.
È il «reale» che ha frantumato la «forma» panottica e logologica della tradizione della poesia novecentesca, i poeti della nuova ontologia estetica si limitano e prenderne atto e a comportarsi di conseguenza. Il soggetto del reale, costantemente sballottato da un significante all’altro, si dà solo come effetto della significazione, rinvio continuato, segno della sua costitutiva scissione: il soggetto non si dà, se non come già da sempre barrato. Il soggetto giunge, ma dove?, da dove viene?, dove è diretto? Giuseppe Talia dice: «Eccomi», sono «Ovunque»; ovvero, in nessun luogo.
Poiché intendiamo con segno l’associazione di un significante a un significato, possiamo dire che il segno linguistico è arbitrario. La parola
arbitrarietà non deve dare l’idea che il significante dipenda dalla libera scelta del soggetto parlante; noi vogliamo dire che è immotivato, vale a dire arbitrario in rapporto al significato, con il quale non ha alcun legame naturale.
«Non c’è alcuna significazione che si sostenga se non nel rinvio ad un’altra significazione» (Lacan 1974). Il significato, infatti, non indica la cosa, ma la si-gnificazione. «Ogni volta che parliamo diciamo la cosa, il significabile, tramite il significato. C’è qui un abbaglio, perché è bene chiaro che il linguaggio non è fatto per designare le cose. Ma questo abbaglio è strutturale al linguaggio umano» (Lacan 1974), il senso non è costituito dal rapporto rappresentativo significato-significante, bensì dalla catena significante, dal continuo rimando da un significante all’altro secondo le leggi del linguaggio, che seguono il modello della metonimia e della metafora.
(Giorgio Linguaglossa)
.
John Taylor, nella prefazione all’antologia americana di poeti italiani del XXI secolo: How the Trojan War Ended I Don’t Remember (Come è finita la guerra di Troia non ricordo), edita da Giorgio Linguaglossa tradotta da Steven Grieco-Rathgeb e pubblicata da Chelsea Editions di New York, coglie l’entità distribuita delle poetiche di vari autori, le questioni di spazio e di tempo, a partire dalla presenza del passato nel presente, “In other words, a sort of dream or imaginative vision combined with wakefulness” (John Taylor).
La linea Modernista, che va da Alfred Prufrock di The waste land (1922) di Eliot ad Alfredo de Palchi di Sessioni con l’analista (1967), è paragonabile a uno dei torrenti che scorrono nella mitologia sotto la città di Troia e trova continuità e sbocchi nel nuovo Modernismo, o meglio in una nuova ontologia estetica.
Il filone di opposizione radicale dell’ontologia alla poesia di fine secolo Novecento non ritiene più valide le esperienze diaristiche dell’Io.
Dunque, l’ingresso di una nuova situazione stilistica e poetica. Contrapposta alla conservazione faziosa di posizioni istituzionali, come scrive Giorgio Linguaglossa, segue la linea modernista su altri piani problematici circa il complesso meccanismo del pensiero e della parola oggi. Che valore dare e quali le cause della perdita di memoria nell’epoca della velocità, dell’immediatezza, dell’alzheimer condiviso, dello scorrere continuo di dati dove paradossalmente il tempo è diventato inesistente? Quale recupero operare nella vastità del prodotto letterario? Con quale linguaggio, mitologia e storia delle idee? Quale spazio mentale?, come dice John Taylor nella prefazione al volume: «albeit sometimes bizarrely, fantastically, or comically».
.
(Giuseppe Talia, Firenze, 17 settembre 2019)
.
Giuseppe Talia
Giuseppe Talìa (pseudonimo di Giuseppe Panetta) nasce in Calabria, a Ferruzzano (RC), nel 1964. Vive a Firenze e lavora come Tutor Organizzatore nel Corso di Studi in Scienze della Formazione Primaria, Dipartimento FORLILPSI. Ha pubblicato le raccolte di poesie: Le Vocali Vissute, (1999); Thalìa, (2008); Salumida, (2010); La Musa Last Minute, (2018). Presente in diverse antologie e riviste letterarie tra le quali si ricordano, I sentieri del Tempo Ostinato – Dieci poeti italiani in Polonia (2011); Come è Finita la Guerra di Troia non Ricordo (2016). Quest’ultima pubblicata, a cura di Giorgio Linguaglossa, in edizione bilingue da Chelsea Edition, New York 2019, con il titolo How the Trojan War Ended I Dont’ Remember. La silloge Thalìa esce in versione bilingue negli Stati Uniti d’America per Xenos Books – Chelsea Editions Collaboration, California, U.S.A. 2017, con le traduzioni di Nehemiah H. Brown. Ha pubblicato, inoltre, due libri sulla formazione del personale scolastico, L’integrazione e la Valorizzazione delle Differenze, marzo 2011; Progettazione di Unità di Competenza per il Curricolo Verticale: esperienze di autoformazione in rete, Edizioni La Medicea, Firenze 2013.
.
inediti da Eccomi. Ovunque
.
Eccomi. Sono di ritorno. Da un lungo viaggio.
Il fuoco nel caminetto. Arde.
.
Il fuoco è l’elemento principe. Scioglie e riaggrega.
L’aria, invece, è ovunque. Principe.
.
La bottiglia. Principe. Dai monti della Sila.
.
Che dire, Germanicus, si parla la lingua.
E la lingua è fuoco e aria.
.
*
a Alfredo De Palchi
Chi voleva buttarla in politica rossa e resilienza
Ha cercato di sollevare il solito motivo.
Fascista. Recluso. Per sette anni.
Come una mosca sul pane benzoino.
Libero.
Anche se poi io sono anarchico – mi dicevi.
Se puoi, anarchico.
E io. Io,
Dall’America. Dall’isola di Manhattan.
Ho sposato una donna ebrea.
Fu dopo che mi buttai nella Senna
E ne venni fuori
E c’è chi ancora la butta in politica rosa e resistenza.
Dimenticandoti nel fosso, con i calzoni bagnati
un fucile in mano e l’analista.
*
Dai, divertiamoci un po’, Germanicus.
Non trovi anche tu che se togliessi una virgola.
Dai, divertiamoci un po’ Germanicus.
Mi cambia tutto il senso. Bullo. Nel secondo caso.
.
Che dire di questa pandemia? Praticamente,
In epoca di pandemia, non devi uscire, o almeno
Il meno possibile; lo puoi incontrare ovunque;
lo trovi ovunque.
Non trovi anche tu, che questo vestito grafico
Non devi meno ovunque ovunque, mi stia bene?
