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Marina Cvetaeva, Strofe da La principessa guerriera, testo russo a fronte, a cura di Marilena Rea, Sandro Teti editore, 2020, pp. 286, € 22, ISBN: 9788899918989

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Marina Cvetaeva

Prefazione di Marilena Rea

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Nell’universo Cvetaeva il poema Zar-fanciulla (Car’-devica), una fiaba in versi (poėma-skazka, recita il sottotitolo), occupa un posto cardinale. Perché venne composto nel 1920, anno di enormi privazioni, di miseria, freddo e lutto: tra memorie tracciate febbrilmente nei diari e nelle lettere, guerra civile, mercato nero, un marito al fronte e la morte della piccola figlia Irina. Perché è l’espressione più complessa di quello che Cvetaeva chiama la sua «linea russa»1 , cioè l’immaginario folclorico, epico e fiabesco – «Voi sapete quanto io ami l’arte popolare (NB! Io stessa sono il popolo!)» . E soprattutto perché è sempre stato considerato da Cvetaeva la sua «cosa migliore». In un tempo astorico e ciclico, tipico della tradizione folclorica, ripartito in tre Notti e tre Incontri fondamentali (più una breve Notte ultima e una Fine), si consumano le vicende di quattro personaggi: lo Zar ubriacone, la Zarina di seconde nozze, lo Zarevič, e lei – la protagonista assoluta: Zar-fanciulla, la principessa guerriera, la gigantessa dal nome androgino, l’amazzone russa, insieme donna e re. Suo è il regno al di là dei mari, sua è la forza ignea, suo è il dominio sugli elementi del creato; di altezza smisurata e potenza da bogatyr’ (l’eroe epico delle byliny) , principio universale maschile, simboleggia la forza attiva del Sole: ha il volto tondo e radioso che ustiona chiunque si accosti, ha una folta chioma riccioluta di un rosso infuocato, vive in un rosso palazzo, guida un Vascello di Fuoco, siede in un rosso padiglione; e, infine, agisce sempre di giorno, durante gli Incontri.
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Cvetaeva iperbolizza la principessa guerriera della tradizione, protagonista delle due fiabe russe (la n. 232 e la n. 233) raccolte in Narodnye russkie skazki dell’illustre etnologo Aleksandr Afanas’ev, un libro di fiabe ricevuto in dono nel 1915 dagli amici pietroburghesi Jakov Saker e Sofija Čackina, un libro amato, probabilmente uno di quelli con cui «mi bruceranno», scrive Cvetaeva nel 1926. Guerriera, eretica, santa, pellegrina, strega – sono tante le maschere in cui Cvetaeva racconta il suo rifiuto nei confronti del ruolo convenzionale della donna, a partire dalla lirica Se ti chiamo caro – non ti annoiare (1916), fino ai poemi coevi di Zar-fanciulla (Il Prode, Sul cavallo rosso, Vicoletti); un popolo di donne leggendarie – Pentesilea, Brunilde, Giovanna d’Arco – marcia in filigrana con lo stesso passo militare di Zar-fanciulla, finendo per sovrapporsi alla stessa Cvetaeva. Di questo mondo guerriero femminile – intriso di epos ma anche di leggende popolari e superstizioni, narrato con un inconfondibile linguaggio che si muove, nota Karlynsky, tra registri incolti e colloquiali, registri della Bibbia, dello slavo ecclesiastico e del russo antico – Zar-fanciulla porta il vessillo, con un’ostinata volontà di salvare dall’oblio quell’autentica cultura moscovita, la «Mosca dell’ultima ora e dell’ultima volta» che, con tanto orgoglio, Cvetaeva aveva regalato a Osip Mandel’štam durante il soggiorno a Mosca nel 1916.
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Rovesciando il topos dell’eroe della fiaba che parte in cerca della sposa, la Vergine guerriera solca i mari per conquistare il suo giovane sposo, lo Zarevič, un fanciullo inerte, malinconico, riottoso all’amore, dedito solo alla musica; lui rappresenta il principio lunare, e dunque femminile e agli antipodi della principessa guerriera, conservando poco dell’eroe della fiaba originale (nella n. 232, è pronto a duellare con il pretendente pur di sposare la fanciulla-re; nella n. 233, peregrina per il mondo, incontra la baba-jaga nell’izba sulle zampe di gallina e affronta le tipiche prove iniziatiche, fino a trovare l’amata e convolare a nozze con lei).  Se la sua natura celeste lo rende leggero, vaporoso, acquatico, il figlio dello Zar deve fare i conti, però, con un pesante principio terrestre: perché è di stoffa, tessile, filiforme, fruttoso, oltre che oppresso, incastrato, incatenato. Benché il suo status sia quello del son (sonno e sogno), di cui la musica non è altro che un prolungamento, lo Zarevič è l’unico personaggio che si evolve, cresce, s’invigorisce, da bambino diventa un uomo-eroe che ha superato le prove iniziatiche. Scrive Marina Cvetaeva nei diari del 1923: «Leggete Zar-fanciulla – insisto. Dov’è il senso della storia? In lei, la Guerriera, in lui, lo Zarevič, nella Matrigna, ma anche nella tragedia del mancarsi: l’amore è un passarsi accanto: Ein Jüngling liebt ein Mädchen. Ma il mio Jüngling non sa amare nessuno, sono questi gli uomini che io amo, lui ama solo la gusla, è fratello del giovane David e ancora di più di Ippolito».
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Nello Zarevič, un «figlio del Cielo», si riverberano dunque il David biblico che lenisce con la musica i tormenti di Saul, l’Orfeo che suona davanti al re degli inferi, ma anche l’Ippolito misogino che resiste crudele all’amore. Ma non a quello di Zar-fanciulla, bensì a quello della Matrigna, la Zarina. Una non-coppia incestuosa, destinata a un amore ferale come quello narrato nella Bibbia tra la moglie di Putifarre e Giuseppe, già elaborato da Cvetaeva nelle liriche Giuseppe (1917) e Sei scappato, una notte nera sei scappato (1920); oppure come la coppia mitologica di Fedra e Ippolito, immortalata nelle liriche Fedra (1923), Il sipario (1923) e nella tragedia Fedra (1927). La Matrigna, dilaniata dallo struggimento d’amore, è una donna tortuosa, sinuosa, sgusciante, è una novella Medusa simile alla principessa-serpe dell’omonima fiaba popolare. Lei è il personaggio più intenso del poema: il suo regno è la Notte, è dotata di un potere occulto misto di magia, fumo e sonno, è mezza strega e mezza ragazzina, moglie negletta e chiusa sotto chiave in un labirinto sotterraneo di sette stanze, come la bella principessa araba della Storia del visir Nur En-Din de  Le Mille e una notte (ugualmente chiusa in un labirinto e circondata da un corteo di ricamatrici, acconciatrici, cantatrici).
rivoluzione-d'ottobre

