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Louise Glück, Premio Nobel per la poesia 2020, Poesie varie, Dialogo e valutazioni, La inadeguatezza della giuria svedese del Premio Nobel

Louise-Gluck

Louise Glück

Mario M. Gabriele

Giorgio,

che ne dici del Nobel dato a Louise Glück? Hanno premiato la poesia tradizionale confermando che altre strade non sono percorribili, mentre in Italia noi proponiamo la NOE con la Poetry Kitchen, la Poesia buffet, Pop-Spot, Pop-Bitcoin, e Pop-Jazz? Siamo da considerarci fuori gioco ? o siamo arrivati a frantumarci con i frammenti e a rivedere ogni cosa asfissiati da molti detrattori alcuni dei quali nei loro Blog non fanno che inquinare la nostra poesia?. Se la Nuova ontologia estetica è tutto questo bisogna stare attenti nel proporre testi decerebrali dando più risorse alla nostra poesia.

Giorgio Linguaglossa

caro Mario Gabriele,

che vuoi che ti dica? Il Nobel alla americana Louise Glück era nell’ordine delle cose dopo il passo falso del Nobel conferito a «Bob Dylan (poeta sui generis)», come scrive giustamente Guido Galdini. Inoltre, la giuria del Nobel è composta da persone che hanno una media di 85 anni, e a quell’età non c’è più voglia di rischiare, i gusti si sono consolidati e sedimentati, ogni novità viene vista con grande sfiducia se non con sospetto, e il risultato finale è questa immobilità del gusto complessivo della giuria; questa scontatezza delle sue scelte era ampiamente prevedibile, e pensare che negli Stati Uniti c’è un poeta che per diapason è cento volte superiore alla mite e timida voce di Louise Glück, un certo Charles Simic. Ma si sa che Simic è un poeta scomodo, visto come un protestatario, un intellettuale non propriamente allineato con l’idea di poesia che hanno i membri della giuria del Nobel che è quella un po’ vecchiotta e ammuffita di una ontologia poetica che vede la poesia come lirica un po’ sliricizzata quanto basta, una lirica che ha il suo focus sulle vicende dell’amore tradito e della umanità infingarda e fasulla.

Cosa vuoi che ti dica della poesia di Louise Glück? Mi sembra una poesia un po’ telefonata, certo ben scritta, con giri di frasi professionali ma con alcune cadute, anzi, con frequenti tonfi come quel verso:

Nessuna disperazione è come la mia disperazione…

che fa oggettivamente ridere. Si tratta di una vecchia e antiquata concezione della poesia, che comunque ci può stare, Louise Glück scrive le sue cose migliori negli anni ottanta e novanta, è una poesia che vuole essere esistenzial-quotidiana, una poesia d’amore (mi vengono i brividi…). Certo, in confronto Charles Simic è un gigante, ma si sa che i giganti danno fastidio, sono ingombranti, troppo ingombranti per l’attempata giuria del Nobel. Ma non mi sorprende questa incapacità, questa inadeguatezza, questo non essere all’altezza dei membri della giuria del Nobel ad esprimere dei verdetti sulla poesia contemporanea; il messaggio che si vuole dare con questa assegnazione nobiliare mi sembra molto ovvio ed evidente: la completa ininfluenza della poesia nel mondo contemporaneo, l’inadeguatezza della poesia ufficiale a parlarci dei problemi del nostro mondo; e leggendo le poesie di Louise Glück questo aspetto risulta evidente.

I cittadini del capitalismo globale sono consapevoli del fatto che la visione del mondo che abbiamo è distorta e dunque siamo tutti diventati dei «soggetti cinici». Questa nozione di soggetti come cinici la riprendiamo dal pensiero di Peter Sloterdijk, il quale avanza l’ipotesi secondo cui l’ideologia dominante sia essenzialmente cinica, ciò che rende inoperoso l’orientamento critico ideologico classico. Secondo Sloterdijk il «soggetto cinico» è consapevole e cosciente della distanza che c’è tra la maschera ideologica e la realtà sociale in cui vive, ma ciò non è sufficiente per far sì che non rimanga fedele alla maschera stessa. Allora, la formula marxista classica che definiva l’ideologia (non sanno quello che fanno ma lo fanno), deve essere corretta: «sanno benissimo quello che fanno, e tuttavia continuano a farlo». La differenza in gioco risiede nel fatto che la ragione di cui parliamo non è più ingenua poiché rappresenta il paradosso di una «falsa coscienza illuminata» (dizione di Slavoj Zizek); i soggetti della ragione cinica infatti sono del tutto consapevoli degli interessi particolari che si celano dietro l’universalità ideologica, cioè del fatto che l’ideologia della disperazione senza disperazione alcuna è l’ideologia dominante del nostro mondo post-ideologico e post-globale, l’ideologia che ci consente la falsa contezza della realtà delle cose, e tuttavia di agire in favore di questa falsa contezza; nonostante questo, nessuno di noi è disposto a rinunciare ai privilegi e ai vantaggi che una tale falsa visione delle cose implica. Ecco il punto. Ecco spiegata  l’ideologia dominante della disperazione senza disperazione alcuna che intride la poesia della Glück e le masse mediatizzate post-globali di oggi in pieno capitalismo globale in crisi. È l’ideologia del nostro tempo che si cura a base di aperitivi e di Roipnol. Siamo quindi giunti in un momento storico in cui dovremmo parlare di post-ideologia? Per rispondere  dobbiamo fare un passo indietro e ritornare al concetto di «fantasia ideologica», affinché si possa dimostrare come la ragione cinica, con il suo distacco ironico e istrionico, lasci comunque intatto il livello fondamentale della fantasia ideologica cioè il livello sul quale l’ideologia organizza la realtà sociale. È necessario quindi ritornare alla definizione marxista «non sanno di far ciò, ma lo fanno» per poi chiedersi se il luogo dell’illusione ideologica sia nel fare o nel sapere all’interno della realtà. Il che poi è la stessa cosa in quanto il cittadino del mondo globale agisce nella realtà a dispetto della sua parziale o totale contezza dell’ideologia che lo acceca. Questa ideologia della falsa disperazione è presente in amplissima misura nei romanzi omiletici e nelle poesie omiletiche che si fanno oggi in Occidente.
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Ma tutto ciò non significa che noi non dobbiamo continuare nel nostro lavoro di svecchiamento della poesia delle «società signorili di massa» del mondo occidentale, come sono state brillantemente definite da un economista italiano. La poesia di Louise Glück è il miglior ornamento che la società signorile di massa di oggi si può agghindare sul petto a mo’ di trofeo, è una poesia decorativa e funzionale alle attese del pubblico benestante mediatizzato e atrofizzato e in falsa coscienza che fa pubbliche donazioni ai poveri e agli orfanelli degli orfanotrofi e che vuole essere confortato, corroborato e consolato della propria falsa coscienza e del proprio squallore. Questa poesia corrisponde perfettamente al canone delle buone maniere e del buon apprentissage, come dire, della figura del poeta nell’organizzazione delle strutture della persuasione delle società signorili di massa.

