Sulla poetry kitchen da una visione marxista, di Giorgio Linguaglossa, Strutture dissipative, acrilici di Marie Laure Colasson, 2014-2020, Una poesia kitchen

Marie Laure Colasson 50x20 Struttura 2020
[Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, 50×28, acrilico 2020]

Marie Laure Colasson

da Les choses de la vie

Des pendeloques en or et en cellules d’apocalypse
se dessinent sur le visage de Petr Král

Kandinsky et Klee combat de pensées sous presse
refusent de se fourrer des pois chiches dans le nez

Voltige de mouettes dans la cuisine
se ruent sur les épluchures et la poignée du réfrigérateur

La blanche geisha se parfume à l’acide acétique
ne laissant aucun reflet dans le miroir

Eredia et Kantor poursuivent leur route
contre l’ingérence en construisant des emballages

Král Kandinsky Klee Kantor mettent en scène la blanche geisha et Eredia
créant l’impensable et l’impossible

La débauche terminée les mouettes
laissent des empreintes sur la sable

Des rides sur la mer
des cris et de funestes cercles dans le ciel.

*

Ciondoli in oro e in cellule d’apocalissi
si disegnano sul volto di Petr Král

Kandinsky e Klee combattimento di pensieri sotto la pressa
rifiutano di ficcarsi dei ceci nel naso

Volteggiano dei gabbiani nella cucina
si affollano sulle bucce e la maniglia del frigorifero

La bianca geisha si profuma all’acido acetico
senza lasciare alcun riflesso nello specchio

Eredia e Kantor proseguono la loro strada
contro l’ingerenza mentre costruiscono imballaggi

Král Kandinsky Klee Kantor mettono in scena la bianca geisha e Eredia
creano l’impensabile e l’impossibile

Finita la deboscia i gabbiani
lasciano impronte sulla sabbia

Delle rughe sul mare
delle grida e dei cerchi funesti nel cielo

[Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, 50×50, acrilico 2014]

Scrive il filosofo Slavoj Žižek:

«Non è che falliamo perché non riusciamo a incontrare l’oggetto, piuttosto l’oggetto stesso è la traccia di un certo fallimento.
Per questo Freud ha avanzato l’ipotesi della pulsione di morte – il nome giusto per questo eccesso di negatività. E il mio intero lavoro è ossessionato da questo: da una lettura reciproca della nozione freudiana di Todestrieb e di quella negatività auto negativa tematizzata dagli idealisti tedeschi. Insomma, questa nozione di auto-negatività relativa, così come è stata regolata da Kant fino a Hegel, filosoficamente ha lo stesso significato della nozione freudiana di Todestrieb, pulsione di morte – questa è la mia prospettiva fondamentale. Ovvero, la nozione freudiana di pulsione di morte non è una categoria biologica ma ha una dignità filosofica.
Cercando di spiegare il funzionamento della psiche umana in termini di principio di piacere, di principio di realtà e così via, Freud si rese conto via via sempre più della presenza di un elemento disfunzionale radicale, di una distruttività radicale e di un eccesso di negatività, che non possono essere spiegate.»1

La «struttura tragica» di Maria Rosaria Madonna (Stige. Tutte le poesie 1990-2002, Progetto Cultura pp. 150 € 12) ha bisogno dell’oggetto. È solo sull’oggetto che può costruire la struttura simbolica della sua poiesis. Per far questo Madonna è costretta a tenere in piedi, in qualche modo, la struttura trascendentale soggetto-oggetto, la struttura tragica.. L’Imperatrice Teodora sa bene che sta parlando ai posteri e vuole auto assolversi dinanzi ai posteri visti come gli oggetti del futuro; analogamente i «barbari» che stanno arrivando sono un «oggetto» identificabile, bene identificato, sono un simbolo trascendentale ma ancora storico. E così il «peccato», la «lussuria», i «diavoli» etc. sono tutti oggetti ben determinati, precisi. È la civiltà dell’umanesimo che si nutre della dualità soggetto-oggetto, anzi, è fondata sulla dualità soggetto-oggetto. Con il crollo dell’umanesimo la poesia di Madonna si staglia con auto evidenza assoluta come l’ultimo monolite di quella civiltà. La pulsione di morte che attraversa la struttura simbolica della poesia di Madonna è una categoria dell’umanesimo.

Non sono completamente d’accordo con la tesi di Slavoj Žižek per il quale la nozione freudiana di pulsione di morte può essere utilizzata egualmente anche per una civiltà del post-umanesimo del capitalismo globale, anzi, sono propenso ad ipotizzare che la pulsione di morte svanisce nella «merce», cioè nel «valore di scambio». La nuova civiltà dell’epoca della tecnica o cibernetica sembra aver fagocitato la pulsione di morte, annullandola nella «merce». Il feticismo della merce conterrebbe al suo interno la pulsione di morte rimossa, se non addirittura cancellata. Questo è l’aspetto inquietante delle società post-democratiche, che il capitalismo è esso stesso il prodotto della tecnica e causa esso stesso della tecnica.

Marie Laure Colasson ZZY Struttura dissipativa 50x50 2020

[Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, 50×50, acrilico 2014]

I fantasmi presenti nella poetry kitchen hanno la consistenza di un buco, di un vuoto di senso, essi assumono appunto il carattere di una fantasy, di una story telling, qualcosa che non è semplicemente illusorio o ingannevole, ma che è invece un pròton pseudos fondativo. Occorre dunque distinguere attentamente – cosa su cui Žižek torna ripetutamente – tra “realtà” e Reale: la prima è strutturata simbolicamente e costituisce la struttura reticolare in cui viviamo nel quotidiano, mentre il secondo è il trauma che interrompe questo normale fluire. Di più: la realtà simbolicamente strutturata non è un sistema dominante dispotico, ma una «fragile ragnatela» transitiva, fluida, ostacolata internamente proprio dal blocco del Reale traumatico – e proprio per questo sostenuta dalla fantasia, che quindi svolge anche un’altra funzione, quella di «sostegno ontologico».

