Diego De Nadai è nato a Cagliari il 20 luglio 1955 laurea in Lettere moderne. La carriera di voce recitante: Doppiatore , attore (maker creatore di video poesie ) nasce dopo il 1999 dopo una formazione di 5 anni con la docente di dizione e espressività vocale Ludumilla Martinucci.
Vincitore di vari concorsi nazionali a tema unico dell’accademia d’arte drammatica sezione A.D.I. “Associazione Doppiatori Italiani.”
1° classificato Napoli 2017 –Firenze e Torino 2018 – Milano 2019,
1° premio della fondazione Fernando Pessoa di Lisboa 2010 quale miglior interprete delle poesie di Fernando Pessoa in lingua italiana.
Film come attore. Io Bullo – Santa – Quando i papaveri erano rossi.
Lettore di poesia religiosa : Rai 3 per il Programma “Uomini e profeti “
Docente a Roma al “ Polmone pulsate- salita del Grillo “ di una scuola di interpretazione vocale con corsi specifici e individuali di (dizione, fonetica e espressività vocale ) con l’applicazione del metodo Stanislavskij. Ha anche organizzato concorsi di poesia.
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«La voce di Diego De Nadai è in sé una nobile arte frutto di scavo psicologico e lavoro sui testi. Arte che è un fare per veicolare messaggi, viaggio nel valore semantico delle parole, insieme al suono, al ritmo, alla modellizzazione secondaria. Non la voce è importante, ma “ciò che è nella voce” dice Aristotele. La fonogènica voce di Diego De Nadai, pregnante di pathos, racchiude in sé alcune qualità della musica e riesce a darci la Befindlichkeit, lo stato in luogo della voce; convogliare emozioni e stati d’animo in maniera più semanticamente più ricca di quanto talora faccia la musica stessa. La poesia come Dire originario diventa comunicazione quando si legge o si ascolta la poesia stessa arricchita dall’apporto emotivo di una particolarissima Befindlichkeit. La voce di De Nadai sinesteticamente convoglia nella sensibilità soggettiva dell’ascoltatore la sensiblerie della voce recitante. La voce recitante con il suo apporto emotivo incide sull’alone del significato della parola e sul suo valore semantico, contribuendo a fornire una maggiore e più profonda comprensione del testo poetico.»
(Giorgio Linguaglossa)
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Appunto di Giorgio Linguaglossa
Ci tenevo a postare questa poesia di Fernando Pessoa interpretata da Diego De Nadai. Personaggio di poeta così complesso e sfaccettato che non è possibile racchiudere in una formula. Uno dei principali poeti del novecento, uno dei massimi del modernismo europeo. Oggi mi chiedo chi siano in Italia gli eredi del modernismo europeo, se c’è stato in Italia un modernismo europeo o un movimento poetico ragguagliabile al modernismo in accezione specifica e perché e per quali ragioni in Italia non c’è stato un movimento poetico modernista. Che cosa significa oggi fare in Italia una poesia in qualche modo erede della tradizione del modernismo in un momento storico come quello attuale di fine del postmoderno e quindi di fine del modernismo. Impresa non facile e ricca di sfaccettature che richiede qualche riflessione. La nuova ontologia estetica o fenomenologia del poetico è una cosa che è in rapporto in qualche modo e misura con quella lacuna, con quella mancanza, è come se nella tradizione poetica italiana mancasse un anello, un tassello di congiunzione all’Europa, con il modernismo portoghese ed europeo, è questo il senso profondo di riproporre oggi la lettura di un poeta come Pessoa che impersona la grande crisi della cultura europea degli anni venti e trenta. Anche oggi, come allora, viviamo in un momento di grande crisi della cultura europea. Non è un caso che il poeta più influente degli anni trenta che abbiamo avuto in Italia è stato Vincenzo Cardarelli mentre in Portogallo c’era un certo Fernando Pessoa, la differenza dice tutto. La nuova ontologia estetica invece con la sua ultima produzione: la poetry kitchen assume: «La poesia non è figlia della memoria» perché la storia si è mutata in storialità. L’oblio della memoria (da cui i celebri versi di Brodskij: «La guerra di Troia è finita / chi l’ha vinta non ricordo»), segna l’inizio di una nuova poesia, di una nuova narrativa e di una nuova arte: una poiesis incentrata sulla dimenticanza della memoria e sull’oblio della tradizione.
Qui, in nuce, c’è il punto nevralgico della nuova poesia europea.
Un poeta del Dopo il Novecento non potrà più fruire dell’ausilio della memoria, dovrà imparare a farne a meno. La condizione dell’uomo nell’epoca del neoliberalismo è contrassegnata da questa duplice petitio principii: l’oblio della memoria (e della tradizione) e l’oblio della libertà, Pessoa rientra nella generazione di quell’Europa che si preparava, inconsapevolmente, a militare per la irregimentazione nei regimi illiberali e autoritari, di qui la dissoluzione dell’Io e la disintegrazione dell’inconscio storico. Pessoa con straordinaria lungimiranza preannuncia tutto ciò.
