondato sulla legge del plusvalore e della accumulazione del capitale che, in sé è un non significato, è un atto di fede. Nient’altro. È una religione e, come tutte le religioni, è basato su un atto di credenza, cioè di fede. Se cessa la credenza nella bontà della accumulazione del capitale cessa di colpo anche il capitalismo. Ma queste cose le ha ben spiegate Agamben (per ultimo).

Io penso che quando tu fai poesia per scherzo, dissipi le tue migliori qualità. La poesia non è uno scherzo, e anche quando assume la forma di un divertissement, dice cose molto serie.

(Giorgio Linguaglossa)

Carlo Livia

UNA CANOA DI LAMPI

Se Tu
( in sogno )
ritorni nella Pausa
( capovolta invano )
sospinta in alto verso
( nuvole, sospiri, particole svanite )

Se Lei
( nella pioggia pallida )
ti chiede la gioia suprema
(del mondo senza di te )

Se Tu rifiuti e ti armi di
( parole, tenebre, farmaci, spigoli )

Assassinando la sera il lampione
( il cuore ) sbaglia tristezza

( l’addio è pieno di germogli di donna
ma ha la malattia immortale )

Se il suo corpo ti dice assente ma
( ha canti e prigioni inesplorabili
decompone l’angoscia in sette precipizi morbidi )

In fondo ad ogni anima
c’è la stessa Vergine implacabile
che aspetta

Ai suoi piedi il livello dell’amore
( dell’orrore )
cresce come un fiore

11 commenti

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11 risposte a “Tre Strutture dissipative del 2020 di Marie Laure Colasson, Il gesto linguistico e il gesto pittorico, Dalla scrittura a frammenti al polittico e alla poetry kitchen, L’arte insegue il reale o è il reale che insegue l’arte? Dialogo tra Lucio Mayoor Tosi e Giorgio Linguaglossa, Scopo dell’arte è reinventare il reale, Poesie di Mario M. Gabriele, Carlo Livia

  1. https://lombradelleparole.wordpress.com/2020/07/09/30215/comment-page-1/#comment-66054
    Sul pop top, sulla poetry kitchen, sulla soap poetry e la top picture

    Siamo all’interno di un gioco di specchi. Ciò che vediamo sono le illusorie metastasi della realtà.
    Sorprendono gli intenti esecutivi della coloristica di Marie Laure Colasson e gli incisi narrativi di Mario Gabriele: la maestria comune ad entrambi nel modo dei tocchi, degli affondi, degli incisi, nel recupero fulmineo di tracce di memoria e di tracce di rovine, di avatar, di esperienze stracotte. D’istinto, c’è il seguire i punti culminanti o luminosi d’un oggetto; vengono esasperate le relazioni, in modo da imporre all’attenzione dello spettatore il reticolo accidentale o, semplicemente, evenemenziale della datità. Le sensazioni dello spettatore vengono così dinamizzate in un difficile gioco tra la volontà di vedere tutto e magari anche la rimembranza e la negligenza di non vedere null’altro che inezie, aspetti secondari, modellizzazioni esornative. Vengono ad evidenza l’arabesco del contorno e l’intreccio dell’incontro con il superfluo, tra rapide indicazioni, masse cromatiche, stadi accennati, intensità di luci e di ombre, schermi ottici e leggi morfologiche che convivono beatamente, in bilico tra un’ottica coloristica e un’esigenza tattile e mnemonica.

    Momenti percettivi dissonanti si continuano e si accostano delineando i contorni di un immaginario già cinematografico. Un racconto visivo con una trama fatta di orme invisibili, di legami celati, di ripostigli oscuri, segmenti letterari, citazioni simili a inquadrature, che ritraggono volti, occasioni, scenari, situazioni, flâneries per disegnare un ordito libero, eppure segretamente organizzato, che sembra replicare le disarticolazioni del nostro modo di vita, tra percorsi, reti, rinvii, in-direzioni, parti che collegano e s-collegano altre parti. Flussi che si intersecano, trasformano il testo in una sequenza che contiene altre sequenze, citazioni che contengono altre citazioni in un gioco di rimandi e di rinvii caleidoscopico. Scrittura narrativa caratterizzata da sorprendenti interruzioni – impressioni quotidiane colte con agili tecniche della ripresa continua e interrotta –, che potrebbero essere interpretati anche come volontarie citazioni del linguaggio filmico.