Il capitalismo produce continuamente merci, cioè real things e ready made. È questa la sua forza. La ricezione degli «oggetti» nell’arte era un atto storicamente dovuto, prima o poi essi avrebbero fatto irruzione nell’arte. Anche una fantasia è un «oggetto» e, in quanto tale, essa produce un significato, più significati, un significante, più significanti. la catena dei significati e dei significanti non può mai essere arrestata, pena il crollo del Reale. La Fantasia può sì fungere da sostegno alla realtà, ma solo come cornice, come spazio vuoto ontologico intorno al simbolico. In questa accezione penso al vuoto ontologico della poetry kitchen, nel senso che tutto ciò che è contenuto in essa non può che ruotare intorno al simbolico.

La risposta data da Duchamp di riabilitare l’oggetto, il ready made, come oggetto d’arte rende evidente ciò che fino ad allora era rimasto occultato sotto le pastoie ideologiche e apologetiche del «bello». Siamo ancora oggi inchiodati al ready made di Duchamp. Tutta l’arte di questi ultimi decenni è appena un codicillo al ready made di duchampiana memoria, ma esserne consapevoli è già un piccolo passo per oltrepassare il ready made, per andare oltre la parola come segno.

Marie Laure Colasson Eruzione Struttura dissipativa, acrilico 30x30 2020

[Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, La macchia, 50×50, acrilico 2020 – Sostiene Lacan che nel campo scopico lo sguardo è all’esterno, io sono guardato, cioè sono quadro, il soggetto non coincide più come voleva Cartesio, con il punto geometrale a partire da cui si prende la prospettiva sulle cose, ma vive l’esperienza spaesante di essere in qualche modo oggettivato da uno sguardo altro, ridotto ad oggetto che “fa macchia” nel quadro: siamo presi dentro il quadro, e la vanitas, che credevamo riguardasse solo ciò che è rappresentato nel quadro, si rivela invece essere già da sempre anche la nostra, “che ci ri-guarda proprio dal punto impossibile, il fuori quadro nel quadro, che è lo sguardo come oggetto-a]

Io penso invece che lo scacco matto del capitalismo globale risieda nell’aver rimosso la pulsione di morte, averla addomesticata e averla cancellata e rigenerata sub specie del feticcio della «merce»; la merce sarebbe la resurrezione della pulsione di morte con segno invertito: da pulsione di morte a pulsione di vita. La pulsione di morte sarebbe il motore segreto di cui si alimenta il capitalismo che lo convoglia sulle merci come un mana, un sistema semiotico e semantico, un sortilegio che accalappia tutti gli umani post-umani. Qui ci viene in soccorso un pensatore certo non marxista come Heidegger il quale scrive: «l’essere svanisce nel valore di scambio». E, aggiungo io, con l’essere, anche la pulsione di morte svanisce nel valore di scambio.

Già Marcuse nei tardi anni cinquanta affermava che oggi le categorie psicologiche sono diventate categorie politiche. Che io chioserei così: oggi le categorie del politico sono diventate categorie della nuova psicanalisi e dei versanti cognitivisti della psicologia contemporanea. Ad esempio che cosa sono i «negazionisti» (di Auschwitz, del Covid19, dello sbarco sulla luna etc.)? se non delle persone che hanno seri problemi di psicopatologia; queste persone sotto il regime del capitalismo diventano sempre più numerose, diventano una «massa» e, quindi, diventano una questione «politica». La politica fa leva sulle psicopatologie di massa diffuse un po’ ovunque.

La poetry kitchen che stiamo facendo ha questa chiarissima consapevolezza, questa auto evidenza, che «l’essere svanisce nel valore di scambio» e che tutte le categorie della retorica della vecchia poiesis sono diventate categorie della nomenclatura psicologica; psicologismo ed estetismo si equivalgono e sono equipollenti nella inanità complessiva della prassi della politica deterrorializzata di oggi.

Così, il «soggetto» della nuova pop-poesia diventa una «pallottola» sparata non si sa da chi e contro di chi. Nella poesia di Gino Rago i commissari don Ciccio Ingravallo e Montalbano vagano nel buio inseguendo una bizzarra «pallottola» che va di qua e di là. E qui il commissario Ingravallo fa cilecca perché le sue categorie indagatorie (le categorie dell’ermeneutica classica) fanno cilecca, si rivelano carta straccia. Così in una poesia di Lucio Mayoor Tosi non riesci a trovare un «tema», un filo conduttore, una «ratio», vi regna una diplopia e una grande confusione semiotica e semantica. E non potrebbe non essere altrimenti.

La disintegrazione della «struttura tragica» della poesia di Madonna segna la pre-condizione di possibilità per la nascita della pop-poesia o top-poesia che dir si voglia: la poetry kitchen.

Penso che la pop-poesia abbia scoperto la valenza gestuale del linguaggio, a prescindere dal significato e dal senso. Che il linguaggio ha un valore «gestuale» evidentissimo che l’ontologia della poiesis tradizionale non riesce a vedere, che anzi occulta e fa di tutto per occultarlo. Eppure un pensatore come Wittgenstein lo aveva chiarito da molto tempo. Per Wittgenstein il linguaggio è funzione di un agire, e può essere inteso solo se lo si coglie nella sua valenza gestuale-strumentale. Grazie al linguaggio facciamo molte diverse cose, e questa diversità caratterizza anche le forme linguistiche. E una forma linguistica per eccellenza che può fare uso del linguaggio gestuale è senz’altro la poesia. La pop-poesia è linguaggio gestuale e figurato allo stato puro. Ma ciò non significa che sia senza significato o senza senso come pensava l’ontologia del linguaggio poetico del novecento, al contrario, nella pop-poesia la valenza e la potenza del linguaggio figurato e gestuale ne viene accentuata all’ennesima potenza. Il modo con il quale le parole si legano alla prassi è il segreto che può liberare la prassi delle parole. E questo lo può fare soltanto il linguaggio poetico che contempla una prassi senza alcuna finalità precostituita, una prassi che è essa stessa la sua finalità.