La poetry kitchen è ovviamente un’altra cosa, la nostra poesia non ha nulla a che vedere con questo reliquiario di tematiche liturgiche, non abbiamo altra scelta che proseguire nel nostro lavoro, ben sapendo che troveremo ferree resistenze da parte della poesia istituzionale. Ma questo lo sapevamo già.

Poesie di Louise Glück

Mattutino

Padre irraggiungibile, quando all’inizio fummo
esiliati dal cielo, creasti
una replica, un luogo in un certo senso
diverso dal cielo, essendo
pensato per dare una lezione: altrimenti
uguale… la bellezza da entrambe le parti, bellezza
senza alternativa… Solo che
non sapevamo quale fosse la lezione. Lasciati soli,
ci esaurimmo a vicenda. Seguirono
anni di oscurità; facemmo a turno
a lavorare il giardino, le prime lacrime
ci riempivano gli occhi quando la terra
si appannò di petali, qui
rosso scuro, là color carne…
Non pensavamo mai a te
che stavamo imparando a venerare.
Sapevamo solo che non era natura umana amare
solo ciò che restituisce amore. Continua a leggere

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CINQUE POESIE INEDITE di ADAM VACCARO con un DIALOGO APERTO tra Adam Vaccaro e Giorgio Linguaglossa  sul concetto di Esperienza e di Adiacenza, “tra arte e vita non c’è nessun vaso comunicante”, “Esperienza è stata definita da Hans-Georg Gadamer il meno rischiarato dei concetti filosofici“, “Perdita dell’Origine (Ursprung) e spaesatezza (Heimatlosigkeit)”, “Ciò che è Perduto non può essere ritrovato se non nella forma di «frammento»”,  “La parola esperienza era in greco ἐμπειρία, empeirìa, composta da ἐμ πειρία (in e prova)”, “l’albero metodologico chiamato Adiacenza“, “all’approssimarsi dell’Estraneo (Unheimlich) le nottole del tramonto singhiozzano”

bello città nel traffico

città nel traffico urbano

Caro Giorgio,

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mi complimento per gli ultimi post che aprono a voci anche molto diverse del panorama contemporaneo, sia italiano che europeo e oltre. È l’azione auspicabile di una Rivista come quella che con grande impegno curi, insieme a vari collaboratori. Ma sono stato sollecitato a scriverti alcune notazioni, soprattutto dopo le due ultime interviste, a Roberto Bertoldo e a Elio Pecora. Perché entrambi, da posizioni e poetiche diverse, esprimono misure e punti di riferimento, che a mio modo ho cercato di articolare nel mio percorso di scrittura con saggi e versi.
Dalla florida foresta di ricerca teorico-critica di Roberto Bertoldo estraggo alcuni punti, anche per me fondanti. L’intervista evidenzia prima di tutto un tronco metodologico, da cui derivano rami e frutti. C’è una implicita critica al cespuglio di libertà apparenti, anarcoide, affollato e ininfluente, di scritture fluttuanti e inconsistenti quanto arroganti, nella realtà liquida del postmoderno. Oggi, in tale allegra e disperata perdita di rilievo e presenza, sembrano ridicoli i richiami alla memoria di esperienze precedenti, a canoni e a una radicalità forte di una ricerca metodologica. Di quelle idee, cioè, che qualcuno ha chiamato le idee più importanti.
E, sia chiaro, l’impostazione metodologica non fa una critica, come una dichiarazione di poetica non fa una poesia. Ma, senza di esse, si rimane in balia del vento e degli eventi, incapaci di misurarli o di darne conto in una forma che sappia trasmettere una visione critica del mondo e della realtà. Capace in tal modo di fare e aggiungere realtà. Oggi innumerevoli testi, cosiddetti poetici, sono magari sapienti articolazioni di parole, ma restano muti e incapaci di dire quale visione delle cose ci offrono per intelligere il caos apparente in cui siamo. Rimaniamo così a danzare liberi di pensare ciò che vogliamo, ma siamo liberi in sostanza di rimanere alienati entro un campo separato, ‘a parte’ e non parte del Resto, appagato dei suoi esercizi e disinteressato a mettere a fuoco, cioè a essere adiacente, e a conoscere a ciò che si dibatte fuori, tra gioie e tragedie.
Credo invece che l’arte e la poesia che resistono siano quelle umanamente necessarie a soddisfare i nostri bisogni di amore, che senza un intreccio con virtude e conoscenza declinano il miele in melassa e il fanciullino nella rimbambilandia attuale. Dopo decenni di ideologia del testo, di arte /poesia inutile, rimane il bisogno di forme capaci di essere utili, (beninteso) antropologicamente utili. Viva allora ricerche fuori dal coro che riaffermano “L’arte è ineliminabile”, insieme alla domanda altrettanto ineliminabile e necessaria, “quale arte?”, “Decorativa” o “significativa”? Evviva per questo chi come Bertoldo sente la necessità de “l’intellettuale creativo, perché oggi, dopo l’abbraccio tra filosofia e poesia avvenuto in modo finalmente accurato nell’età romantica, il poeta non può non farsi carico della complessità del mondo e dei suoi mali.”

