Giorgio Linguaglossa, Stanza n. 17, L’occhio di porcellana azzurra, Stanza n. 17/a, Fumo soltanto le Astor con filtro, Commento di Gino Rago sulla morte dell’autore e la fine del modernismo europeo, Una poesia di Anna Achmatova

Foto selfie Jack NicholsonGiorgio Linguaglossa

Stanza n. 17
L’occhio di porcellana azzurra

   per Anna Achmatova

L’occhio di porcellana azzurra di Madame Hanska
osserva il teatro privato del mondo.

Ufficiali degli Ussari con i bottoni di madreperla giocano a carte.
Strauss in un angolo della Radetzkystraße n. 13
scrive la “An der schönen blauen Donau”
per la prossima guerra.
Enceladon porge la mano a Brodskij.

Rodin e Klimt nel salotto, ascoltano le note che
volteggiano nel fumo azzurro.
Una bellissima dama, uscita da un fondale del Tintoretto,
offre agli astanti il fragile germoglio della felicità.

C’è già la decadenza, ma gli ospiti non lo sanno.
Noi non ci siamo,
osserviamo da un binocolo rovesciato,
da dopo il Novecento ciò che avviene all’interno del quadro.
Invisibili e inaccessibili.

Adesso Enceladon porge la mano al Tintoretto.
Io stringo la mano al Tintoretto.
«È un saluto?»,
«No, è un congedo»,
rispondo dal quadro dove mi trovo.

«Mi venga a trovare»,
mi dice il Tintoretto da un altro quadro appeso al muro.
«Ma è già tardi»
– rispondo – «Il custode
deve chiudere il Museo delle ombre».

[Anonimo: Das ist eine wunderbare Melodie! Vielen Dank Strauss für diese einzigartige Musik: es wurde im meinem Herz immer bleiben!]

Foto Edward Honacker

Stanza n. 17/a
Fumo soltanto le Astor con filtro

. . per Anna Achmatova

Il sombrero verde brillante di Enceladon con nastri blu
qualcuno lo aveva spedito via posta
Alla sorella di Tatiana in un pacco decorato
con foglie di acanto ed iris…

Lo vidi poi sui capelli di Anna Achmatova
mentre suonava al pianoforte nel boudoir di Madame Hanska
“Emperor Waltz” di Strauss.
I palazzi ardevano tra i lampi e il fumo delle bombe…

«Sua Altezza può provarlo»,
disse il maggiordomo, lo ripetè in tedesco:
«Durchlaucht können anprobieren!».

L’ampia vetrata ricamata dava sul giardino in fiamme.
«Fumo soltanto le Astor con filtro»,
replicò il giovane tenente.
Piegava la banconota tra le dita.
«Tutto è perduto, tranne l’onore,
o forse anche quello…»,
aggiunse.

«Non so, non saprei perché tutto ciò è avvenuto».
«Chiudi la porta».
«Chiudi sempre la porta alle tue spalle».
«C’è sempre una porta, da qualche parte…
da chiudere».

Gino Rago

Roland Barthes,* nel suo breve ma denso saggio La mort de l’auteur (1968), sancisce, riconoscendola nella sua pienezza, la libertà del lettore di fronte al testo. Anche per me l’autore è morto. Anche per me l’autorità autoriale non esiste.
L’autore non è altro che un luogo di incontro di:

– linguaggio,
– citazioni,
– stratificazioni,
– ripetizioni,
– echi
– referenze,
– interferenze.