Marie Laure Colasson Struttura Diss 2014

[Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, 30×30, acrilico 2014]

Scrive Wittgenstein:

«Pensa agli strumenti che si trovano in una cassetta di utensili: c’è un martello una tenaglia, una sega, un cacciavite, un metro, un pentolino per la colla, chiodi e viti. — Quanto differenti sono le funzioni di questi oggetti, tanto diverse sono le funzioni delle parole. E ci sono somiglianze qui e là. Naturalmente quello che ci confonde è l’uniformità nel modo di presentarsi delle parole che ci vengono dette, o che troviamo scritte o stampate. Infatti, il loro impiego non ci sta davanti in modo altrettanto evidente. Specialmente non quando facciamo filosofia».2

Come apparirà chiaro leggendo la poesia della nuova ontologia del poetico, la forma grammaticale non è una eco visibile di un pensiero invisibile che si trova nella cellula monastica dell’io del poeta. Al contrario, è la forma grammaticale che determina ciò che io penso, è la struttura grammaticale e la struttura sintattica che determinano ciò che io penso. L’io è quindi un epifenomeno. Ecco spiegato perché nella nuova ontologia estetica l’io è quasi assente, o, se è presente, è presente come un io tra i tanti. Il significato è un evento secondario del linguaggio, direi un evento terminale, l’evento primario sta a monte del significato e, a rigore, a monte del linguaggio, alla sorgente del linguaggio. L’evento è l’atto sorgivo del linguaggio.

Per Wittgenstein il significato non è un evento mentale. Quando Wittgenstein nelle sue osservazioni filosofiche, analizza il grido «Lastra!» che il muratore dice al manovale di passargli una lastra, cioè che qualcuno deve portargli una lastra, vuole far capire che tutto dipende dal modo in cui quel grido è usato, dal contesto in cui accade e, più in generale, dall’insieme delle relazioni che sussistono tra i parlanti, non da ciò che eventualmente passa per la mente di chi parla. Ma ciò è quanto dire che non possiamo fare riferimento al pensiero per considerare incompleta una forma linguistica: ciò che pensiamo, per Wittgenstein, non determina il significato delle nostre parole.

Quando metto sotto la lente di ingrandimento il capitalismo internazionale non mi passa per la mente un giudizio morale o già preso perché so che ciò che io chiamo il mio pensiero è una parte e una diretta conseguenza dello stato delle cose che il capitalismo determina nel mondo. Io non sono un populista che mescola patate e pomodori e arsenico, io mi limito ad argomentare che le patate e i pomodori sono cose diverse dall’arsenico, anche se tutti e tre questi prodotti sono manufatti del capitalismo. Il marxista che esprime un pensiero critico sa che il significato che noi diamo alle nostre parole è un epifenomeno del linguaggio che viene impiegato. Una poesia di Francesco Paolo Intini, Gino Rago o Marie Laure Colasson sono cose diverse proprio in quanto manufatti distinti, ma sono tutti prodotti del sistema di produzione capitalistico e dei sistemi semantici dei linguaggi che corrispondono a quel tipo di produzione.

Wittgenstein ci dice che un gesto linguistico ha un significato non già in virtù dei pensieri che attraversano la mente di chi parla, ma in ragione della sua appartenenza ad un determinato «gioco linguistico». Ne segue che alla forma grammaticale del linguaggio non è affatto chiesto di rispecchiare i pensieri che abitano e sgomitano nella nostra mente mentre la esterniamo, poiché il senso di una proposizione dipende dall’uso che se ne fa in una circostanza determinata. E ogni nuova circostanza determina un nuovo «gioco linguistico», e così il «gioco» va avanti e il «significato» delle parole cambia, si modifica. Ciò che pensiamo non determina il significato delle nostre parole. Il significato è determinato dal «gioco» di innumerevoli fattori che intervengono all’interno del campo del linguaggio.

Scrive Wittgenstein:

«Quanti tipi di proposizioni ci sono? Per esempio: asserzione, domanda e ordine? — Di tali tipi ne esistono innumerevoli: innumerevoli tipi differenti di impiego di tutto ciò che chiamiamo «segni», «parole», «proposizioni». E questa molteplicità non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte; ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giochi linguistici (come potremmo dire) sorgono e altri invecchiano e vengono dimenticati. (Un’immagine approssimativa potrebbero darcela i mutamenti della matematica). Qui la parola «gioco linguistico» è destinata a mettere in evidenza il fatto che il parlare un linguaggio fa parte di un’attività, o di una forma di vita. Considera la molteplicità dei giochi linguistici contenuti in questi (e in altri) esempi: comandare e agire secondo il comando — Descrivere un oggetto in base al suo aspetto e alle sue dimensioni — Costruire un oggetto in base a una descrizione (disegno) — Riferire un avvenimento — Far congetture intorno all’avvenimento — Elaborare un’ipotesi e metterla alla prova — Rappresentare i risultati di un esperimento mediante tabelle e diagrammi — Inventare una storia; e leggerla — Recitare in teatro — Cantare in girotondo — Sciogliere indovinelli — Fare una battuta; e raccontarla — Risolvere un problema di aritmetica applicata — Tradurre da una lingua in un’altra — Chiedere, ringraziare, imprecare, salutare, pregare».3

1 Slavoj Žižek e Glyn Daly, Psicoanalisi e mondo contemporaneo. Intervista a Žižek, Dedalo, 2004 p. 92
2 L. Wittgenstein, Osservazioni filosofiche § 11
3 L. Wittgenstein, Osservazioni filosofiche, § 23.

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15 risposte a “Sulla poetry kitchen da una visione marxista, di Giorgio Linguaglossa, Strutture dissipative, acrilici di Marie Laure Colasson, 2014-2020, Una poesia kitchen

  1. Anche se pubblicata soltanto nel 1984, già nel 1967, al Cercle d’études architecturales, Michel Foucault in una sua nota scriveva:

    «L’époque actuelle serait peut-être plutôt l’époque de l’espace. Nous sommes à l’époque du simultané, nous sommes à l’époque de la juxtaposition, à l’époque du proche et du lointain, du côte à côte, du dispersé.
    Nous sommes à un moment où le monde s’éprouve, je crois, moins comme une grande vie qui se développerait à travers le temps que comme un réseau qui relie des points et qui entrecroise son écheveau».

    Foucault così già poneva in maniera icastica l’interesse per lo spazio da parte delle scienze sociali.

