Louise Glück
Mario M. Gabriele
Giorgio,
che ne dici del Nobel dato a Louise Glück? Hanno premiato la poesia tradizionale confermando che altre strade non sono percorribili, mentre in Italia noi proponiamo la NOE con la Poetry Kitchen, la Poesia buffet, Pop-Spot, Pop-Bitcoin, e Pop-Jazz? Siamo da considerarci fuori gioco ? o siamo arrivati a frantumarci con i frammenti e a rivedere ogni cosa asfissiati da molti detrattori alcuni dei quali nei loro Blog non fanno che inquinare la nostra poesia?. Se la Nuova ontologia estetica è tutto questo bisogna stare attenti nel proporre testi decerebrali dando più risorse alla nostra poesia.
Giorgio Linguaglossa
caro Mario Gabriele,
che vuoi che ti dica? Il Nobel alla americana Louise Glück era nell’ordine delle cose dopo il passo falso del Nobel conferito a «Bob Dylan (poeta sui generis)», come scrive giustamente Guido Galdini. Inoltre, la giuria del Nobel è composta da persone che hanno una media di 85 anni, e a quell’età non c’è più voglia di rischiare, i gusti si sono consolidati e sedimentati, ogni novità viene vista con grande sfiducia se non con sospetto, e il risultato finale è questa immobilità del gusto complessivo della giuria; questa scontatezza delle sue scelte era ampiamente prevedibile, e pensare che negli Stati Uniti c’è un poeta che per diapason è cento volte superiore alla mite e timida voce di Louise Glück, un certo Charles Simic. Ma si sa che Simic è un poeta scomodo, visto come un protestatario, un intellettuale non propriamente allineato con l’idea di poesia che hanno i membri della giuria del Nobel che è quella un po’ vecchiotta e ammuffita di una ontologia poetica che vede la poesia come lirica un po’ sliricizzata quanto basta, una lirica che ha il suo focus sulle vicende dell’amore tradito e della umanità infingarda e fasulla.
Cosa vuoi che ti dica della poesia di Louise Glück? Mi sembra una poesia un po’ telefonata, certo ben scritta, con giri di frasi professionali ma con alcune cadute, anzi, con frequenti tonfi come quel verso:
Nessuna disperazione è come la mia disperazione…
che fa oggettivamente ridere. Si tratta di una vecchia e antiquata concezione della poesia, che comunque ci può stare, Louise Glück scrive le sue cose migliori negli anni ottanta e novanta, è una poesia che vuole essere esistenzial-quotidiana, una poesia d’amore (mi vengono i brividi…). Certo, in confronto Charles Simic è un gigante, ma si sa che i giganti danno fastidio, sono ingombranti, troppo ingombranti per l’attempata giuria del Nobel. Ma non mi sorprende questa incapacità, questa inadeguatezza, questo non essere all’altezza dei membri della giuria del Nobel ad esprimere dei verdetti sulla poesia contemporanea; il messaggio che si vuole dare con questa assegnazione nobiliare mi sembra molto ovvio ed evidente: la completa ininfluenza della poesia nel mondo contemporaneo, l’inadeguatezza della poesia ufficiale a parlarci dei problemi del nostro mondo; e leggendo le poesie di Louise Glück questo aspetto risulta evidente.
Ma tutto ciò non significa che noi non dobbiamo continuare nel nostro lavoro di svecchiamento della poesia delle «società signorili di massa» del mondo occidentale, come sono state brillantemente definite da un economista italiano. La poesia di Louise Glück è il miglior ornamento che la società signorile di massa di oggi si può agghindare sul petto a mo’ di trofeo, è una poesia decorativa e funzionale alle attese del pubblico benestante mediatizzato e atrofizzato e in falsa coscienza che fa pubbliche donazioni ai poveri e agli orfanelli degli orfanotrofi e che vuole essere confortato, corroborato e consolato della propria falsa coscienza e del proprio squallore. Questa poesia corrisponde perfettamente al canone delle buone maniere e del buon apprentissage, come dire, della figura del poeta nell’organizzazione delle strutture della persuasione delle società signorili di massa.
La poetry kitchen è ovviamente un’altra cosa, la nostra poesia non ha nulla a che vedere con questo reliquiario di tematiche liturgiche, non abbiamo altra scelta che proseguire nel nostro lavoro, ben sapendo che troveremo ferree resistenze da parte della poesia istituzionale. Ma questo lo sapevamo già.
Poesie di Louise Glück
Mattutino
Padre irraggiungibile, quando all’inizio fummo
esiliati dal cielo, creasti
una replica, un luogo in un certo senso
diverso dal cielo, essendo
pensato per dare una lezione: altrimenti
uguale… la bellezza da entrambe le parti, bellezza
senza alternativa… Solo che
non sapevamo quale fosse la lezione. Lasciati soli,
ci esaurimmo a vicenda. Seguirono
anni di oscurità; facemmo a turno
a lavorare il giardino, le prime lacrime
ci riempivano gli occhi quando la terra
si appannò di petali, qui
rosso scuro, là color carne…
Non pensavamo mai a te
che stavamo imparando a venerare.
Sapevamo solo che non era natura umana amare
solo ciò che restituisce amore.
Aprile
Nessuna disperazione è come la mia disperazione…
Non avete luogo in questo giardino
di pensare cose simili, producendo
i fastidiosi segni esterni; l’uomo
che diserba cocciuto tutta una foresta,
la donna che zoppica, rifiutando di cambiar vestito
o lavarsi i capelli.
Credete che mi importi
se vi parlate?
Ma voglio che sappiate
mi aspettavo di più da due creature
che furono dotate di mente: se non
che aveste davvero dell’affetto reciproco
almeno che capiste
che il dolore è distribuito
fra voi, fra tutta la vostra specie, perché io
possa riconoscervi, come il blu scuro
marchia la scilla selvatica, il bianco
la viola di bosco.
Fine dell’estate
Dopo che mi vennero in mente tutte le cose,
mi venne in mente il vuoto.
C’è un limite
al piacere che trovavo nella forma…
In questo non sono come voi,
non ho risoluzione in un altro corpo,
non ho bisogno
di un riparo fuori di me…
Mie povere ispirate
creazioni, siete
distrazioni, in ultimo,
puri inceppi; siete
alla fine troppo poco simili a me
per piacermi.
E così candide:
volete essere ripagate
della vostra scomparsa,
pagate tutte con qualche parte della terra,
qualche ricordo, come una volta eravate
compensate per il lavoro,
lo scriba pagato
con argento, il pastore con orzo
per quanto non è la terra
a durare, non
queste schegge di materia…
Se apriste gli occhi
mi vedreste, vedreste
il vuoto del cielo
specchiato in terra, i campi
di nuovo nudi, senza vita, coperti di neve…
poi luce bianca
non più travestita da materia.
Tramonto
La mia grande felicità
è il suono che fa la tua voce
chiamandomi anche nella disperazione; il mio dolore
che non posso risponderti
in parole che accetti come mie.
Non hai fede nella tua stessa lingua.
Così deleghi
autorità a segni
che non puoi leggere con alcuna precisione.
Eppure la tua voce mi raggiunge sempre.
E io rispondo costantemente,
la mia collera passa
come passa l’inverno. La mia tenerezza
dovrebbe esserti chiara
nella brezza della sera d’estate
e nelle parole che diventano
la tua stessa risposta.
Primogenito
Le settimane passano. Io le ripongo,
Sono tutte uguali, come barattoli di minestra scorticati…
I fagioli inacidiscono nel pentolino. Guardo la cipolla
isolata
Che galleggia come Ofelia, incrostata d’unto:
Tu svogliato, giochi col cucchiaio.
E adesso? Ti mancano le mie premure? Il tuo cortile matura
In un padiglione di rose, come un anno fa quando suore di servizio
Mi spingevano lungo la corsia…
Tu non potevi guardare. Vidi
L’amore convertito, tuo figlio,
Sbavare sotto vetro, affamato…
Mangiamo bene.
Oggi il mio macellaio spunta il suo coltello esperto
Sul vitello, la tua passione. Io pago con la mia vita.
