
Illustrazione del romanzo Il Maestro e Margherita di Bulgakov
Esempi di Poetry kitchen
Giorgio Linguaglossa
Giorgio Linguaglossa è nato ad Istanbul nel 1949 e vive a Roma. Ha diretto la rivista di letteratura “Poiesis” (1993-2015). Ha pubblicato i seguenti libri di poesia, Uccelli (1992), Paradiso (2000), La Belligeranza del Tramonto (2006), La filosofia del tè (2013), Il tedio di Dio (2018). Per la critica militante si segnalano, Dopo il Novecento (2013), Critica della ragione sufficiente. Verso una nuova ontologia estetica (2018). Ha curato le antologie Il rumore delle parole (2014) e Come è finita la guerra di Troia non ricordo (2016).
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Sugli stagni Patriarsci
«Dio non è mai nato” », disse Azazello.
«Questi umani sono davvero degli imbecilli se hanno potuto credere in una tale panzana», appoggiò il mago Woland.
«Dopotutto, gli abbiamo concesso il libero arbitrio, no?», interloquì il critico letterario Bezdomnyj.
«È stata quella la fregatura», caricò il mago Woland.
«Non ce ne sbarazzeremo facilmente di questa inutile buffoneria», aggiunse il gatto Azazello il quale nel mentre si asciugò il baffo destro.
«Dovremmo organizzare un grande Circo e metterci dentro tutti gli attori di questo lungo metraggio»,
disse Bezdomnyj, il quale però aveva sete; cambiò direzione e si diresse verso gli stagni Patriarsci.
Giunti che furono presso gli stagni Patriarsci, i tre inquilini del mondo si diressero verso un chiosco che, in alto, sventolava una targa con la falce e il martello dipinta in rosso.
Chiesero una bevanda.
«Avete del Campari?».
«No, caro compagno, abbiamo soltanto della risciacquatura di tubi,
una aranciata della Lega lombarda».
«Possibilmente ghiacciata», ordinò il critico Bezdomnyj…
Fu a quel punto che spuntò fuori del chiosco Belfagor,
con una giacca a quadretti e una cravatta sgargiante
il quale affermò di aver chiuso nell’armadio una farfalla de l’Opéra de Paris di nome Onilde
vestita con delle bretelles e une pagne con una bottiglietta di acqua minerale
e un pappagallo del Madagascar appollaiato su un trespolo
per farle compagnia…
«Il libero arbitrio è stata una brillante idea, eh? », disse il pappagallo
interloquendo in modo sgraziato.
La cosa gettò nello sconforto il quartetto il quale arretrò verso il succo di albicocca
con della schiuma giallastra di sopra. Che ribolliva.
Fu Bezdomnyj a replicare dicendo che «il tema era fuori tema e il contesto fuori contesto»,
e che «Dio non c’è, non è mai nato».
E così liquidò la questione.
Però non del tutto, perché intervenne Azazello il quale apostrofò
così il pappagallo:
«La questione del MES salvastati è alquanto dibattuta,
ne riparleremo a settembre».
Nel frattempo, proprio davanti agli stagni Patriarsci
un tram bolscevico attraversò di corsa i binari
e la testa del critico letterario Berlioz rotolò davanti al bizzarro quartetto.
«E quindi non può essere morto chi non è mai nato»,
chiuse la questione Bezdomnyj…

Azazello, illustrazione
Sulla Poetry kitchen
caro Lucio Mayoor Tosi,
la poetry kitchen assume in sé il più alto grado di consapevolezza della negatività. Oltre di essa la nuova poiesis non può andare, la nostra epoca ci sbarra la strada.
Scrive Agamben:
«Dunque il linguaggio è la nostra voce, il nostro linguaggio. Come tu ora parli, questo è l’etica
[…]
La negatività entra nell’uomo perché l’uomo ha da essere questo aver-luogo, vuole cogliere l’evento di linguaggio» (Il linguaggio e la morte, p. 43). Subito dopo Agamben si chiede: «che cosa, nell’esperienza dell’evento di linguaggio, getta nella negatività?
[…] Com’è possibile che il discorso abbia luogo, si configuri, cioè, come qualcosa che possa essere indicato?» (ibidem).
Le domande inquietanti di Agamben gettano un fascio di luce sulla nuova poiesis, la decostruzione agambeniana giunge al suo compimento. La risposta è nell’individuazione della «voce» come dispositivo fondamentale, nel senso di dialettica del fondamento, della negatività, come «dimensione ontologica fondamentale»(p. 45), e dunque come luogo negativo (non-luogo) dell’aver luogo dell’onto-logia dell’Occidente.
In questo passo giungiamo all’ultimo lido del nichilismo della ontoteologia. Nel futuro soltanto un’altra ontoteologia non più fondata sulla negatività della «voce» potrà liberarci da questa condizione di negatività.