    Marie Laure Colasson registra questo dato di novità foucaultiana, prende atto del fatto che ciò che era stato il Tempo nella Modernità è diventato lo Spazio nella postmodernità e nella ipermodernità e propone questi versi da Le choses de la vie di autentica novità, anche attraversando il pensiero di Merleau Ponty :«Siamo dei visti prima di essere dei vedenti», pensiero che in un suo recentissimo commento Giorgio Linguaglossa così rende esplicito:

    «Siamo immersi in un campo di visibilità, esposti ad uno sguardo esterno ancora prima di essere soggetti guardanti…»

    Anche da qui, la mia apertura verso il Terzo Spazio, all’interno della poesia buffet dello spatial turn, con le mie pallottole, a partire dalla n.1…

    Gino Rago
    Storia di una pallottola n.1

    Una rivoltella.

    Una pallottola entra nella tempia destra di Carlo Michelstaedter.
    Da Gorizia vaga per anni sulle trincee del Carso, sulle doline, sull’Isonzo.
    Daniil Charms a distanza di chilometri
    sente nell’aria come un sibilo ma non dà peso al fatto:
    «Il miagolio di un gatto o uno starnuto dal Cremlino?»

    La pallottola fa ingresso in un monolocale, entra nel tamburo
    del revolver col manico di avorio di Madame Colasson.
    Parte il colpo. Colpisce al cuore Vladimir Majakovskij.
    Poi la pallottola fuoriesce dalla spalla, va in giro per un po’,
    lascia la stanza: «Ho un’altra missione, non posso arrestare la mia corsa».
    Entra nel boudoir di Madame Altighieri
    E colpisce alle spalle il generale d’Aubrey
    in partenza per la guerra di Crimea.

    Torino. Agosto. 1950. La pallottola rompe i vetri
    di una camera dell’albergo di Roma.
    «È tardi, troppo tardi…».
    Il poeta è già morto. Cartine di sonnifero dappertutto.
    Una copia dei “Dialoghi con Leucò”. Sulla copertina c’è scritto:
    «Non fate troppi pettegolezzi».
    Prima pagina de “La Stampa”. «Morto suicida Cesare Pavese».
    Lascia di corsa la camera dell’albergo.
    Ha letto su un foglietto non visto da nessuno:
    T. F. B… Su un altro foglio (Connie).

    Un agente della STASI ruba i due foglietti.
    Con il primo treno parte da Torino
    in direzione di Berlino Est… cerca al telefono
    il Signor Cogito. «È in casa Cogito?».
    «No, non è in casa. È uscito».
    E allora cambia strategia. Si reca ad Istanbul.
    Sull’Orient Express incontra Madame Altighieri,
    si innamora della duchessa e la uccide con un colpo
    di pugnale alle spalle…

    Ma non è questo quello che volevo raccontare,
    era un’altra storia, che però ho dimenticato…

    *

  2. gentili lettori e interlocutori,

    mi rendo conto che adoperare oggi il termine «marxista» sia quasi un abominio, suoni quasi inverecondo per il suo essere fuori moda, ma tant’è, io lo impiego perché non ne ho altri di migliori a disposizione. Sarebbe bene volare basso basso e posare la poetry kitchen sul piano basso dei linguaggi con una consapevolezza alta della complessità dei linguaggi contemporanei, in particolare dei linguaggi della poiesis nell’epoca che vede il «turbo capitalismo», come è stato definito, mettere in opera le sue accelerazioni per passare dall’Epoca della stagnazione (posteriore alla crisi del 2008) ad una Nuova Epoca di sviluppo compatibile con le risorse a disposizione (l’attuale Recovery fund).

    Per Žižek il Reale è ciò che si sottrae a qualunque simbolizzazione o significazione, ciò che resta alla simbolizzazione e che resiste alla significazione.
    Esso è sempre relativo a un soggetto. Il Reale è ciò che sta «là fuori» (esterno e contrapposto al mondo interno del soggetto) e che non dipende da noi. Esso è ciò che può essere compreso da leggi sotto il nome di realtà scientifica ma anche ciò che la legge simbolica ricopre e che alla legge sfugge come residuo non simbolizzabile.
    Il Reale resiste ad ogni rimozione e si presenta negli oggetti osceni dei fantasmi amorfi (frammenti dell’oggetto lacaniano petit a), oppure è ciò che esplode in modo inaspettato alla maniera del Covid19 e verso il quale siamo disarmati. Esso preesiste al processo di soggettivazione e post-esiste, è ciò che si configura come trauma, qualcosa che è inassimilabile a noi. E allora, non ci resta che convivere e coabitare con Esso.
    Il contatto col Reale è rischio di morte. Il Reale žižekiano richiama il godimento osceno, la jouissance, il godimento collocato al di là del principio del piacere.
    Žižek opera una torsione del Reale lacaniano nel senso che per il filosofo di Lubiana abbiamo che «il Reale non è impossibile nel senso che non può mai accadere. No, il problema con il reale è che esso accade e questo appunto è il trauma. Il punto non è che il reale è impossibile, ma piuttosto che l’impossibile è Reale».

    Che cosa significa fare oggi poesia? Penso significhi fare una poiesis che sia all’altezza della richiesta di linguaggi complessi e non definitori che l’attuale fase storica del capitalismo richiede.