.
E’ tempo d’affari online altro che vendita al dettaglio.
L’immagine sfiora appena i fili del cablaggio.
Metti i Ferragnez. Un polinomio frastico.
E fratello, o frate o fraté, dilla come vuoi;
Se non lanci un # o sorella, o sora, o soré;
Se non azzardi, come Magrelli con la Minetti.
Solo che Magrelli ci ha giocato facile. L’ha buttata sullo scandalo.
E sulle lodi delle bocce.
.
No, no, io (eccomi) dico una cosa diversa.
.
Massimo Recalcati. Ti ho inviato i libri. Pre-pandemia.
E nemmeno un grazie. Ora, invece, ti indirizzo
Questa nuova poetry kitchen. Come una planetaria
Impasta e sminuzza gli elementi di disturbo, lalalangue.
La- la -langue la tua risposta Massimo.
*
Nunzio Pino vorrebbe che scrivessi
Una riscrittura delle Vocali vestite, invece che vissute.
Buona idea. Penso. A come Armani V come Versace.
Ma toh guarda, la A è la V capovolta.
*
Andare oltre il viaggio.
L’alluce sul capezzolo della venere.
Gli anelli al collo Kaian.
Le scarpe di svolta.
Andare oltre il viaggio.
Oltre il collo allungato e le scarpe.
*
Maitresse miracolante.
Adoro. La Maitresse.
Il capo curvo sui frammenti di ricordi.
.
Che si mangia? Ti voglio bene.
.
Non voglio venire più qui.
Me ne sto a casa mia.
.
Ma tu sei a casa tua.
.
E’ casa mia questa? E chi lo dice?
.
Te lo dico io.
.
E tu che ne sai?
.
Sono tuo figlio.
.
Ah, per questo lo sai?
.
Io da ragazza facevo la sarta.
.
Poi sono diventata maestra.
*
L’eleganza di Dio. La indossi ovunque.
La vedi ovunque.
.
La gallina Nanin. Non avevo mai scritto prima
D’ora Una poesia sulla gallina o o almeno con la gallina.
La gallina di Tosi. Anche qui, che bel problema.
Dei due colori dello sfondo è stato già detto. La compagine del momento.
Poco importa il momento ma i due colori dello sfondo.
Comunque.
Manca una v e scartando la c e la m (…)
La gallina Nanin. E’ perfetta poetry kitchen- Non avevo mai scritto prima a
Dora, nemmeno del piumaggio, o forse sì (nota D’ora e Dora).
Il nero sta bene comunque e comunque, ma mi ripeto.
Scrivo di getto. Quanti minuti tra un verso e l’altro? Controlla pure.
Perdo tempo nel correggere. Ma ti assicuro è scrittura di getto.
È roba fresca (aggiunto in seguito).
.
Ora mi riposo e prendo fiato. Sigaretta? Allora, ecco (o eccomi)
La sigaretta, Ippolito e il fond d’écran.
.
La gallina, secondo me.
E’ bella, Nanin.
Trovo molto interessante questa scrittura semi meccanica di Giuseppe Talia. Disturbata da scariche elettriche (perdite di memoria nel linguaggio), ne guadagna la creatività che “salda” creando nuova composizione del discorso. Qui trovano posto vocali e colori, vien da dire; per la gioia di chi ha apprezzato quel suo lavoro.
(Lucio Mayoor Tosi)
Ti ringrazio, Lucio, per la semi meccanica disturbata che salda il discorso. Ti voglio dire che la gallina Nanin e la poetry kitchen li trovo geniali.
(Giuseppe Talia)
Il fiume carsico della ricerca poetica di Giuseppe Talìa riappare dopo l’attraversamento di percorsi al di fuori del senso della vista:
la riapparizione che poi è la festa laica dei lettori de L’Ombra delle Parolesi affida a una poesia semi meccanica e direi anche gestuale come in un certo filone della storia dell’arte in cui il gesto dell’artista precede la ricerca del senso. Giuseppe Talìa si pone nel posto preciso e personale della poetry kitchen e della NOE dove il soggetto non è più alienato o angosciato ma è frantumato. E’ un ritorno che segnalo come arricchimento della poetica in cammino permanente della poetry kitchen.
A proposito della voce e della scrittura
Gli elementi: voce-grafia-occhio
Le società primitive sono prevalentemente orali, e non per l’assenza di grafismo, o per la mancanza di una costellazione di segni territoriali, ma poiché il grafismo è ancora indipendente dalla voce. Nella rappresentazione territoriale voce e segno grafico sono elementi connessi ma eterogenei e nessuno prevale sull’altro: la voce, rappresentazione di parola, è congiunta al grafismo, rappresentazione di cosa o corpo, ai quali si addiziona l’occhio della comunità che, passando da un elemento all’altro, osserva e vede, e non legge, l’iscrizione sul corpo.
I segni che s’iscrivono e marcano i corpi della collettività reagiscono e rispondono alla voce, ma senza allinearsi su di essa e restando invece autonomi.
La società barbarica, al contrario, è prevalentemente scritta e non per la scomparsa della voce. Ciò è dovuto, piuttosto, alla dinamica attraverso la quale il grafismo perde la propria indipendenza e le proprie dimensioni allineandosi sulla voce per poi subordinarsi ad essa ed estraendone un flusso astratto e deterritorializzato che verrà fatto risuonare, come una “voce muta” in una scrittura divenuta lineare. Questa successione e organizzazione lineare dei codici di segno – la scrittura vera e propria – è una voce muta, ma scritta. Questo è il movimento genetico dell’alfabeto, della lettera, della parola scritta: il segno che “incorpora” la linearità temporale del linguaggio verbale. La scrittura, a forza di allinearsi e subordinarsi alla voce, la completa, la integra e la amplifica ed infine la soppianta e la sostituisce.
Nasce la scrittura come sistema di rappresentazione grafica dei foni di una lingua, in una risonanza tra grafemi e fonemi, che si realizza mediante
l’alfabeto fonetico. La fonetizzazione del segno mette così in risonanza, per la prima volta, discorso scritto con discorso parlato.
«[…] i più antichi autori l’hanno visto chiaramente: è il despota che fa la scrittura, è la formazione imperiale che fa del grafismo una scrittura nel vero senso della parola.
Legislazione, burocrazia, contabilità, esazione d’imposte, monopolio di Stato, giustizia imperiale, attività dei funzionari, storiografia, tutto s’iscrive nel corteo del despota» (1).