rivoluzione d’ottobre manifestazione bolscevica

Ma c’è dell’altro: la Matrigna è il ribaltamento sia della Vergine guerriera sia della Vergine Maria (si veda la nota Foce, p. 274); ha i tratti delle più crudeli donne bibliche – strappa le vesti al suo amato come la moglie di Putifarre strappava il mantello a Giuseppe, si fa statua di sale come la moglie di Lot che, violando il divieto di Dio, si volta a guardare la fine di Sodoma e Gomorra, finisce per strapparsi le vesti dopo una folle danza per avere in cambio, come Salomè, la testa del suo Zarevič. E non è ancora tutto: nella Notte ultima, dopo aver visto tornare a riva la barca vuota dello Zarevič, intona un «pianto dei salici», inconsolabile Desdemona. Fa parte dello stesso mondo ctonio e infero, in cui è rinchiusa la Matrigna, anche lo Zar, inchiodato in un locus fisso, cioè la cantina; assomiglia a un re degli Inferi, circondato da coppe, bottiglie e botti che delimitano uno spazio ben organizzato, come si conviene al mondo infero di tutte le mitologie. Lui e il suo territorio sono dominati da umidità e villosità, indici della loro natura tetra, malefica, vendicativa (si veda la nota Davanti al mercante, p. 273); il vino-sangue di cui innaffia il regno, in un delirante inno allo sfacelo e alla disgregazione (Notte terza) reso dal martellante prefisso verbale raz-ras, scatena le forze cosmiche distruttrici che si riverseranno rovinosamente su di lui nella Fine: il popolo in rivolta, esasperato da fame e soprusi, decreta la condanna a morte del re.

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7 commenti

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Analisi dei primi quattro versi di una poesia di Mario Gabriele – Quesito di Donatella Costantina Giancaspero: Qual è, a vostro avviso, il “lato debole” della rivista L’Ombra delle Parole? Risposte di Gabriele Pepe, Giorgio Linguaglossa, Gino Rago, Steven Grieco Rathgeb, Edda Conte, Anna Ventura  – Crisi della poesia italiana post-montaliana – Il «Grande Progetto» e la mancata riforma della poesia italiana del secondo Novecento. Una Poesia di Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi e Laura Canciani 

Critica della ragione sufficiente Cover Def

Giorgio Linguaglossa
19 dicembre 2017 alle 8:59

Prendiamo una poesia di nuovo genere, diciamo, una poesia della «nuova ontologia estetica», una poesia di Mario Gabriele, tratta dal suo ultimo libro, In viaggio con Godot (Roma, Progetto Cultura, 2017).