Forse nessuno in Europa come Pessoa ha avvertito i segnali, i campanelli di allarme che tintinnavano dovunque. In Italia noi, in piena autarchia, abbiamo avuto un Cardarelli e il ritorno all’ordine de “La Ronda”, poca roba davvero. Oggi, l’epoca del neoliberalismo si nutre vampirescamente delle zone grigie dell’inconscio storico, la poiesis, priva di ricerca intellettuale, si riduce ad uno statuto ancillare e auto propositivo. Un poeta, la profondità di un poeta la si misura dalla sua capacità di captare i segnali del proprio tempo che preannunciano il futuro prossimo venturo, di sondare la crisi del proprio tempo. Non si capisce niente di Pessoa e della grande poesia europea di quegli anni se non teniamo presente la crisi dell’Europa: la poesia di Mandel’stam, Eliot, Pessoa, Montale sta lì a dimostrare che alcuni poeti avevano intravisto, molto in anticipo sui propri contemporanei, la crisi di civiltà e di valori della cultura del loro tempo. Non si capisce nulla della poesia di Pessoa se non si tiene bene aperto davanti agli occhi il registro del nichilismo e della dissoluzione dell’Io, quel morbo invisibile che attecchì le menti degli abitanti dell’Europa dagli anni trenta ai quaranta. Non si capisce niente del mondo di oggi se non teniamo bene aperto il quaderno del nichilismo di oggi: la crisi delle democrazie parlamentari dell’Unione Europea e dei suoi cittadini, spaesati, impoveriti e impauriti da una guerra insensata scatenata dalla autocrazia di Mosca. La poesia è tra le arti forse quella più idonea a rappresentare la crisi di un mondo, del nostro mondo…
da Il libro dell’inquietudine:
Mi ero alzato presto e mi attardavo a prepararmi ad esistere [147]
La generazione cui appartengo, quando è nata, ha trovato un mondo sprovvisto di fondamenta per chi abbia cervello e un cuore. Il lavoro di distruzione delle generazioni anteriori aveva fatto in modo che il mondo, sul quale siamo nati, non ci potesse dare nessuna sicurezza sul piano religioso, nessun aiuto sul piano morale, nessuna tranquillità sul piano politico. Siamo nati ormai in piena ansia metafisica, in piena ansia morale, in piena agitazione politica. Ebbre delle formule esteriori, dei meri procedimenti della ragione e della scienza, le generazioni che ci hanno preceduto hanno abbattuto i fondamenti della fede cristiana… [173]
Fernando Pessoa
Anniversario
Al tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno,
io ero felice e nessuno era morto.
Nella casa antica, perfino il mio compleanno era una tradizione secolare,
e l’allegria di tutti, e la mia, era giusta come una religione qualsiasi.
Al tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno,
avevo la grande salute di non capire alcunché,
di essere intelligente per quelli della famiglia,
e di non aver le speranze che gli altri avevano in mia vece.
Quando arrivai ad avere speranze, non sapevo più avere speranze.
Quando arrivai a guardare la vita, avevo perso il senso della vita.
Sì, quello che fui di supposto per me stesso,
quello che fui di cuore e famiglia,
quello che fui di veglie di semiprovincia,
quello che fui perché mi amavano e perché ero bambino,
quello che fui – Dio mio!, quello che solo oggi so di essere stato…
Com’è lontano!…
(Nemmeno l’eco…)
Il tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno!
Ciò che oggi sono è come l’umidità nel corridoio in fondo alla casa,
che provoca muffa nelle pareti…
Ciò che oggi sono (e la casa di quelli che mi hanno amato trema attraverso le mie
[lacrime),
ciò che oggi sono è che abbiano venduto la casa,
è che tutti siano morti,
è che io sia sopravvissuto a me stesso come un fiammifero freddo…
Al tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno…
Quale oggetto d’amore è per me quel tempo, come una persona!
Desiderio fisico dell’anima di essere lì un’altra volta,
attraverso un viaggio metafisico e carnale,
con una dualità da me a me…
Mangiare il passato come pane per l’affamato, senza tempo di burro sotto i denti!
Vedo tutto ancora una volta con una nitidezza che mi rende cieco alle cose presenti…
La tavola apparecchiata con dei posti in più, con la porcellana migliore, con dei
[bicchieri in più,
la credenza con molte cose – dolci, frutta, il resto nell’ombra sotto la scansia –,
le vecchie zie, i cugini estranei, e tutto era per me,
al tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno…
Fermati, cuore mio!
Non pensare! Lascia il pensiero alla testa!
Oh mio Dio, mio Dio, mio Dio!
Oggi non compio più gli anni.
Perduro.
I miei giorni si addizionano.
Sarò vecchio quando lo sarò.
Nient’altro.
Rabbia di non aver portato in tasca il passato rubato!