«La mano inaugura la propria funzione creando un modo di espressione grafica atto a fare da contrappeso al linguaggio verbale. La mano diventa cosi creatrice di immagini, disimboli non direttamente dipendenti dallo svolgimento del linguaggio verbale, ma realmente paralleli. In questa fase si costituisce un linguaggio «mitografico» perché la natura delle associazioni mentali a cui dà luogo è d’ordine parallelo a quella del mito verbale, estraneo a una rigorosa specificazione delle coordinate spazio-temporali. La scrittura, nella sua prima fase, conserva una gran parte di questa visione pluridimensionale; continua a essere capace di suscitare immagini mentali non imprecise ma aureolate e tali da muoversi in varie direzioni divergenti» (Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola I. Tecnica e linguaggio, Il gesto e la parola II. La memoria e i ritmi, Op. cit., p. 245).
«Comunque sia, il simbolismo grafico gode, rispetto a linguaggio fonetico, di una certa indipendenza; il suo contenuto esprime nelle tre dimensioni dello spazio quello che il linguaggio fonetico esprime nell’unica dimensione del tempo. La conquista della scrittura consiste appunto nell’avere fatto entrare, grazie all’uso del sistema lineare, l’espressione grafica in una completa subordinazione all’espressione fonetica. Al livello in cui ancora ci collochiamo, il legame che unisce il linguaggio all’espressione grafica è coordinativo e non subordinativo. L’immagine possiede cosi una libertà dimensionale che mancherà sempre alla scrittura; può dare il via al processo verbale che arriva alla narrazione di un mito, non vi è legata e il suo contesto sparisce con il narratore. Questo spiega l’abbondanza e la diffusione dei simboli nei sistemi situati al di qua della scrittura lineare».2
Alla coppia di elementi, vocale e grafico, si aggiunge il terzo elemento visivo, “l’occhio”, che non legge ma vede la parola. Parole, corpi, immagini, formule, cose, affetti, voci, grafie presi in un nesso, in una rete visiva, in un uso polivoco. Nel regime di connotazione, in cui la parola non può valere come segno indipendentemente dal grafo, ovvero, da sola non costituisce il segno, e in cui il grafo fa segno sempre con la cosa designata, si estende una rete di rimando e rimbalzo da un elemento all’altro che non si riflette in un voler-dire (significato) e che non soggiace ad alcuna organizzazione astratta, codificata e universale della lingua (Significante).
Nella testualità di Giuseppe Talìa rinvengo una dualità-scissione tra la voce e la grafia, che affiora ad evidenza nella organizzazione del punto e nella stratificazione degli intervalli, veri e propri salti, temporali e spaziali della versificazione. Questa antica scissione duale continua a convivere nei testi in modo conflittuale: la voce sembra non corrispondere alla grafia, e viceversa. Lo svolgimento claudicante, la zoppìa dei testi nascono appunto da questa convivenza forzata.
L’importante è per Giuseppe Talìa uscire fuori della gabbia dorata della concezione narrativo-rappresentativa del Conscio e dell’Inconscio, ma per quest’obiettivo occorre munirsi di una gran quantità di combustibile, cambiare il motore argomentativo, procedere contro vento, senza reti di sicurezza, cambiare i registri della voce e della grafia così come sono stati veicolati nella scrittura grafica della poesia italiana e occidentale, conferire alla voce la priorità sulla grafia…
1 Leroi-Gourhan, Le Geste et la Parole I, Technique et Langage, Parigi, A. Michel, (coll. Sciences d’aujourd’hui), (1964), Le Geste et la Parole II, La Mémoire et les rythmes , Parigi, A. Michel, (coll. Sciencesd’aujourd’hui), (1965); tr. it. di F. Zannino, Il gesto e la parola I. Tecnica e linguaggio, Ilgesto e la parola II. La memoria e i ritmi, Einaudi, Torino 1977.
2 Ivi, p. 234.
caro Giuseppe Talìa,
certo il tuo esperimento va portato avanti, si nota che stai mettendo a punto i ferri del chirurgo e ti stai mettendo il gioco. La ricerca è l’unico modo per andare avanti con autenticità e coraggio senza ripetersi come fanno in genere tutti i timidi.
La distanza tra la voce e il grafema, lì c’è una miniera da sondare.
Complimenti.
Le miniere sono profonde. Dunque parlate di nulla e orizzontalità per esorcizzare una paura? Basterebbe solo ammettere che state cercando ispirazione per scrivere, dipingere, ecc., senza complicare l’evidenza. La poesia deve essere alimentata da un pensiero, da una tensione verso una meta. Nessuno che senta l’impulso a creare può accettare di essere ridotto a scarto: nella desolazione di un mondo fondato sul profitto che relega ai margini l’arte e la letteratura riducendole a prodotti di consumo, l’artista e lo scrittore, laddove siano mossi da una tensione creativa autentica, per necessità reagiscono. Sperimentare il nuovo per il nuovo tuttavia, se non c’è pensiero capace di sondare la profondità, si riduce a gioco formale. Inessenziale, quindi. La ricerca in fisica teorica è vitale e ricca di novità (Quantum Gravity, Quantum Information), come la ricerca filosofica, specie laddove tenta una riflessione sul significato delle scoperte scientifiche e a sua volta ne alimenta l’evoluzione. Non basta citare filosofi e fisici per essere moderni e capaci di ricerca: bisogna avventurarsi nella miniera. È lì che serve coraggio, soprattutto conoscenza della materia. Altrimenti si riduce l’arte e la scrittura a sterili manierismi stilistici, illudendosi di essere nel nuovo e stigmatizzando come timidi tutti coloro che, pur timorosi del buio, stanno comunque cercando di attivare una luce per diradarlo e sondarne la profondità.
caro Claudio Borghi,
ti dedico questa mia poesia, di alcuni anni fa.
Preambolo del Signor K. «La «nuova poesia ontologica»?,
suvvia Cogito, siamo seri…»
https://lombradelleparole.wordpress.com/…/…/comment-page-1/…
Il treno è in viaggio. Porta soldati con l’elmo a punta.
Verso il fronte russo.
Il Signor K. siede nel vagone ristorante,
ha con sé la valigetta diplomatica.
Cogito ha nella tasca interna della giacca
la fotografia di Enceladon.
[…]
Il Signor K. misurò con ampi passi lo spazio del vagone ristorante.
«L’ideale sarebbe far fuori i tipi come Lei, Cogito,
Voi siete dei rompiscatole, con tutto il rispetto
per il vostro ruolo.