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Eugenio Montale upupaDomanda: Caro Adam hai messo il dito nella piaga. Dici bene quando affermi che oggi si crede di fare poesia mettendo in atto una sorta di vasi comunicanti tra la «vita» e l’«arte», come se ci fosse un canale diretto, un tram che ci conduce dall’una all’altra. Si pensa che si può fare poesia registrando e interpolando (magari anche in maniera brillante) la cronaca con degli intellettualismi, con dei commenti, delle didascalie, delle glosse, degli appunti, e via di seguito. Ma io penso, forse sbagliando, che queste operazioni non facciano parte del demanio della costruzione poetica. Qui siamo nel bisticcio, nella confusione delle categorie e, di conseguenza, delle cose. È bene ribadirlo: tra arte e vita non c’è nessun vaso comunicante. Si può avere una vita poverissima di eventi, come la Dickinson e Mallarmé, e si può fare grande poesia. Chi pone quell’equazione fa della pseudo poesia, della poesia posticcia e artefatta. Ritengo che dobbiamo soffermarci di più sul concetto di Esperienza. Che cos’è l’Esperienza? (Erfharung). Che cos’è l’esperienza estetica? Qual è il legame che unisce le due Esperienze? – Ecco, qui non saprei rispondere, solo un filosofo potrebbe tentare una risposta.

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Risposta:

La parola esperienza era in greco , empeirìa, composta da ἐμπειρία (in e prova), implicava cioè la capacità del soggetto di saggiare dentro la realtà. Ma già da Empedocle, Protagora e altri veniva sottolineato il dubbio tra evidenza e apparenza, o tra verità e falsità. E Platone distingueva tra esperienze fatte solo col logos e quelle frutto di una technéCiò conduce immediatamente nella complessità della conoscenza, quale processo di acquisizione di un soggetto attraverso il contatto con una forma di realtà. Ora, questi termini sono già una esperienza di quanto essi siano problematici, polisemici e complessi. Dipende dunque da chi ne fa uso.  
Cosa vuol dire contatto? Cosa significa processo? Come si concepisce il soggetto, distinguendo necessariamente tra Soggetto Scrivente (SS) e Soggetto Storicoreale (SSR)? E infine cos’è ciò che chiamiamo realtà? Siamo in un vortice di ricerca di senso e significazione del nostro fare e stare al mondo, che non può essere semplificato. Contatto è una esperienza che può essere fatta (come è già in Platone) sia con i linguaggi dei sensi, che con una lingua algoritmica. Processo può essere concentrato in un lampo o abbracciare un tempo lunghissimo. E il soggetto, se è una molteplicità dinamica e non una monade statica, come concepiamo la sua molteplicità e dinamica?