Ne consegue che tutto si sposta sul lettore, il quale, senza tenere conto nemmeno dei significati, esercita pienamente la sua libertà di “aprire” e/o di “chiudere” ogni processo di “significato” del testo:

Nella parte più importante di questo saggio che ho subito cercato di far mia Roland Barthes si concentra sulla distinzione fra testi e li distingue tra

– testi realistici (questi, a lungo e ancor oggi dominanti, si limitano a offrire al lettore “significati chiusi”;

– altri testi (fra cui quelli della poetry kitchen) che al contrario dei testi “realistici” sono in grado di incoraggiare, di invitare il lettore ad entrare nel testo in modo che lo stesso sia capace di produrre significati, anche ricorrendo a ciò che Giorgio Linguaglossa nel suo commento ha indicato come «parlato» o il virgolettato (di cui anche lo scrivente fa larghissimo uso).

Il primo tipo di testi, il testo di tipo “realistico”, quasi esclude il lettore perché gli permette unicamente di essere il “consumatore” di un significato fisso.
Ed è il testo “leggibile”.

Il secondo tipo di testi invece mira a trasformare il lettore da “consumatore” a “produttore di significati”. Ed è il testo “plurimo”. Perciò nel mio precedente intervento, riferendomi ai testi della Achmatova, ho parlato di “testi leggibili”; mentre ho parlato a ragion veduta di testi “plurimi” riferendomi alle composizioni poetry kitchen di Giorgio Linguaglossa, composizioni in cui si registra “la mort de l’auteur” secondo il pensiero centrale nel brusio della lingua di Roland Barthes.

E più si accentua “la mort de l’auteur” più il lettore entra nel testo per “scrivere” egli stesso poesia, come dev’essere nella poesia “a significato plurimo”.

*Roland Barthes, La mort de l’auteur (1968) in Id. Le bruissement de la langue, Seuil, Paris, 1984

Anna Achmatova

Vivo come il cucù dell’orologio,
non invidio gli uccelli dei boschi tuttavia.
Mi danno carica e io faccio cucù.
Però, lo sai che a un nemico soltanto
un tale destino augurerei.

(1911)

Caro Gino,

hai colto il punto centrale del discorso, Anna Achmatova è senz’altro uno dei più grandi poeti del novecento mondiale, uno dei più grandi poeti del modernismo europeo che giunge fino a Louise Gluck (Nobel 2020).

La nostra ricerca però muove i suoi passi verso la fuoriuscita dal modernismo, nella consapevolezza che quel tipo di poesia legata ad un «significato», a un «significante» dominante e a «significanti» minori e laterali e a un unico «punto di vista» del soggetto considerato come immobile, questo tipo di poiesis, dicevo, fa parte della storia della poesia europea. Noi abbiamo voltato pagina, stiamo scrivendo o tentando di scrivere una nuova pagina della poesia europea a partire dalla consapevolezza che il modernismo è giunto al capolinea, alla fine della sua corsa secolare.

La nuova poesia muove da questo assunto, da questa presupposizione. Nella nuova poesia del «punto di vista» multiplo e pluricentrico, non ha più senso parlare del soggetto fisso e immobile; nella nuova poesia ci sono più punti di vista, c’è un policentrismo, una pluralità di soggetti e di oggetti, c’è un flusso, con delle interruzioni (temporali e spaziali).

E veniamo al «parlato».

Caro Lucio Tosi, il virgolettato che abbonda nelle mie poesie ha una specifica funzione, quella di mettere in evidenza le voci dialoganti, le interferenze dall’esterno, le interruzioni spazio-temporali, il che è anche un aiuto al lettore impegnato nella lettura, lo scopo è di mettere a proprio agio il lettore durante l’atto della lettura, e anche un atto di rispetto verso le regole della grammatica. Non vedo perché dovremmo lasciare il parlato ai romanzieri e non utilizzarlo nelle nostre poesie.

E veniamo alla categoria della «parallasse» che, a mio avviso, è la categoria centrale della nuova poesia. Riporto di seguito un pezzo di Žižek sulla «parallasse».