La bellezza di Enceladon? Suvvia, Cogito, non sia ridicolo.
Che vuole, sarebbe semplice per me
Far premere il grilletto da uno dei miei sodali,
ma, sarebbe, appunto, eccessivamente ludico,
Ed io detesto le soluzioni finali, preferisco, invece,
complicare ciò che è semplice.
Giocare con Lei, Herr Cogito, tutto sommato, mi diverte,
è come il gioco con il gatto e il topo.
Del resto, in fin dei conti, l’arte è un’attività onanistica.
Ha qualcosa dello specchio da toeletta, ma rammenta
Lo specchio ustorio…
Qualcosa di… dis…dicevole…».
[…]
«A cosa devo la sua visita?», chiede Cogito sopra pensiero
mentre fuma un sigaro italiano.
«Kyrie Eleison, Signor Cogito, Lei è un irriducibile imbrattacarte.
Pensi che adesso, a Londra, sotto il Blackfriar Bridge, pende il corpo di un impiccato.
Chi l’ha impiccato? Oh, bella questa! Suvvia, Cogito
non sia maleducato…»
[…]
«Ecco, diciamo – riprese il Signor K. –
che interverrò, di persona,
Di quando in quando, a secondo dei miei umori atrabiliari
negli eventi del mondo.
Lei, Mario Gabriele, Marie Laure Colasson e gli altri sodali?
Sì, penso che possiamo prendere un caffè, insieme.
La «nuova poesia ontologica»?,
suvvia Cogito, siamo seri…
Mi congedo. E mi prendo la libertà di comparire.
E scomparire.
Di quando in quando…»
Credo di dover interpretare questo testo (ti ringrazio per la dedica) all’insegna del Lasciatemi divertire di Palazzeschi. Se le cose stanno così, liberissimo, ovviamente, anche se il tuo gioco è un po’ ambiguo, oscillando tra il divertimento similcomico e l’eccesso di serietà e ostentazione culturale, il comparire e lo scomparire, il prendersi troppo e il non prendersi per niente sul serio…Forse se chiarissi a te stesso cosa vuoi sarebbe meglio. Buon lavoro
caro Claudio Borghi,
«la pagliuzza nel tuo occhio è la migliore lente di ingrandimento» (Adorno)
Vedo quello che posso. Abbi pazienza.
Caro Claudio Borghi,
le parole di Marie Laure Colasson hanno avuto su di te un effetto dirompente. Lo leggo nel tremolio del tuo scritto.
Siamo in miniera, attrezzati, per nuovi filoni d’oro o di rodio, un metallo quest’ultimo particolarmente raro e di difficile estrazione.
caro Giuseppe Talìa,
quello che leggo della tua ricerca poetica mi convince della serietà della tua impresa. Senza ricerca non c’è poesia che tenga, la poesia non viene gratis a chi sta in attesa estatica del Verbo. La poesia, l’arte è costruzione, impegno, ricerca, è anche passi falsi, cadute, errori… la si raggiunge anche tramite gli errori. La foto in alto nel post che raffigura i transistor e gli alambicchi, i semi conduttori di una vecchia radio scoperchiata, rende bene l’idea dei nostri materiali: i vecchi semi conduttori, le micro resistenze elettriche, i transistor dismessi, quelli sono i materiali con cui si può fare oggi poesia nuova, appunto, ripescando vecchi materiali dismessi. Appunto la repechage de la dépence.
Comunicato
Per un errore del sistema wordpress sono apparsi i post riguardanti un inedito di Mario Gabriele e “Compostaggi” di Mauro Pierno. Comunico che i rispettivi post usciranno rispettivamente il 3 e il 1 dicembre.
Mi scuso per l’inconveniente.
L’Amministratore
Giorgio Linguaglossa
giorgio linguaglossa
26 novembre 2020 alle 12:36
Ricevo e pubblico questo scritto di Giuseppe Talìa.
Caro Giorgio,
grazie per aver postato le poesie. Mi sto riprendendo e, partendo dalla poesia, ho ricominciato a scrivere. Cerco di rientrare nel dibattito, che ho potuto seguire poco, causa (?).
La gallina Nanin, l’opera geniale di Lucio Mayoor Tosi, pittore.
La poetry kitchen del ketchup sui kellog’s di M. Mario Gabriele.
La metastasi di Paolo Intini.
La metastasi di Intini viene dopo il colpo di pallottola
di Rago. Commissariati e geishe.
Di Marie Colasson apprezzo la ricerca della luce.
Tra le sue forme, alcuni semicerchi mi sembrano delle lampade nell’oscurità.
Il capitolo, la stanza n. 5 (dialogo tra il Sig. K. E Cogito), contenuto in niente, “Ingehaltenheit in das Nichts, da dove prende dimora il nulla.
L’intrattenimento, nella stanza, la tazzina di caffè che prende il volo e la giacca lisa a quadretti.
Il problema del soggetto, si mischia al problema tempo.
Si risolvono nella classificazione dei personaggi, ventidue bettole aperte sulla via.
Di latta e non di ottone, il suono.
Possono esserci favole senza “caratteri”, dice Aristotele, ma non potrebbero esserci caratteri senza favola. Le azioni. Il gioco. I due attanti, Re di spade e di re di denari.
L’accetta e il cappio. (vecchia usuraia e sorella) (comunicazione narrativa)
Nel salto di una azione all’altra, la dialogia () tra un frame e l’altro è funzionale: attese la risposta del filosofo. La vita.
Segue rubbish, scarti, un dente d’oro.
Ecco, il dente d’oro è una metafora brillante.
Nascosta nel tritume. Attraversata dalla luce fuori contesto.
Chopin e la Lola fa molto arredamento.
“Il nostro compito è tracciare le linee interne delle cose.”
E si va nella dimensione dell’apertura dello scrigno.
Quale metafisica? La metafisica di K. Che va in vacanza,
oppure la metafisica di Cogito. Il senso del mondo e nel mondo fuori.
La scena sul finale è costellata di sinestesie (mento leporino),
peritrope, come la metafora distorta; la questione del falso.
A partire dall’esame dei concetti, così come teorizzato nel Teeteto.
Ai soggetti principali, si aggiungono i loro interlocutori. (uccellino).
L’anafora sta nella scacchiera dell’ultimo blocco.
“sistemare la carta nel vassoio. Dove l’iterazione
dell’oggetto obbedisce alle azioni del soggetto in quanto il soggetto viene informato dall’oggetto stesso.