Propongo delle considerazioni che improvviso qui che non vogliono avere il carattere di una critica esaustiva ma di offrire indizi per una lettura. Analizzo i primi quattro versi.

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Il tempo mise in allarme le allodole.
Caddero èmbrici e foglie.
Più volte suonò il postino a casa di Hendrius
senza la sirena e il cane Wolf.

Un Giudice si fece largo tra la folla,
lesse i Codici, pronunciando la sentenza.
– Non c’è salvezza per nessuno,
né per la rosa, né per la viola -,
concluse il dicitore alla fine del processo.

Matius oltrepassò il fiume Joaquin
mantenendo la promessa,
poi salì sul monte Annapurna
a guardare la tempesta.

Un concertista si fece avanti
suonando l’Inverno di Vivaldi,
spandendo l’ombra sopra i girasoli.

Appassì il campo germinato.
Tornarono mattino e sera
sulle città dell’anima.
Suor Angelina rese omaggio ad Aprile
tornato con le rondini sul davanzale.
Restare a casa la sera,
calda o fresca che sia la stanza,
è trascorrere le ore in un battito d’ala.

Si spopolò il borgo.
Pianse il geranio la fine dei suoi giorni.
Fummo un solo pensiero e un’unica radice.
Chi andò oltre l’arcobaleno
portò via l’anima imperfetta.

Nostra fu la sera discesa dal monte
a zittire il fischio delle serpi,
il canto dei balestrucci.

Chiamammo Virginia
perché allontanasse i cani
dagli ulivi impauriti.

Robert non lesse più Genesi 2 Samuele,
e a durare ora sono le cuspidi al mattino,
la frusta che schiocca e s’attorciglia.

Gli enunciati della poesia hanno una informazione cognitiva ma sono privi di nesso referenziale, hanno però una rifrazione emotiva pur essendo del tutto privi di alone simbolico. Ci emozionano senza darci alcuna informazione completa. Ci chiediamo: come è possibile ciò? Analizziamo alcune frasi. Nel verso di apertura si dice che «il tempo mise in allarme le allodole». Qui Gabriele impiega una procedura antifrastica, le «allodole» sono in allarme non per qualche evento definito ma per un evento indefinito e impalpabile, è «Il tempo» qui l’agente principale che mette in moto il procedimento frastico, infatti il secondo verso ci informa che «Caddero èmbrici e foglie», il che è un paradosso linguistico perché non c’è alcuna connessione logica tra «embrici» e «foglie», e non c’è neanche alcuna connessione razionale, si tratta evidentemente di un enunciato meramente connotativo che ha risonanza emotiva ma non simbolica, anzi, l’enunciato ha lo scopo di evitare del tutto qualsiasi risonanza simbolica, lascia il lettore, diciamo, freddo, distaccato e sorpreso. Nella poesia di Mario Gabriele gli enunciati sono sempre posti in un modo tale da sconvolgere le aspettative di attesa del lettore. È questa la sua grande novità stilistica e procedurale. Il lettore viene sviato e sopreso ad ogni verso. Una procedura che presenta difficoltà ingentissime che farebbero scivolare qualsiasi altro poeta ma non Mario Gabriele.

Infatti, il terzo verso introduce subito una deviazione: «Più volte suonò il postino a casa di Hendrius», il che ci meraviglia per l’assenza di colluttorio con i due versi precedenti: non c’entra nulla «il postino» con la questione delle «allodole» «in allarme». Però, in verità, un nesso ci deve essere se il poeta mette quell’enunciato proprio nel terzo verso e non nel quarto o quinto o sesto. Nella poesia di Gabriele nulla è dovuto al caso, perché nulla lui deve al lettore: il suo tema è atematico, il suo è un tema libero che adotta dei frammenti e delle citazioni vuote, svuotate di contenuto, sia di significato sia di verità. Non si dà nessun contenuto di verità negli enunciati di Mario Gabriele, al contrario dei poeti che si rifanno ad una ontologia stilistica che presuppone un contenuto di verità purchessia e comunque. Nella sua ontologia estetica non si dà alcun contenuto di verità ma soltanto un contenuto ideativo. La traccia psichica che lasciano gli enunciati di una poesia di Mario Gabriele è una mera abreazione, libera una energia psichica senza confezionare alcuna energia simbolica (diciamo e ripetiamo: come nella vecchia ontologia estetica che ha dominato il secondo novecento italiano).