Il tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno!…
15 ottobre 1929
[Da: Fernando Pessoa, Poesie di Álvaro de Campos, (a cura di Maria José de Lancastre, traduzione di Antonio Tabucchi), Adelphi, Milano 1993]
Fernando Pessoa (1888 – 1935) Per tutta la vita, trascorsa per la maggior parte in una stanza ammobiliata in affitto a Lisbona, dove sarebbe morto in solitudine, Fernando Antonio Nogueira Pessoa rimase pressoché sconosciuto al mondo editoriale ed al grande pubblico. Oggi egli viene comunemente riconosciuto come il più importante poeta portoghese moderno, membro più rappresentativo del Gruppo Modernista conosciuto anche come Orpheu.
Era nato a Lisbona, il padre Joaquim de Seabra Pessoa morì di tubercolosi quando Fernando era poco più che un bambino, la madre si risposò con il console portoghese per il Sud Africa dove la famiglia si trasferì nel 1896. Qui restò per tre anni, imparando perfettamente la lingua inglese ed interessandosi alla lettura delle opere di Shakespeare e Milton. Tornò a Lisbona nel 1905 per iscriversi all’Università, avrebbe tuttavia abbandonato gli studi molto presto per iniziare a lavorare come traduttore per conto di aziende commerciali. Nel frattempo Fernando Pessoa iniziò a scrivere lettere ed articoli per riviste letterarie quali l’Orpheus, suscitando spesso vivaci polemiche per le idee ed i termini anticonformisti. La sua prima collezione di poesie Antinous fu scritta in lingua inglese ed apparve nel 1918. Pure in inglese furono redatte le successive due raccolte e soltanto nel 1933 pubblicò il primo libro, Mensagem, in portoghese che, come i precedenti, passò completamente inosservato.
La maggior parte delle sue poesie apparvero su riviste letterarie quali Athena da lui stessa diretta e sotto gli pseudonimi di Álvaro de Campos, Riccardo Reis e Alberto Caeiro, veri e propri alter ego, ciascuno dotato di una differente personalità e di un proprio background (Campos un ingegnere affascinato da Walt Whitman, Reis un dottore epicureo dalla solida cultura classica) che spesso animavano le pagine di Athena dandosi battaglia, ora lodando ed ora criticando le “reciproche” opere.
Fernando Pessoa morì il 30 Novembre 1935, la sua fama iniziò a diffondersi, in Portogallo e poi in Brasile, a partire dal 1940 e tutte le sue opere furono pubblicate postume. Ricordiamo Poesias de Fernando Pessoa (1942) ed Odes de Ricardo Reis (1946). La sua autobiografia scritta sotto lo pseudonimo di Bernardo Soares, apparve solo nel 1982.
(Marco Roberto Capelli Fonte: http://www.progettobabele.it)
Il nome di Fernando Pesso tra i versi dedicati a Annamaria di Pietro
poetessa impareggiabile
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a Annamaria Di PIETRO,
Hai affilato il tuo morire in un rettangolo di cera,
ma avevi già sognato un qualsiasi epitaffio in lingua greca.
Da morta, prima della rinascita, non sognavi l’immortalità,
ma il tuo svanire nella memoria la speranza di una vita.
I tuoi versi erano come le cose di Borges
ignare del quando del nostro inizio
e del quando della nostra fine,
ma nei labirinti delle quartine ti sei glorificata.
Attesi la mia ombra di cera fra marosi immobili.
I piroscafi di Fernando in lame di onde sono inchiodati.
Ed era una sbornia d’avorio quell’inverno bianco dei tasti,
una sonora batteria oltre la visione della muschiata linfa.
Le tue mani hanno curato tutte le note del pentagramma.
Come quest’accidia di diamanti e vespri
è questa lava di rose di un’antica mia canzone!
E ci siamo intesi perfino nella consapevolezza
che bisogna aver pietà anche della morte.
Antonio Sagredo
25-29 novembre 2021
A proposito del soggetto mancante e sulla scomparsa della domanda
Il soggetto per Slavoj Žižek è situato all’interno dello spazio vuoto tra Simbolico e Reale, spazio vuoto privo di contenuto in cui emerge un soggetto a sua volta vuoto, che però è fondamentale per il passaggio da un ordine all’altro. È questo divario il luogo della soggettivazione, se non ci fosse alcuna discrepanza tra un oggetto e la sua rappresentazione simbolica, la parola, allora non ci sarebbe nemmeno il soggetto perché ci sarebbe totale identificazione tra l’oggetto e la sua rappresentazione simbolica.
Il soggetto si caratterizza come la risposta del Reale alla domanda del Grande Altro; è il risultato del vuoto, dell’impossibilità di rispondere alla domanda che l’Altro pone.
Se non ci fosse un vuoto da colmare non ci sarebbe nemmeno la possibilità di un processo di soggettivazione, se ci fosse piena coincidenza tra i due ordini che cosa si dovrebbe soggettivizzare? Nulla. Žižek riprende un saggio di Aron Bodenheimer dal titolo Perché? Sull’oscenità del domandare, 1984 (Warum? Von der Obszönität des Fragens).