Il sigillo finale. Cesare. E una doppia metafora con triplo avvitamento.
(Giuseppe Talìa)
Ringrazio vivamente i contributi fin qui dati dai colleghi e compagni di viaggio. Pochi, ma ottimi.
Mi fa piacere che Gino Rago scriva del “posto preciso e personale della poetry kitchen e della NOE. Quest’ultima fa arricciare il naso a parecchi, segno che dà fastidio.
Queste pagine eleganti della rivista l’Ombra, ricche di contenuti e di sollecitazioni, potrebbe parere a qualcuno che dettino una via maestra da cui non si prescinde. Il punto non è questo. Il punto è che, penso, la rivista stia operando un rinnovamento che è sotto gli occhi di tutti. Sebbene non si voglia accettare, ancora con pienezza di diritto, non si può negare che l’opera di ricerca della rivista abbia quantomeno posto delle difficoltà e delle preoccupazioni che i più attenti, anche al di fuori della rivista, stanno lentamente mettendo in discussione.
E’ compito morale degli intellettuali mettere in discussione e fare ricerca.
Ringrazio Marie Laure Colasson.
Nella catena metonimica il ruolo decisivo è svolto dal Significante.
Nel rapporto di significazione, il significante svolge un ruolo fondamentale e le caratteristiche generali del segno derivano proprio da esso. Il significante ha una linearità, spaziale e temporale, si ordina in una catena, deve necessariamente e strutturalmente rinviare ad altri significanti, e ad altri segni, mette in atto tra essi un rapporto di reciproca opposizione (negazione), ed è arbitrario rispetto al reale.
Inoltre, nel sistema di funzionamento della lingua, il rapporto di significazione, che ha come correlato il significato, si mostra come un rapporto di sistematizzazione sottratto alle facoltà del soggetto.
Lacan radicalizza l’algoritmo di Saussure affermando la dipendenza del significato dal significante in S/s, ove “S” è il significante e “s” ilsignificato. Come si evince dalla formula, egli afferma la supremazia dell’ordine simbolico del significante sul contenuto mentale del significato, che è dipendente dal prodotto di concatenazione tra diversi significanti. La posizione di sovranità del significante, il suo dispotismo, si esprime in Lacan nel fatto che «è il significante che genera la realtà, plasma le cose inscrivendole nel quadro della realtà, determina l’essere dell’uomo come un essere gettato, impregnato, preso nel suo ingranaggio».1
Nei termini de L’Anti-Edipo (1972) il significato, nella struttura del segno, è surcodificato dal significante e l’uomo è surdeterminato dalla presa del significante; è il linguaggioche scava la mancanza nel soggetto. L’ordine del simbolico – del significante del linguaggio e del significante fallico del desiderio – è, per Lacan, simbolo di un’assenza, e testimonia di un vuoto costitutivo. La dipendenza dell’uomo dalla struttura del significante, dal suo ordine simbolico è totale ed esprime la mancanza ad essere che lo caratterizza come essere parlante gettato nel linguaggio.
Lacan mostra la subordinazione del significato al significante, la sua dipendenza costitutiva, che il soggetto subisce in modo traumatico. È la
testimonianza della scissione del soggetto per effetto dell’azione del significante: il soggetto è diviso dall’azione del significante poiché fa fluttuare costantemente sotto la sua barra un significato, effetto della catena del significante, che sfugge alla sua presa, in quanto non può essere afferrato come un oggetto semplicemente presente, e non può essere entificato poiché elude la presenza. Questa scissione costitutiva della soggettività, in forza di un linguaggio trascendente, in forza della sua legge ove significante e significato sono separati, è ciò che impedisce al soggetto di cogliere il proprio essere come qualcosa di dato e identificabile. «Piuttosto, come effetto di significato della concatenazione significante, il soggetto si trova sempre preso tra due significanti, rinviato, sospeso tra l’uno e l’altro».2
Lacan vede lo stesso soggetto come un effetto di significato della catena significante.
Il fuori-senso del linguaggio poetico della poetry kitchen ha questo di vero: è ciò che garantisce il senso al significato e al significante, il non-elemento circolante nella struttura del linguaggio capace di produrre il senso.
1 M. Recalcati, Jacques Lacan, Desiderio, godimento e soggettivazione, Raffaello Cortina,Milano 2012, cit., p. 112.
2 Ivi, p. 114
Il caffè nero di Poincarè
Ogni giorno rimanevo seduto a tavolino, provavo un gran numero di combinazioni e non arrivavo a nessun risultato. Una sera,contrariamente alle mie abitudini, bevvi una tazza di caffè nero, e non riuscii a prendere sonno: le idee scaturivano in una ridda, le sentivo quasi cozzare le une con le altre, fino a quando due di esse non si agganciavano a formare una combinazione stabile. Al mattino, avevo stabilito l’esistenza di una classe di funzioni fuchsiane. Non mi restava altro da fare che mettere per iscritto i risultati.
Jules-Henri Poincarè (1914)
Il gracchio del corvo
Una mattina dormivo beatamente quando, all’improvviso, sentii distintamente il gracchio di un corvo. Mi alzai immediatamente, andai al computer, lì c’era una mia poesia, e inserii il verso:
Il gracchio del corvo.
Era quello che mancava alla poesia.
Sulla poetry kitchen
Lo ha fatto Linguaglossa nella sua composizione Stanza n. 5, Dialogo tra il Signor K e Cogito, lo abbiamo fatto anche noi, dallo scrivente a Mario Gabriele, da Marie Laure Colasson ad Ewa Tagher, da Guido Galdini a Lucio Mayoor Tosi, da Francesco Paolo Intini a Pino Gallo, e lo sta facendo anche Giuseppe Talìa, e cioè
porre la questione della «valenza ontologica» del linguaggio, e il tema della poesia come evento e istituzione di nuovi mondi.
Per questo compito occorre un nuovo linguaggio e un nuovo concetto della poiesis.
Di qui il rigetto della tanto diffusa quanto limitante idea del linguaggio poetico epigonico e l’idea di un nuovo paradigma inteso come una nuova comunicazione all’interno di un grande patto comunicativo tra l’autore e il lettore.
La poetry kitchen è l’ultimo stadio della nuova fenomenologia estetica, fase avanzata di un nuovo paradigma e della rottura del «patto comunicativo» poeta-lettore del novecento poetico italiano fondato sulla idea di soggetto logologico che presuppone la «monade individuale» come soggettività autosufficiente in un regno chiuso su sé stesso.