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Se ci soffermiamo sulle particelle subatomiche, ne traiamo modelli e metafore utili anche sul piano antropologico. Tali particelle hanno libertà delimitata dalla danza o oscillazione corale coerente con altre particelle, in cui il singolo è motore che contribuisce a produrre uno stato diverso, rispetto al precedente, per numero di quark e per somma di energia del campo. Ma l’energia del singolo quark, senza interazione con le altre particelle si deprime e collassa. All’interno della mia ricerca di Adiacenza la forma-soggetto (singolo o collettivo) può essere analogicamente rapportata al contenitore di una forma di quark. Le capacità di movimento spontaneo, o di clinamen già intuiti da Epicuro, esistono entro i limiti costitutivi, di imposizioni esterne e  autodelimitazioni, senza i quali cessa di ricercare superamenti o ulteriori campi di forza in cui interagire. Sono sbocchi che tende a produrre l’ideologia liberista e il panorama di una comunità fatta da una giungla di io-io. Quanto alla realtà, ricordo il convegno con qualche decine tra filosofi, artisti, psicologi, poeti ecc, che organizzai nel 2000 per dare avvio a Milanocosa. Tale convegno (vedi gli Atti pubblicati a mia cura da Milanocosa Ed. nel 2003) aveva come titolo “Scritture / Realtà”. Titolo che scelsi, dopo ampie discussioni con il gruppo costitutivo (di cui facevano parte anche Gio Ferri, Giuliano Gramigna e Francesco Leonetti), e che sottolineava con quella barra, lo iato inevitabile tra i due campi. E che impedisce di dare al primo lo statuto di verità, salvo considerarlo voce di Dio.
 Quel convegno accolse e mostrò la molteplicità delle lingue e scritture che ci costituiscono e sono parte della Realtà, strumenti fondanti (ma non tutta) la Realtà. Come l’occhio, che nel suo spettro accoglie solo una parte del visibile. La realtà, non solo per l’essere umano, esiste solo se viene elaborata da una lingua. Ma anche lingua è termine da pluralizzare, perché quella algoritmica, totalizzata da linguisti e da tanti scriventi (versi o altro), è solo una tra tutte quelle agite dalla nostra operatività mentale. 
Intanto, se l’arte è come la vita, indefinibile e indelimitabile, e se ognuno è libero di concepirla e viverla come vuole, anche solo come “strumento ludico e di evasione”, credo che oggi, nello smarrimento e nella perdita di senso che il sistema di dominio in atto produce, il “suo statuto ontologico e fenomenognomico” o ”gnoseologico” (vedi intervista a Bertoldo), rimane poco incarnato dalle espressioni e dalle scritture (poetiche e non) prevalenti. Per questo concordo che oggi “occorre recuperare, diversamente da quanto sostiene il pensiero debole, un proprio pensiero forte, che non significa inappellabile. Perché è impossibile un dialogo costruttivo se i dialoganti non hanno una personale e profonda visione del mondo e se, soprattutto, non chiariscono, e primariamente a se stessi, la propria fondazione pregiudiziale.”

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Un tronco forte non necessariamente significa ritornare in una hybris di neopositivismo o di ogni altra visione chiusa e totalizzante, religiosa o laica che sia. La mia identità si articola dal pensiero presocratico al giardino aperto di Epicuro, dal bosco simbolico politeista agli squarci liberanti dell’illuminismo, dalle 12 categorie mentali kantiane alle innumerevoli categorie mentali individuate poi dalle nuove scienze, dal materialismo dialettico marxiano alle analisi dell’autopoiesi dei vari livelli di una identità (biologica, psicosessuale e sociolinguistica), dalle strutture (Io, Es e Superio) individuate da Freud, alla fisica quantistica alla fenomenologia ecc…

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foto no left.

Domanda: Esperienza è stata definita da Hans-Georg Gadamer il meno rischiarato dei concetti filosofici. Mentre la «rappresentazione» evoca dal canto suo implicazioni paradossali che richiedono di essere esplicitate. I paradossi sembrano puntualmente duplicarsi ogni qualvolta il problema della rappresentazione viene ad incrociarsi con quello dell’esperienza della temporalità: mentre sul piano dell’esperienza e del linguaggio ordinari percepiamo (o crediamo di percepire) il tempo come «qualcosa» di autonomo dallo spazio, sul piano della rappresentazione – anche la più filosofica o la più puramente teoretica – non possiamo esimerci dal ricorso ad analogie e metafore spaziali. La metafora dello «scorrere» solca come un fiume carsico il sottosuolo della lingua in tutte le epoche e in tutte le culture: dal panta rei eracliteo a espressioni latine come tempus elabitur, fugit irremeabile tempus, oppure moderne come Im Laufe der Zeit (che è anche il titolo di un bel film di Wim Wenders) o «nel corso del tempo». Ciò segnala una circostanza ulteriore: nelle nostre rappresentazioni, spazio e tempo fungono da coordinate orientate a partire da un punto di convergenza costituito dal soggetto-sostegno delle sensazioni. Coordinata-tempo e coordinata-spazio, in altri termini, si intersecano nell’hic et nunc, nel qui-e-ora, dell’Ego”.1

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Risposta:

 Se il soggetto è una sorta di contenitore-adrone, l’identità è una forma di quark, e la sua carica energetica è il cuore interattivo. L’identità ha caratteri virtuali, che rischiano di condurre su un piano metafisico, nel senso che è (sempre) temporanea e provvisoria (auto)composizione delle componenti intrasoggettive, in perenne ricerca di una impossibile stabilità (intesa come identico a) e unicità. Per questo a mio avviso la metafora che forse meglio la rappresenta corrisponde a un impossibile incrocio tra casa e cosa: la prima come evidenza che resiste, la seconda come imprendibilità e ricerca inesauribile.
Per questo il testo (poetico in particolare) è ciò che può materializzare meglio questa duplicità e complessità. Per le stesse ragioni parlo di identità come dimora o casa del tempo: essa è infatti categoria che tende a collegare accumuli di esperienze coinvolgenti memoria, azioni e progetti: passato, presente e futuro. Quindi, casa come immagine di spazio e paradigma necessari all’incessante interrogazione della cosa – interrogata e interrogante – costituita dall’inafferrabile esperienza psichica del tempo. 
Come nella domanda precedente, condivido dunque le varie premesse che fai, compresa quella relativa a spazio e tempo, quali nomi diversi di una stessa cosa, da cui ho sviluppato il mio percorso di ricerca, che cerco qui di sintetizzare per una minima sua intellegibilità. 