Inizio di Dicembre a Croton-on-Hudson
Lance di sole. Lo Hudson si
Scheggia di ghiaccio.
Sento i dadi d’osso
Della ghiaia nel vento scricchiolare. Pallida
D’osso, la neve recente
Aderisce come pelliccia al fiume.
Stasi. Partivamo per consegnare
Regali di Natale quando scoppiò la gomma
L’anno scorso. Sopra le morte valve pini cimati
Da un temporale stavano, i rami spogli…
Ti voglio.
Secondi
Anelavo, essendo restata così a lungo
Vuota, a quel che lui aveva, durezza
Che (mio figlio già un ragazzo)
Ancora mi risucchiava verso quell’anello, quella benedizione.
Sebbene sapessi come in lui sia
Debolezza: oziando nel gin
Tesse qualche minaccia obliqua finché
Mi storcerà un braccio, o ciò che dico – mio figlio
Sta già rigido sull’uscio, vedendo tutto,
E poi quel pugno veloce sferza il mio unico
Bambino, la mia vita… Certo che m’importa.
Guardo le vicine che accorrono
Coi loro punti di vista. Ora enorme di torta la loro
Faccia bianca levita sopra la sua tazza; sorridono,
Donne infossate, succhiando il loro tè…
Lascerei che la casa andasse in fiamme per questo fuoco.
[tre poesie tradotte da Nicola Gardini da The Wild Iris (1992).]
Il papavero rosso
Il massimo
è non avere
mente. Sentimenti:
oh, quelli ne ho; mi
governano. Ho
un signore in cielo
che si chiama sole, e mi apro
per lui, mostrandogli
il fuoco del mio cuore, fuoco
come la sua presenza.
Che altro può essere una simile gloria
se non un cuore? Oh, sorelle e fratelli,
eravate come me una volta, tanto tempo fa,
prima di essere umani? Vi
concedeste di aprirvi
una volta per poi non aprirvi
mai più? Perché in verità
adesso io sto parlando
come voi. Io parlo
perché sono distrutta.
Vespro
Una volta credevo in te; ho piantato un fico.
Qui, in Vermont, paese
senza estate. Era una prova: se l’albero viveva,
allora tu esistevi.
Questa logica dice che non esisti. O esisti
esclusivamente nei climi caldi,
nella torrida Sicilia, in Messico, in California,
dove crescono inimmaginabili
albicocche e fragili pesche. Forse
vedono la tua faccia in Sicilia; qui, vediamo appena
l’orlo del tuo vestito. Devo addestrarmi
a dare una parte dei pomodori a John e a Noah.
Se c’è giustizia in qualche altro mondo, a quelli
come me, che la natura spinge
a vite di astinenza, dovrebbe toccare
la parte più abbondante di tutte le cose, di tutti
gli oggetti della fame, l’insaziabilità
essendo lode di te. E nessuno loda
più appassionatamente di me, con
desiderio più dolorosamente frenato o più merita
di sedere alla tua destra, se esiste, partecipando
del perituro, il fico immortale,
che non viaggia.
I gigli bianchi
Mentre un uomo e una donna fanno
un giardino tra loro come
un letto di stelle, qui
fanno passare la sera d’estate
e la sera diventa
fredda del loro terrore: potrebbe
finire, sarebbe capace
di devastazione. Tutto, tutto
può perdersi, nell’aria odorosa
le strette colonne
che salgono inutilmente e, di là,
un ribollente mare di papaveri –
Taci, mio amato. Non mi importa
quante estati vivo per tornare:
questa sola ci ha dato l’eternità.
Ho sentito le tue mani
seppellirmi per liberare il suo splendore.
Louise Glück ha ricevuto il Premio Nobel per la letteratura 2020 «per la sua inconfondibile voce poetica che con l’austera bellezza rende universale l’esistenza individuale». Nata a New York nel 1943, Louise Glück ha collaborato con le più importanti riviste americane ed ha vinto nel 1993 il premio Pulitzer per L’iris selvatico. La sua poesia è caratterizzata dall’intimismo, dalle vicende dell’interiorità infirmata e ferita dal mondo. È stata paragonata alla poesia di Emily Dickinson. Louise Glück ci dice cose che già tutti conosciamo, ci parla della condizione esistenziale della soggettività colta nella quotidianità; i suoi protagonisti preferiti sono gli oggetti, quelli di uso quotidiano.
L’analisi proposta da Giorgio Linguaglossa sulla poetica del premio Nobel 2020 Louise Glück è pienamente condivisibile. Non è altro che rimescolio, d’animo e di parola, all’interno del corpo superficiale della società di massa… si fa poesia sulle schiume e sugli spruzzi delle onde. Sono disagi fuorvianti perché tengono a ricomporre disarmonie rilevabili, ma di poco spessore.
Taci, mio amato. Non mi importa
quante estati vivo per tornare:
questa sola ci ha dato l’eternità.
Ho sentito le tue mani
seppellirmi per liberare il suo splendore.
Chiaro, no?
Giuseppe Gallo
Bel pezzo. Anche se “società signorile di massa” non si può sentire, è il mezzuccio con cui Ricolfi difende il privilegio. E aggiungo una cosa, Simic, un gigante (ieri, dopo Averno di Gluck, ho riletto Unending Blues e The Book of Gods And Devils e volevo piangere). Ma poi c’è la poesia nera, impegnata, viva, forte, sperimentale: c’è Claudia Rankine, perdio, Terrence Hayes, Jericho Brown, persino Tracy K. Smith se si vuole andare verso qualcosa di più lirico e mite. Gluck è brava, ma spesso davvero leziosa e piatta. E soprattutto è fuori dal mondo: medita nel suo giardinetto mentre l’America è in fiamme.
di Fabrizio Maria Spinelli
su nazione indiana 28 marzo 2018
Molti studiosi si sono mossi in questa direzione già da tempo. Käte Hamburger, per esempio, in Die Logik Der Dichtung (un libro degli anni ’50), è stata la prima – che io sappia – a definire lo spazio lirico come uno spazio dell’indeterminazione. La lirica non ha nulla a vedere con l’autobiografia o con l’individualità del poeta, leggo nella traduzione inglese dell’opera. L’io lirico è solo un principio formale di unità, che non può in alcun modo essere ricondotto a una persona in carne e ossa. Tra autore e “io” c’è una distanza non quantificabile. E in questa distanza si inserisce la lirica, uno spazio in cui non è possibile distinguere tra falso e vero, tra fiction e non-fiction, in cui non vige il principio di non contraddizione, e le cose insieme sono e non sono.
Superando la soggettività del poeta, che evapora «nell’altro della comunicazione», la lirica tende per suo statuto, conclude la Hamburger, ad appiattirsi verso il suo oggetto (che non è tanto il mondo esterno quanto la sua stessa materialità linguistica, la sua medialità), a dissolversi «nella direzione della prosa di pensiero e scientifica» (Giovannetti). La storia della lirica moderna è, secondo la tedesca (che reinterpreta in maniera originale ma estremamente coerente i precetti dell’Estetica di Hegel), una corsa al saggio.
Nel bellissimo Lyric Poetry: The Pain and the Pleasure of Words della studiosa di origine turca Mutlu Blasing, la lirica è definita come «una pratica formale che mette in luce il codice linguistico e la varietà dei mezzi materiali del linguaggio di cui tutti gli esseri umani si servono per: riferire qualcosa, rappresentare, esprimere, narrare, imitare, comunicare, pensare, ragionare, filosofare. Essa offre un’esperienza di tipo diverso, un sistema che agisce indipendentemente dalla produzione di enunciati significanti in senso razionale». La lirica costruirebbe un territorio in cui si riflette emozionalmente sul linguaggio, in cui complessi processi di pensiero e logica simbolica si intrecciano. In una simile prospettiva, l’io lirico, continua la Blasing, non è il doppio dell’autore, né tanto meno l’incarnazione testuale di una soggettività vasta e profonda, ma una semplice funzione linguistica che serve a «intenzionalizzare» il discorso poetico. «L’io è un prodotto dal singolo componimento lirico, non la sua causa sorgiva».