L’enunciato che occupa il quarto verso recita: «senza la sirena e il cane Wolf». Qui siamo, ancora una volta dinanzi ad una deviazione, ad uno shifter. Anche qui si danno due simboli de-simbolizzati: «la sirena» e il «cane Wolf», tra questi due lemmi non c’è alcun legame inferenziale ma soltanto sintattico stilistico e sono messi al posto numero 4 della composizione proprio per distrarre il lettore e distoglierlo dal vero fulcro della composizione. Ma, chiediamoci, c’è davvero un fulcro della composizione? La risposta è semplice: nella poesia di Mario Gabriele non si dà MAI alcun centro (simbolico), la poesia è SEMPRE scentrata, eccentrica, ultronea, abnormata.

Foto Eliot Elisofon La vita come ripetizione infinita

Chiamammo Virginia
perché allontanasse i cani
dagli ulivi impauriti.

 

Mario M. Gabriele

19 dicembre 2017 alle 11:16

Caro Giorgio,

leggo con piacere la tua esegesi su un mio testo poetico nel quale esamini con il bisturi di un anatomopatologo, la cellula endogena che dà corpo alla parola. Nessun critico si è mai avvicinato così alla mia poesia, che ebbi modo di esternare, (se ricordi bene) nella tua intervista con la quale si centralizzavano tematiche a vasto raggio sullo statuto del frammento in poesia, ma anche su alcuni temi poetici e filosofici, non sempre recepiti dai lettori. come colloquio culturale, e per questo bisognoso di più attenzione. In una delle tue domande riconosci che i personaggi delle mie poesie sono “gli equivalenti dei quasi.morti, immersi, gli uni e gli altri, in una contestura dove il casuale e l’effimero sono le categorie dello spirito”. Altrove, e sempre sulle pagine di questo Blog, ho sintetizzato il mio modo di fare poesia.

Ricordo un pensiero di Claudio Magris su un lavoro di Barbara Spinelli, quando disse che era arrivato il tempo per il poeta di togliere la scala sulle spalle per salire tutte le volte al cielo, affrontando invece le “cose” terrene. Indagine questa che ho nel mio lavoro accentrato sempre di più, avvicinandomi al pensiero di Eliot nella concezione della poesia come “una unità vivente di tutte le poesie che sono state scritte, e cioè la voce dei vivi nell’espressione dei morti”. E qui mi sembra di non essere un caso isolato, se anche Melanie Klein, famosa psicoanalista, preleva la matrice luttuosa nella rimemorazione di persone e cose perdute per sempre.

Se ci distacchiamo da questa realtà effimera, se cerchiamo l’hobby o la movida non riusciamo più ad essere e a riconoscerci soggetti-oggetti di una realtà in continua frammentazione. Ecco quindi la giustificazione di una poesia che racchiude in se stessa le caratteristiche di tipo “scentrato” “eccentrico” “atetico” non “apofantico” “plruritonico” e “varioritmico: termini che riprendo dalla tua versione introduttiva da “In viaggio con Godot”. Spiegare al lettore il sottofondo di una poesia, credo che sia il miglior dono che gli si possa fare, senza cadere, tutte le volte che appare un tuo commento sui miei testi, come un surplus critico. La tua è la ragione stessa di essere interprete o guida estetica, cosa, che a dire il vero, si è nebulizzata da tempo da parte della vecchia guardia critica. Con un sincero ringraziamento e cordialità.

 Edda Conte

19 dicembre 2017 alle 12:08

E’ una bella risposta ,questa del Poeta, alle domande che scaturiscono dalla lettura dei versi di Mario Gabriele. Alla luce di queste motivazioni anche il lettore meno impegnato riesce a respirare l’alito nuovo seppure inusuale di questo fare versi.

Giorgio Linguaglossa

19 dicembre 2017 alle 12:36

La «nuova ontologia estetica» ha sempre a che fare con un nuovo modo di intendere la «cosa», essendo la «cosa» abitata da una aporia originaria che noi esperiamo nell’arte come «cosa» rivissuta ma non facente parte del presente come figura del tempo. È un nuovo modo, con una nuova sensibilità, di intendere l’arte di oggi. Ecco perché per analizzare una poesia della nuova ontologia estetica bisogna fare uso di un diverso apparato categoriale rispetto a quello che usavamo, che so, per spiegare una poesia di Montale o di Caproni… di qui l’oggettiva difficoltà dei letterati abituati alla vecchia ontologia, essi, educati a quella antica ontologia non riescono a percepire che è cambiata l’atmosfera del pianeta «parola»…

In fin dei conti l’aporia della cosa ha a che fare con l’aporia della comunicazione estetica… Intendo dire che una aporia ha attecchito la poesia italiana di questi ultimi decenni: che la poesia debba essere comunicazione di un quantum di comunicabile. Concetto errato, non vi è un quantum stabilito che si può comunicare, anzi, la poesia che contingenta un quantum di comunicabilità cade tutta intera nella comunicazione, diventa un copia e incolla della comunicazione mediatica, di qui la pseudo-poesia di oggi. Occorre, quindi, rimettere la comunicazione al suo posto. Questo concetto va bene quando si scrive un articolo di giornale o quando si fa «chiacchiera» da salotto o da bar dello spot ma non può andare bene quando si scrive una poesia. Il distinguo mi sembra semplice, no?