«Parallasse»

È molto importante la definizione del concetto di «parallasse» per comprendere come nella procedura della poesia di Francesco Paolo Intini, ma non solo, anche nella poesia di Marie Laure Colasson e altri poeti della nuova ontologia estetica in misura più o meno avvertita, sia rinvenibile in opera questa procedura di «spostamento di un oggetto (la deviazione della sua posizione di contro ad uno sfondo), causato da un cambiamento nella posizione di chi osserva che fornisce una nuova linea di visione.»

[The common definition of parallax is: the apparent displacement of an object (the shift of its position against a background), caused by a change in observational position that provides a new line of sight. The philosophical twist to be added, of course, is that the observed difference is not simply ‘subjective,’ due to the fact that the same object which exists ‘out there’ is seen from two different stations, or points of view. It is rather that […] an ‘epistemological’ shift in the subject’s point of view always reflects an ‘ontological’ shift in the object itself. Or, to put it in Lacanese, the subject’s gaze is always-already inscribed into the perceived object itself, in the guise of its ‘blind spot,’ that which is ‘in the object more than object itself,’ the point from which the object itself returns the gaze *

* Slavoj Žižek, S. (2006) The Parallax View, MIT Press, Cambridge, 2006, p. 17.

Ho inserito ad hoc delle mie poesie (la cui prima stesura risale al 2011) per mostrare la differenza implicita ed esplicita tra la poesia di un poeta del modernismo e la poesia kitchen che stiamo facendo noi e mi fa piacere che tu abbia colto il punto con grande acume.
Un caro saluto a tutti.

(Giorgio Linguaglossa)

Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma (via Pietro Giordani, 18 – 00145). Per la poesia pubblica nel 1992 pubblica Uccelli (Scettro del Re) e nel 2000 Paradiso (Libreria Croce). Ha tradotto poeti inglesi, francesi e tedeschi tra cui Nelly Sachs e alcune poesie di Georg Trakl. Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dal 1997 dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Lisa Stace, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di «Poiesis». È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle).
Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italiano/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 esce la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma) e nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma.  Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019
Nel 2014 fonda la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com  con la quale, insieme ad altri poeti, prosegue nella ricerca di una «nuova ontologia estetica»: dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia positiva della filosofia di oggi,  cioè un nuovo paradigma per una poiesis che pensi una poesia all’altezza del capitalismo globale di oggi, delle società signorili di massa che teorizza la implosione dell’io, l’enunciato poetico nella forma del frammento e del polittico. La poetry kitchen o poesia buffet.

9 commenti

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9 risposte a “Giorgio Linguaglossa, Stanza n. 17, L’occhio di porcellana azzurra, Stanza n. 17/a, Fumo soltanto le Astor con filtro, Commento di Gino Rago sulla morte dell’autore e la fine del modernismo europeo, Una poesia di Anna Achmatova

  1. da Fortini, Pasolini, Zanzotto ai giorni nostri. La «discesa culturale»

    caro Gino Rago,
    tempo fa hai messo il dito nella piaga e hai fatto bene a riprendere il pezzo di Berardinelli sulla questione della poesia italiana degli anni sessanta e su Fortini, Pasolini e Zanzotto in particolare. Lì ci sono tutti i problemi, i virus, come in vitro, che saranno presenti e ritorneranno e si replicheranno nei decenni successivi come nodi non risolti della situazione politico-estetica e della poesia italiana.

    Dagli anni settanta ad oggi faticheremmo non poco a trovare tre poeti del livello di Fortini, Pasolini e Zanzotto. Non sono più apparsi sulla scena personaggi di quel calibro, e un motivo ci dovrà pur essere. Il motivo ovviamente ci sta e lo dobbiamo rinvenire in quella «discesa culturale» che ha colpito le generazioni dei poeti nati dopo gli anni cinquanta del novecento. Quei poeti, quella moltitudine di poeti che è seguita a quella triade non è più stata in grado di produrre un linguaggio poetico adeguato ai nuovi tempi e alla nuova situazione politica dell’Italia e dell’Europa.
    Questo è il fatto.
    I pochi poeti significativi che sono apparsi in questi ultimi decenni (Helle Busacca, Giorgia Stecher, Maria Rosaria Madonna, Mario Lunetta) erano tutti degli isolati, poeti che si schieravano ai lati del polinomio frastico maggioritario, se non addirittura all’opposizione (Mario Lunetta) dello schieramento costituzionale della poesia italiana.