È un fatto che nella poesia della nuova ontologia estetica sia scomparsa la Domanda; c’è una reticenza, una ritrosia a porre finanche le domande, non c’è più alcuna necessità di porre domande, ancorché la domanda fondamentale, purchessia e pur tuttavia.
1 S. Zizek, L’oggetto sublime dell’ideologia, tr. it. a cura di C. Salzani, Ponte alle Grazie, Firenze 2014, p. 218.
Kant, alla domanda su quali fossero le condizioni che rendevano possibile l’ esperienza che derivava dalle clamorose scoperte newtoniane, rispondeva ancora con delle ‘categorie’, ma ponendole ‘a-priori’unitamente ai paradigmi di spazio e tempo, anch’essi aprioristici, ma determinanti tutta l’esperienza sensibile.
Con Pessoa abbiamo il primo vistoso esempio del collasso psicotico dello spazio simbolico, le categorie non sono più paradigmi a-priori ma diventano punti di vista di un universo non più comprensibile, punti di vista di una complessità insensata che va verso una complessificazione sempre maggiore. L’entropia costringe il soggetto all’entalpia, per dirla con Francesco Intini.
La poiesis di questi ultimi decenni è diventata psicotica nella misura in cui si sproblematizza, tascabilizza le questioni metafisiche e le licenzia. Davanti alla catastrofe globale che si avvicina l’Io auto organizzatorio cerca e pesca nell’inconscio storico l’ideologia del disarmo unilaterale, la liberazione della comprensione, il disarmo psicotico del mancato scambio simbolico tra il soggetto e il reale. L’umanità si trova davanti all’esaurimento delle proprie possibilità di sublimare una materia ostica e scabrosa che non si comprende e non si vuole comprendere.
È che l’esperienza è diventata, per il soggetto monocratico, impossibile.
Abitiamo in appartamenti composti solo di spazi secondari e di luoghi di passaggio: scale, corridoi, tramezzi, soppalchi, servizi igienici, disimpegni, anticamere, ripostigli, angoli cottura… Il soggiorno mette soggezione, la camera da letto incute paura.
Grazie sempre e mille complimenti e auguri, con affettuosi saluti a voi tutti
Mariella (Bettarini)
ancora qualcosa come un presentimento o un presagio dei poeti…
sempre validi
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Voi pensate che sia il delirio della malaria?
Questo è accaduto,
è accaduto a Odessa.
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Ciascuno
di noi
tiene nella sua mano
le cinghie motrici dei mondi!
Questo ci ha innalzati sul Golgotha degli auditori
di Pietrogrado, di Mosca, di Odessa, di Kiev,
e non ci fu mai nessuno
che
gridasse:
“Crocifiggi,
crocifiggilo!”
(da Nuvola in canzoni di V. Majakovskij, 1914115)
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In quei giorni l’aria odorava di morte,
aprire le finestre era come aprire le vene.
(Pasternàk, 19
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Leningrad (Pietroburgo)
Sono tornato nella mia città, nota sino alle lacrime,
sino alle nervature, sino alle glandole gonfie dell’infanzia.
Tu sei tornato qui – dunque inghiotti al più presto
l’olio di pesce dei fanali del fiume di Leningrado!
Riconosci al più presto il giorno di dicembre,
dove il sinistro catrame è mescolato al giallo d’uovo.
Pietroburgo, io non voglio ancora morire:
tu hai i numeri dei miei telefoni.
Pietroburgo! Io posseggo ancora gli indirizzi,
dove troverò la voce dei morti.
Io vivo su una scala nera, e sulla tempia
mi batte un campanello strappato con la carne.
E tutta la notte io aspetto ospiti cari,
squassando i ceppi delle catenelle della porta.
Mandel’stam – dicembre 1930.
(trad. di A.M. Ripellino)
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la poetessa….
. Achmatova, quasi ripetendo Mandel’štam, così parla di Leningrado a Lidija Čukovskaja : ” Leningrado, in generale, è una città straordinariamente adatta alla catastrofe. Questo fiume freddo su cui ci sono sempre nuvole pesanti, questi tramonti minacciosi, questa spaventosa luce teatrale… L’acqua nera coi riflessi di luce gialla…Tutto è terribile: non riesco ad immaginarmi che aspetto avrebbero catastrofi e sventure a Mosca: là tutto questo non c’è”.; in Lidija Čukovskaja, Incontri con Anna Achmatova 1938-41, Adelphi 1990, p. 73.