In Theory of the Lyric, monumentale storia della poesia lirica, Jonathan Culler può concludere la propria carrellata in maniera ancora più minimalista, definendo la lirica come un voicing (letteralmente “effetto di voce”) impersonale, come la verbalizzazione di giudizi e valutazioni intorno al mondo in cui viviamo, e al ruolo che l’uomo deve assumere al suo interno. Essa è semplicemente «un discorso pubblico sul valore e sul significato».
Scrive ancora Paolo Giovannetti, in un saggio contenuto nel recentissimo La poesia italiana degli anni Duemila: «Nel momento in cui un discorso poetico privato si fa assoluto, il passaggio al suo opposto (all’oggettivismo) appare quasi una necessità. Questa è una chiave di lettura della poesia (moderna) nel suo insieme. Il suo lirismo non può non trasformarsi in oggettivismo. Se la soggettività è manifestazione anche di forze diverse, è inevitabile che – prima o poi – queste forze prevalgano e cancellino l’io».
Per concludere,
così intesa, la lirica è lontana da apparire come un genere demineralizzato e anacronistico. Anzi, aprendosi ad una negoziazione con gli altri modi del discorso, sembra in grado di poter acquisire una forza e una vitalità che raramente le sono appartenute in epoca postromantica. Trasformandosi alla radice, e perdendo quegli attributi che almeno negli ultimi due secoli l’avevano caratterizzata (la soggettività trascendentale, il verso, il monolinguismo, il rifiuto del mondo esterno a favore dell’interiorità, la poca considerazione della narratività) la lirica è anzi attualmente una pratica che, per molti versi, rispecchia l’esperienza di un lettore contemporaneo molto più da vicino rispetto al suo vecchio antagonista, quel romanzo che, in passato, ne aveva cannibalizzato il pubblico.
Di certo è un privilegio avvicinarsi alla fine
credendo ancora in qualcosa.
Finalmente qualche voce controcorrente sulla poetessa vincitrice del Nobel. La sua, a me sembra essere una poesia domestica e addomesticata, che lancia uno sguardo prevedibile sulle cose attraverso un linguaggio ancora più prevedibile, inerte e comune, senza lo scarto e lo smarcamento della vera poesia. Nessuna trasgressione di immagini e di linguaggio, tutto rientra in un quadretto familiare e domestico che coincide con il sentire ordinario, con quello che l’uomo medio si potrebbe aspettare da una lettura di poesia. Quanto poi a considerarla un’erede della Dickinson, a parte l’inappropriato raffronto su un piano storico e culturale, in termini di valore si va ben oltre il turpiloquio. Verrebbe solo da ridere. A crepapelle.
Rileggendo e riordinando le proprie poesie, chi non ha provato almeno una volta la sensazione di avere a che fare con uno sconosciuto? Ho scritto io queste poesie, ma è davvero questa la mia voce? Tenuto conto del personaggio che ne viene, e che non puoi mettere in campo altro che verità illusorie e transitorie, nel pubblicare un libro, quale persona, messaggio o esempio sto consegnando al mondo?
Quel che capisco del Nobel, soprattutto leggendo le motivazioni, è che nell’opera debba contare in primis l’esemplarità. Fa niente che la si ottenga con argomenti fittizi, con giravolte ad effetto o fantasie. Pare incredibile, ma è la somma dei falsi a generare il vero; il quale vero è sempre e soltanto una domanda, o una sommatoria di domande. Il premio va quindi alla domanda. Risposte non ve ne possono essere, se così non fosse basterebbe un Nobel ogni cent’anni.
Una forte tradizione religiosa sembra accompagnare la poesia di Louise Glück. Siamo sempre in gara con l’imbattuto incipit della Genesi «In principio Dio creò il cielo e la terra». Provate voi a scrivere qualcosa di altrettanto memorabile! Ah, non se ne può più!
caro Giorgio,
la critica più onesta, anche se usa pallottole di Kalashnikov, non colpirà nessuna delle posizioni lobbistiche perché si è instaurata la letteratura medio-bassa, con schemi ormai consolidati.Si può dire, in generale, che il Patronato poetico costituisca una sorta di POLI MAX, che incolla, assembla e sigilla la psicologia del lettore salvaguardandolo da ogni attacco alla Tradizione.
Di fronte a tutto ciò, dobbiamo essere fieri se la linguistica, l’antropologia, il gestaltismo e la glossematica abbiano contribuito a defoliare la quercia della inamovibilità linguistica, aprendo nuove vie alla maturazione del testo, mentre Barthes ha dovuto combattere per trasmettere una “Nouvelle critique” al fine di socializzare il lettore verso una nuova ontologia estetica e strutturale.
Siamo di fronte a due aspetti della poesia: quella di Louise Gluck, con il folto panorama dalla poesia al femminile, nonché di quella più avanti col ricambio estetico: prova ne è la bottega del verso della NOE.
Nella storia della poesia ci sarà sempre la radicalizzazione del linguaggio omologato e molto meno di quello decostruzionista e costruttivista. In questo ambito gli strutturalisti e critici come Giorgio Agamben, Adorno, Jean Baudrillard, Frederic Jamesons ed altri, hanno tracciato la via da seguire, come tutti i poeti, vicini a noi, che ogni giorno abbandonano la velleità per un Progetto comune.
È da ieri che le poesie di Louise Glück girano per FB e altri siti. Molto si sta dicendo su l’Ombra, forse uno dei pochi luoghi letterari dove la notizia non ha destato per niente entusiasmo. Leggendo i vari testi anche qui proposti, si ha l’impressione di stare di fronte a una buona poesia, ben scritta e forse al di sopra di quanto si legga in giro ma non di più.
Personalmente però sono d’accordo con Giorgio Linguaglossa:
” La poesia di Louise Glück è il miglior ornamento che la società signorile di massa di oggi si può agghindare sul petto a mo’ di trofeo, è una poesia decorativa e funzionale alle attese del pubblico benestante mediatizzato e atrofizzato e in falsa coscienza che fa pubbliche donazioni ai poveri e agli orfanelli degli orfanotrofi e che vuole essere confortato, corroborato e consolato della propria falsa coscienza e del proprio squallore. Questa poesia corrisponde perfettamente al canone delle buone maniere e del buon apprentissage, come dire, della figura del poeta nell’organizzazione delle strutture della persuasione delle società signorili di massa ”
ma anche con Gino Rago e gli altri.
La lontananza da questo tipo di poesia è astronomica.
Penso che prima di approdare all’Ombra, ognuno che in essa si riconosca, abbia messo per strada l’io a raccontare delle angosce esistenziali, l’amore tradito oppure felice, il male di vivere, nonchè l’aspirazione alla fratellanza e ai valori universali, la condanna di ogni tipo di male, il rapporto con Dio, etc. Tutti temi e motivi che inondano l’etere e i mari nel tentativo di trasformare l’ esistenza individuale in cosiddetta universalità, per riprendere la motivazione del Nobel, alla ricerca di una sponda e un consenso che talvolta porta alcuni poeti alla ribalta televisiva, -immancabilmente chiari e presentabili e dunque del tutto all’interno del senso comune e in quanto tali innocui e vendibili- nel loro verseggiare, come se fosse quello l’approdo definitivo di ogni erede di Dante.
Ma tutto questo è alle spalle o se si vuole è deflagrato (lo è per me o almeno per quella parte di me che organizzava intorno all’io ogni tentativo poetico) e l’onda d’urto la si legge nel ritmo del verso\ non verso, tutto\ nulla dei distici e dei frammenti, che portano ad avvolgere e abbracciare la realtà, a scuoterla nelle fondamenta spazio temporali, per cui diventa indistinguibile l’oggi dal resto del tempo, la città in cui il poeta vive da quello in cui vivono gli altri, e dunque indistinguibile un ponte qualsiasi da quello di Brooklyn.
La dimensione che emerge è quella di una civiltà\inciviltà rivitalizzata e messa in discussione dall’energia di quell’onda che la investe mettendo in moto personaggi (Filini e Fracchia, Edipo, Charlie, Rodolfo Valentino, Kirk e Alina etc. ) a recitare intorno al vuoto e a danzare magicamente\realisticamente con i pattini sul fuoco ma all’interno di un piano ghiacciato.