    La lunghissima stagnazione che ha attinto la poesia italiana ha quindi delle cause ben precise e circostanziate, dei nomi e cognomi, delle opere ultime significative. Le opere apparse dopo il 1971 rinunceranno (ma si tratta di una rinuncia in larga parte inconsapevole) a porsi in posizione centrale tra i conflitti estetici e politici perché mancherà il «luogo». La poesia italiana che verrà fuori sarà un «luogo» istituzionalizzato, e la poesia che sortirà fuori sarà una poesia promossa dagli uffici stampa degli editori maggiori, cioè, istituzionalizzata entro i limiti di un ologramma non scritto ma condiviso (inconsapevolmente o consapevolmente) da tutti gli attori che prenderanno parte a questo scenario, o meglio, a questa messa in scena.

    Io l’ho detto e ripetuto più volte che in mancanza di un Progetto culturale la forma-poesia langue, si inaridisce e scompare, come avviene per qualsiasi altro manufatto che non venga irrigato e fertilizzato dalla attiva partecipazione ai conflitti estetici e politici che i tempi presentano.
    Oggi i tempi richiedono una poesia che sia all’altezza dei problemi all’ordine del giorno.

  2. Guido Galdini

    Forse ancora meglio:
    “Oggi i tempi richiedono una poesia che sia all’altezza dei problemi al disordine del giorno.”

  3. Sul «disordine del giorno»

    Certo, nell’ambito della forma di vita del capitalismo odierno si moltiplicano i contenuti psichici indesiderati, i quali in quanto sorgenti di conflitto e disagio, portano il soggetto non solo a dimenticare, rimuovere quei contenuti, ma contemporaneamente, generano in lui una reazione corporea che
    rinforza l’operazione difensiva che si svolge non solo nei distretti corporei ma anche nei distretti del Conscio come rinforzo delle scelte che semplificano la vita piuttosto che delle scelte volte a comprendere la complessità del mondo. Avviene così che certi atteggiamenti, credenze, superstizioni, scelte politiche, religiose ed estetiche sono avvantaggiate tanto più quanto più sono semplicizzanti e sproblematizzanti.

    Ciò si concretizza ad esempio attraverso le contratture muscolari che si configurano in atteggiamenti posturali, tic, irrigidimenti fisiognomici e non solo, ma anche a livello micro si sistabilizzano le reazioni cellulari, molecolari che favoriscono, a livello neurologico, la connessione di certe sinapsi piuttosto che altre, l’incremento o la diminuzione della produzione di alcuni neuromediatori, la migliore (o peggiore) vascolarizzazione di certi distretti corporei etc.

    Oggi molte evidenze scientifiche nell’ambito delle neuroscienze e non solo, portano la ricerca in questa direzione. La ricerca da parte delle masse di normologia e di normografia rientra tra questi disturbi psichici esasperati che possono esondare in scelte giustificatrici: misticismi, conversioni alle religioni ortodosse ed esoteriche, fondamentalismi, negazionismi, scelte politiche estreme come adesioni ai movimenti pseudo nazisti e smaccatamente estremisti. E via cantando.

  4. Mariella Bettarini

    Grazie, complimenti e mille auguri, con un carissimo saluto da

    Mariella B.

  5. La struttura molare

    La figura di riferimento della molarità è l’albero che cresce dall’alto al basso, attraverso uno o più fusti su cui si innestano le ramificazioni, secondo un orientamento gerarchico chestabilisce punti e modalità delle connessioni fra le diverse componenti. Diverso è il procedere del rizoma, che è la figura di riferimento della molecolarità che si sviluppa secondo configurazioni decentrate e in cui ogni parte può essere connessa ad un’altra,
    senza necessario passaggio per punti notevoli predefiniti.