Gino Rago

19 dicembre 2017 alle 17:32

1) “Povero colui, che solo a metà vivo / l’elemosina chiede alla sua ombra.”

  1. Osip Mandel’štam

2) “Sappiate che non mi portate via da nessun luogo, che sono già portata via da tutti i luoghi – e da me stessa – verso uno solo al quale non arriverò mai (…) sono nata portata (…)”

Marina Cvetaeva

3) “Il marinaio” di Pessoa. Il protagonista di questo dramma forse non abbastanza noto è un marinaio, un marinaio che all’improvviso naufraga su un’isola sperduta. Il marinaio di Pessoa sa che non ha alcuna possibilità di fare ritorno in patria. Ma egli ne ha un disperato bisogno e allora…

4) “I Deva mi danno una risposta/ (…) mi spiegano che lo spirito è sempre/ anche nella materia./ Perfino nei sassi/ e nei metalli…”

Giacinto Scelsi

Ecco le grandi 4 coordinate dei miei versi recenti, dal ciclo troiano a Lilith, passando per gli stracci, i cascami, gli scampoli, le intelaiature della Storia.

 Gino Rago

19 dicembre 2017 alle 17:55

Brano tratto da Il marinaio di Fernando Pessoa:

” (…) Poiché non aveva modo di tornare in patria, e soffriva troppo ogni volta che il ricordo di essa lo assaliva, si mise a sognare una patria che non aveva mai avuto, si mise a creare un’altra patria come fosse stata sua.

(…) Ora per ora egli costruiva in sogno questa falsa patria, e non smetteva mai di sognare (…)

(…) sdraiato sulla spiaggia, senza badare alle stelle. […]

DONATELLA COSTANTINA GIANCASPERO Ritagli di carta e cielo - cover (2)

Con gli stracci si può confezionare un’ottima poesia. È una idea della nuova ontologia estetica

Donatella Costantina Giancaspero

19 dicembre 2017 alle 19:51

caro Gino Rago,

questa idea di una poesia fatta con gli scampoli, gli stracci, i rottami, i frantumi etc. è una idea, mi sembra, nuova per la poesia italiana, penso che bisogna lavorare su questo, impegnarsi. Con gli stracci si può confezionare un’ottima poesia. È una idea della nuova ontologia estetica, una delle tante messe in campo. A mio parere, in questo tipo di poesia ci rientra benissimo la poesia di Lucio Mayoor Tosi, lui è un capofila, un capotreno.

Per tornare alla lettera “interna” che Fortini indirizza alla redazione di “Officina” di Pasolini, Leonetti e Roversi, a mio avviso, qui Fortini dimostra una grande lucidità intellettuale nell’individuare il “lato debole” della posizione della rivista. Leggiamolo:

«Questo problema dell’eredità è di grandissimo momento perché molto probabilmente può condurci a riconoscere l’inesistenza di una eredità propriamente italiana, in seguito alle fratture storiche subite dal nostro paese; ovvero al riconoscimento di antenati quasi simbolici, appartenenti di fatto a tutte le eredità europee». «Nell’odierna situazione, credo che le postulazioni fondamentali di “Officina” – agire per un rinnovamento della poesia sulla base di un rinnovamento dei contenuti, il quale a sua volta non può essere se non un rinnovamento della cultura – con i suoi corollari di civile costume letterario, di polemica contro la purezza come contro l’engagement primario ecc. – siano insufficienti e persino auto consolatorie. Rappresentano il “minimo vitale”, cioè un minimo di dignità mentale, di fronte alla vecchia letteratura –

E adesso pongo una domanda ai lettori e alla redazione: qual è a vostro parere il “lato debole” (uno ce ne sarà, penso) della rivista L’Ombra delle Parole?

Mario M. Gabriele

19 dicembre 2017 alle 23:19

Cara Donatella,

sempre se ho interpretato bene, e il lato debole non si configuri in un deficit limitato della Rivista come impianto organizzativo, mi soffermerei sul “pensiero debole” di Vattimo, come proposizione alternativa alla metafisica e ai Soggetti Forti quali Dio e L’Essere.Qui vorrei soffermarmi sul pensiero debole della Rivista,che cerca e tenta di tornare a un concetto di poesia, funzionale ad una nuova ontologia estetica, rispetto al vecchio clichè poetico del Novecento, sostituendolo con un nuovo cambio di pagina, attraverso il pensiero poetante.