Nella nuova poesia il soggetto è decentrato e frammentato, lo spazio e il tempo sono presenti non dal punto di vista di un soggetto centrale panottico ma da disparati punti di vista che, tutti insieme, reclamano un nuovo modo di vedere il reale.
(Gino Rago)
caro Claudio Borghi,
il segreto della ricerca che stiamo portando avanti sta nel fatto che ciascun poeta deve trovare in essa ciò che può essere utile allo sviluppo della propria poesia. La poetry kitchen proviene dalla ricerca di una nuova ontologia estetica o fenomenologia del poetico, dalla ricerca di un nuovo paradigma. Senza ricerca non esiste poiesis ma accademia, conservazione di posizioni politico-letterarie. E noi non abbiamo niente da perdere perché non occupiamo nessuna posizione politico-letteraria. Forse questo è il nostro punto di forza, o di debolezza, non saprei.
Vedi, caro Claudio, nei tuoi interventi leggo solo disquisizioni generiche, ma mai che per una volta tu scendessi all’esame delle singole poesie proposte. Tu ti astieni dicendo che non sei un critico etc. etc. Ma, caro Claudio, nessuno di noi è Gianfranco Contini né Jakobson, e poi per fare un semplice commento non c’è bisogno di scomodare Jakobson o Tynianov, è invece un esercizio utile, anzi, indispensabile per farsi le ossa da letterato, nessuno nasce imparato.
Lucio Mayoor Tosi scrive:
«Ieri, questi versi di Giuseppe Talìa: “Eccomi. Sono di ritorno. Da un lungo viaggio. / Il fuoco nel caminetto. Arde”. Questi due versi contengono la pillola che accorcia il sonno ai defunti: il punto. Che è stop-al parlante ( a Talia ne sono serviti cinque, da Eccomi al fuoco che arde). Emoji. Ma era per dire che gli strumenti ci sono tutti.»
Ecco, già nell’uso del punto si capisce che Talìa è impegnato nel lavoro di destrutturazione della sonorità ampia e fluente della versificazione accademica e istituzionale. Il punto divide, spezza, frantuma il frantumabile. Il punto è uno schiacciasassi difficilissimo da usare, più semplice è lasciar scorrere la versificazione alla maniera epigonica, come fanno tutti. Questo sì che è un modo facile facile di scrivere poesia.
L’operazione di significazione è sempre un’azione rappresentativa e repressiva: tutte le catene dell’inconscio vengono sistematizzate, bi-univocizzate, linearizzate, rese dipendenti dal linguaggio significante, che concatena gli elementi secondo effetti di significazione. L’imposizione dell’ordine simbolico sistematizza le catene inconsce irrigidendole in un significato già stabilito. La nostra ricerca prende atto del collasso dell’ordine Simbolico, anzi, prefigura, pre-orienta il collasso, lo agevola, perché soltanto mostrando il collasso della significazione la poiesis può trovare la propria via di sviluppo.
La mia sensazione è che non vi vogliate confrontare sulla poetica intorno alla quale, pur con diverse personalità, vi riconoscete. L’unico che ha colto il senso del mio intervento è stato Mario. Giuseppe e Giorgio vorrebbero riaprire l’antico teatrino. Non ho chiaramente intenzione di farlo, di ricadere nel gioco (trito, ritrito) della provocazione. E nessun rodio, nessun tremolio della mano, tranquillo, Giuseppe: in ogni caso, complimenti per la tua inventiva verbale. Un saluto e un augurio di buon lavoro, a tutti voi.
“In ogni caso, complimenti per la tua inventiva verbale. Un saluto e un augurio di buon lavoro, a tutti voi.”
Bastava questo, fin dal principio, caro Claudio. Nessun teatrino. E’ da una settimana che posto messaggi e note. Cosa vuoi che ti dica di più della poetica che anima la rivista? Ci sono fiumi di pagine e da diversi anni.
Caro Claudio Borghi,
siamo contenti che Lei ci segua, che continui a seguirci e che di tanto in tanto irrompa, nei dibattiti, veicolando su L’Ombra delle Parole idee, meditazioni, riflessioni che, come effetti di un sasso nello specchio di una sostanza liquida, sono in grado di determinare moti a cerchi concentrici,
ma temiamo che sia difficile, se non impossibile, far capire cos’è davvero il mare per il pescatore o per il marinaio a chi pensa che il mare sia soltanto una distesa d’acqua salata.
Per noi, è fondamentale
– La questione della poiesis come positura di «significati»
In fin dei conti, pensiamo così perché le «cose» sono andate così.
Per l’ermeneutica contemporanea, sapere le «cose» significa porre in luce significati a partire da presupposti che restano in ombra. Vale a dire, ogni «significato» (in senso ampio: concetto, definizione, interpretazione, rappresentazione, visione del mondo, teorie, ideologie), si ritaglia su uno sfondo; ciò che l’ermeneutica chiama «precomprensione», ovvero, pregiudizi impliciti, tacite assunzioni, sensi inavvertiti, condizionamenti grammaticali, sociali, affettivi e culturali che pre-orientano e pre-determinano ogni nostra percezione e conoscenza del mondo. Gli oggetti e i contenuti del sapere sono dunque sempre storicamente determinati, relativi a categorie e paradigmi che ne forniscono la cornice non visibile e il contesto di senso implicito. Questa rete di rimandi sotterranei e sottintesi che costituisce la «precomprensione», non solo è non eliminabile ma è la condizione di possibilità del conoscere. Come non vi è figura senza sfondo, così non vi è significato, o contenuto di conoscenza, che si stagli in piena luce se non a partire da un insieme di premesse sulle quali il nascente bagliore proietta la propria ombra.
Con l’ermeneutica, il sogno di una conoscenza priva di presupposti, in grado di esibire il fondamento, il proprio terreno di validità, si è dunque definitivamente infranto, portando a ridiscutere la natura e il senso del sapere stesso. L’esercizio della conoscenza viene delineandosi – heideggerianamente – come uno svelare velando attraverso un gioco di luci e di ombre. Lo stesso atto di svelamento getta oscurità dietro di sé, velando la propria origine e condizione di possibilità. Questo gioco di luci e ombre è, per l’ermeneutica, il modo in cui la conoscenza accade; il movimento, la dinamica stessa del conoscere. Anche l’esercizio della poiesis è iscritto nella stessa dinamica: essa è un porre «significati» attraverso il gioco di rimandi tra luci e ombre.