Tutte cose possibili dentro una cornice ma distaccate dal senso comune, almeno fin quando quest’ ultimo avrà odore di merce destinata al consumo, al consenso e alla premialità e dunque farà da muro sorvegliato da Vopos con la mira infallibile.
Un caro saluto
Ottimo tutto, ermeneutica di Giorgio Linguaglossa e commenti, da quello di Giuseppe Gallo a quello di Mario Gabriele, da quello di Lucio Mayoor Tosi a quelli di Mario Capello e di Stefano Cardarelli.
Ma il commento che mi ha dato quello che Roland Barthes ha definito il “punctum” parlando di fotografia ne La camera chiara è stato ed è quello di Franco Intini per la forza dell’autocritica e per la potenza di rivelazione della gioia del suo nuovo approdo grazie all’incontro con L’Ombra delle parole e alla sua fedele e colta frequentazione.
L’individuo è subordinato alle leggi del linguaggio. Mentre egli parla, il linguaggio non sa che direzione possa prendere la mia/tua/sua/nostra/vostra/la loro parola. La parola va sempre in una direzione singolare che il codice del linguaggio non può prevedere nonostante la parola stessa sia impossibile senza il codice linguistico. Non c’è un primato dell’uno sull’altro, ma l’atto della parola rende, all’interno del linguaggio, senza il quale non potrebbe esistere, indispensabile la presenza del soggetto che la pronuncia. La parola costruisce il soggetto e gli permette di andare oltre il sistema linguistico, di creare quello scarto fondamentale che ci consente di entrare in contatto con l’ordine del Reale.
È per questo motivo che l’atto soggettivo della parola è indispensabile per la salute stessa del linguaggio che, altrimenti, finirebbe per essere un campo cementificato di lapidi, di ossari.
L’atto soggettivo di parola imprime nel campo del linguaggio una benefica e salutare modificazione, una innovazione delle sue forme espressive e comunicative, e, questo atto soggettivo di parola avviene perché ci si iscrive nel registro del Simbolico per il tramite dell’Immaginario. Ciò che eccede dal campo della significazione è il resto, che viene ad arricchire il campo del linguaggio. In tal senso, la funzione della poetry kitchen o poetry buffet è indispensabile perché apporta un necessario beneficio nel campo del linguaggio perché lo libera degli automatismi di senso e di significato che finirebbero per ossificarlo e renderlo non più significativo. Per questo motivo lo scarto introdotto dall’atto soggettivo del linguaggio svolge una funziona fondamentale per la stessa vita ed efficienza del linguaggio.
La poetry kitchen tratta di una messa in questione del linguaggio poetico e dei suoi presupposti filosofici. E non solo, si tratta di porre in essere un fuori questione, di costruire un linguaggio poetico che si ponga stabilmente nella dimora del «fuori-senso» e del «fuori-significato».
È evidente che la poesia di Luoise Glück non apporta alcuna innovazione nel campo del linguaggio, anzi riposa in modo parassitario sul campo dei significati consolidati del linguaggio comune.
Mi è venuto in mente il seguente pensiero leggendo questa poesia inedita di Mario Gabriele: che il suo universo di immagini ci riporta ad un mondo preistorico, voglio dire che tutti questi spezzoni del mondo contemporaneo sono trattati come reperti di un mondo preistorico che è scomparso da migliaia di anni. Decrittarli è una operazione analoga a quella che fanno gli archeologi con le civiltà scomparse di cui dissotterrano qualche reperto o frammento di reperto, e di lì ricompongono il tutto di un mondo scomparso, di una civilizzazione scomparsa. Forse il poeta oggi deve diventare un archeologo, deve trattare il presente come se fosse mummificato da alcune decine di migliaia di anni. Infatti, è quello che fa Mario Gabriele.
Le tessere iconiche che troviamo nella poesia di Gabriele rappresentano l’eccesso, l’eccedenza dell’Ordine Simbolico, dei tagli, delle fessure, dei buchi che si aprono nella rete simbolica dei segni di una civiltà. Ecco, questi vuoti rappresentano la vera essenza ontologica di un’epoca storica, in essi si rivela l’antagonismo, la contraddittorietà dei segni di un certo Ordine Simbolico, in quanto è solo in un vuoto, privo di coordinate o di identificazioni, che le contraddizioni possono sussistere e non essere ridotte e falsificate in un concetto di sintesi hegeliana. creato dalla rete simbolica. Identificando e tracciando con accuratezza i percorsi semantici delle singole parole, proprio come fa un archeologo, possiamo farci una idea abbastanza precisa dell’Ordine del reale di una data civiltà. Accostare il cartone animato «Snoopy» con «Ofelia», elencare parole del nostro aforismario della modernità come «jukebox», «Signor H, Cantante e Deejay» al filosofo marxista «Horkeimer», fa parte di un lessico ridotto a spezzoni e a frantumi, lessico di per sé insignificante ma che invece acquista significato e senso proprio dall’accostamento iperbolico e verosimile di queste tessere del linguaggio. L’aspetto derisorio del Moderno diventa evidente dall’inserimento di due figure chiave della modernità e del modernismo (Prufrock ed Eliot) al di fuori del loro contesto storico, ormai Mnemosine accusa dei vistosi vuoti di memoria:
… Prufrock ed Eliot,
due gendarmi della Rivoluzione francese o del 68
Poesia di Mario M. Gabriele
L’occasione era buona per parlare con Ofelia,
togliere a Snoopy il dente cariato.
Ci voleva un po’ di tempo per rimanere in silenzio.
Buonasera Signorina. E’ in cerca di qualcosa?
Mi scusi, conosce un certo Signor H, Cantante e Deejay?
Da anni non so più niente di lui.
Ogni sabato c’è un happening musicale.
Può provare a fare indagine alla King Dom House.
Sono nomi di autori di musica e personaggi storici come Hermet.
Non li troverà più qui. Sono tutti morti.
Bisognerà rifarsi a ciò che hanno lasciato nei jukebox
o nelle biblioteche di città.
Sa, in questi tempi di oscura metamorfosi
ci sono ricambi di estetica che nessuno più legge.
A me, interessava il Signor H,
comunista alla Horkheimer.
Barista, pronto a mettere il cartello Closed.
Mi dispiace, devo andare, disse.
Resti, la prego, lei e un gentleman
di quelli che se ne trovano pochi in giro.
Ho visto attaccati ai muri modelli e simboli,
diagrammi e disegni di un tempo che fu.
Ha qualche rimpianto? O teme per il suo futuro?
Basterà rifondare L’Institut fur Sozialforschung..
Beh, disse il barista, certe cose o hanno fortuna
o mutano e si fanno oggetto di verificazione alla Popper.
Oggi le Borse vanno giù.
Non si salva nessuna Society o startup.
Si ricorda di quell’ operatore che prometteva vacanze
ai Caraibi se avessero seguito i suoi consigli?.
Per grazia di Dio sono qui come le ho detto
per conoscere il Signor H e bere un coca cola.
Diciamo che sono stata imprudente
e che il signor H doveva restare chiuso in me.
In passato non sfuggivo a nessuno
nemmeno alla morte degli altri.
Ma per H tutto significava per me:
amore, HI-FI, Count Basie e Eagles e Hotel California.
Guardi, conosco il suo rammarico. Non vada oltre.
Le offro un Martini Dry, anche se è un veleno!
Staremo un poco insieme come Beckett
à La Closerie des Lilas.
Entra un gruppo di signori.
Sono fantasmi, lampi di luce.
Sembrano Prufrock ed Eliot,
due gendarmi della Rivoluzione francese o del 68.
Lei, Signorina, ha buon gusto ad averci ricordati.
Senza di noi non esiste neanche il Nulla.
Ci fu chi domandò-chi c’è là nel metamondo?
E Linda è vero che sta con voi?-.
Si era spezzato il dialogo con gli altri.
Né vennero al cold reading il Dr. Gary e l’umanista Schwartz.
Tutti smarriti in un viaggio, chi a bordo delle navi,
chi su malferme barcarole.
Lasciamo razzolare i guardiani, il faro di un mozzicone spento. Lasciamo
la precedenza a destra. Quest’ultimo guado.