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foto casa in disordine.
La nostra mente è il software di tutto il corpo e non solo del cervello. Essa non va concepita solo come funzione dei nostri piani alti, ma come funzione di quello che la Montalcini chiama “cervello bagnato”, che implica anche tutti i fasci nervosi, conduttori dei sensi e dei loro linguaggi che la sua funzione complessa elabora in modi diversi, producendo mondi diversi nel nostro universo mentale.
È un caleidoscopio di realtà che fa la vita umana, in cui tutto è separato da una barra, ma anche congiunto attraverso scambi incessanti di lingue ed esperienze specifiche che tendono a costruire le tessere del mosaico di spaziotempo della esperienza complessiva della nostra soggettività e vita.
Nel mio tentativo di albero metodologico chiamato Adiacenza, (vedi, tra le altre, Ricerche e forme di Adiacenza, Asefi, Milano,  2001, o Corpi d’Amore, in La poesia e la Carne, La Vita Felice, Milano, 2009) ho ipotizzato tre modalità, diverse e interagenti, della nostra operatività mentale, rispetto alle lingue del corpo e alle corrispondenti esperienze. Ho utilizzato (senza finalità psicologiche) le categorie freudiane, ipotizzando che ogni sistema di segni venga operato da tre fondamentali modalità chiamate Mod-Io, Mod-Es e Mod-Superìo, corrispondenti rispettivamente a tre aree mentali:

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  • area analitica, con utilizzo metaforico, astratto, strumentale e descrittivo;
  • area affettivo-corporale, con utilizzo totalizzante, metonimico, materialistico;
  • area etica, con utilizzo volto a un fine, qualunque esso sia, dato dalla visione di idee e dal sistema di valori/disvalori scelto.
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Tali aree tendono rispettivamente a produrre un alone ideologico, della Verità, del Testo, o del Valore. Dando a ideologia l’accezione di falsa coscienza o totalizzazione di una parte rispetto al resto (cfr, K. Marx e F. Engels, L’ideologia tedesca Opere complete, V, Roma 1972). 
Un esempio delle operatività diverse del nostro universo mentale è dato proprio dalla categoria tempo. L’Io opera nel presente e la percepisce come astratta e lineare, il Superìo la proietta nel futuro, e per l’Es è un tempofermo o circolare, sempre presente e sempre passato. Anche tra queste aree ci sono barre che non possiamo penetrare né aprire mai completamente, pena la loro (e la nostra) distruzione. È il senso del limite e del mito di Orfeo. Ma sono altrettanto necessari all’ecologia della mente, attimi di interruzione delle separatezze consuete. Ho chiamato tali attimi di tempo mentale, in cui tempo lineare e tempo fermo-circolare si combinano e si superano facendo pensare a una forma di elicoide, quale quella delle colonne del Bernini o del DNA.
La ragione profonda della poesia sta nella necessità vitale di offrire attimi di tempo mentale. Per la stessa ragione, la critica di ogni totalizzazione ideologica è necessaria, non solo e non tanto per una speculazione concettuale, quanto per recuperare vita e salute.

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Il corpo vivente si esprime nelle dinamiche fenomenologiche tra totalità e molteplicità in una condizione normale che fa dire a Paul Klee: “La capacità spirituale dell’uomo di spaziare a piacimento nel terreno e nel sovrumano è in antitesi con la sua impotenza fisica, all’origine della tragedia umana… L’uomo è per metà alato, per metà prigioniero”. E che fa dire a Umberto Galimberti: “la parola è schizofrenia, la mente (phren) scissa (schizo) in due mondi, dove l’uno si rifrange nell’altro, per cui è indecidibile quale sia il mondo vero”. Sta allora solo nella pato-logia, “in quel patire (páthos) che si fa parola (loghia)” di chi prova ad abitare “la profondità dell’abisso (Ab-grund)”, “la dimensione frantumata dell’essere”, l’unico sbocco concesso? All’arte e alla filosofia non resta che la “proclamazione alta e forte di questa lacerazione” (U. Galimberti, La casa di psiche, Feltrinelli, Milano, 2005)?
Se tutto ciò è vero e, come dice “Jaspers: La nostra forza è la scissione, abbiamo perduto l’ingenuità”, credo pure che ciò non contraddica il paradosso costitutivo dell’arte in tutte le sue forme: il piacere della prassi poetica, di uscita precaria dalla distanza scissa in cui siamo, incarna quella dell’amore, della sua forza e verità di momenti di unione della molteplicità intra e inter soggettiva, dove verità ha qui un senso fenomenologico, “significa che in esso riusciamo a vivere”. Verità, dunque, come salute, avvenire, sviluppo, potenza, vita. Adiacenza, quindi, quale nome di tali momenti necessari alla continuità della vita – entro un processo fenomenologico, in cui ad esempio Antonio Porta distingueva con Luciano Anceschi tra vero e verità, intendendo il primo quale punto di interazione tra il soggetto e l’esperienzache però non è definitivo come la verità”, quale spesso intesa dall’Io.