  3. «il capitalismo è così importante nella storia umana – e non una
    semplice sovrastruttura – proprio perché è capace di lavorare sul
    desiderio, proponendo il consumo come una strada per colmare il
    vuoto su cui il desiderio in quanto tale si attiva. Un tale obiettivo,
    tuttavia, si rivela sempre illusorio, dato che il vuoto non è mai
    completamente riempito attraverso gli oggetti, che devono essere
    continuamente rinnovati per saturare la nuova mancanza, in un movimento circolare, ingannevole e senza fine. Frammentando,
    l’esperienza in una successione di azioni che non hanno null’altro in
    comune se non il riempire provvisoriamente il vuoto, il capitalismo è,
    sempre di più, costretto a sradicare il desiderio dal legame che esso ha
    con la condizione esistenziale dell’uomo, riducendolo a semplice
    “godimento”.
    [..] Contravvenendo all’approccio repressivo e disciplinatorio che
    ancora prevaleva nel capitalismo sociale, il comando che il capitalismo
    tecno-nichilista rivolge ai singoli individui è quello di cogliere
    l’attimo, vivere l’emozione, assaporare l’opportunità. [..] Per procedere
    in questa direzione, la creazione di un ambito disancorato da un
    preciso ordine culturale, nel quale prevalgono i linguaggi non verbali
    iconici e musicali e dove il singolo individuo è autorizzato a prendere
    ciò che più gli piace costituisce una pre-condizione fondamentale.
    […] E che con l’avvento del capitalismo tecno-nichilista, crolla il
    meccanismo del divieto che aveva retto nel capitalismo sociale e
    l’essere umano deve diventare, secondo la felice espressione di
    Deleuze e Guattari, una vera e propria “macchina desiderante”: il
    capitalismo tecno-nichilista vive del fatto che il desiderio venga
    continuamente attivato e sia in grado di essere realizzato e poi di
    nuovo riattivato.
    Dato che l’individuo non è più disposto a (o in grado di) stare dentro la
    griglia rigida dei ruoli e delle norme sociali, l’ordine istituzionale delle
    cose – almeno nella sua rappresentazione – deve essere continuamente
    esposto a una dinamica di distruzione/ricostruzione. Il che è possibile
    grazie all’amplissima disponibilità di significati e all’accresciuta
    mobilità, che indeboliscono qualunque ordine normativo, e all’estensione della libertà di scopo, che offre la possibilità (almeno teorica) di
    aggiornare continuamente i propri obiettivi.
    [..] I tratti centrali del nuovo quadro psicanalitico del capitalismo
    tecno-nichilista sono efficacemente colti nell’opera di Žižek che,
    sviluppando le tesi di Lacan e Miller, parla di, “economia libidica del
    plusgodere”.
    [..] Da questo contesto, in cui il godimento vive di continue dislocazioni e si mantiene solo nel passaggio da un oggetto all’altro,
    emergono due implicazioni particolarmente rilevanti.

    [..] è la natura illimitata del processo di mutamenti che viene attivata.
    E ciò in quanto il desiderio si costituisce come un asintoto: più ci si
    avvicina, più elude la presa; più si pensa di possederlo e più se ne
    accerta la mancanza. Ciò lo rende un significante vuoto, una forma
    senza contenuto: dobbiamo sempre desiderare qualcosa, anche se non
    sappiamo mai bene cosa, e anche se sappiamo che non potremo mai
    placare la nostra sete. E dunque saturiamo questa valenza libera
    accettando di buon grado di aderire alle sollecitazioni – così potenti e
    studiate – che l’economia affettiva è in grado di distribuire a piene
    mani.

    [..] Secondo Žižek (2004), i concetti lacaniani di “plusgodere” e “objet
    petit a” aiutano a interpretare il senso del rapporto tra soggetto e merce
    nei termini di uno stato dì sollecitazione permanente, continuamente
    inappagato, rivelando anche la rapida obsolescenza a cui sono
    destinate le merci e i desideri stessi, poiché solo tale dinamica
    garantisce la possibilità di ri-produzione dell’attività economica. Per
    questa ragione, il circuito novità/obsolescenza – così ossessivo nella
    nostra vita sociale – costituisce un elemento intrinseco alla produzione
    capitalistica contemporanea. Ciò dà vita a un’economia libidinale che,
    per definizione, non riesce mai a compiersi: in termini lacaniani, di
    fronte all’incapacità di affrontare le questioni centrali della nostra
    esistenza – rispetto alla quale ognuno è lasciato letteralmente a se
    stesso – il capitalismo tecno-nichilista propone uno sterminato numero
    di “abjets a” che offrono al massimo quelle che Lacan ha chiamato
    delle “lichettes”, cioè delle “fettine di jouissance”‘. Affinché queste
    lichettes possano in qualche modo funzionare è necessario, però, il
    loro continuo ricambio, così da rigenerare il movimento tra mancanza
    ed eccesso. Anche se ripetutamente facciamo esperienza della
    delusione che essi producono, i beni che ci vengono offerti
    dall’economia affettiva si presentano in grado di generare un surplus di
    godimento che riesce, almeno provvisoriamente, a soddisfarci. »

    da Mauro Magatti, capitalismo, discorso del padrone e godimento, 2009

  4. PRIMO QUADRO
    Un cielo colmo.
    Un sogno a dismisura di una pallottola comunemente chiamata Gino.
    Con sembianze studios. Le pareti tutte coperte dalle opere della Marie Laure.
    Lunedi con le macchie di azzurro, il martedì
    affiancando i rossi, i martedì i viola, e così via. Alle pareti una sequenza di quadri. Senza soluzione di continuità.
    Affiancati gli uni agli altri, incastrati per dimensione, per tratto, per assonanza. Senza cornice. E a microfoni spianati le vicissitudini di una pallottola recitate ad alta voce,
    con brio. Andante.

    (Una proposta.) Grazie OMBRA.

  5. Per Massimo Recalcati il discorso del capitalista è un discorso

    «al limite di ogni possibile discorso, perché se il discorso è un modo
    per definire il legame sociale, in quanto ogni discorso si organizza per
    introdurre un certo freno significante al godimento e per rendere
    possibile in questo modo una civilizzazione dei legami tra gli esseri
    umani, quello del capitalista. tende a distruggere ogni forma discorsiva
    affermando il soggetto come pura spinta al godimento solitario,
    dunque dissolvendo ogni freno al godimento, anzi, incoraggiando il
    godimento come nuova forma di comandamento sociale (corsivi miei).
    Il sacrificio di sé risulta così totalmente contraddittorio in un regime
    che pone il proprio fondamento sull’imperativo sregolato del “consumo
    di consumo”. La mancanza di godimento come condizione
    dell’accumulazione del capitale – secondo la classica tesi weberiana -si
    trasforma beffardamente in una proletarizzazione generalizzata e in
    una precarizzazione diffusa. La mancanza di godimento anziché
    costituire la condizione etica del profitto dà luogo a una pura avidità di
    godere. Questo significa, come propone di fare Lacan nella sua
    matematizzazione del discorso del capitalista, porre il soggetto sbarrato
    nella posizione di agente, ovvero nella posizione che definisce
    l’orientamento specifico, la direzione di fondo, di un discorso.
    Diversamente dal discorso del padrone dove la mancanza è prodotta
    dall’azione stessa del significante che impone al soggetto una perdita di
    godimento in cambio della sua iscrizione simbolica.