Lasciamo la parentesi graffa, la silhouette classica, il nanismo nomade, l’andirivieni
tragico. Nelle sorprese solo versi cannibali.
I costumisti in ombra mangiano i poeti.
Grazie OMBRA.
Poetry Kitchen: Antefatti ideologico-estetici
La Poetry kitchen viene dalla NOE.
Il poeta della NOE fa suo l’assioma secondo cui:
– I segni dello sfacelo sono il sigillo di autenticità dell’arte moderna.
Per tale via maestra egli adotta la poetica del frammento come elemento costitutivo d’una sua personale ontologia estetica.
La quale, partendo dalla morte di Dio, assume in sé la constatazione della fine della visione platonico-cristiana del mondo e della conseguente scomparsa del centro dell’uomo nel mondo.
La sua ricerca d’arte ne prende atto e si muove nella persuasione della decadenza
– della verità assoluta,
– della impossibilità di ricondurre la frammentarietà ad una unità di senso. Entrando nella filosofia del frammentismo, il poeta della NOE assume il “frammento” come cifra caratteristica della ipermodernità poiché alla sua personalissima lettura il mondo ipermoderno si pone sotto il segno
– della deflagrazione del senso,
– della dispersione, dell’astigmatismo scenografico,
– della moltiplicazione delle prospettive,
– della crisi e della inadeguatezza espressiva di un “unico”linguaggio.
[Di tutto ciò nella esperienza poetica di Louise Glück , come dai testi proposti da questa pagina de L’Ombra delle Parole inequivocabilmente si evince, non si ravvisa la benché minima traccia].
Nella teoria estetica dell’opera ipermoderna il poeta della NOE interpreta il prospettivismo di Nietzsche come una promozione della frammentarietà contro le tesi di quell’ordine metafisico incentrato
– sulla verità dogmatica,
– sulla verità indiscutibile.
La poetica del frammentismo tende a esiti estetici del tutto nuovi poiché la filosofia del frammento è in grado di restituire dignità estetica a quelle irriducibili singolarità che caratterizzano l’esperienza concreta di ciascuno perché il frammento è l’intervento della morte nell’opera d’arte.
Rifondando l’opera, o distruggendola, la morte da essa elimina la macchia dell’apparenza. Ma ciò che conta è che per il poeta della Nuova Ontologia Estetica e dello Spazio Espressivo Integrale, (introdotto per la prima volta da Giorgio Linguaglossa e da lui praticato come efficacissimo strumento d’interpretazione della “Nuova Poesia”), il frammentismo va oltre il significato di poetica, va oltre le intenzioni d’arte dell’autrice/autore.
Il frammentismo in lei/lui è una Weltanshauung.
– E’ uno stato d’animo.
– E’ il suo modo di sentire il mondo,
– di sentirsi lei/egli stessa/stesso “frammento” di questo mondo poiché risiede in lei/lui stessa/o l’unico punto di convergenza e di fusione di quella che Harold Bloom ha definito “la cartografia psichica” dell’artista:
l’agonismo perenne tra l’ “Io me stesso – l’anima – l’Io reale”.
[E neanche di ciò si ravvisa la benché minima traccia nella poesia della Glück]
.
Il poeta della NOE, nel suo fare poetico all’ interno dello Spazio Espressivo Integrale, sa che:
– il vuoto non è assenza di materia;
– l’assenza di musica non è l’affermarsi del silenzio;
– lo Spazio Espressivo Integrale è l’unica regione in cui la poesia può inglobare spazio e tempo, filosofia e mito, musica e silenzio, metafisica e scienza, memoria e armonia delle sfere, meraviglia e sapienza, in una unità di linguaggio di numerosi linguaggi differenti…
– ciò che è perduto può essere ritrovato soltanto in forma di frammento, che non indica il Tutto, nella dialettica fra le parole e le cose, ma un tutto frantumato e disperso da cui deriva il dolore della e nella poesia;
– esiste un tempo assolutamente creativo. Un tempo che crea la vita poiché (secondo Prigogine) è il tempo delle infinite metamorfosi della vita nella biologia ed è il tempo delle infinite creazioni delle opere d’arte. Un tempo despazializzato, un tempo ” qualitativo ” e non ” quantitativo ” e che come tale non sa che farsene degli orologi;
– l’ Estetica non può ignorare questi nuovi orizzonti delle scienze ed è chiamata anzi ad orientarsi essa stessa verso una forma scientifica per essere in grado di tener conto delle strutture dissipative nelle quali trionfa l’infinita possibilità delle equazioni non lineari ( Prigogine ), equazioni con
all’interno il “tempo creativo” e, dunque, la cosiddetta possibilità progettuale
della esperienza artistica;
– il mondo non è più “ciò che è” ma è “ciò che diviene” ed è “il possibile” il nuovo strato della cultura contemporanea;
– la nuova Estetica non può che appropriarsi di tali indicazioni.
[E neanche di ciò nella poesia di Louise Glück si ravvisano tracce, anzi questa poesia ignora totalmente l’esistenza e la portata del tempo creativo, per non parlare delle tensioni verso lo spatial turn. Insomma, volendo restare nei recinti della letteratura nostrana gli accademici di Svezia assegnando il Nobel 2020 alla poesia della Glück è come se, fosse stata ancora viva, avessero assegnato il Nobel a Liala…].
Gentile Mario Capello, gentile Stefano Cardarelli,
l’esperienza poetica di Louise Glück (lo rivelano i suoi testi) per me presenta quelli che da tempo ed alla luce del sole sto dichiarando essere i grandi limiti, le invincibili gabbie del consolidato fare poetico d’ogni latitudine e d’ogni tempo e cioè:
– l’Io poetante a forte tinta lirica;
– il tono fondamentalmente elegiaco;
– l’io narcisisticamente legato alle piccole muffe sulle pareti della sua stanzetta, alla polvere sui suoi mobili, al collocarsi al centro del mondo, centro da cui leggere, sentire e interpretare la storia e le dinamiche del mondo.
L’Io liricheggiante e il clima e il tono della elegia nella poesia contemporanea, compresa quella della Glück, da tempo li ho irreversibilmente ripudiati: sono stati e per me rimangono i limiti del fare poesia.
Dei Nobel assegnati negli ultimi dieci anni (2010/2020) di questo secolo l’unico Nobel per me totalmente condivisibile è stato e rimane quello del 2011 assegnato a Tomas Tranströmer e alla novità indiscutibile della sua poesia la quale, come scrissero gli accademici di Svezia nella motivazione, attraverso le sue immagini dense, limpide, offre e offrirà nuove vie d’accesso alla realtà.
Bastano da soli questi versi a dire della novità di questo poeta in grado di chiudere un mondo e di aprire e/o indicare nuove piste alla poesia del dopo Tranströmer:
*
Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno.
Libero dal turbine soffocante il viaggiatore
sprofonda verso lo spazio verde del mattino.
*
Spengono la lampada e il suo globo brilla
per un attimo prima di sciogliersi
come una compressa nel bicchiere dell’oscurità.
Caro Gino Rago,
confermando il mio giudizio su Louise Glück e condividendone altri qui esposti, ben più penetranti del mio, volevo svolgere alcune considerazioni. Lei elenca alcune tendenze poetiche definendole gabbie. Io penso che non lo siano intrinsecamente. Le definirei delle dimensioni di cui la poesia, la buona poesia, potrebbe impossessarsi per piegarle a un dire liberatorio. Perché anche dentro un carcere possiamo concepire la libertà, così come, per converso, possiamo smarrirci, prigionieri di qualche cielo aperto. Un tratto distintivo della poesia è proprio quello di farsi strumento detonatore di rivelazioni, muovendosi in qualsiasi spazio, sotto tutte le latitudini. Sono sempre stato diffidente verso una valutazione preventiva e discriminante degli spazi poetici: la poesia politica si, la poesia politica no, la poesia privata si, la poesia privata no, e via elencando. L’unico criterio per valutare la poesia, scusate la banalità e scusate se è poco, è il suo valore, ovviamente dato a posteriori, che prescinde dal suo collocarsi su questo o su quell’altro fronte. Certo, in astratto sarebbe giusto avversare una poesia “legata alle muffe sulle pareti” della stanzetta del poeta e promuovere una poesia che intrecci il dramma esistenziale di ogni individuo con i luoghi aperti della storia e delle sue trasformazioni. Ma poi quello che conta è se stiamo leggendo della buona o della cattiva poesia . E si possono ovviamente scrivere pessime poesie sui destini del mondo perlustrati attraverso nuove forme di linguaggio e scrivere eccellenti liriche sul proprio mal di stomaco o sulla muffa della nostra stanzetta. Cosi come esistono buone e cattive elegie. Forse ho capito male, ma a me hanno insegnato, ad esempio, per quello che valgono le classificazioni, che Hölderlin fu un poeta “elegiaco”. Riguardo al narcisismo, al sentirsi al centro del mondo, queste sono tare o risorse indissolubilmente ancorate all’indole artistica, con le quali ogni autore deve piacevolmente o meno convivere.