    L’occhio sensibile ai dettagli, alle casualità, a ciò che abitualmente si trascura nella quotidianità, il desiderio di toccare la realtà mentre si fa e si disfa dinanzi a noi, il culto per ciò che è stato dimenticato, smarrito, rimosso. Una visione dialettica della immobilità. Questo è propriamente una scrittura top pop oggi.

    Il flâneur, gli avatar, i personaggi da fumetto sono, al pari del regista del film, dei detective, come i commissari nelle poesie di Gino Rago, che si consegnano alle incursioni del caso. Ad accomunarli è il bisogno di saldare sguardi e luoghi, in un gioco che tende a rendere ogni dato liquido e instabile. Fanno il reportage, perlustrano regioni inesplorate, intrattengono un costante dialogo con la datità e la surrealtà, il tutto per avversione della normografia opprimente del mondo odierno. Vogliono captare tutte le voci che, in contemporanea, insistono nella datità. Elaborano una filologia disinvolta per entrare dentro le tessiture del mondo. Analogamente allo straccivendolo benjaminiano, essi si aggirano negli anfratti di una temporalità frantumata e disgiunta, che non si srotola come un filo, ma appare come una corda sfilacciata in mille matasse che pendono come trecce sciolte. Per loro, uno specifico motivo non è un punto fisso, né un processo, non è una linea, ma un arabesco di traiettorie e di conflitti, di spostamenti e di salti. Sanno porre in relazioni tracce marginali, cuciono insieme vestigia, rifiuti, cadute, equivoci, ordinano un catalogo di cascami e di rovine, rinunciano alla facile sintassi del racconto, collezionano minuzie, raccolgono reliquie e oggetti disparati, interrompono cliché, conferiscono spessore a rimozioni e a dimenticanze. Catalogatori di merci usate, interagiscono con il paesaggio delle merci contraffatte e demiurgiche della civiltà globale. Fanno un archivio del disutile e del rimosso.

  2. mariomgabriele

    Primo commento, primo posto in Top Ten per il modo in cui Giorgio Linguaglossa ha disvelato ai lettori, la pittura della Colasson e i miei testi, cogliendone il DNA del pop-top, della poetry-kitchen, della soap-poetry e della top-picture.

    Fuori da questo elenco, c’è poco spazio da aggiungere, quasi nulla se non sottoponessimo i soggetti-oggetti ad una indagine psicoanalitica; e qui il discorso diventerebbe un punto di contatto fra linguaggio letterario e linguaggio dell’inconscio.

    Bisognerebbe considerare anche questi due eventi. a cui non dovrebbero mancare il processo creativo, i tempi di una procedura narrativa o coloristica, proiettati all’esterno come una carrellata di plurieventi, tra aperture e dissolvenze, rapporti distaccati e incrociati, che messi insieme fanno da panoramica o da Pan-Shot come nei film.

    Non è tempo di reportage o di identikit di personaggi chiamati.in una sequenza di dati e dettagli al’interno di testi poetici. Non c’è più confronto con la norma, col codice che abbiamo istituzionalizzato con la NOE e il Distico e via dicendo: tutto un mondo specifico e costruttivo a cui Giorgio si era preparato per una nuova antologia e che, purtroppo i soprassalti linguistici hanno messo al muro dissolvendo ogni speranza.

  3. La forza dell’intuizione, dall’altra parte della strada. Enorme una mongolfiera in terra.
    Gonfia la speranza dell’ attesa.
    A pedale la pompa al sottoposto, tranquillo con il manometro sotto un piede.
    Spinge l’ovatta su per le gambe, gli infila salsicce, calzini,
    stracci e mutande dall’unico foro. L’ingrassa.
    Le parole son ferme tra il coggice e l’ano.
    Questi versi bellissimi la fanno volare:
    “Ai suoi piedi il livello dell’amore
    ( dell’orrore )
    cresce come un fiore”

    GRAZIE OMBRA.
    (Un saluto particolare a Carlo Livia. Grazie.)

  4. milaure colasson

    tanto più il mondo si avvia verso il disastro quanto più occorre essere lucidi.