Uscire dalla poesia istituzionale e omologata, significa, proporsi come soggetto nuovo, proprio come si formalizza oggi la NOE, abbandonati gli schemi e le fluttuazioni estetiche del secolo scorso. Una volta depotenziata questa categoria, inattuale di fronte al mondo che cambia in biotecnologie e scienze varie, l’essere-parola o lingua, ricostruttiva e risanatrice, diventa una urgenza non prorogabile, come l’unico modo per superare il postmoderno e il postmetafisico. Qui converrà articolarsi su ciò che da tempo va affermando Giorgio Linguaglossa su l’Ombra delle parole, che solo istituendo una poesia fondante su un nuovo Essere, verbale e stilistico, depotenziando il pensiero forte, si possa istituire un nuovo valore linguistico, inattivando le succursali poetiche e linguistiche resistenti sul nostro territorio, attaccando le categorie su cui si sono consolidate le modalità più resistenti della Tradizione, al fine di progettare un nuovo percorso che sia di indebolimento dei fondamenti poetici del passato.

Donatella Costantina Giancaspero

20 dicembre 2017 alle 13:53

Copio dal Gruppo La scialuppa di Pegaso la risposta di Gabriele Pepe alla mia domanda:

Qual è, a vostro avviso, il “lato debole” della rivista L’Ombra delle Parole?

Risposta:

La rivista soffre degli stessi problemi di cui soffrono tutte (quelle serie) riviste, blog et simili sulla rete. La velocità. Tutto scorre velocemente, troppo velocemente. Ogni cosa alla finne annega nel mare infinito del web. Mi permetto dei piccoli consigli:

1) Lasciare i post il tempo necessario per poter essere “compresi” e dibattuti in modo esauriente, o quasi. Quindi postare meno, postare più a lungo.

2) Lasciare traccia visibile di tutti gli autori ospitati, dibattuti, approfonditi, magari con un database in ordine alfabetico. Stessa cosa per argomenti, critiche, storia ecc. Mettere un motore di ricerca interno.

Aggiungo che, a volte, ma è assolutamente normale e ampiamente comprensibile, pecca un po’ di troppa autoreferenzialità, soprattutto quando vorrebbe far intendere che oggi l’unico modo di scrivere poesie deve essere alla NOE, tutto il resto è fuori dal contemporaneo. Ovviamente, per quel che conta, non sono d’accordo, anzi…   Cmq, non per fare il cerchiobottista, non finirò mai di ringraziare tutta la “cricca”  dell’Ombra per l’enorme lavoro, il coraggio di certe proposte, l’incredibile varietà di autori ed argomenti trattati sempre di livello superiore.

Vi ringrazio infinitamente. Seguendo, per quel che posso, la rivista, credo di aver accresciuto i miei orizzonti non solo poetici. Grazie!

Giorgio Linguaglossa

20 dicembre 2017 alle 9:32

Il lato debole della nuova ontologia estetica

 Credo che la domanda di Donatella Costantina Giancaspero sia una domanda centrale alla quale bisognerà rispondere. Cercherò di essere semplice e diretto e di mettere il dito nella piaga.

Vado subito al punto centrale.

A mio avviso, il punto centrale è che dagli anni settanta del novecento ad oggi la poesia italiana del novecento è stata una poesia della «comunicazione». Tutta la poesia che è venuta dopo la generazione dei Fortini, dei Pasolini, dei Caproni è fondata sull’appiattimento della forma-poesia sul livello della «comunicazione»; si è pensato e scritto una poesia della comunicazione dell’immediato, si è pensato ingenuamente che la poesia fosse un immediato, e quindi avesse un quantum di comunicabile in sé, che la poesia fosse «l’impronta digitale» (dizione rivelatrice di Magrelli) di chi la scrive. Il risultato è che i poeti venuti dopo quella generazione d’argento, la generazione di bronzo: i Dario Bellezza, i Cucchi, Le Lamarque, i Giuseppe Conte… fino agli ultimissimi esponenti della poesia «corporale»: Livia Chandra Candiani, Mariangela Gualtieri e ai minimalisti romani: Zeichen e Magrelli (ed epigoni), tutta questa «poesia» è fondata sulla presupposizione della comunicabilità e comprensibilità della poesia al più grande numero di persone del «quantum» di comunicabile.

È chiaro che la posizione dell’Ombra delle Parole si muove in una direzione diametralmente opposta a quella seguita dalla poesia italiana del tardo novecento e di quella del nuovo secolo. Da questo punto di vista non ci possono essere vie di mezzo, o si sta dalla parte di una poesia della «comunicazione» o si sta dalla parte di una «nuova ontologia estetica» che contempla al primo punto il concetto di una poesia che non ha niente a che vedere con la «comunicazione».