    [..] nel discorso della Civiltà e nel discorso del capitalista la mancanza
    si trasfigura in una avidità di consumo che vuole scalzare il potere
    letale del significante essendo prodotta dalla continua offerta di
    oggetti di godimento proposta dal mercato. Questo significa porre
    nella posizione dell’agente [vedi punto 3] il soggetto sbarrato: non è
    l’Ideale che aggrega i legami sociali, né l’interdizione al godimento
    che ne scaturisce, ma la convulsione del soggetto sbarrato che
    domanda oggetti in grado di sanarne la divisione, salvo verificare che
    l’astuzia del discorso del capitalista consiste proprio nel produrre e
    nell’introdurre sul mercato oggetti che anziché soddisfare la domanda
    hanno il potere di alimentarla compulsivamente. D’altra parte l’elevazione del soggetto sbarrato nel luogo dell’agente significa che il
    cedimento della funzione orientativa dell’Ideale è stato rimpiazzato
    dall’illusione che non esista più alcun padrone al di fuori del soggetto
    ridotto, per usare l’espressione di Lipovetsky, a “turboconsumatore”.
    Tuttavia l’individualismo sfrenato che sostiene il discorso del
    capitalista non è affatto una forma di disalienazione del soggetto dalla
    schiavitù nei confronti dei significanti padroni, ma una nuova forma di
    schiavitù. Il discorso del capitalista, come fa notare il conservatore

    Lacan, è chiaramente una forma di assoggettamento e non di
    liberazione. Marcuse parlava a questo proposito di desublimazione
    repressiva: non è il soggetto che desidera, ma che esige un godimento
    che spenga ogni suo desiderio (corsi miei).
    [..] L’algebra lacaniana del discorso del capitalista richiude, anziché
    aprire, come accade invece per il soggetto dell’inconscio, il rapporto tra
    soggetto diviso e l’oggetto piccolo (a): l’oggetto non è perduto, non è
    indice della mancanza, ma si solidifica illusoriamente, restando
    contiguo al soggetto, a sua disposizione, a portata di mano e di bocca.
    È questo il significato della osservazione di Lacan secondo cui la
    macchina iperattiva del discorso ilei capitalista sì muove troppo
    rapidamente, senza tregua, viaggiando come su due rotelle,
    raggiungendo una velocità infernale che abolisce il soggetto e che
    rivela l’anima profondamente nichilistica di questo discorso. Il soggetto
    sbarrato, situato nel matema del discorso del capitalista in una
    posizione agente, si rivela così una cifra ironica: nessun padrone,
    nessuna radice, nessun libertà assoluta di godere. Eppure in questa
    pseudo padronanza, in questa libertà immaginaria, per riprendere il
    titolo efficace dell’ultimo lavoro di Mauro Magatti sul capitalismo
    tecno-nichilista, il soggetto si trova schiavo dell’oggetto che più che
    consumare diventa ciò che lo consuma, oggetto passivo della “volontà
    di godimento” dell’Altro del discorso del capitalista più che l’euforico
    protagonista di un mondo senza più limiti. Il “turboconsumatore” del
    quale Lipovetsky, per certi versi, tesse le lodi non è solo, come crede il
    sociologo francese, il padrone razionale dei suoi, gusti e delle
    possibilità delle loro soddisfazioni, un Giano bifronte capace di
    “sfruttare a tutto campo le potenzialità aperte da quelle che sono le due
    grandi finalità della modernità: efficienza e felicità sulla terra”, ma è
    anche l’espressione di un godimento sganciato dalla castrazione
    simbolica, impermeabile al discorso amoroso, antivitale, che non si
    genera solo dai consumi ma che tende a consumare anche chi consuma,
    a utilizzare il consumo delle cose come modo di compensazione della
    disinserzione del soggetto da ogni legame con l’Altro (corsivi miei).
    [..] La caduta dell’Ideale e della sua funzione orientativa e l’affermazione dell’oggetto di godimento in una posizione di agente sono i due elementi cruciali che animano il discorso del capitalista come macchina
    anonima di godimento e mostrano la precarietà simbolica dell’Altro
    contemporaneo: crisi della politica, dell’ideologia, del religioso, della
    dimensione valoriale, del discorso educativo, epoca postideologica,
    postmoderna, ipermoderna, postumana. Si tratta di una precarietà che è
    il prodotto di una instabilità dei legami, di legami senza
    Ideale,instabili, liquidi direbbe Bauman, esposti alla contingenza del
    sintomo. Ma anche di legami chiusi, cristallizzati, non-liquidi, reificati,
    solidificati, gelati, molecolari, involuti, segregativi. La caduta
    dell’ideale, la crisi del discorso del padrone, come ho già fatto notare,
    non comporta solo la liquefazione dei legami in quanto privati di ogni
    orientamento ideale, ma tende anche a rafforzare un loro
    compattamento monadico, autistico, apatico, narcisisticamente ostile
    allo scambio simbolico.
    [..] Il conflitto tra principio di piacere e principio di realtà, tra
    programma pulsionale e programma della Civiltà si è stemperato e al

    suo posto è subentrata una domanda collettiva di omologazione agli
    stili di godimento prevalenti. In questa prospettiva la prestazione
    diventa un effetto dell’imperativo sociale del Super-io sadiano: Godi!
    Questo principio tende però a non fare legame ma a isolare Ì soggetti
    nel loro statuto individuale, monadico, precario.

    [..] Cosa produce il discorso del capitalista? Produce insoddisfazione.
    Produce l’insoddisfazione come una nuova forma clinica della
    precarietà. La nostra epoca non è più quella delle masse radunate
    dall’Ideale. Non è più l’epoca degli entusiasmi fanatici che potevano
    scaturire dall’idea di appartenere a un solo grande corpo sociale. La
    nostra epoca vive piuttosto il contrasto generato dal discorso del
    capitalista tra l’effetto maniacalizzante dovuto alla soppressione dei
    limiti del godimento e la tendenza a precipitare verso un sentimento
    depressivo di estraneità, di inesistenza, di superfluità, di indifferenza e
    di fatica di esistere.