Aggiungo una postilla.
Stavo pensando che la dialettica del fondamento sulla quale si iscrive il linguaggio, non può soltanto essere pensata come fondamento negativo (fundamentum negativum), ma come un fondamento negativo che diventa «positivo» proprio in quanto assunzione del linguaggio su di sé della negatività. Il fondamento che va a fondo dà luogo alla positività del linguaggio che accetta di accogliere il negativum.
L’accettazione del negativum è questo lasciare andare a fondo il linguaggio della tradizione.
(Giorgio Linguaglossa)
Sì, lo penso anch’io. E si metteranno a ridere perché nulla ha importanza se non nell’immediato. D’altronde questo ci viene insegnato anche dalla privazione, lo stato di necessità, l’angoscia.
(Lucio Mayoor Tosi)
caro Lucio,
dal punto di vista del nostro fare poiesis la nostra poesia è il nostro linguaggio, la nostra estetica è la nostra poetica e la nostra poetica è la nostra politica.
Non si danno sfere separate, come credeva la metafisica del novecento, ma siamo tutti abitanti di una unica dimensione. «Come tu ora parli, questo è l’etica», scrive Agamben. «Come tu ora parli, questo è l’estetica», chioserei io.
Nella modalità in cui tu parli, in cui e per cui qui noi parliamo, il linguaggio ha positivamente luogo, qui è l’etica. E io direi che qui è anche la poetica. L’etica e la poetica sono, in quanto coincidono, nel ‘come’, nella modalità, e la modalità è, in quanto è nell’aver-luogo della parola.
In gioco, nell’etica come anche nella poetica che sono in qui in questione, sono tanto il linguaggio quanto l’ontologia: l’onto-logica.
Oggi soltanto attingendo una parola senza destino e senza identità, possiamo accedere alle regioni della poiesis.
Il linguaggio poetico ha luogo nel costitutivo e ineliminabile luogo-non-luogo; non si dà, nell’alveo della metafisica occidentale (nella riflessione sul linguaggio, come in quella sull’essere, come in quella sul politico) positivo senza negativo: non c’è esistenza senza il nulla, non c’è parola senza silenzio, non si dà il linguaggio senza il silenzio delle parole.
Ecco, precisamente, in questa dialettica del fondamento la poiesis si scopre internamente bifide e auto contraddittoria. Perché parla il positivo sul fondamento di un negativo, perché poggia su una duplice negatività, sulla negatività del Dasein e sulla negatività del linguaggio.
(Giorgio Linguaglossa)

decapitazione…
Francesco Paolo Intini
Francesco Paolo Intini (Noci, 1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016), Natomale (LetteralmenteBook, 2017), Nei giorni di non memoria (Versante ripido, Febbraio 2019) e Faust chiama Mefistofele per una metastasi, Progetto Cultura, 2020. Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie. Calliope free forum zone 2016) – e una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017).
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Zone d’ombra non comprese nel prezzo
Svolazzano le mie molecole per l’aria
-previsione di Margherita Hack-
Capitassero i baffetti di Baruch
non quelli di Himmler.
Ne faremo un corvo –dicono le leggi fondamentali
E appena accalappiate le invieremo la ricevuta di ritorno
Oggi si va oltre i raggi gamma. Ombra non c’è
E nemmeno gravità.
Fossero almeno scritte sulla Gazzetta Ufficiale.
C’erano di mezzo le stragi e si affacciò l’herem
Bannato anche l’ Io pace all’anima sua.
(In ricordo dell’ herem pronunciato il 27 luglio 1656 contro Baruch Spinoza)
Giorgio Agamben
La sfera dell’enunciazione comprende, dunque, ciò che, in ogni atto di parola, si riferisce esclusivamente al suo aver-luogo, alla sua istanza, indipendentemente e prima di ciò che, in esso, viene detto e significato. I pronomi e gli altri indicatori dell’enunciazione, prima di designare degli oggetti reali, indicano appunto che il linguaggio ha luogo. Essi permettono, così, di riferirsi, prima ancora che al mondo dei significati, allo stesso evento di linguaggio, all’interno del quale soltanto qualcosa può essere significato. La scienza del linguaggio coglie questa dimensione come quella in cui avviene la messa in opera del linguaggio, la conversione della lingua in parola.
Ma, nella storia della filosofia occidentale, questa dimensione si chiama, da più di duemila anni, essere, ousia.
Ciò che sempre già si mostra in ogni atto di parola […], ciò che, senza essere nominato, è sempre già indicato in ogni dire, è, per la filosofia, l’essere.