(mia nota n. 1, p.3 – Corso monografico su O. Mandel’stam di di AMR, 1974\75)
Una riflessione sul concetto di critica o postcritica
Per Mariano Croce, la postcritica è «una cartografia che rileva legami imprevisti tra le cose» (p. 49), o meglio ancora è una cartografia che «crea legami con le cose che eccitano la rottura di modelli reiterati consentendo di fare ingresso in nuove individuazioni»; «crea nuovi legami con nuovi attori», «esalta la via dei legami affettivi» (p. 70). «La postcritica non ha alcuna propensione alla dialettica», in quanto «nessun momento supera nessun altro» (p. 74). La conclusione dello studioso è che essa è «capace di fare le stesse cose che fa o faceva la critica in modo diverso» e magari più efficace. (1)
Commento
Già il fatto che si parli di postcritica invece che di critica significa che la critica reader oriented e object oriented, la critica cui eravamo abituati è diventata inoperosa, inefficace e inutilizzabile; occorre prendere atto che oggi la critica è diventata postcritica. Già il fatto che sia stato messo in premessa il prefisso «post», implica l’accettazione che qualcosa di determinante è cambiato: nel soggetto, nell’oggetto e nel contesto storico ed ontologico. Pensare ad una critica non oriented (inorientata) è una vera e propria contradictio in adiecto, l’atto critico è sempre oriented, pena la sua dispersione e inefficacia. Un nuovo atto epistemologico finisce sempre per modificare l’ontologia, in questo senso la metodologia del critico (leggi: del postcritico) dipende dalla morfologia di un testo letterario, non c’è una metodologia valida per tutti i tipi di testi, ma c’è una metodologia per ogni tipo di testo letterario. Un testo poetico kitchen richiederà nuove categorie per la sua ermeneutica, analogamente un testo poetico tradizionale non avrà bisogno per la sua ermeneutica di nuove categorie, il problema quindi ricade sempre sul «nuovo», è il «nuovo» che impone e richiede una «nuova» ermeneutica, ma al tempo stesso una nuova ermeneutica favorisce e avvantaggia la nascita del «nuovo». Come si vede il processo è dialettico, contrariamente a come la pensa Mariano Croce.
(1) Mariano Croce, “Elogio dell’imprecisione”, Politica e società, 2, 2018, pp. 273-290
Entre la lettre et le sens, entre ce que le poète a écrit
et ce qu’il a pensé, se creuse un écart, un espace, et comme tout espace, celui-ci possède une forme. On appelle cette forme une figure.
(Gérard Genette, Figures)
Le figuralità nella poesia
Nelle figuralità presenti nelle poesie kitchen si può rintracciare il percorso che unisce e separa la poesia del novecento e/da quella della nuova ontologia estetica. Sono le figuralità che fanno la differenza.
Le figuralità sono delle vere e proprie tecnicalità, ripropongono la stessa logica anti-entropica e al contempo auto-trascendente della vita. Sono l’espressione di quel fondo pre-individuale presente in ciascuno di noi.
Ogni figuralità è tecnicalità. In ogni oggetto tecnico della poiesis possiamo vedere in atto la dynamis della «natura» umana, quella dimensione originaria che consente all’uomo di esternarsi e di porsi in relazione con quanto lo circonda; quel supporto naturale che permane come un apeiron, serbatoio di potenzialità infinite. L’artificialità delle figuralità non è dunque in alcun modo opposta alla spontaneità produttiva della natura, è anzi consustanziale all’artificialità che contraddistingue l’azione umana, che rappresenta la «natura» umana in svolgimento. La tecnicalità rende visibile al di fuori non tanto semplicemente ciò che l’uomo è nel di dentro, quanto il processo dentro-fuori e io fuori-dentro. La poiesis non fa distinzione tra un fuori e un dentro, ogni limite è un confine e un ingresso e, come ogni ingresso, è anche un egresso.
Tecnica, mediato e immediato, artificiale e naturale, sono inseparabili e irrelati. Una delle leggi antropologiche fondamentali è quella dell’immediatezza mediata, strutturalmente connessa a quella dell’artificialità naturale, nonché a quella del luogo utopico, del non-luogo a-topon.
Parlare di tecnica e di naturalità delle figuralità vuol dire parlare del medesimo. Le figuralità sono la spia di una poesia altamente artificiale, in quanto la tecnica è essa stessa prodotto di artificio, prodotto della dimensione aperta, storica, evolutiva e ibrida dell’essere umano. L’ibridazione con l’alterità nasce da una incompletezza che non è un difetto da colmare bensì una possibilità che conduce ad un oltre, che è per l’uomo la possibilità produrre una dinamica ad un tempo biologica e culturale, innata e acquisita, ontogenetica e filogenetica. La fisicità umana è fondamentalmente protesica, la physis umana è immediatamente meta-fisica.
Già Carlo Marx affermava che l’uomo è Gattungswesen, essenza generica o ente naturale-generico, apertura potenziale al mondo che si determina in modalità temporale e comunitaria. L’uomo è quell’essere che per natura è chiamato ad agire, ad avere un rapporto mediato con quanto lo circonda, all’esposizione con il fuori e con l’altro da sé per cercare di trovare e determinare attivamente se stesso; è in rapporto-a e in relazione-con (zoon politikon); la sua natura non rigidamente statica, ma dialettica e dinamica lo spinge verso il mondo per entrare in rapporto con esso. Che l’uomo abbia un Verhältnis (tanto “relazione” quanto comportamento, azione: relazione), significa che la sua condotta di vita è una questione di modi di essere, il suo comportamento concerne il come agire in ogni determinata situazione.