Porre in luce dei «significati» a partire da presupposti che restano in ombra, questo è il compito proprio della poiesis. Le conclusioni che la poiesis mette in luce, proprio in quanto messe in luce, sono evidentemente un significato, il cui fondamento, retrocedendo sullo sfondo, non può essere esibito. Anche l’attività ermeneutica accade, cioè, a partire dall’ombra e anche laddove essa volesse far luce dietro di sé, sulla propria zona in ombra, di nuovo, illuminando, proietterebbe l’ombra dietro di sé. Le conclusioni dell’ermeneutica si trovano dunque catturate entro la stessa dinamica che vorrebbero indicare e chiarire. Questo paradosso è la sfida che si pone al pensiero contemporaneo e con cui si trova a doversi confrontare la riflessione teoretica successiva a Heidegger.
*
Noi tendiamo, tutti insieme, Mauro Pierno e lo scrivente, Francesco Paolo Intini e Mario Gabriele, Giorgio Linguaglossa e Pino Gallo, Guido Galdini e Giuseppe Talìa, Ewa Tagher e Marie Laure Colasson, e altri e altre che stanno lavorando silenziosamente verso la poetry kitchen, a muoversi
– Verso una critica della economia poetica del segno.
Il design moderno si struttura secondo relazioni metonimiche che rimandano sempre ai propri elementi, senza tradire alcun tipo di trascendenza metaforica tipica della abitazione tradizionale. Così, gli oggetti passano dalla sussunzione di un mondo di significati stabili a livello profondo ad una codificazione autoreferenziale basata esclusivamente sulla logica dei significanti. L’abitazione domestica, un tempo focalizzata verso il centro dalla presenza degli specchi in ordine concentrico, smarrisce la propria visione unitaria nella separazione delle unità di ogni stanza, perde il proprio focus, il proprio significato simbolico profondo. Il battito segnato dal rintocco dell’orologio antico significava il valore positivista della storia che si rifletteva nel successo sociale della famiglia borghese. Nella abitazione moderna invece l’oggetto antico non significa il tempo reale della storia ma quello della storialità, il tempo della moda (l’attrazione fatale per il presente assoluto) e del design. Il riferimento è esclusivamente alla logica autoreferenziale del consumo. Qualsiasi trascendenza è abolita, sostituita da un calore funzionale, freddo in conseguenza della mancanza di una reale fonte di calore. È questa per esempio la logica di significazione dei colori nel design di interni – una logica di differenze interne al sistema stesso,una catena di significazione costruita sulla superficie dei significanti.
*
Noi, nel rispetto delle altrui esperienze poetiche, lavoriamo su ciò che sentiamo essere
– La nuova poesia
Nella nuova poesia il sistema relazionale dei significanti non si struttura secondo la logica della colonna sonora ma tende ad assumere la relazionalità tipica dei segni, la semantica tende a retrocedere a semiotica, a sistema di segni freddi e autoreferenziali. Questa economia politica del sistema poetico è qualcosa con cui la nuova poesia deve fare i conti, la nuova poiesis non può sottrarsi a questa responsabilità, anzi essa tende sempre più a posizionarsi in base al sistema raffreddato dei segni come proprio habitat reale, in una sorta di spaesamento strutturale dei significanti che tendono a retrocedere a segnaletica significante, ad auto illusione, ad atto magico, al rinvio ad una esistenza che risponde alla logica di atti illusori, ad una vita che è diventata undimensionale, superficiaria, una vita che è retrocessa a «nuda vita».
È nota la tesi di Adorno circa il carattere di immagine di ogni opera d’arte che «è res che nega il mondo delle res». La res che la poiesis pone è una posizione di significati che negano le res dei significati cosificati del mondo delle res. Adorno accenna a questa posizione oppositoria, di inconciliabilità che si instaura tra le res della poiesis e le res dei significati reificati dell’ontologia sociale. È da qui, da questo filo conduttore che dobbiamo proseguire nella nostra riflessione sulla nuova poiesis.
Anche Heidegger, nel saggio su L’origine dell’opera d’arte, parla del carattere di «cosa» dell’opera d’arte. Ma la differenza è che Adorno pone grande insistenza sulla sua natura di «immagine» delle res propria della poiesis.
Scrive Adorno:
«Come “apparition”, come manifestazione e non come copia, le opere d’arte sono immagini. Se attraverso il disincanto del mondo la coscienza si è liberata dell’antico brivido, questo si riproduce però permanentemente nell’antagonismo storico di soggetto e oggetto. L’oggetto è divenuto così incommensurabile, estraneo, pauroso all’esperienza, come una volta fu solo il Mana. Se l’apparition è lo sfavillio, l’esser toccato, allora l’immagine è il tentativo paradossale di avvincere questo massimo di fuggevolezza. Nelle opere d’arte un elemento momentaneo arriva alla trascendenza; l’obiettivazione rende l’opera d’arte attimo».1
*
1 Th. W. Adorno, Teoria estetica, a cura di E. De Angelis, Torino, Einaudi 1975, pp.121-122
*
(dall’ editoriale de Il Mangiaparole, n.11, di Gino Rago e Giorgio Linguaglossa)
*
Gino Rago
Noi tendiamo, tutti insieme, Mauro Pierno e lo scrivente, Francesco Paolo Intini e Mario Gabriele, Giorgio Linguaglossa e Pino Gallo, Guido Galdini e Giuseppe Talìa, Ewa Tagher e Marie Laure Colasson, e altri e altre che stanno lavorando silenziosamente verso la poetry kitchen, a muoverci
– Verso una critica della economia poetica del segno.
Il design moderno si struttura secondo relazioni metonimiche che rimandano sempre ai propri elementi, senza tradire alcun tipo di trascendenza metaforica tipica della abitazione tradizionale. Così, gli oggetti passano dalla sussunzione di un mondo di significati stabili a livello profondo ad una codificazione autoreferenziale basata esclusivamente sulla logica dei significanti. L’abitazione domestica, un tempo focalizzata verso il centro dalla presenza degli specchi in ordine concentrico, smarrisce la propria visione unitaria nella separazione delle unità di ogni stanza, perde il proprio focus, il proprio significato simbolico profondo. Il battito segnato dal rintocco dell’orologio antico significava il valore positivista della storia che si rifletteva nel successo sociale della famiglia borghese. Nella abitazione moderna invece l’oggetto antico non significa il tempo reale della storia ma quello della storialità, il tempo della moda (l’attrazione fatale per il presente assoluto) e del design. Il riferimento è esclusivamente alla logica autoreferenziale del consumo. Qualsiasi trascendenza è abolita, sostituita da un calore funzionale, freddo in conseguenza della mancanza di una reale fonte di calore. È questa per esempio la logica di significazione dei colori nel design di interni – una logica di differenze interne al sistema stesso,una catena di significazione costruita sulla superficie dei significanti.