    La struttura molecolare

    Molecolare è una popolazione di elementi che tra di loro stabiliscono connessioni fluide, concatenamenti, suscettibili di continui mutamenti. Si può associare al rizoma, l’immagine della rete, ma anche quella di uno sciame d’api.
    La molarità ha un centro e si sviluppa in senso verticale.
    La molecolarità è senza centro e si sviluppa in orizzontale, la sua caratteristica è la connettività, i confini non rigidi, la dinamicità. La molarità è costituita da grandi insiemi, mega macchine tecnologiche, organiche, istituzionali, che rispondono alle leggi dei grandi numeri e alla statistica. La molecolarità è un’organizzazione fluida, che risponde alle leggi del caos dove sono presenti variabili stocastiche e l’aleatorietà del sistema aperto; il desiderio produce flussi molecolari nell’essere vivente.

    Se l’inconscio non è altro che il funzionamento macchinico del desiderio che produce il reale a livello molecolare, il molare rappresenta l’insieme delle operazioni di applicazione sulla rappresentazione e sulla struttura, a livello del simbolico e dell’immaginario.

    La poetry kitchen

    predilige la struttura molare a quella molecolare in quanto la prima consente una procedura direzionata verso la complessificazione, la divaricazione e la diversificazione, e quindi impiega l’imprevisto e la contraddizione come possibilità sempre presenti nella procedura. La possibilità e la compossibilità costituiscono i momenti centrali della procedura molare.

    Il Reale non è la realtà.

    Nella psicoanalisi lacaniana i termini Reale e realtà hanno significati antitetici. La realtà è ciò che è culturalmente condiviso, è la struttura simbolico-immaginaria che si riproduce nella rete dei significanti che l’io riceve dall’Altro.
    Il Reale, invece, è ciò che accade, ciò che ci cade addosso, indipendentemente dalla sovrastruttura umana, qualcosa che ci prende da dietro e ci travolge. È l’ingovernabilità della vita, ciò che il linguaggio non riesce ad irreggimentare.
    C’è un al di là dell’inconscio simbolico dove si produce del reale che non rimanda a nulla, che è muto e non significa nulla. Il reale é tutto ciò che non trova luogo nella simbolizzazione, non è dicibile, non è dell’ordine del senso, e, d’altra parte, o proprio per questo, tocca nel vivo, nell’intimo, l’esperienza del soggetto.
    La poiesis ha il compito di stanare il reale dal Reale, di fare incetta delle eccedenze e degli scarti dell’ordine simbolico e riterritorializzarli. Ciò che eccede il Reale ritorna così nel reale per il tramite della simbolizzazione nell’ordine simbolico.

    Il poetico

    Deleuze interpreta la propria opera come una sorta di confutazione dell’ontologia di Heidegger. Nonostante la condivisione di diversi temi, a separarli nettamente è il piano, da lui stesso definito «di immanenza», destinato in linea di principio ad abolire la differenza ontologica. L’essere è univoco, costituito nella forma unica della differenza, questa, tutt’altro che dividerlo da una dimensione ontica, coincide col medesimo divenire dell’essere stesso. Gli sviluppi del pensiero post-heideggeriano in materia di ontologia vertono sulla abolizione della differenza ontologica, l’ente è pensato come essere dell’essere, e l’uomo è l’ente ontologico per eccellenza. In questo orizzonte di pensiero la poiesis viene ricondotta all’interno del quadrante ontologico dell’ente senza possibilità di scampo: la poiesis è positiva perché esercizio di prassi, eterologia della prassi. Così come l’impolitico rientra nel politico, anche l’impoetico rientra nel poetico. Il poetico è nient’altro che la prassi nel suo dispiegarsi. Non c’è un mondo a-poetico di cui il poetico debba appropriarsi, ma l’a-poetico è parte integrante della prassi del poetico. L’eccedenza della prassi rientra a pieno titolo nella prassi, è questa la positività della prassi e del poetico che ne consegue. Il momento negativo del poetico è tutto interno al poetico stesso, cioè alla prassi istituente, alla prassi che istituzionalizza, istituisce un nuovo ente, una nuova positività. Questo è, per l’appunto, la poetica post-fondazionale. Oggi, a rigore, non possiamo più parlare di poetiche post-moderne ma soltanto di poetiche post-fondazionali, in quanto è la fondazione che è stata destituita dal pensiero che pensa la prassi.