La dimensione di significato della parola “essere”, la cui eterna ricerca e il cui eterno smarrimento […] costituisce la storia della metafisica, è quella dell’aver-luogo del linguaggio e metafisica è quell’esperienza di linguaggio che, in ogni atto di parola, coglie l’aprirsi di questa dimensione e, in ogni dire, fa innanzitutto esperienza della “meraviglia” che il linguaggio sia. Solo perché il linguaggio permette, attraverso gli shifters, di far riferimento alla propria istanza, qualcosa come l’essere e il mondo si aprono al pensiero. La trascendenza dell’essere e del mondo – che la logica medievale coglieva nel significato dei trascendentia e che Heidegger identifica come struttura fondamentale dell’essere-nel-mondo – è la trascendenza dell’evento di linguaggio rispetto a ciò che, in questo evento, è detto e significato; e gli shifters, che indicano, in ogni atto di parola, la sua pura istanza, costituiscono (come Kant aveva perfettamente colto attribuendo all’Io lo statuto della trascendentalità) la struttura linguistica originaria della trascendenza. 1
La voce, la phoné animale è, sì, presupposta dagli shifters, ma come ciò che deve necessariamente esser tolto perché il discorso significante abbia [a sua volta] luogo.
L’aver-luogo del linguaggio fra il togliersi della voce e l’evento di significato è l’altra Voce, la cui dimensione onto-logica abbiamo visto emergere nel pensiero medievale e che, nella tradizione metafisica, costituisce l’articolazione originaria del linguaggio umano.
Ma, in quanto questa Voce […] ha lo statuto di un non-più (voce) e di un non-ancora (significato), essa costituisce necessariamente una dimensione negativa. Essa è fondamento, nel senso che essa è ciò che va a fondo e scompare, perché [a loro volta] l’essere e il linguaggio abbiano luogo. Secondo una tradizione che domina tutta la riflessione occidentale sul linguaggio, dalla nozione di gramma dei grammatici antichi fino al fonema della moderna fonologia, ciò che articola la voce umana in linguaggio è una pura negatività. […] La Voce, come shifter supremo che permette di cogliere l’aver-luogo del linguaggio, appare, dunque, come il fondamento negativo su cui riposa tutta l’onto-logica, la negatività originaria su cui ogni negazione si sostiene. Per questo l’apertura della dimensione dell’essere è sempre già minacciata di nullità: […] perché la dimensione di significato dell’essere è aperta originariamente soltanto nell’articolazione puramente negativa di una Voce.2
Chi chiama, nell’esperienza della Voce è, per Heidegger, il Dasein stesso dal profondo del suo essere spaesato nella Stimmung. Giunto, nell’angoscia, al limite dell’esperienza del suo esser gettato, senza voce, nel luogo del linguaggio, il Dasein trova un’altra Voce, anche se una voce che chiama solo nel modo del silenzio. Il paradosso, qui, è che la stessa assenza di voce del Dasein, lo stesso “vuoto silenzio” che la Stimmung gli aveva rivelato, si rovescia, ora, in una Voce, si mostra, anzi, come sempre già determinato e accordato (gestimmt) da una Voce. Più originario dell’esser gettati senza voce nel linguaggio è la possibilità di comprendere il richiamo della Voce della coscienza, più originaria dell’esperienza della Stimmung è quella della Stimme.
Ed è solo in relazione al richiamo della Voce che si rivela quella più propria apertura del Dasein che il paragrafo 60 presenta come un “tacito e capace di angoscia autoprogettarsi nel più proprio esser-colpevole”. Se la colpa scaturiva del fatto che il Dasein non si era portato da sé nel suo Da ed era, perciò, fondamento di una negatività, attraverso la comprensione della Voce il Dasein, deciso, assume di essere il “negativo fondamento della propria negatività”.
È questa doppia negatività che caratterizza la struttura della Voce e la costituisce come più originale e negativo (cioè abissale) fondamento metafisico.3
… se la metafisica non è semplicemente quel pensiero che pensa l’esperienza di linguaggio a partire da una voce (animale), ma se essa pensa invece già sempre questa esperienza a partire dalla dimensione negativa di una Voce, allora il tentativo di Heidegger di pensare una “voce senza suono” al di là della metafisica ricade all’interno di questo orizzonte. La negatività, che ha il suo luogo in questa Voce, non è una negatività più originaria, ma indica anch’essa, secondo lo statuto di shifter supremo che le compete all’interno della metafisica, l’aver-luogo del linguaggio e l’aprirsi della dimensione dell’essere. L’esperienza della Voce – pensata come puro e silenzioso voler-dire e come puro voler-aver-coscienza – svela ancora una volta il suo fondamentale compito ontologico. L’essere è la dimensione di significato della Voce come aver-luogo del linguaggio, cioè del puro voler-dire senza detto e del puro voler-aver-coscienza senza coscienza. Il pensiero dell’essere è pensiero della Voce.4
1 G. Agamben, Il linguaggio e la morte, pp. 36-37
2 Ibidem pp. 49-50
3 Ibidem pp. 74-75
4 Ibidem p. 76
In questa pagina super complicata de L’Ombra delle parole, ci sta a meraviglia la poesia di Francesco Paolo Intini – quel richiamo ai raggi gamma, rimbalzo nell’umano esperire come indefinibile vibrazione della buddità: fenomeno riconosciuto e celebrato in oriente ma non qui, dove sembra che l’universo sia, o fuori o dentro nei libri.