*
Noi tendiamo, tutti insieme, Mauro Pierno e lo scrivente, Francesco Paolo Intini e Mario Gabriele, Giorgio Linguaglossa e Pino Gallo, Guido Galdini e Giuseppe Talìa, Ewa Tagher e Marie Laure Colasson, e altri e altre che stanno lavorando silenziosamente all’interno della NOE
verso la poetry kitchen, rigettando la tanto diffusa quanto limitante
– idea del linguaggio poetico epigonico;
– l’idea di un paradigma inteso come comunicazione all’interno di un grande patto comunicativo tra l’autore e il lettore,
nella presa d’atto che
– La poetry kitchen è l’ultimo stadio della nuova fenomenologia estetica, fase avanzata di un nuovo paradigma e della rottura del «patto comunicativo» poeta-lettore del novecento poetico italiano fondato sulla idea di soggetto logologico che presuppone la «monade individuale» come soggettività autosufficiente in un regno chiuso su sé stesso.
Perché noi siamo consapevoli che
– Nella nuova poesia il soggetto è decentrato e frammentato, lo spazio e il tempo sono presenti non dal punto di vista di un soggetto centrale panottico ma da disparati punti di vista che, tutti insieme, reclamano un nuovo modo di vedere il reale.
*
Gino Rago
*
Gentile Gino Rago, la ringrazio molto per questa delucidazione garbata ed esaustiva. Vorrei precisare che il mio irrompere non nasce mai da una provocazione fine a se stessa, piuttosto, come lei opportunamente riconosce, proponendo delle idee, laddove certe reazioni sono sempre improntate a una provocazione di ritorno, non di rado solo ironica o liquidatoria. Preciso altresì che non è mia intenzione giudicare testi poetici, a maggior ragione in quanto mi sembrano, pur nel rispetto delle caratteristiche espressive e delle capacità creative delle rispettive individualità, troppo tesi a delineare una poetica improntata ad un’”originalità a tutti i costi”, per quanto in divenire e ricca di interessanti implicazioni filosofiche, sociologiche, scientifiche, ecc. Un testo poetico richiede meditazione e visione complessiva, che circa gli autori singoli io non possiedo. Concludo rinnovando l’augurio per il vostro lavoro e la passione innegabile che lo anima. I miei interventi offrono in ogni caso spunti di riflessione che credo meritino attenzione. Un abbraccio
caro Claudio Borghi,
tu scrivi: «Preciso altresì che non è mia intenzione giudicare testi poetici».
Se ti astieni a priori dal giudizio, cosa rimane?
La tua è una posizione ponziopilatesca, ti lavi le mani dal «giudizio» che sporca, che compromette… ti astieni dal prendere una posizione.
Poi lanci una frecciatina malevola: «una poetica improntata ad un’”originalità a tutti i costi”».
Insomma, tiri il sasso e nascondi la mano.
Leggi tutto quello che ho scritto, non estrapolare. Ti renderai conto che ho fornito una giustificazione molto precisa circa il fatto di esimermi dall’esprimere giudizi. La poesia richiede lunga meditazione, silenzio, solitudine, tutto il contrario di quello che accade nei blog. Questo intendevo anche nei miei interventi passati. Tutt’altro dal gettare il sasso e togliere la mano. Quando vorrai entrare nel merito specifico dei miei interventi e sarai disposto a discutere, sarò ben felice di farlo, così non ci sono le condizioni. Con questo sospendo le trasmissioni.
In Compostaggi di Mauro Pierno, come nelle mie “pallottole” e nelle “Vicissitudini di Nanin, la gallina della cover dell’Antologia Poetry Kitchen”, come anche in tutte le composizioni-dialoghi di Giorgio Linguaglossa, di Mario Gabriele, di Lucio Mayoor Tosi, di Giuseppe Talìa, di Marie Laure Colasson, oltre che nelle composizioni di Francesco Paolo Intini, di Ewa Tagher, di Pino Gallo, di Guido Galdini e come soprattutto in Maria Rosaria Madonna, sono evidenti i segni di una evoluzione che ci distanzia da tutto il
– truismario esangue della poesia dei gregari dell’umbertosabismo diaristico,
– post-serenismo minimalista dei nipotini romani e meneghini di Sereni,
– neocrepuscolarismo dell’io sconfitto,
e da tutta l’elegia del cardarellismo post-rondista, ecc.
Insomma, caro Claudio Borghi, e stavolta parlo per me soltanto, so in quale porzione di mondo desidero stare con la mia ricerca poetica che, sinceramente, in evoluzione com’essa è, non so a quali esiti possa condurrmi;
ma di sicuro conosco, e da tempo, tutte le altre porzioni di mondo nelle quali poeticamente non voglio più stare.
*
Gino Rago
L’errore di fondo che mi permetto di rilevare, caro Gino Rago, sta nel tuo (vostro) aprioristico non voler stare in certi luoghi e nel volerti distanziare da generi che ritieni obsoleti ed espressivamente tramontati, ecc. Il problema è che la poesia è la sostanza, non la forma dell’ispirazione. Una volta che c’è sostanza, la forma si trova da sé, e può essere anche non stilisticamente innovativa: basti guardare alle avanguardie, in cui l’ispirazione era vistosamente inferiore rispetto alla presunta innovazione formale, tranne in rari casi (Antonio Porta, Sanguineti, Zanzotto). È in questo volervi distanziare a tutti i costi come elemento distintivo che forse non vi rendete conto che la poesia nasce per necessità, non per volontà di espressione, non se ci si impone di stare in questo o in quel luogo, differenziandosi a priori da tutto il resto. La poesia richiede lunga meditazione prima di tradursi in scrittura, altrimenti si risolve in grafomania ed egomania.
caro Claudio,
lo capisco, è l’effetto “traumatico” del blog che ti fa un brutto effetto, ma non sei il solo…
Non il tuo blog, Giorgio, è un problema in misura più o meno accentuata di tutti i blog letterari. Mi fanno tutti più o meno lo stesso effetto. C’è un gap che non riesco a colmare tra il bisogno di silenzio e concentrazione che richiede la poesia e la sua diffusione e condivisione collettiva. C’è troppa fretta di approvare e giudicare, troppa approssimazione. È un problema mio, forse. Non ne sono capace.