  6. Scrive Roland Barthes:

    «nella scrittura si perde ogni identità e una volta allontanato l’Autore, la pretesa di ‘decifrare’ un testo diventa del tutto inutile».1

    «Attribuire un Autore a un testo significa imporgli un punto fisso d’arresto, dargli un significato ultimo, chiudere la scrittura. È una concezione molto comoda per la critica, che si arroga così l’importante compito di scoprire l’Autore (o le sue ipostasi: la società, la storia, la psiche, la libertà) al di sotto dell’opera: trovato l’Autore, il testo è«spiegato», il critico ha vinto. […] Nella scrittura molteplice, tutto è da districare, ma nulla è da decifrare; la struttura può essere seguita, «sfilata» (come si sfila la maglia di una calza) in tutti i suoi «prestiti» e piani, ma non esiste un fondo; lo spazio della scrittura dev’essere percorso, non trapassato; la scrittura esprime costantemente un certo senso, ma sempre in vista della sua evaporazione: essa procede sistematicamente a una sorte di «esonero» del senso. Proprio per questo, la letteratura (ormai sarebbe meglio dire la scrittura), rifiutandosi di assegnare al testo (e al mondo come testo) un «segreto», cioè un senso ultimo, libera un’attività che potremmo chiamare contro-teologica, o meglio rivoluzionaria, poiché rifiutarsi di bloccare il senso equivale sostanzialmente a rifiutare Dio e le sue ipostasi, la ragione, la scienza, la legge.
    Per restituire alla scrittura il suo avvenire, bisogna rovesciarne il mito: prezzo della nascita del lettore non può essere che la morte dell’Autore.»2

    1 R. Barthes, Il brusio della lingua. Saggi critici IV , Einaudi, Torino, 1988, p. 55
    2 Ivi p. 56

  7. milaure colasson

    Una mia poesia
    da Les choses de la vie

    Nuit brouillard Eredia tire les rideaux
    une porte s’ouvre sur une ombre

    Terre sans soleil cendre grise
    deux chevaux galopent dans la prairie

    L’épicier russe vend des gâteaux en technicholor
    des fleurs subtropicals sac-plastique sur l’eau visqueuse

    La blanche geisha marche dans la rue
    son enfance s’envole sans l’avertir

    Pure de toute épuration
    Lilith se dénude souveraine

    Une voix se brise sur un point d’interrogation
    tandis que des musiques barbares flottent

    La geisha et Eredia se jettent de la Tour Eiffel
    avec l’ombre chevauchent armées de parapluies vers la prairie

    Lilith plonge dans son océan et ouvre les fenêtres

    *

    Notte nebbiosa Eredia tira le tendine
    una porta si apre su un’ombra

    Terra senza sole cenere grigia
    due cavalli galoppano nella prateria

    Il droghiere russo vende dolci in technicolor
    fiori subtropicali borse di plastica sull’acqua vischiosa

    La bianca geisha cammina nella via
    la sua infanzia se ne va senza avvertirla

    Monda di ogni epurazione
    Lilith si denuda sovrana

    Una voce si frange su un punto d’interrogazione
    mentre musiche barbare ondeggiano