L’uomo è per natura uno sperimentatore, è sempre al di là (ek) del limite (peira) immediato imposto dalla natura. L’uomo è il medium tramite cui la natura si spinge al di là dei propri limiti. La tecnica appartiene all’essenza umana come esserCi, va inserita nel mondo, come disvelamento pro-vocante che pro-cede da physis, dal disvelamento producente del mondo che tocca l’uomo come natura che si fa storia. Se la techne è un modo dell’aletheuein dell’essere, è perché essa è la pro-vocazione della natura nei confronti dell’uomo, è quel movimento di fuoriuscita da sé con cui la physis chiama a sé nella forma del superamento di sé, apre lo spazio dell’umano, costituisce l’uomo in quanto ente storico-culturale in quanto ente che deve corrispondere al movimento sottrattivo di una natura che si dà nascondendosi e venendo meno nella sua immediatezza. L’uomo è così per sua natura un ente non-centrico, ec-centrico rispetto a qualsivoglia forma di centricità, di chiusura autocentrica; è sempre s-centrato e de-centrato rispetto a se stesso.
Se «espandiamo [e introiettiamo] tecnologia», è «per scoprire chi siamo e chi possiamo essere… la tecnica, i suoi apparati, non sono una deviazione rispetto alla norma o alla natura umana, ma piuttosto ne sono una amplificazione, una stilizzazione e una manifestazione eminente. […] Ciò che avviene attraverso la tecnica è una vera e propria rivelazione: ciò che si oggettiva nelle protesi è la natura umana, noi possiamo sempre specchiarci negli attrezzi che abbiamo fabbricato […] e dirci: ‘Questo sei tu’. […] La tecnica non è aberrazione, è rivelazione, ci mostra chi siamo davvero, e funziona non come uno specchio deformante, ma casomai come un microscopio o un telescopio»1.
1 M. Ferraris, Anima e iPad. Rivelazioni filosofiche, Guanda, Parma 2011, 11, 68
Poesie a-centriche di
Mauro Pierno
2 Maggio 2020 alle 18:05
La parte meno esposta.
La parete del divisorio, questo lo ricordi?
L’ultima sigaretta,
va bene, la penultima!
L’orientamento spostato a ovest,
troppa luce! È quanta polvere, ancora?!
Hai dimenticato ancora
le lenti nel cassetto.
Queste, queste
dovresti averle sempre con te Jack.
Hai tante donne per la testa Jack!
I visipallidi ispirano così tanta devozione.
Caricate…
puntate…fuoco!
*
La pagina elettronica ha le sinapsi allungate
una silhouette a basso costo,
le code dei cavalli arrugginite.
La scopa, Hansel,
ha in dotazione un aspiratore elettronico
ed un pettine per crani calvi
e sdentati.
Ci sono delle cose che in una poesia non si possono dire. Scrivere una poesia è un atto di estrema cortesia e di estrema reticenza. Non posso scrivere in una poesia un pensiero del tutto ovvio, perché verrebbe immediatamente archiviato dalla memoria collettiva. In poesia non si possono scrivere truismi, se non per ribaltarli. Resta il fatto, però, che l’altro ha bisogno di conoscere esattamente ciò che non è detto, e il poeta di rango non si sottrae mai a questo problema, egli risponde sempre come può, riproponendo di continuo ciò che non viene detto in altri modi, con altre parole, in questo modo ingaggia una lotta perpendicolare con ciò che non viene detto allargando il campo della dicibilità e restringendo quello della linguisticità. Questo è il compito proprio della poiesis.
È molto importante trovare il proprio luogo nella linguisticità. E questo lo possono fare soltanto i poeti. Un poeta il suo luogo esclusivo nella linguisticità, e quando lo trova non si muove più di lì, soltanto in quel luogo può parlare, in altri posti della linguisticità rimarrebbe muto. Nessuno che esprime qualcosa dice ciò che effettivamente intende, ciò che intendo è sempre diverso da ciò che dico. È ingenuo pensare ad una perfetta coincidenza tra ciò che intendo dire e ciò che dico. Tra la parola e la cosa si apre una distanza che il tempo si incarica di ampliare e approfondire. Tra le parole si insinua sempre l’ombra, viviamo sempre nell’ombra delle parole. Anche trovare la parola giusta al momento giusto, è una ingenuità. Il politico pensa in questo modo, pensa in termini di «giusto», non il poeta. La poiesis non ragiona in questo modo, alla poiesis interessa trovare il «luogo giusto» dove far accadere l’evento del linguaggio. Tutto il resto non interessa la poiesis.
Pensare l’evento del linguaggio dal punto di vista di chi è fuori dal «luogo», è una sciocchezza; chi è fuori del «luogo» non comprenderà mai l’evento di quel linguaggio che deriva da un «luogo». Quello che Heidegger vuole dire con la parola Befindlichkeit è proprio questo, il situarsi emotivamente da parte dell’Esserci in un luogo. Ogni luogo ha la sua particolarissima tonalità emotiva. E la poesia è il recettore di questa tonalità.