  5. Carlo Livia

    “O uomo! Ascolta!
    Che dice la mezzanotte fonda?
    – Dormivo, dormivo,
    da un sonno profondo mi sono destata –
    Il mondo è profondo
    più profondo di quanto il mondo credeva.
    Profondo è il suo male.
    Il piacere – più profondo del dolore:
    Il male dice: passa!
    Ma ogni piacere vuole eternità –
    vuole profonda, profonda eternità!
    (Nietzsche)

    Questo testo, il penultimo dello Zaratustra, fu musicato da Mahler, e costituisce lo splendido adagio per voce di contralto, della terza sinfonia. Il brano, a sua volta, fa da sfondo sonoro al momento culminante del capolavoro di Visconti, Morte a Venezia: il protagonista, maturo e celebre musicista, naufraga definitivamente e rinuncia ai suoi pregiudizi morali, davanti all’ implacabile seduzione del giovane adolescente Tazio.

    Nietzsche ribadisce la sua eternità circolare (“nessuna donna ho amato più di te, eternità ” dice in un altro frammento), invocata dal piacere, in contrasto con il tempo lineare, soteriologico, finito, concluso nell’altra eternità, del cristianesimo.

    Resta da riflettere sulla aporetica valenza di questa dimensione ontologica, per cui il nulla è all’origine (ermeneutica, prospettivistica, illusoria) del pensiero-linguaggio, ma non in una assiologia escatologica.
    Del resto, anche in ” La Visione e l’Enigma “, dove si narra del pastore che sta per essere soffocato dal serpente che gli è entrato in bocca, e si salva staccandogli la testa con un morso, la simbologia è ambigua. Sembra che questo gesto spezzi, piuttosto che fondare l’Eterno ritorno. Anche per il sorriso che “trasfigura” alla fine il pastore, chiara reminiscenza evangelica.
    È chiaro che tutto il pensiero nicciano, nell’ultimo periodo, è colmo di contrasti ed echi profetici difficilmente risolvibili nella rispettiva da lui indicata, del superomismo illuministico e dionisiaco. In fondo la sua figura ci lascia più che altro perplessi e pieni di compassione (che lui tanto detestava!), soprattutto se pensiamo alla sua fine, quando, ormai pazzo, si firmava “Il Crocifisso “.

    La sua eredità filosofica di maggiore risultanza, credo possa essere intesa nello sforzo di superare il nichilismo derivante dalla metafisica platonica. È in Heidegger che questo esito raggiunge la suprema esplicazione, quando vede la filosofia mutarsi in scienza, seguendo il destino di annientamento dell’Essere. Ma non perché sia stata sconfitta, al contrario, perché ha trionfato, ha raggiunto il culmine, si ècompiuta, proprio perché nella scienza il pensiero oggettivante, nichilistica della metafisica, raggiunge il massimo, ormai incontrastabile grado di potere.

    Questo è l’esito del pensiero che, da Platone a Cartesio, si pone al principio dell’Essere, negandolo e destinandolo al Nulla. Nella visione dei mistici, anche occidentali, accade esattamente il contrario. L’Essere ( Dio) è all’origine, il pensiero umano la sua eclissi.

    “Quando dunque ti sei guardato dentro di te, vedi che IO SONO E TU NON SEI”.

    “Veramete! Io e tutte le creature non siamo nulla, soltanto Tu sei, e sei tutte le cose”.
    (Meister Eckart).