La forma racconto di Giorgio Linguaglossa sembra essere, di fatto, il suo mezzo di trasporto – alla luce di quanto esposto su voce e intenzione, un mezzo linguistico obsoleto (il linguaggio è anche un prestito), però in grado di uscire dalle coordinate tipiche dell’io in viaggio per piccoli cabotaggi. Diviene quindi navicella per viaggi di disobbedienza intellettuale. E non mancano tracce riconoscibili di ironica autocoscienza.
Il tentativo di Giorgio a voler uscire dal negativo, quindi per trovare nella scia a bassissima energia una positiva reazione, mi trova solidale. Vedremo presto, in nuove poesie, se la resina darà i frutti sperati.
Cari amici,
grazie sempre dei vostri ottimi invii. Mille auguri e un affettuoso saluto da
Mariella B.
Testi davvero ricchi di possibilità, anche se scriviamo ciò che dobbiamo, non ciò che vogliamo.
caro Lucio,
Scorcio, chiaroscuro, prospettiva, fisiognomica sono gli espedienti su cui si basa il concetto del realismo. L’immagine tanto più è prossima al reale quanto più e meglio vengono adottati questi espedienti. È una scelta di politica estetica decidere quale e quanto tipo di realismo promuovere e adottare, ma è che i poeti adottano il modello realistico-mimetico in modo inconsapevole e irriflesso.
Se si legge con attenzione la poesia postata qualche giorno da di Giovanni Giudici tratta da O beatrice (1972) e la confrontiamo con la mia poesia postata sopra, ci accorgiamo che gli espedienti elencati sopra sono impiegati tutti al plurale, non si parla più al singolare; è la giustapposizione di ogni pluralità che produce il multiverso del plurale; non c’è un solo «scorcio», ma tanti «scorci»; non c’è più una «prospettiva» ma tante prospettive; non più una «fisiognomica» ma tante situazioni fisiognomiche e, soprattutto, non c’è più un «io» all’esterno che fa da direttore di orchestra. Dove sia finito l’io nessuno lo sa.
Non si tratta soltanto di «disobbedienza intellettuale» come scrivi tu quanto di obbedienza ad un diverso sistema assiologico. Io non sono interessato a disobbedire o a ubbidire ad alcun canone ma soltanto al canone da me scelto con convinzione. Questa è la differenza.
La «forma racconto» non è più a quella dell’epoca della storicità forte ma quella della storicità debole.
La poiesis non si dà più secondo l’algoritmo del «viaggio», qui non c’è alcun «viaggio» da assicurare a nessuno, nessun algoritmo.
È il mio modo di stare nel linguaggio che è lontanissimo da quello di Giovanni Giudici e dei suoi imitatori fedeli al canone mimetico. Io sto nel linguaggio senza essere chiamato da alcuna voce, non c’è alcuna eccezionalità o unicità nella mia Voce, non sento neanche più il rumore della morte che si avvicina, non avverto alcuna esperienza abissale. Questa è precisamente la mia esperienza più abituale, l’esperienza che faccio tutti i giorni. Lo so, è forse terribile, ma è così. Io abito il mio linguaggio, che poi è il linguaggio di tutti, senza nessuna ambascia, nessun rovello. Lo stile? Ma lo stile è lì, nel linguaggio di tutti, che diritto ho io a modificare il mio stile? Sarebbe un atto di falsificazione, non credi?
«Stare nel linguaggio senza esservi chiamato da alcuna Voce, semplicemente morire senza essere chiamati dalla morte, è, forse, l’esperienza più abissale; ma questa è, precisamente, per l’uomo, anche l’esperienza più abituale , il suo ethos, la sua dimora che, nella storia della metafisica, si presenta sempre già demonicamente scissa in vivente e linguaggio, natura e cultura, etica e logica, ed è, perciò,attingibile solo nell’articolazione negativa di una Voce. E, forse, solo a partire dall’eclissi della Voce, dal non aver più luogo del linguaggio e della morte nella Voce, diventa possibile per l’uomo un’esperienza del proprio ethos che non sia più semplicemente una sigetica.
Forse l’uomo – l’animale cui non sembra incombere alcuna natura e alcuna identità specifica – deve far ancora più radicalmente l’esperienza della sua povertà.»1
1 G. Agamben, Il linguaggio e la morte, pp.120-121