Davvero per me è troppo!
Premiare una poesia che non è alla mia altezza!
Nel senso che non la comprendo per la difficoltà a leggerla, cioè è troppo difficile per me ed esprime i sentimenti (d’amore e altro?) come mai nessun poeta ha mai fatto!
———————–
Una regressione questa poesia della Luise Gluck buona soltanto per poveri di spirito (quando io invece ne sono straricco! per questo mi è incomprensibile) e poi messa accanto a quella di Emily: una idiozia, prima di essere una bestemmia!
La Louise l’ha detto pubblicamente.
Povera Emily :
” l’assoluta e totale prigionia che ti (dis)chiuse al canto” (A. S.)
caro Stefano Cardarelli,
il suo ragionamento in astratto funziona, Gino Rago però si riferisce al percorso compiuto dalla rivista con cui abbiamo lasciato alle spalle per sempre la poesia di «Sua Maestà l’io», per usare una dizione di Freud. Ormai quel tipo di poesia non ci interessa più, e non credo che interessi la cittadinanza. Non che sia impossibile dire ancora qualcosa di significativo sul mondo partendo dall’io, forse è ancora possibile parlare di muffe alle pareti ma è che questa posizione difetta di pensiero filosofico e critico, continua a parlarci dell’ombelico, e la poesia di Louise Gluck ne è un esempio implacabile. In Italia tutta la poesia maggioritaria di Roma e di Milano fa una poesia di questo tipo… personalmente penso che sia una poesia che non ha più niente da dirci di significativo sul mondo. E bene fanno i lettori e il pubblico a non chiederle più niente perché non ha niente da dire. Forse sbaglierò, sbaglieremo, ma occorrerà prima o poi dirle queste cose nel Bel Paese. Io ad esempio ritengo che una poesia come quella di Mario Gabriele postata sopra abbia molto più da dirci sull’essenza del nostro mondo che non quella di Louise Gluck.
Riguardo alla questione del soggetto e dell’io vorrei ricordare la posizione di un filosofo critico e militante dei giorni nostri: Slavoj Žižek. Un bel bicchiere di Žižek scaccia tutti i guai legati ai pregiudizi e alla mistica del pensiero non critico.
Scrive Slavoj Žižek:
“È necessario far riferimento al fantasma fondamentale, inteso come concetto presente in Freud e Lacan, e da questi definito come la più intima essenza del soggetto, come la definitiva cornice proto-trascendentale del mio desiderare che proprio in quanto tale rimane inaccessibile alla mia comprensione soggettiva; il paradosso del fantasma fondamentale è
che l’essenza stessa della soggettività, lo schema che garantisce l’unicità del mio universo soggettivo mi è inaccessibile. Nel momento in cui mi avvicino troppo, la mia soggettività e auto esperienza perdono consistenza e si disintegrano”.
La poesia kitchen che noi facciamo, o che tentiamo di fare, ha a che fare con il «fantasma» più che con le muffe alle pareti dell’io, viviamo in un mondo di spettri e di fantasmi, il Reale è popolato di fantasmi, prima o poi la poesia italiana dovrà prenderne atto.
“Più reale del reale, il fantasma è nell’oggetto più dell’oggetto stesso”1
1 S. Žižek Lacrimae rerum, cit., p.217.
L’ideologia funziona in questo modo, sostiene Žižek : non si tratta di una
illusione che costruiamo per sfuggire ad una realtà insostenibile, ma al contrario, l’ideologia è una costruzione fantasmatica che serve da supporto alla realtà, un’illusione che struttura le nostre relazioni sociali mascherando un certo nocciolo insostenibile, “reale”, impossibile. L’obiettivo dell’ideologia allora non è quello di offrirci una scappatoia dalla realtà, ma di offrire la realtà sociale stessa come scappatoia da qualcosa di più traumatico.
I generi artistici nelle nostre società di marketing operano tutti come illusioni, supporti del Reale, svolgono cioè una funzione di sostegno del Reale, intrattengono il pubblico in modo soddisfacente. Un genere artistico che non corrisponde al marketing universale qual è diventata la cultura nel mondo globale, viene ad essere esautorata della sua funzione critica, viene letteralmente espulsa dal marketing. Il mondo globale non ha neanche bisogno di una amministrazione (in tal senso la posizione di Adorno pecca ancora di illuminismo), ne fa a meno, e lascia tutto nelle mani del marketing e della pubblicità. L’ideologia è diventata non-ideologia.
L’ideologia non è soltanto una falsa coscienza, un’illusoria rappresentazione della realtà, ma piuttosto è la realtà stessa ad essere già pronta per venire concepita come ideologia. Ideologica, allora, sarà una realtà la cui esistenza implica una certa non consapevolezza da parte dei suoi partecipanti. In altri termini l’ideologia (e dunque con essa la realtà), è una formazione di tipo sintomatico: una formazione la cui vera consistenza implica una certa non conoscenza da parte del soggetto, una formazione significante portatrice di
jouis-sense, un sinthomo, sintomo con cui il soggetto sfugge alla follia, scegliendo “qualcosa” (formazione sintomatica) in luogo del niente (autismo psicotico), in luogo della distruzione dell’universo simbolico. Ecco perché la definizione finale del processo psicoanalitico secondo Lacan è
l’identificazione con il sintomo: l’analisi finisce nel momento in cui il paziente riconosce nella realtà del suo sintomo l’unico supporto del suo essere. Ecco perché in definitiva il supporto dell’effetto ideologico è il “non sensical”, nocciolo pre-ideologico del godimento: così nell’ideologia, spiega
Žižek, tutto è non-ideologia, ovvero non è significato ideologico, e questo
surplus è proprio il vero supporto dell’ideologia.
Due poesie inedite di Marie Laure Colasson, da Les choses de la vie
26.
Sur talons noirs des jambes voilées de rouge
filent sur une trottinette à 50 à l’heure
La blanche geisha se regarde dans le miroir et s’absente
le temps déchire une affiche
Les vitres éclaboussent le ruissellement sonore d’une flute
Eredia fume son démon vert électronique
Sublime cadence de la décadence
le miroir emprisonne la peur
Des traces nacrées sur le vermeil d’un verre
violons et piano remplissent le vide
Les mensonges et les bavardages
se cachent dans un coffre toute la nuit
Sublime décadence de la cadence
le miroir empoisonne la peur
Eredia se transforme en geisha
chante danse et fouille dans les poubelles en compagnie de Duchamp
Larbi l’observe au travers de fausses jumelles
voit double et en aigle haut dans le ciel s’envole
*
Delle gambe velate di rosso su tacchi neri
filano su un monopattino a 50 all’ora
La bianca geisha si guarda allo specchio e si assenta
il tempo lacera un manifesto
I vetri schizzano il ruscellamento sonoro d’un flauto
Eredia fuma il suo demone verde elettronico
Sublime cadenza della decadenza
lo specchio imprigiona la paura
Tracce madreperlacee sull’orlo vermiglio d’un bicchiere
violini e piano riempiono il vuoto
Le menzogne e le chiacchiere
si nascondono in un cofanetto tutta la notte
Sublime decadenza della cadenza
lo specchio avvelena la paura
Eredia si trasforma in geisha
canta balla e fruga nell’immondizia in compagnia di Duchamp
Larbi la osserva attraverso dei falsi binocoli
vede doppio e come aquila in alto nel cielo si invola
17.