    [..] Affermare che il nostro tempo è un tempo intossicato o, se si
    preferisce, sostenere l’idea che la diffusione epidemica di
    comportamenti tossicomanici sia da porre in stretta relazione con una
    intossicazione generalizzata del discorso sociale o, ancora, pensare
    che l’intossicazione non sia solo un’esperienza soggettiva, circoscritta
    ai soggetti che consumano droghe, ma che sia il nostro tempo, il
    tempo della Civiltà ipermoderna, a essere profondamente intossicato,
    e che, di conseguenza, l’intossicazione sia innanzitutto un’esperienza
    collettiva e non solo individuale, pone con forza il problema di una
    diagnosi teorica del programma contemporaneo della Civiltà (corsivi
    miei). Per provare a riassumere in modo sintetico il nostro modo di
    intendere questa intossicazione generalizzata, mi farò guidare da due
    citazioni che hanno avuto per il nostro lavoro di ricerca la funzione di
    bussole teoriche. Una la conosciamo già. È di Jacques Lacan (1982:90)
    e si trova in un’intervista televisiva degli anni Settanta, nella quale egli
    definisce il modo di godimento prevalente della società contemporanea
    come un godimento smarrito. Soffermiamoci ancora su questa
    espressione. Cosa significa porre il godimento della Civiltà
    ipermoderna come un godimento smarrito? Significa
    fondamentalmente ritenere che la pratica pulsionale e, più in generale,
    il problema stesso della soddisfazione non sia più ancorato,
    agganciato, abbonato, a una legge simbolica che ne definisca
    l’orientamento. Il godimento smarrito è un godimento privo della
    bussola fallica o, se si preferisce, non castrato, non regolato dalla
    castrazione simbolica, non limitato, arginato, orientato appunto, dalla
    funzione normativa della castrazione. Il godimento smarrito è una declinazione del godimento che non si coniuga più con l’Ideale ma che
    ne ha, piuttosto, usurpato il posto.

    La seconda citazione è di uno psicoanalista italiano, recentemente e
    prematuramente scomparso. Si tratta di Agostino Racalbuto (2003:296
    segg.). In una sua riflessione sulla tossicomania ha avuto modo di
    definire il nostro tempo come contrassegnato da uno “spazio psichico
    drogato”, dove, nella sua prospettiva, drogato vuoi dire precisamente:
    troppo pieno di oggetti, dunque intossicato da un eccesso di presenza
    di oggetti di godimento, da ciò che definisce un “uso concreto
    dell’oggetto” e da un esercizio difensivo della “realtà percettivo-

    motoria come controinvestimento rispetto a una realtà psichica interna
    collassata o pericolosa, ad alto potenziale distruttivo”, nel quale
    “l’agito prende il posto del pensato”.
    Lo spazio psichico drogato di cui parla Racalbuto non coincide con lo
    spazio mentale individuale. Si isola piuttosto una tendenza generale
    della psicopatologia contemporanea: l’agito surclassa il pensato, la tendenza alla scarica prevale sulla necessità che si dia tempo per depositare l’esperienza, la spinta all’evacuazione senza elaborazione simbolica
    s’impone come una modalità diffusa di funzionamento della soggettività ipermoderna che appare come privo di soggetto

  6. SCATTO DOPO SCATTO

    Sul maniglione era scritto: “QUI SI VIVE”.
    Meglio non aggiornare il tasso d’ateismo.

    A ogni tocco uno scatto di mamba.
    Ma qualcosa andava storto.

    Cruscotto in moto. Uteri allevati da feti.
    Secondo scatto, chiusura della cataratta.

    Gli uomini del porto cavalcarono alici

    muovendo il vento
    distillarono cobalto.

    Da qui non si passa.
    Se guardi bene troverai una galassia.

    Costruirono la Luna di Flaiano riciclando caffettiere
    Così prese a pendere sugli intellettuali.

    Restavano versi a sé, nudi del racconto
    Senza alcun ritegno, urati del dolore

    Vista sulle Alpi con bagnanti
    Mossa di caffè che gira cucchiaini
    .
    Nessuno sapeva come trasformare un po’ di massa
    in termini di Io.

    Il rischio di rimanere sepolti
    da una pioggia radioattiva.

    Tra chi lascia l’ostrica con la perla al collo
    e i forzati della parola,

    Il pesce nuvola di Hiroshima.
    Esploso di una brocca.

    Ad oganesso sotto controllo
    Il Dio delle previsioni toccava ferro.

    (Francesco Paolo Intini)

  7. milaure colasson

    Una mia poesia kitchen, tratta dalla raccolta Les choses de la vie di prossima pubblicazione.
    Mi meraviglia, in positivo, l’articolo di Linguaglossa, con quel “marxista” che sembra gettato lì per rivendicare la continuità di una storia e di una provenienza e, soprattutto, per rivendicare che senza una salda provenienza e assidua frequentazione della filosofia marxista non si può scrivere neanche un verso degno di considerazione.

    12.

    Antibiotique citrobiotic probiotique patriotique
    Napoléon des tics des tocs pour des yeux verts mimbés de soleil

    Un chat voluptueux enfile sa robe indienne à pois
    et discute fermement avec les angrais de compostage

    Des particules élémentaires au ventre proéminent
    montent dans le tramway n’aboutissant à rien

    Zigzag le chien de Madame Bonjour avec un lorgnon d’écaille de tortue
    lèche une glace au chocolat en conduisant sa Porsche

    Eredia rapide s’habille d’illusions électrocinétiques
    se rend 11 rue de Nulle Part pour y voir un film muet

    Ville palladienne ensoleillée Londre est en effervescence
    la couronne de la Reine Elizabeth a disparue
    avec le soleil au petit matin

    Le tramway s’est endormi comme un visage mal rasé et en sueur

    *

    Antibiotico citrobiotico probiotico patriottico
    Napoleone dei tic e dei toc per degli occhi veri orlati di sole

    Un gatto voluttuoso s’infila un vestito indiano à pois
    e discute con decisione con i fertilizzanti del compostaggio

    Particelle elementari dal ventre prominente
    salgono nel tram che non conduce a niente

    Zigzag il cane di Madame Bonjour con un monocolo di tartaruga
    lecca un gelato al cioccolato mentre guida la sua Porsche

    Eredia rapida si veste d’illusioni elettrocinetiche
    si reca alla undicesima rue di Nessun Luogo per vedere un film muto

    Città palladiana soleggiata Londre è in effervescenza
    la corona della Regina Elisabetta è scomparsa
    con il sole del primo mattino

    Il tram si è addormentato come un viso mal rasato e sudato

  8. Di ritorno da una mission impossible durata secoli, la poesia adesso fa spettacolo. A fare spettacolo sono proprio le parole. Lo sanno i poeti, quando le vedono arrivare e per questo si meravigliano.