    Carl Gustav Jung, nel “Libro rosso”, testo che raccoglie visioni, sogni e teofanie di quasi un ventennio, interloquisce anche con lo Zaratustra, e ne resuscita il Dio ( morale), proprio nella prospettiva di proiezione di mitologemi e aspettative soteriologiche indicate, con opposto significato, da Feuerbach. La prospettiva epistemologica non è quella della fede, ma del pensiero scientifico, sperimentale, verificabile. L’errore e il limite che Jung vede nella scienza è nel considerare solo l’aspetto materiale, sensoriale della conoscenza, come fa Freud definendo l’inconscio una sorta di sgabuzzino di materiali dismessi dall’interdetto morale, e che quindi può essere analizzato solo in senso retrospettivo, per la storia individuale.
    L’inconscio di Jung, il “Sé “, è tutto ciò che circonda la coscienza, l’Infinito, il divino, l’Atman – Brahma (Io-tutto) degli Indù.
    Le visioni che Jung riferisce, analogamente a quelle dei profeti vetero-testamentari, sono immagini del Numinoso, che è insieme tremendum e fascinans, come nella riflessione di Rudolf Otto.
    In particolare nella “Risposta a Giobbe”, affrontando il problema della teodicea, assume una posizione assolutamente eterodossa e sconvolgente. In Giobbe Dio si rivela come assolutamente Altro e Trascendente, inconcepibile e assurdo, fino al momento della sua “conversione”, quando, in debito morale verso l’uomo, decide di manifestare misericordia. Questo è, per Jung, il nucleo teologico dell’incarnazione, quando Dio, inferiore moralmente all’uomo, decide di entrare nella sua dimensione temporale, rivelarsi come simile a lui, assumerne le qualità e connotazioni spirituali.

    Fuori del cristianesimo c’è solo il Dio malvagio o impotente dei pagani, o il Dio assurdo di Kafka. Il giudice supremo che condanna senza rivelarsi, che convoca al Castello senza accogliere, perché non è logos, relazione, venuto a rischiarare le tenebre. Di fronte a lui il pensiero è come il Ponte (del racconto omonimo) che precipita quando l’uomo vuole percorrerlo.

    È il Dio di Beckett, che non ha rivelato il suo amore, per cui i rapporti umani sono legami di reciproca dipendenza, comici e grotteschi nella loro tragica violenza.

    O il Dio di Celan, rivelato nel Salmo:

    Nessuno ci impasta più da terra e argilla,
    Nessuno soffia la vita alla nostra polvere.
    Nessuno.

    Che tu sia lodato, Nessuno.
    È per amor tuo
    che vogliamo fiorire.
    Incontro a
    te.

    Noi un nulla fummo, siamo, resteremo
    fiorendo:
    la rosa del Nulla,
    di Nessuno.

    Con
    lo stemma anima chiara,
    lo stame cielo deserto,
    la corona rossa
    per la parola di porpora
    che noi cantammo al di sopra,
    ben al di sopra
    della spina.

    È troppo semplice leggere questo testo come una testimonianza di ateismo. La rosa che fiorisce incontro al nulla è una denuncia, piena di patos mistico, dell’assurdità del Nulla in cui Dio si è mutato, nell’incapacità ontologica, strutturale della nostra umanità di accettarlo, specie perché significa annietare e respingere gli elementi di accoglienza e condivisione del divino rivelatosi come amore nella figura di Cristo, che accetta e condivide il dolore e la passione, rinvenibili negli elementi semantici che chiudono la poesia, di chiara derivazione evangelica: “la parola rossa…la corona di porpora” (Il sangue del Redentore).

  6. milaure colasson

    Leggiamo la prima strofa del testo di Mario Gabriele:

    Una Jeep Renegade ferma davanti alle VideoNews.
    Signorina Borromeo, l’aspettiamo qui
    dove meglio si possono leggere i suoi pamphlets.

    Non dicono molto
    ma rappresentano episodi di prosa spontanea.

    Mi vengono in mente i tantissimi romanzi che si scrivono oggi, che sono in realtà delle cianfrusaglie, dei pettegolezzi sciorinati fatti passare per analisi psicologiche. Ma restano pettegolezzi senza alcuna importanza. Più che flusso di coscienza siamo davanti ad un flusso di cianfrusaglie. E il bello è che vengono presi sul serio e magari gli danno anche il premio Strega! La poesia narrativa postata ieri di Giovanni Giudici è un esempio di poesia racconto (con qualche rima interna) che sarebbe stato meglio trascrivere direttamente in racconto.

    La poesia di Mario Gabriele, invece, non la puoi trascrivere in racconto perché manca il racconto, manca il plot. I suoi personaggi sono delle icone, degli emoticon messe lì come semafori che indicano il verde, il giallo e il rosso. E’ la poesia che si può fare oggi dopo Warhol, a distanza di settanta anni da Warhol. Celan è ancora un poeta dell’umanesimo, probabilmente l’ultimo. In lui non c’è mai un racconto, come invece avviene per la poesia italiana dagli anni sessanta in poi. E poi, mi chiedo, che cosa c’è da raccontare? Puoi raccontare soltanto la “Storia di una pallottola” o la storia di “una Jeep Renegade ferma davanti alle VideoNews”.
    Forse la poesia italiana che è venuta dopo Giovanni Giudici non ha ancora fatto i conti con la legittimità del raccontare, di fare racconti in poesia. Non ha ancora capito che i media hanno tolto ogni possibilità alla poesia di accedere al racconto in versi.