    La geisha e Eredia si gettano dalla Torre Eiffel
    con l’ombra cavalcano armate di parapiogge verso la prateria

    Lilith si tuffa nell’oceano e apre le finestre

    (inedito)

    Le parole hanno dimenticato le parole, sono state attecchite dall’oblio delle parole. Un virus pericolosissimo le sta decimando senza accorgercene. Le parole e i colori sono diventati inabitabili. Siamo stati lentamente invasi dalle «parole piene», le parole comunicazionali che troviamo in ogni dove e in tutti i libri di poesia che si stampano oggi. Le parole sono state infettate da un virus invisibile che le ha decimate, e non ce ne siamo accorti. Le parole non ci guardano più, non ci riguardano più, fuggono via, sono diventate estranee. È diventato problematico finanche dire le cose più semplici. Ricordo che Ingeborg Bachman non riusciva ad entrare in una boucherie e chiedere: «Per favore vorrei un chilo di fettine». Una malattia invisibile e letale sta uccidendo tutte le parole. Soltanto pochissimi poeti, i poeti della nuova ontologia estetica se ne sono accorti e lo gridano, lo scrivono, ma parlano al vento, le persone sono ormai diventate cieche e mute.
    (g.l.)

  8. milaure colasson

    Ripropongo questa riflessione di Linguaglossa:

    Storicamente il dialogo sorge quando si profila all’orizzonte l’incomprensione, l’equivoco, il conflitto. Infatti, il dialogo socratico sorge quando sorge la storia e, molto probabilmente finirà quando finirà la storia, almeno così come l’abbiamo conosciuta. La poesia quindi si fa dialogica, adotta il dialogo quando esso diventa una forma problematica.

    Leggendo questa poesia kitchen, di «superficie», non possiamo non chiederci: Che cos’è il reale? È legittimo porsi una domanda del genere? Si può, definire il reale mediante il significante, che è ciò che ad esso continuamente sfugge? Tentare di afferrarlo, tentare di impadronircene non significa mancare il bersaglio del reale? Chiediamoci: il reale viene “prima” o “dopo” il significante? Chiediamoci: è la “materia” sulla quale il significante agisce, o è il resto dell’operazione del significante (ciò che si sottrae alla simbolizzazione)? È il “primordiale” di cui ci parla Lacan nel Seminario VII?, oppure è lo scarto dell’azione del significante, l’atto fondativo del registro del senso che da esso resta irrimediabilmente escluso?

    È questa una poesia di tipo Realistico? Surreale?, o Surrazionale? – Abbiamo una parola per definirla? E questa «superficie» non ci condanna ad una dimensione onnivora e totale, appunto, «superficiaria», non ci relega agli arresti domiciliari nella casa della superficie equivalente?
    Il Covid19 ha reso evidente che il mondo è diventato una superficie plurale, continuale, globale ove tutto accade contemporaneamente in tutti i luoghi. È questa la nostra dimensione metafisica. In tutti i luoghi siamo ad un tempo unici e plurali, è questa la dannazione della nostra condizione esistenziale a cui non ci possiamo sottrarre.

    1) Il significato è la metastasi della significazione.
    2) Il significante è l’automobile e la metastasi il suo autista. Salire a bordo di un tale veicolo senza una mascherina FFP2, significa infettarsi.
    a) La poiesis non può e non deve essere collegata con la metastasi.
    b) Tra la poiesis e la metastasi c’è inimicizia assoluta.
    c) Una poesia che punta al significato nasce già morta.
    d) Il significato è un ideologema.
    e) Il significato è un DPCM erogato da una dittatura sanitaria.
    f) L’inconscio è quell’operazione che è presupposta come condizione per la riscrittura delle tracce, il cui rimaneggiamento per Freud è alla base delle possibilità stesse del pensiero.
    g) La scrittura poetica si situa lungo la linea di demarcazione tra il soggetto delle tracce, ovvero, dell’inconscio e il soggetto del conscio.

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