È questo, sicuramente, un elemento oggettivo di debolezza della nuova ontologia estetica perché abbiamo di fronte un Leviathano di circa cinquanta anni di stallo, per cinquanta anni si è scritta una poesia della comunicazione, forse nella convinzione di recuperare in questo modo la perdita dei lettori che in questi decenni ha colpito la poesia italiana. Il risultato è stato invece il progressivo impoverimento della poesia italiana. Credo che su questo non ci possano essere dubbi.

Penso che al di là di singole teorizzazioni e di singoli brillanti risultati poetici raggiunti dagli autori che si riconoscono nella nuova ontologia estetica, questo sia il vero «lato debole» della nostra «piattaforma», un’oggettiva debolezza che scaturisce dai rapporti di forze in campo: da una parte la stragrande maggioranza della poesia istituzionale (che detiene le sedi delle maggiori case editrici, i quotidiani, le emittenti televisive, i premi letterari etc.), dall’altra la nostra proposta (che non può fare riferimento a grandi case editrici e all’aiuto dei mezzi di comunicazione di massa). Anche perché il successo delle proposte di poetica nuove passa sempre per la sconfitta della poesia tradizionale, la storia letteraria la determinano i rapporti di forza, non certo le capacità letterarie dei singoli.

Per tornare alla questione poesia, penso che questo articolo sul rapporto Montale Fortini sia di estremo interesse perché mostra la grandissima acutezza del Montale nel mettere a fuoco il problema che affliggeva la poesia di Fortini. Montale mette il dito nella piaga, e Fortini lo riconosce. Siamo nel 1951, già allora la poesia italiana era immobilizzata da tendenze «religiose» (un eufemismo di Montale per non dire “ideologiche”) che avrebbero frenato l’evoluzione poetica della poesia di Fortini… quelle tendenze che in seguito, negli anni ottanta, sarebbero diventate a-ideologiche, ovvero si sarebbero invertite di segno, per poi assumere, durante gli anni novanta e negli anni dieci del nuovo secolo, forme di disarmo intellettuale e di disillusione, forme istrioniche…

In quella lettera di Montale si può leggere, in filigrana e in miniatura, l’ulteriore cammino che farà nei decenni successivi la claudicante poesia italiana del tardo novecento, con la sua incapacità di rinnovarsi su un piano «alto». Insomma, diciamolo netto e crudo, nessun poeta italiano interverrà più, dalla metà degli anni settanta ad oggi, a mettere il dito nella piaga purulenta… ci si accontenterà di salvare il salvabile, di pronunciare campagne di acquisizione sul libero mercato di frange di epigoni, campagne auto pubblicitarie, si lanceranno petizioni di poetica e di anti-poetica a scopi pubblicitari e auto commemorativi… E arriviamo ai giorni nostri…

 

Anna Ventura

20 dicembre 2017 alle 10:39

Caro Giorgio,

già mi inorgoglivo nel sentirmi nel ruolo di “commilitone” (parola ganzissima,che non potrò dimenticare),quando il tuo pessimismo che afferma”la storia letteraria la determinano i rapporti di forza,non certo le capacità letterarie dei singoli”mi riporta alla realtà più cruda,che mi rifiuto di accettare. Credo che siano le capacità letterarie dei singoli, se bene organizzate in un gruppo serio, a dare il colpo d’ala ad ogni stagnazione. Saluti dalle truppe cammellate, pronte a uscire dalle oasi più remote,a difesa delle patrie lettere.

Giorgio Linguaglossa

20 dicembre 2017 alle 10:49

Estrapolo un pensiero di Steven Grieco Rathgeb da un suo saggio che posterò nei prossimi giorni:

 (Sia detto di passaggio che dopo il grande crollo della poesia e della letteratura avvenuto nel secondo Novecento, l’unica analisi di un testo ’letterario’ che oggi riesce pienamente a soddisfare il lettore è quella di un nuovo, inesplorato metodo critico-creativo: quello che non fa una parafrasi del testo, né l’analizza con gli strumenti critici del passato ormai inservibili, ma invece si serve del testo (e anche rende servizio al testo!) per aprire nuove prospettive, nuove ardite immaginazioni, quasi fosse un testo creativo già di per sé. Un metodo spesso adottato da Giorgio Linguaglossa, ad es.)

Giorgio Linguaglossa

20 dicembre 2017 alle 11:41

Estrapolo un pensiero di Paolo Valesio da un suo saggio apparso in questa rivista sulla poesia di Emilio Villa:

Parrebbe un’ovvietà, che ogni convegno o libro collettivo o simili (si tratti di critici letterari o di, per esempio, uomini politici) sia fondato sull’idea di un confronto critico fra valutazioni e posizioni diverse. E invece questa ovvietà – come tante altre – è tutt’altro che ovvia. In effetti, la difficoltà di trovare un‘autentica divergenza di posizioni tra i critici letterari che si occupano di un dato autore – la difficoltà di trovare dentro il coro almeno un critico o una critica a cui quell’autore “non piace” (uso quest’espressione semplicistica come abbreviazione approssimativa) – è solo uno dei tanti indizi (ma non è il minore) dello statuto ancora precario del costume democratico in Italia, al di là dei superficiali effetti di democrazia (penso all’ effet de réel di cui parlava Barthes) creati dall’ideologia, che comunque in Italia è generalmente a senso unico.