    Oggi il mondo lo puoi comprendere soltanto se dimentichi il “racconto”, non c’è nulla da raccontare, l’arte deve ripudiare e aborrire il racconto. Mi piace anche la poesia di Carlo Livia (anche lui aborrisce il racconto) ma mi piacerebbe leggere le sue poesie in versione pop top o in versione poetry kitchen. Tutto sommato i suoi angeli, il suo Dio, i suoi demoni io li leggo in versione pop top, come una versione dopo la fine della storia, dopo la fine dell’umanesimo.

    I poeti che continuano a scrivere racconti in versi non si rendono conto della vacuità e obsolescenza di un tale indugio?

  7. milaure colasson

    Suggerisco di leggere il libro a cura di Giorgio Agamben, Barbara Chitussi e Clemens-Carl Härle che va sotto il titolo “Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato” (Neri Pozza, 927 pp. €23)

  8. VENERE

    Una pentola suona il flauto
    e Mission dà il LA a Master Chef

    “Notizia di una pulce nata mamba.”

    Si apre la bara delle chiavi.
    E tu risorgi rossa. Ogiva sul tramonto.

    Difficile distinguere i putti di Raffaello
    Da una sedia elettrica.

    Sacco, Vanzetti…”SILENCE”
    La clessidra dei bimbi morti al secondo.

    Tecnologia che affranca la pantera dall’ indios
    contraddice Bolsonaro.

    Te ne vai ma la pubblicità resta salda ai pubblicitari
    Nano-cellula contro nano-offerta.

    Filini arbitro e santo subito.

    Yersinia questa volta
    Come a rifocillarsi del pan degli angeli

    (Francesco Paolo Intini)

  9. Sulla adorniana «dialettica negativa»

    Per Adorno la dialettica è negativa perché si pone negativamente nei confronti della «razionalità strumentale» capitalistica. L’arte pensata da Adorno oppone una «negazione determinata» al «mondo totalmente illuminato» (aufgeklärte Welt) in cui si moltiplicano le immagini false e stregate dei prodotti dell’«industria culturale».
    Per Adorno è possibile affermare che quanto le opere devono criticare nella realtà sociale capitalistica è il dominio dell’uomo sulla natura e dell’uomo sull’uomo. Tale dominio (Herrschaft) risponde a una logica secondo la quale quanto più cresce la razionalità dei mezzi di produzione, tanto più essa appare in stridente contrasto con la totale irrazionalità dei fini che si perseguono attraverso gli stessi mezzi.
    Tuttavia, le modalità concrete attraverso cui le opere d’arte pongono in essere tale negazione determinata (bestimmte Negation) non hanno nulla a che vedere con una semplice affermazione di princìpi opposti a quelli prodotti dal sistema. È attraverso la loro forma, la disposizione degli elementi formali di cui sono composte, e dunque grazie a un linguaggio «non significante», «muto» e insieme carico di senso, che le opere negano la conformazione dell’esistente. In altre parole, per Adorno «la critica non si aggiunge all’opera dall’esterno ma le è immanente».1
    Tanto più il linguaggio dell’arte è «muto» quanto più l’illuminazione artificiale prodotta dal sistema di dominio è fitta e totale. Ne segue che «l’arte moderna […] rifiuta l’essenza affermativa dell’arte tradizionale come menzogna, come ideologia».
    «L’arte è la promessa di felicità che non viene mantenuta».2
    «Promesse du Bonheur significa di più del fatto che la prassi fin qui esercitata contraffa la felicità! La felicità sarebbe al di là della prassi. A dare la misura dell’abisso tra la prassi e la felicità è la forza della negatività interna all’opera d’arte».3