A pedovella. Semplici passaggi a livello a cremagliera. Con suole di cuoio. La vendetta
ad acqua. Monopattini veri. Biciclette a pedali.
Gavettoni. Totò e Peppino divisi a Berlino.
La prima volta in auto. Le dinamo. Vuoti a rendere. Camminamenti. Da Roma a Bruxelles
da Santiago a Kiev, da Mosca a New York. La pastella. Tutti gli strumenti a fiato, a corda e a
percussione. Tovarisc, sai di chi sei figlio tu?
Sagredo ravviva la poesia russa!
Grazie OMBRA.
“poesia a-centrica” è una brillante definizione che implica un nuovo paradigma: secondo cui la nuova poesia ha perduto per sempre la centricità del centro, cioè la centricità dell’io (mi si passi il neologismo) Perdere la centricità significa anche perdere l’eccentricità, non è più l’originalità ciò a cui tende la nuova poesia.
Lo speech di Putler il 9 maggio sulla p.za Rossa è il coronamento della transvalutazione della storia e delle parole, il vero coronamento del capovolgimento dei fatti della storia e delle parole, aver detto che la NATO e l’Occidente stava preparando una invasione del sacro suolo della Rus’ non solo è una gigantesca menzogna ma relega la cricca di criminali di Putler e il capo in persona che ha pronunciato quelle parole, Putler, al vertice del nazismo facere di oggi, affermare come ha fatto Putler che lui ha agito in via preventiva invadendo un luogo chiamato Ucraina per scongiurare l’invasione dell’Occidente e denazificare quel luogo è una balordaggine mostruosa e una mostruosa mistificazione e falsificazione della storia. La Rus’ è diventato uno stato canaglia, uno stato paria. Putler, come tutti gli psicopatici paranoici, è lucidissimo, machiavellico, furbissimo, se la mano destra fa una cosa la sinistra ne fa un’altra, io penso che stia preparando di nascosto in gran segreto, una mobilitazione coatta di soldati russi per buttarli nella fornace del fronte, a lui non gliene frega niente né della vita dei russi né di quella di qualsiasi altra persona,vuole averla vinta e prepara un altro esercito, il terzo, perché il secondo verrà gettato nella fornace in giugno, circa 60 mila soldati, e un terzo esercito in luglio agosto, altri 50 mila soldati per spezzare lo schieramento ucraino nel Donbas e arrivare fino a Odessa e fino alla Transnistria. Putler è un paranoico, come Stalin e Hitler, non affatto matto come pensa la gente. Per capire i suoi piani occorre interpellare un bravo psicanalista più che un sacerdote. Non resta che aspettare gli eventi.
Credo che nella tragedia della guerra ucraina, come del resto di tutte le guerre, oltre che l’apporto – come giustamente dice la nostra Marie Laure a proposito di Putler – di seri psicanalisti per comprendere la follia che accompagna la “cupio dissolvi” che conduce gli uomini di potere ad intraprendere un conflitto, sia utile anche l’apporto di grandi registi o scrittori comici per demolirne la stupidità, come in questo passaggio tratto dal grandioso affresco di Mario Monicelli, “Vogliamo i colonnelli” con uno strepitoso Tognazzi.
Chiedo: Chi pagherà i danni di guerra inferti all’Ucraina?
https://www.bbc.com/news/world-europe-61370906
Ukrainian President Volodymyr Zelensky has accused Russia of implementing “a bloody reconstruction of Nazism”.
In a speech commemorating World War Two, he said the Russian army was replicating Nazi “atrocities” during its invasion of his country.
“Darkness has returned to Ukraine and it has become black and white again,” he said in his video address.
Footage in the video showed the Ukrainian leader against a backdrop of destroyed residential buildings.
“Evil has returned, in a different uniform, under different slogans, but for the same purpose,” he added.
The video also featured archive footage of World War Two and black-and-white footage of Russia’s invasion.
When Ukraine was invaded by Russia in late February, Moscow maintained its operation was in part to “de-Nazify” the country.
Russian President Vladimir Putin returned to the theme in his own address congratulating former Soviet nations on the 77th anniversary of Nazi Germany’s defeat, saying that “as in 1945, victory will be ours”.
Ukrainian officials fear Russia may step up its attacks ahead of Russia’s Victory Day commemorations on Monday.
Mr Zelensky appealed to European nations, including the UK, France and the Netherlands, by likening Nazi bombings of their towns and cities to Russian strikes on urban areas in Ukraine.
Meanwhile, more than 60 people are feared dead after a Russian bomb hit a school in eastern Ukraine on Saturday, local authorities said.
The governor of Ukraine’s Luhansk region, Serhiy Haidai, said around 90 local residents had been sheltering in the school in the village of Bilohorivka, near the frontline in the Donbas region.
Nel giugno del 1967, poco dopo la lettera aperta di Solženicyn sulla censura nell’Urss, si tiene in Cecoslovacchia il IV Congresso dell’Unione degli scrittori.