    • milaure colasson

      Lucio forse hai ragione le parole fanno spettacolo , ma è un sacré boulot ,non intendo fare spettacolo , ma la vita stessa ci nutrisce di tale angosce ,o piuttosto l’uomo nasce abbracciando l’ ansia ; allora bisogna imparare ad essere leggeri per profondità .Almeno per me ci provo ,non sopporto il pathos .
      milaure

      • Cara Milaure
        qui siamo tutti per la leggerezza e l’ironia. Se ci pensi è una gran bella difesa, oltre che un’ottima strategia d’attacco. Da maestri di arti marziali. Ma non è questo che intendevo: in poesia tutto è silenzio, nessuno applaude. Lo spettacolo è, in ciascuno, intimo; il primo a provare meraviglia è l’autore stesso.
        Carmelo Bene, perché artefice di ogni sua rappresentazione, si premurava anche di presentare con voce fuori campo, dicendo: “tra cinque minuti inizia lo spettacolo”. Lo spettacolo! Ecco, è in questo senso. Ma se leggiamo le ultime poesie di Linguaglossa e Rago, la loro interpretazione del Poetry chitchen, per quanto rocambolesche sono quelle poesie converrai che il termine spettacolo un po’ si addice. E sta bene a tutti. Poesia non fa spettacolo, poesia “è” spettacolo. Non è per dieci o mille spettatori plaudenti, ma per dieci mille uno, individualmente. A maggior ragione se la svuotiamo di tutto, per fare e dare esperienza del nulla. Come sbucciare una mela e passarla a chi ne mangerà. E’ Poetry chitchen. Magari acciaccata ma è buona. Sa di cosa libera. Finta, ma nelle parole autentica.

  9. milaure colasson

    si Lucio uno spettacolo intimo con immagine-parole in tutta libertà ,visto che non esiste, ma bisogno continuare a gridarla con il fare !

    • Questa riflessione nasce da parole che ho scritto, pensando a luce e vuoto, secondo dettami di normale pensa e scrivi. Luce che non è luce per vedere, mentre vuoto è proprio quel che non riusciamo a scorgere negli oggetti. Anche se penso che quel che manca negli oggetti sia soltanto la nostra immagine: le cose nono sono tutte a specchio.

      “Non so se si possa davvero parlare di vuoto. Le parole stanno di qua.
      Sono esse stesse uno spettacolo”. E aggiungevo “… non vedo l’ora di dirlo ai miei amici poeti”.

      Ho quindi dato attenzione alla parola “spettacolo”. Così diversa da preghiera, litania, archeologia e nobiltà del poetico… Fa spettacolo l’azione di scrivere, l’evento; e cosa viene detto, se interamente sull’onda del caso. Fa spettacolo la scrittura vacillante, sempre sul punto di precipitare nella mancanza di senso. In quella scomoda situazione, chi più chi meno esegue i propri voltaggi, le proprie acrobazie.

      • Non stavo minimamente pensando a Millaure Colasson, alla quale dobbiamo l’origine della top pop poesia, quindi la Poetry kitchen – qui ne dà fulgido esempio. Pensavo che “spettacolo” potesse andare d’accordo con Poetry kitchen. Sono termini egualmente svilenti. Che ne direste di Poetry Kitchen Show? Show invece di spettacolo. In fondo, Pop sta per popolare… Sorge un problema di alto e basso. Tradizione vuole che si bazzichi nel basso tenendo lo sguardo fisso verso l’alto. Lì per sentirsi ancora degni eredi di Dante. E della sua scrittura. Paradise. Allora Paradise Poetry kitchen Show. Un libro per locali alla moda, dove alcuni ballano e altri vanno e vengono dal terrazzo, come a casa propria.

        Sono nato pigro. Mi chiedo continuamente come sarebbe la vita di ciascuno se non esistesse il lavoro. Non sapere come occupare il tempo.

  10. La simulazione della primavera ha quattro costole incrinate, davvero partiresti?

    Le coste deserte affettano portamenti dandy, sopraggiungono in sordina. La canoa o un fuoribordo?

    Nelle tasche un volantino di poesia a metaprezzo. La riduzione è sugli scaffali.

    Qualche spicciolo per ascoltare una voce. Dall’alto di un drone è sopraggiunta una carezza.

    Proporre le uniformi di centomila cuochi in cottura. Un Fondo di Recupero italiano.

    La proposta la conoscete: lasagne al pesto
    a Portofino! Il mare è un clacson, sono nel ramo frigidaire.

    Alé OMBRA.

  11. tiziana antonilli

    L’articolo di Giorgio Linguaglossa che pone lo studio della parola, dell’arte e della poesia in relazione al dispotismo della merce e del valore di scambio è illuminante.La merce, dice Linguaglossa, ha assorbito in sé la pulsione di morte. Ovvio, la merce ha un obbligo, moltiplicarsi all’infinito e in questa sua necessità vitale sottrae significato, mortifica, annulla, svuota. Alla luce dell’analisi di Linguaglossa, l’intuizione di Andy Warhol appare più che mai attuale. Nei suoi famosi ‘multiples’ le icone della contemporaneità da una parte esercitano un fascino ipnotico, dall’altra si svuotano di senso. Per capire dove va l’arte, dove va o può andare la Poesia lo studio della società delle merci è imprescindibile.

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