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Abbiamo perso l’ingenuità, ma di questo dobbiamo farne momento di vita e di forza, non di resa alla perdita di senso. Le barre e le barriere tra le diversità e le separatezze sono dati delle realtà intra e intersoggettive, ma l’arte e la poesia più grandi ci aiutano a vivere momenti – precari e fragili come gli orgasmi d’amore – in cui la gioia esplode perché quelle paratie sono state rotte e l’Io non è più solo nei suoi deliri di onnipotenza, ma condivide con l’Altro (interno ed esterno) attimi di infinito, stati mentali capaci di produrre, sia forme come L’infinito leopardiano, sia quella che Platone nel Timeo chiama “immagine mobile dell’eternità”. 
È l’utopia concreta donata, qui e ora, da ogni processo creativo o d’amore. Innervato in un percorso accidentato, quale è ogni percorso di comunicazione. Cioè capace di mettere in comune, e che, come diceva ancora A. Porta, “non è un piroscafo di linea”. 

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Antologia Poesia contemporanea copDomanda: Oggi siamo tutti gettati nella “Perdita”. Il mondo globale ha questa ricchezza, questa possibilità: che noi stiamo in mezzo ad un mondo irriconoscibile, vario, dispari, incredibilmente ricco e complesso. Un mondo senza Dio, è stato detto. E per fortuna, aggiungo io, perché ci si è dispiegato un mondo che non immaginavamo. Nuove sfide sono davanti all’umanità, nuove possibilità si aprono. Heidegger ha chiamato questa condizione «l’Oblio dell’essere», che significa questo allontanamento di noi da noi stessi. E questo allontanamento è il nostro stesso Progetto, un Progetto, la «Tecnica», che contiene al suo centro una Perdita. Allora, Perdita dell’Origine (Ursprung) e spaesatezza (Heimatlosigkeit) si danno la mano amichevolmente. Se manca l’Origine, c’è la spaesatezza. E siamo tutti deiettati nel mondo senza più una patria (Heimat).  Ed ecco l’Estraneo che si avvicina. E all’approssimarsi dell’Estraneo (Unheimlich) le nottole del tramonto singhiozzano

Voglio dire che oggi abbiamo bisogno di un’arte che ci dia la rappresentazione di questa frammentazione («fragmentation», secondo la dizione di Salman Rushdie); abbiamo bisogno di un’arte che ci consegni e ci riconcilii con questa diversità-disparità. Che incontri l’Estraneo. Chi è l’Estraneo? L’Estraneo è la maschera con cui ci si presenta il Diverso, il dispari, ciò che non comprendiamo e che non ci aspettavamo. «Aspettare», significa porsi nella dimensione dell’accettare, dell’accogliere ciò che ci si presenta come Estraneo. E questo compito è un compito precipuo dell’arte. L’arte, la poesia devono porsi nella posizione dell’accoglimento della diversità e dell’Estraneo. La «maschera» è il modo con il quale si presenta a noi l’Estraneo.                                                                                                                                                                                                                            1 Giacomo Marramao Minima temporalia luca sossella editore 2005, p. 14

foto vestito nude lookRisposta:

Nella mia personale ricerca, ho cercato di riconnettere la meravigliosa ricchezza di territori creativi e di ricerca speculativa o scientifica che ridicolizzano ogni pretesa di Verità di questo o quel fondamentalismo, Non per scimmiottare titanismi sistematici, ma per igiene mentale e amore di una poesia che con la sua misura antropologica (quale sa ad esempio trasmettere la scrittura di Pecora) ridicolizza i vari fondamentalismi risorgenti contro la migliore umanità. Mi riferisco non solo alle radici giudaico-cristiane (che pretendono di rappresentare l’identità culturale dell’Occidente) o ad altre totalizzazioni religiose (sciami di islamismo e altro), ma anche al fondamentalismo ideologico del dominante pensiero neoliberista.
La poesia, come tensione alla totalità, è linguaggio onnivoro e bulimico di ogni campo e lingua, che consentiva a Vico di parlare di Fisica poetica, Chimica poetica ecc. L’atteggiamento poetico è per me ricerca di ricchezza umana e di misura tra le polarità molteplici della complessità dell’esistente, tra le profondità del singolo e dell’immenso.
Con tali tensioni e approcci, non è ovviamente più pensabile alcuna costruzione teorica sistematica chiusa, ma più che le “costruzioni instabili” di Lyotard, preferisco il sintagma costruzione aperta o interminabile, quale quella evocata da un Gramigna o un Sanesi.

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Per questo ho usato le metafore di cosa e casa, quali componenti dell’autopoiesi identitaria, operante nella scrittura e quali immagini coniuganti stabilità insieme ad apertura incessante all’oltre. Una costruzione interminabile che informa i vari livelli del testo, tra i quali si possono trovare oggetti linguistici rispondenti alle ipotesi quantistiche del “gatto di Schroedingher”, in quanto stanno contemporaneamente in luoghi diversi del nostro universo mentale.
Mi basta un esempio: “ e caddi come corpo morto cade”, una sequenza di suoni e sensi che non è collocabile in un’unica area mentale, con la sua espressione di dolore e condivisione, e insieme di giudizio etico, oltre che di una visione critica complessiva della realtà. Una rottura della separatezza tra poesia e vita. Un gatto di Schroedingher che irrompe col suo lampo di umanità in condizioni di Perdita. E per questo (ri)produce gioia e speranza.

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foto tacco a spillo su binarioDomanda: L’espressione è il volto codificato del dolore.  Ciò che è Perduto non può essere ritrovato se non nella forma di «frammento» , che non indica il Tutto se non come un tutto frammentato e disperso. Di qui il «dolore» della poesia, (che non ha niente a che fare con il dolore del senso comune).