Un congresso diverso da tutti i precedenti – memorabile. Ad aprire i lavori, con un discorso di un’audacia limpida e pacata, è Milan Kundera, allora già autore di successo (il suo bestseller più noto è L’insostenibile leggerezza dell’essere). Se si guarda al destino della giovane nazione ceca, e più in generale delle “piccole nazioni“, appare evidente – dichiara Kundera – che la sopravvivenza di un popolo dipende dalla forza dei suoi valori culturali. Il che esige il rifiuto di qualsiasi interferenza da parte dei “vandali”, gli ideologi del regime.
La rottura fra scrittori e potere è consumata, e la Primavera di Praga confermerà sino a che punto la rinascita delle arti, della letteratura, del cinema avesse accelerato il disfacimento della struttura politica.
A questo discorso, che segna un’epoca, si ricollega un intervento del 1983, destinato a “rimodellare la mappa mentale dell’Europa” prima del 1989. Con una veemenza che il nitore argomentativo non riesce a occultare, Kundera accusa l’Occidente di avere assistito inerte alla sparizione del suo estremo lembo, essenziale crogiolo culturale. Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia, che all’Europa appartengono a tutti gli effetti, e che fra il 1956 e il 1970 hanno dato vita a grandiose rivolte, sorrette dal “connubio di cultura e vita, creazione e popolo”, non sono infatti agli occhi dell’Occidente che una parte del blocco sovietico.
Umberto Eco pubblicò un libro nel 1990, I Iimiti dell’interpretazione (Bompiani, 1990), nel quale si chiedeva :
«Quale metodo proporre ai critici e ai lettori di un’opera letteraria per interpretarla in modo non del tutto cervellotico?». La risposta è: un criterio di economia. Un’interpretazione è non falsa (non esistono interpretazioni false) ma inaccettabile quando è poco economica, quando produce uno spreco di vis interpretativa.
Eco afferma che non conviene fare la Guerra, in nessun caso, perché costa troppo anche a chi la vince. La guerra mette in moto forze e processi che chi ha deciso la guerra non controlla più. «[La Guerra] — conclude Eco — è peggio di un delitto: è uno spreco».
«La Guerra è un sistema neo-connessionista — scrive — […]. Essa non è più un fenomeno in cui il calcolo e l’intenzione dei protagonisti abbia valore; […] in linea di principio, in quanto sfida ogni calcolo decisionale, essa è perduta per entrambi […] La Guerra contemporanea è come una partita a scacchi in cui entrambi i giocatori mangiano e muovono pezzi di uno stesso colore […]. Essa è un gioco autofago […]. Comunque la Guerra vada, essa, avendo provocato un riassetto generale di pesi che non può corrispondere pienamente alla volontà dei contendenti, si prolungherà in una drammatica instabilità politica, economica e psicologica per i decenni a venire, che altro non potrà produrre che una politica guerreggiata».
E io aggiungerei anche una accelerazione delle posizioni ideologiche.
Mi è venuta in mente la guerra contro i Marcomanni, i Quadi più altre tribù che invasero l’Impero romano dal 166 fino al 189 d.C. – Marco Aurelio dovette correre in difesa dell’Impero, la guerra durò 20 anni, quando Commodo subentrò al comando dell’Impero ottenne una pace poco onorevole che obbligava l’Impero a pagare ogni anno una ingente somma di denaro per preservare i confini da altre invasioni.
Mi chiedo : l’Europa dovrebbe fare come Commodo, ottenere una pace poco onorevole concedendo agli invasori sarmati un finanziamento annuale per la loro tracotanza? sarebbe una pace onorevole? e soprattutto: sarebbe una pace duratura?
Considero Pessoa una figura maiuscola del ‘900 europeo. Innanzitutto come poeta ha anticipato vari mutamenti modernizzanti che si sarebbero conclamati successivamente nel quadro della storia poetica europea; inoltre, la sua poesia ha una capacità di ricostruzione d’ambiente e di introiezione psicologica non comune nella poesia dell’epoca – e che piuttosto si era affermata nella narrativa – caratteristiche che è riuscito a travasare in poesia grazie in primis all’innovazione linguistica costituita dalla sua costruzione tendente ad una certa narratività ed in secondo luogo alla profonda capacità di approfondimento dei caratteri dei protagonisti dei suoi componimenti, che grazie all’adozione di eteronimi in sua vece, consentono al poeta di distanziarsi dal contesto narrativo, procedendo quasi per tecnica di osservazione antropologica o psicoanalitica.
Fondamentali inoltre, nella poestica di Pessoa sono gli apporti dei suoi molteplici interessi spazianti dalla storia delle religioni, all’astrologia, all’occultismo, che arricchiscono il panorama simbolico della sua scrittura.
Certamente, la poesia di Pessoa è stata tra le produzioni che maggiormente hanno saputo cogliere, grazie anche alle molteplici “maschere” utilizzate nella sua poesia, la frantumazione della coscienza borghese fra XIX e XX Sec. Ringrazio Giorgio per averci offerto la possibilità di ricordarlo.