Des enduits couleur pop-plastique coulent dans les trous planétaires
Eredia préfère enlacer la lumière à cru des nuages de son ami Magritte
Un esprit en éveil privé de neutrons torture le temps des saisons
en plein jour un hibou attrape le printemps
le coiffe en Borsalino et va boire son champagne à la Closerie des Lilas
Aux alentours du Gange un violon se ballade tout seul
laisse tomber son sari plonge dans la putréfaction du fleuve
sans cordes ni archet en ressort en satyre
La blanche geisha suspend des fonds marins à Passy
Matisse qui passait par là les éclabousse
de bleu de vert de vermillon pour en faire une nature morte
*
Intonaci color plastica-pop sgocciolano nei buchi planetari
Eredia preferisce abbracciare la luce a crudo delle nuvole del suo amico Magritte
Un pneuma vitale senza neutroni tortura il tempo delle stagioni
in pieno giorno un gufo acchiappa la primavera
se la mette in testa come un Borsalino e va a bere lo champagne alla Closerie des Lilas
Nei dintorni del Gange un violino va a zonzo tutto solo
lascia cadere il suo sari si tuffa nella putrefazione del fiume
senza corde né archetto ne esce da satiro
La bianca geisha sospende dei fondi marini a Passy
Matisse che passava di là li schizza
di blu di verde di vermiglio per farne una natura morta
Dire le cose con un minimo di parole, questo deve essere il compito della poesia, quantomeno è il principio sul quale baso la mia poesia. Precisione vuol dire «condensazione», cioè intersezione di catene di significanti, di suoni, di significati, di ritmi e, la cosa più importante, di immagini. Ma ci si trova anche il «dislocamento», che è un processo primario del linguaggio dell’inconscio. Così di frequente troviamo delle sorprese là dove non ce l’aspettavamo. La sostituzione dei sostantivi ai verbi è la regola principale. Qualcuno obietterà che tale procedimento darebbe alla frase una certa staticità, io sono del parere contrario in conformità al principio poetico di Baudelaire: «Odio il movimento che sposta le righe». Quell’immobilità inganna: il «dislocamento» di metafora in metafora, questo è la poesia. Senza considerare che la metafora contiene già in sé un dislocamento, uno spostamento, e questo modo di scrivere è quello che consente passaggi inattesi, imprevedibili, anche contraddittori. La poesia che facciamo, la poetry kitchen, quella fatta in cucina e non nei salotti della letteratura per bene alla Louise Gluck, consente associazioni di immagini le più varie ed astruse (almeno apparentemente), e questo metodo favorisce i dislocamenti, gli spostamenti, i salti tra le immagini e le parole.
Nella mia poesia, e non solo la mia ma anche in quella di Mario Gabriele e degli altri poeti kitchen, il passaggio dal piano fonologico al semantico si realizza non mediante il gioco dei significanti o il gioco dei significati collegati ma mediante la intensificazione e la moltiplicazione delle immagini, questo è evidentissimo. Accordare la priorità assoluta alla fabbricazione di immagini è quello che fa la differenza. Di frequente i legamenti tra le diverse corrispondenze favoriscono le dislocazioni e gli spostamenti. Il mittente e il destinatario di una frase poetica deve essere l’immagine, le immagini stroboscopiche…
17.
Des enduits couleur pop-plastique coulent dans les trous planétaires
Eredia préfère enlacer la lumière à cru des nuages de son ami Magritte
Un esprit en éveil privé de neutrons torture le temps des saisons
en plein jour un hibou attrape le printemps
le coiffe en Borsalino et va boire son champagne à la Closerie des Lilas
Aux alentours du Gange un violon se ballade tout seul
laisse tomber son sari plonge dans la putréfaction du fleuve
sans cordes ni archet en ressort en satyre
La blanche geisha suspend des fonds marins à Passy
Matisse qui passait par là les éclabousse
de bleu de vert de vermillon pour en faire une nature morte
*
Intonaci color plastica-pop sgocciolano nei buchi planetari
Eredia preferisce abbracciare la luce a crudo delle nuvole del suo amico Magritte
Un pneuma vitale senza neutroni tortura il tempo delle stagioni
in pieno giorno un gufo acchiappa la primavera
se la mette in testa come un Borsalino e va a bere lo champagne alla Closerie des Lilas
Nei dintorni del Gange un violino va a zonzo tutto solo
lascia cadere il suo sari si tuffa nella putrefazione del fiume
senza corde né archetto ne esce da satiro
La bianca geisha sospende dei fondi marini a Passy
Matisse che passava di là li schizza
di blu di verde di vermiglio per farne una natura morta
Caro Stefano Cardarelli,
rispetto molto le Sue meditazioni e il gusto estetico che ne deriva;
ma qui si tratta di essere tesi a darsi un linguaggio in grado di includere al suo interno mass-media e giornalismo, cinema e video, musica d’ogni genere, danza e arti visive, filosofia e religione, scienze umane e scienze dure (fisica, biologia, chimica), e altro…
Altro che l’Io della falsa vergogna novecentesca di essere poeta, altro che l’Io-centro-del-mondo e delle storia della luna, dell’idillio dei giardini ordinati, del fiore, del cuore, del sole, dell’amore, fra emozionalità d’accatto e assenza di pensiero.
Qui si tratta del tentativo di superamento definitivo delle croste del petrarchismo riproposto in varie salse ma sempre come copia delle copie dagli epigoni e dagli imitatori.
La poesia si rinnova con la poesia «altra» ma all’interno della poesia non dall’esterno della poiesis.
Qui si tratta di decidere quale porzione di mondo il poeta vuole occupare e se il poeta come ogni uomo è anche abitatore di spazio, lo stesso poeta deve essere soprattutto, per me, abitatore di parole.
Il poeta è tale, per me, se ha una sua patria linguistica fatta di parole abitate,
se ha il suo perimetro linguistico di parole autenticamentene abitate e tale perimetro così diventa l’unica porzione di mondo in cui le cose sono in grado di parlare fra di loro e di dialogare con l’uomo ristabilendo il rapporto dinamico e vivo fra cosa e nome.
Qui si tratta, per me, di umanesimo critico, l’unico in grado di restituirci la coscienza di un mondo non più confinato nei compartimenti stagni dell’arte, della cultura, della storia, della scienza, della religione, della filosofia, ma mischiato, confuso, vario, complicato dalla nuova e complessa compressione spazio-tempo.
Qui si tratta di prendere coscienza del terzo spazio e di compiere definitivamente il salto di paradigma dal tempo allo spazio smettendola una volta per tutte di restare ancora fermi alla ricerca del tempo perduto e di metterci, invece, per dirla con Marramao, “alla ricerca dello spazio perduto”.
Altro che biografismo tradotto in versi con quel prevalere anche nella poesia della Louise Glück dei sintagmi aggettivali su quelli nominali…
Gentile Stefano Cardarelli,
La ringrazio per l’occasione che mi ha dato di precisare, sebbene in maniera direi estemporanea, alcune idee sulla mia poiesis e su quella della Poetry kitchen e continui a partecipare ai dibattiti su L’Ombra delle Parole.
Personalmente posso dire che mi sento molto lontana dalla poesia di Louise Gluck, come si può notare dalla poesia sopra postata da Linguaglossa. Penso che una poesia che ci narra l’esposizione dell’angoscia e della sofferenza dell’io, ha fatto il suo tempo, io mi annoio a leggere tutta questa letteratura (introspettiva?) di intrattenimento. Penso che sia molto più interessante parlare e litigare con i propri “fantasmi” e i propri “Doppi” da cui si può trarre un significato più profondo. Il lavoro dell’immaginazione è il vero grimaldello che ci conduce al centro del Reale.
C’è nelle poesie di Louise Glück una zona semantica indifferenziata dove le parole nascono e muoiono neutre, appesantite dal balzello dell’io e dall’ideologia della disperazione caratteristica dei ceti benestanti di tutti i paesi dell’Occidente che si godono tutti i comfort della civilizzazione e della tecnica del capitale.