    1 T.W. Adorno, 1967, Teoria estetica trad. it. 1979, p. 57
    2 Ibidem p. 152
    3 Ibidem p. 18

    • Perché non pensare ad una talk show poetry, ad una reality show poetry? Portare la Promesse du Bonheur a tutti come normalità della dimensione della felicità contraffatta, come dimensione indirizzata stabilmente verso la Lichtung (radura) al di là della prassi? Prendiamo atto che ormai ci troviamo in quella che Wolfgang Welsch chiama la «de-realizzazione della realtà». 1 L’Arte, nell’accezione hegeliana e romantica, scende dal suo piedistallo per entrare nella catena di montaggio della comunicazione mediatica di massa e nell’industria della obsolescenza culturale, tanto è vero che gran parte dell’arte di oggi è arte ad obsolescenza programmata, arte a termine con tanto di euforia per la fine dell’arte. Si pensi alla Gioconda di Leonardo, l’opera più riprodotta del patrimonio artistico occidentale: dagli ironici baffi di Marcel Duchamp alle moltiplicazioni di Andy Warhol fino alle svariate immagini pubblicitarie che ci circondano, alle immagini seriali riprese e diffuse dai media. L’arte dismette la sua aura, cessa di essere un capolavoro venerabile e distante per diventare un’immagine prossima e familiare. L’oggetto-arte si trasforma sempre più in evento e l’attenzione si sposta verso il contesto sociale e antropologico della civiltà moderna.2
      L’homo aestheticus è diventato il modello di riferimento. L’estetica è diventata un paradigma ermeneutico della trans-modernità, una disciplina transeunte in grado di rendere ragione del superamento in senso trans-disciplinare e trans-genico che caratterizza la produzione dell’arte odierna. L’iperestetica si presta ad essere il luogo ermeneutico della baumiana «modernità liquida» in cui viviamo, improntata ad un continuo andare oltre.

      1 W. Welsch, Aesthetics beyond Aesthetics (1995), poi in Id., Undoing Aesthetics, Lon-don, Sage, 1997, pp. 85-86; il saggio è consultabile anche online [http://www2.uni-jena.de/welsch/ Papers/beyond.html].
      2 Il «simulacro», per Baudrillard, è un’immagine priva di prototipo, l’immagine di qual-cosa che non esiste. Cfr. J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Milano, Feltrinelli, 2007, e anche M. Perniola, La società dei simulacri, Bologna, Cappelli, 1980, p. 122.
      Secondo Baudrillard, il sistema dei segni sostituisce la fsicità delle merci e le dissociadai bisogni che avrebbero dovuto soddisfare. Si determina così una società della simula-zione in cui i parchi a tema, i centri commerciali, i reality show divengono autoreferenzialie si trasformano in un caleidoscopico gioco di immagini rifesse. Il simulacro sostituisce progressivamente la realtà, rispetto alla quale appare più stimolante e attraente. Basta en-trare in un centro commerciale per accorgersi che tutto è illusione: le piazze, le aiuole, lanatura, la socialità, la confortante situazione di sicurezza, l’appagamento visivo. Cfr. Id., Simulacri e impostura. Bestie, Beaubourg, apparenze e altri oggetti, Bologna, Cappelli, 2008.
      Cfr. Fabrizio Desideri (No aesthetics without meta-aesthetics, in Dopo l’estetica, cit., p. 67) che formula l’ipotesi di una “meta-estetica”. Lo studioso individua i confini verticali dell’oggetto di studio nel «territorio problematico che l’estetica scopre come qualcosa di concettualmente specifico e irriducibile» e, in particolare, nel «problema della genesi dell’estetico nel paesaggio umano», in relazione ai vincoli ambientali e ai presupposti psico-antropologici e i confini orizzontali nella riconfigurazione dell’estetica in rapporto alle altre discipline filosofiche («in particolare all’ontologia, all’etica, alla filosofia della mente e a quella del linguaggio»)

  10. tiziana antonilli

    Mi piace il testo di Carlo Livia ‘Una canoa di lampi ‘. Per la prima volta trovo sapiente l’uso delle parentesi. Ho immaginato un palcoscenico e due voci narranti, una esprimeva un punto di vista, l’altra lo capovolgeva .Penso che sia anche questa una forma di polittico, il tentativo di rendere la polifonia del mondo che si riflette nella mente che guarda .

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