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Risposta:

Anche su questo punto – ricordando quanto detto nella risposta al secondo quesito – , abbiamo alcuni punti di arrivo diversi. Ma ben venga il confronto. Credo che uno dei caratteri più negativi del contesto socioletterario (non solo di oggi, ma credo oggi esasperato/omologato dall’individualismo postmoderno) siano i personalismi, le conventicole familistiche di piccoli poteri, le contrapposizioni sterili e le incapacità di un confronto tale da arricchire l’un l’altro e dare corpo a una società/civiltà letteraria, degna di tale nome. Non intesa cioè come una custode notarile di canoni, ma fonte di scambi, sollecitazioni e aperture prive di supponenze. Dipende poi certo dai singoli immaginare e dare vita a forme capaci di dare conto del dolore, del male come del bene, del mondo. La vita, la scienza, l’arte e la poesia (come del resto dimostra l’immenso patrimonio culturale accumulato nei secoli) non tollerano delimitazioni predeterminate. Come mostra il moto creativo (non solo in campo letterario) e dando beninteso per scontato che la realtà (de)scritta da un SS sia Altro da quella vissuta da un SSR. Abbiamo perduto l’ingenuità.
Ma credo che il problema e la domanda debbano essere: quanto un campo e l’altro sono capaci di scambiarsi energie, quanto sono capaci di creare condivisione e comunità, quanto sono adiacenti e non alienati l’uno rispetto all’altro. Quanto cioè nella realtà molteplice e drammatica del mondo contemporaneo, quei segni che fuoriescono dal soggetto (per il bisogno dell’Altro della Lingua, per dirla con Lacan, quale medium che dà forma e visione del mondo interno ed esterno), non rimangano poi chiusi e appagati di sé.
La liquida realtà contemporanea si lascia prendere con difficoltà, ma mostra tutti i suoi caratteri violenti e disumani entro l’involucro luccicante delle frenesie tecnologiche, finanziarie e massmediali del capitalismo globalizzato. La sua conoscenza è difficile e spesso illusoria, tanto che qualcuno parla di realismo terminale. Ma credo che questa situazione, con notevoli cambiamenti epocali, esalti e non riduca la responsabilità dell’arte e della poesia di non cadere nella hybris di essere un dio che crea sulla cima solitaria di un rinnovato Parnasse contemporain, dimentico della necessità umana di inventare e diventare linguaggio condiviso, medium di messa in comune.
Credo che questa realtà ci sfidi a non diventare frammenti entro un loculo del nulla, ma a far diventare tale nulla il piede e il grido di una risalita (im)possibile della Fenice. L’intreccio tra conoscenza e linguaggio vive tra aperture inneschi di cambiamenti, per cui può sostare in cieli privati e nuvole di sapienti giochi verbali, se poi fanno transitare e brillare – anche nel senso di es-plosioni creative – da un tu all’altro. 
Credo in una lingua e una poesia che sanno di non bastare a loro stesse, e che hanno bisogno di incorporare tutta la fragilità di un progetto ignoto che si misura con la complessità della vita e del mondo, nella coscienza che questa è co-autrice nel processo creativo. Ricerca di una lingua che sappia essere forma di conoscenza e mutamenti entro l’immensa molteplicità di forme offerta al nostro sguardo. Un processo creativo, dunque, svolto non in un immaginario ante rem, ma in una tensione a essere in re, a essere fattore e energia nell’incessante processo di metamorfosi della vita.
Di tale risultato non può essere giudice essa stessa, e non basta nemmeno il giudizio di una critica più o meno adeguata. Sarà Altro e altri dalle carte a dire se queste sono o no presenti nel corpo comune, come “voce di un numero immenso” (W. Withman) o se sono diventate lettere morte. Se sono finite su quella riva che ho definito dell’iperdeterminazione del significante, o su quella dell’iperdeterminazione del significato.
La prima disinteressata a scendere dal suo cielo e a trasmettere una visione critica, l’altra appiattita sulla cronaca e su pensieri scontati, priva di ogni lampo di lingua. Rispetto ad esse credo e cerco, invece, forme che sappiano accendere e spiccare il volo verso una utopica terza riva, capaci di coniugare complessità e transitività. Forme capaci di rigettare il lirismo edulcorante, senza buttare con esso quella che Leopardi chiamava “parola materiale e lirica”, parola come materia della totalità del corpo, che con tale parola cerca di esserci (quale inteso in particolare dal poeta Seamus Heaney, figlio di contadini e non a caso legato alla terra e al luogo) rincorre e cerca di far sentire lo zeitgeist e la musica del tempo. È un esempio di tensione alla totalità, che ci viene trasmesso e produce il coinvolgimento sia di riflessione critica, sia del piano affettivo.
Caro Giorgio, mi sembra corretto offrire ai lettori qualche esempio di miei testi poetici che cercano di rispondere all’appello di tali tensioni e ipotesi.
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Sharon-Stone

Adam Vaccaro Cinque poesie inedite e una edita

L’arte è parte della vita che sogna l’immenso. / Ma tutta la vita è arte dell’infimo che si fa infinito
 A.V.