In questa zona terra di nessuno tutte le signore borghesi con cospicuo conto in banca ci tengono a raccontarci i loro drammi esperienziali, le loro idiosincrasie, le loro ubbie, le storie dei loro amori, ovviamente sublimate, le storie dei loro scacchi, ovviamente telefonate e ben allestite… In Italia abbiamo un lunghissimo elenco di siffatte signore borghesi con annesso il caminetto acceso della disperazione pret à porter. Se date uno sguardo alla collana bianca dell’Einaudi ne troverete a iosa.
La zona grigia di compromissione in cui tutti ci muoviamo, è già in sé una ideologia.
Abbiamo dato agli azzeccagarbugli la lingua del Principe di Salina. Adesso stiamo dando al Principe di Salina la lingua degli azzeccagarbugli. Le parti si sono invertite.
Sullo sfondo di una realtà che sparisce per lasciare posto all’iperrealtà, alla pseudorealtà e alla iporealtà, alla ipoverità, alla pseudoverità e alla iperverità, la distanza tra segno e referente, tra segno e cosa, si fa squarcio insondabile. Dal capitalismo della produzione e dei consumi, oggi ci troviamo immersi in un capitalismo semiurgico, capitalismo della manipolazione dei segni, semiotico, semantico nel quale le parole diventano insensibilmente innocue, si iperbarizzano, si atrofizzano, entrano nel frigorifero e da lì ne escono a temperatura sotto zero, pronte per essere impiegate nelle catene di montaggio dei significanti e dei segni.
“Il lavoro dell’immaginazione è il vero grimaldello che ci conduce al centro del Reale.”
In questa frase di Marie Laure Colasson c’è tutta la ricchezza della Poetry Kitchen. Secondo me.
Ciao
Seguo da tempo L’ombra delle parole e condivido molti di quanto proposto. In merito al Nobel dato alla Gluck, devo dire che ancora una volta la giuria mostra la sua insicurezza e preferisce premiare senza esporsi. Peccato! Perchè soprattutto oggi la poesia ha bisogno di luce e guida. Non perchè la Musa si stia surclassando ma perchè l’oppressione dei media, la sciatteria della parola, la superficialità del vivere e del pensare, escludono ricerche ben più profonde che non necessariamente debbano riguardare il senso della vita, ma la ricerca dell’essere, visto che sempre più siamo immersi in realtà virtuali, condizionati da poteri virtuali (il denaro) che ci fanno perdere la dimensione del nostro esistere su questo pianeta, la graduatoria delle cose che contano.La Gluck è un’intellettuale sensibile, affascinante e a volte profonda, ma anche lei come tanti sguazza nel substrato della coscienza, ci fa star male, ma non ci illumina. Il suo verso ma dovrei dire la sua prosa, è elegante, non sempre piacevole da leggere, ma , insomma sta nella norma.Meglio per la giuria non perdere la faccia andando a premiare poeti all’avanguardia. Insomma, un po’ di salde informazioni su questa poetessa poco nota in Italia, un po’ di letture, un briciolo di biografie, ci fanno pensare che forse il Nobel l’avrebbe meritato di più il suo editore italiano, una piccola libreria editrice di Napoli che ha rischiato pubblicando i sui versi.Continuo a leggere con piacere la vostra rivista. GrazieMina D’Agostino
Una canzoncina per alleggerire
Celentano aveva capito tutto quasi sessant’anni fa, anche se la via era dedicata all’altro Gluck (Christoph Willibald, il musicista settecentesco che ha riformato l’opera lirica).
Benvenuti in tempi interessanti
di Slavoj Žižek
«Ci sentiamo liberi perché ci manca il linguaggio necessario per articolare la nostra mancanza di libertà.»
top pop poesia, poetry kitchen, soap poetry e top picture
Per capire il mondo attuale non abbiamo più bisogno della poesia.
L’arte che si fa oggi in Europa è simile al dolcificante che si mette nel veleno.
I piccoli poeti pensano al dolcificante in dosi omeopatiche… i grandi poeti pensano al dolcificante in dosi macropatiche…
È molto semplice: Dopo le Avanguardie non ci saranno più avanguardie, né retroguardie, le rivoluzioni artistiche e non, non si faranno né in marsina né in canottiera. Non si faranno affatto.
Siamo all’interno di un gioco di specchi. Ciò che vediamo sono le illusorie metastasi della realtà. Ripeto, Faust chiama Mefistofele per una metastasi, dal titolo eloquente del libro di Francesco Paolo Intini.
Gentilissimo Giorgio Linguaglossa,
la sua è un’analisi spietata, convincente nell’iniziale confronto con Simic e nelle considerazioni sulla immobilità dei gusti poetici della giuria di Stoccolma, più difficile da condividere fino in fondo sulla visione sconfortata e quasi senza speranza sulla poesia contemporanea. Si tratta di una lettura della produzione poetica sulle basi di una sociologia della letteratura di impronta marxiana che comprendo e posso condividere nell’impostazione ma che non riesco a seguire nella rigidità e definitività delle conclusioni. E’ certamente vero che chi scrive oggi poesia nel mondo industrializzato scrive qualcosa di diverso di chi scrive poesia a Capoverde o nel Laos e che certi stereotipi di lamentazione e/o consolazione non ci parlano più, ma si dovrebbe leggere con più disincanto e indulgenza, proprio per capire chi metter da parte e chi continuare a seguire.
caro Antonio,
non mi sembra che Simic sia un autore marxista, io ho detto semplicemente che davanti a Charles Simic la Gluck è una formica. Quanto poi all’impiego di categorie di pensatori marxisti come Zizek, io penso semplicemente che senza quelle categorie non si riesce a comprendere il portato del moderno e neanche l’arte del moderno. E poi non necessariamente poeti di valore devono nascere a «Capoverde o nel Laos», io questo non l’ho mai scritto. Poeti di valore ci sono anche in Italia, scrivono e pubblicano su lombradelleparole.wordpress.com, infatti. Il fatto è che la carica di innovazione della poesia italiana si è fermata ad Eboli all’incirca nel 1971. Da allora mi sembra che si nuoti in un cultural lake di educata normografia.
Parlando della poesia e dei poeti venuti dopo Composita solvantur di Fortini (1994) ho fatto dei nomi di autori delle generazioni seguenti e li ho definiti come coloro che hanno «minore consapevolezza storica» del novecento e della tradizione. Un interlocutore mi ha chiesto che cosa volessi significare dichiarando Fortini come «l’ultimo poeta storico» del novecento. Ecco, io credo di averlo già spiegato. Cercherò di ripetermi, questo è un punto fondamentale per poter afferrare il concetto secondo cui tutta la poesia che è venuta dopo l’ultima opera di Fortini è in qualche modo «minore», minore in quanto non più saldata nella tradizione del novecento. È questo il punto. Non volevo essere offensivo nei confronti dei poeti venuti dopo il 1994, anzi, capire questo punto è indispensabile per acquisire consapevolezza storica della propria «debole storicità». Non ho voluto affatto essere intimidatorio o diseducato, volevo soltanto essere franco, schietto. E ripartire da qui.
Mi ci metto ovviamente anch’io tra coloro che si trovano in una «condizione di debole storicità», io che sono nato nel 1949, mi trovo coinvolto a pieno titolo in questa condizione di «debolezza ontologica»; io come tutti, come tutti voi, nessuno escluso. Così, spero di avere escluso dalle mie parole qualsiasi intento diminutorio e/o intimidatorio.
preciso subito che Capoverde e Laos sono esempi miei di paesi non industrializzati e che non volevo certo lasciar credere di aver percepito, nell’articolo, intenti denigratori o riduttivi sulla poesia contemporanea (ed infatti ci sono non pochi poeti scovati e valorizzati da Mangiaparole). Aggiungo anche che, sulla riscoperta del ruolo dell’immaginazione in poesia – sotteso ai concetti di fantasia ideologica e distacco ironico – sono perfettamente d’accordo (io stesso ho sollevato il problema in fb ma, platealmente, anche nel mio ultimo lavoro). Per il resto, sono molto grato dell’attenzione e dei chiarimenti. Cercherò di seguire con più assiduità l’Ombra delle parole. grazie Giorgio Linguaglossa.