L’ala sottile

Quell’ala sottile che ci raggiunge
e si apre come una vela sull’infinito
non è l’ultimo vento che ti aprirà le mani
ché l‘universo è pregno di mille altri universi
che tu ancora non sai

Inedita, 18 dicembre.2012

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Reti

come formiche oscillanti, affamate e disperse
nel nulla di cunicoli abbandonati, ci ritrovi
amo in questo nonluogo di una rete senza
mare né pesci, pescatori intrappolati da bi
sogni illusioni d’amore che fanno diventare
mare acceso d’estate la mancanza di un colle
e una piazza che allevavano pezzi di cuore di

versi e insieme riuniti nel disegno più grande
di un cuore ricamato tra zolle di terra, prati
e marciapiedi accarezzati strusciati come
la nostra pelle bambina che sa ancora far
diventare persino il nulla e il vuoto di un
nonluogo, un luogo pieno di colline e prati
piazze e sogni d’anima – disegni di comunità

Inedita, 3 febbraio 2015

.
Il tempo stringe

il tempo oggi stringe
ma non tocca il limite
che ci soffoca ridendo

e saremo ancora qua
ad aspettare per vedere
cosa abbiamo trasmesso

se altre ilari supine idiozie
nel tumulto che continua
o gioia che cambia e cosa

Inedita, ottobre 2015

.
NOP

Quel Nodo alla gola – che non sapeva
dire se più di rabbia o di sensi di colpe –
le si rapprese come una goccia di colla
secca sulla punta del naso, e rimase lì
per anni, ogni volta tentando di staccarla
rigirando muta nel nulla la punta della lingua.
Poi d’improvviso bastò il raggio di sole di
quel mattino. Come laser o dito di Dio
*
Osso era un signore duro e fragile che riteneva di
essere il perno portante di ogni massa, somma
quasi di una forma di dio. Ma bastò una piccola
pozzanghera, come un occhio di cielo che celava
una pietra aguzza, a togliergli l’illusione e
ogni idea senza fondamento
*
Pelo, un povero privo di ogni possibile risorsa
propria incontrò finalmente un vento così forte
che lo inebriò al punto di fargli perdere misura
e senso delle cose e di sé. Si abbandonò a quel
delirio di onnipotenza che lo condusse alle rive
del nulla, dove Pelo scorse il piede di tutto
Inedita

.
Ventagli d’amore e d’inganno

Dicono che il vento si fa vento
per farsi canto senza parole
sapiente che sa già tutte le loro
accese illusioni che sanno cucciarsi
e farsi anima, prima sotto pelle e poi,
piano, fino al cuore, fino a farsi liquore
che scende scende e inventa altri suoni
con odori e lampi abbracciati a ferite
dolci e feroci – incancellabili tue libertà.

Che riconoscerai anche se ti rapiranno l’anima,
per farne schiava in luoghi sconosciuti, mentre
ti racconteranno di una totale libertà ornata di altre
parole d’incanto che ti diranno, tu sei nel massimo
sogno di essere oltre e altro, finalmente il vero te,
il re che hai sempre cercato in parole ignote
il più sconosciuto e tanto in alto e fuori di te
che ti sembrerà di volare come foglia – completa
mente preda di un vento alieno che fa di te il suo canto

Inedita, aprile 2014

Quel Quid

Quel Quid immerso nel caos-cosa dell’universo
non è nascosto tra le mani del mondo né è sogno
che l’umile amore di una Rita o un Francesco può
scovare e tantomeno un frutto di risaltante risultato
da stringenti somme divisioni e altre operazioni
della folgore geniale di un folle scienziato. Quel
Quid che non torna rimarrà un esule introvabile
a consolazione dell’infimo e dell’immenso

Aprile 2014

In Seeds, Chelsea Editions, New York, 2014.

adam vaccaro 4

adam vaccaro

Adam Vaccaro, poeta e critico nato in Molise nel 1940, vive a Milano da più di 50 anni. Ha pubblicato varie raccolte di poesie, tra le ultime: La casa sospesa, Novi Ligure 2003, e la raccolta antologica La piuma e l’artiglio, Editoria&Spettacolo, Roma 2006. Infine, Seeds, New York 2014, è la raccolta scelta da Alfredo De Palchi per Chelsea Editions, con traduzione e introduzione di Sean Mark. Tra le pubblicazioni d’arte: Spazi e tempi del fare (Studio Karon, Novara 2002) e Labirinti e capricci della passione (Milanocosa, Milano 2005) con acrilici di Romolo Calciati. Con Giuliano Zosi e altri musicisti, ha realizzato concerti di musica e poesia. Collabora a riviste e giornali con testi poetici e saggi critici. Per quest’ultimo versante, ha pubblicato Ricerche e forme di Adiacenza, Asefi Terziaria, Milano 2001.  È stato tradotto in spagnolo e in inglese.

Ha fondato e presiede Milanocosa (www.milanocosa.it), Associazione con cui ha curato varie pubblicazioni, tra cui: Poesia in azione, raccolta dal Bunker Poetico, alla 49a Biennale d’Arte di Venezia 2001, Milanocosa, Milano 2002; “Scritture/Realtà – Linguaggi e discipline a confronto”, Atti, Milanocosa 2003; 7 parole del mondo contemporaneo, Milanocosa, Milano 2005; Milano: Storia e Immaginazione, Milanocosa, Milano 2011; Il giardiniere contro il becchino, Atti del convegno 2009 su Antonio Porta, Milanocosa, 2012. Cura la Rivista telematica Adiacenze, materiali di ricerca e informazione culturale del Sito di Milanocosa.

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