Giorgio Linguaglossa

20 dicembre 2017 alle 15:57

Crisi della poesia italiana post-montaliana. Il «Grande Progetto»

 Tracciando sinteticamente un quadro concettuale sulla situazione di Crisi della poesia italiana non intendevo riferirmi alla evoluzione stilistica del poeta Montale come personalità singola dopo Satura (1971).

Di fatto, la crisi della poesia italiana esplode alla metà degli anni Sessanta. oggi occorre capire perché la crisi esploda in quegli anni e capire che cosa hanno fatto i più grandi poeti dell’epoca per combattere quella crisi, cioè Montale e Pasolini; per trovare una soluzione a quella crisi. Quello che a me interessa è questo punto, tutto il resto è secondario. Ebbene, la mia stigmatizzazione è che i due più grandi poeti dell’epoca, Montale e Pasolini, abbiano scelto di abbandonare l’idea di un Grande Progetto, abbiano dichiarato che l’invasione della cultura di massa era inarrestabile

e ne hanno tratto le conseguenze sul piano del loro impegno poetico e sul piano stilistico: hanno confezionato finta poesia, pseudo poesia, antipoesia (chiamatela come volete) con Satura (1971), ancor più con il Diario del 71 e del 72 e con Trasumanar e organizzar (1971).

Questo dovevo dirlo anche per chiarezza verso i giovani, affinché chi voglia capire, capisca. a quel punto, cioè nel 1968, anno della pubblicazione de La Beltà di Zanzotto, si situa la Crisi dello sperimentalismo come visione del mondo e concezione delle procedure artistiche.

Cito Adorno: «Quando la spinta creativa non trova pronto niente di sicuro né in forma né in contenuti, gli artisti produttivi vengono obiettivamente spinti all’esperimento. Intanto il concetto di questo… è interiormente mutato. All’origine esso significava unicamente che la volontà conscia di se stessa fa la prova di procedimenti ignoti o non sanzionati. C’era alla base la credenza latentemente tradizionalistica che poi si sarebbe visto se i risultati avrebbero retto al confronto con i codici stabiliti e se si sarebbero legittimati. Questa concrezione dell’esperimento artistico è divenuta tanto ovvia quanto problematica per la sua fiducia nella continuità. Il gesto sperimentale (…) indica cioè che il soggetto artistico pratica metodi di cui non può prevedere il risultato oggettivo. anche questa svolta non è completamente nuova. Il concetto di costruzione, che è fra gli elementi basilari dell’arte moderna, ha sempre implicato il primato dei procedimenti costruttivi sull’immaginario».1]

Quello che oggi non si vuole vedere è che nella poesia italiana di quegli anni si è verificato un «sisma» del diciottesimo grado della scala Mercalli: l’invasione della società di massa, la rivoluzione mediatica e la rivoluzione delle emittenti mediatiche

Davanti a questa rivoluzione che si è svolta in tre stadi temporali e nella quale siamo oggi immersi fino al collo, la poesia italiana si è rifugiata in discorsi poetici di nicchia, ha scelto di non prendere atto del terribile «sisma» che ha investito la poesia italiana, di fare finta che esso «scisma» non sia avvenuto, che tutto era come prima, che la poesia non è cambiata e che si poteva continuare a perorare e a fare poesia di nicchia e di super nicchia, poesia autoreferenziale, poesia della cronaca e chat-poetry.

Lo voglio dire con estrema chiarezza: tutto ciò non è affatto poesia ma «ciarla», «chiacchiera», battuta di spirito nel migliore dei casi. Qualcuno mi ha chiesto, un po’ ingenuamente, «Cosa fare per uscire da questa situazione?». Ho risposto: un «Grande Progetto».

A chi mi chiede di che si tratta, dico che il «Grande Progetto» non è una cosa che può essere convocata in una formuletta valida per tutti i luoghi e per tutti i tempi. Per chi sappia leggere, esso c’è già in nuce nel mio articolo sulla «Grande Crisi della Poesia Italiana del Novecento».

Il problema della crisi dei linguaggi del tardo Novecento post-montaliani, non l’ho inventata io ma è qui, sotto i nostri occhi, chi non è in grado di vederla probabilmente non lo vedrà mai, non ci sono occhiali di rinforzo per questo tipo di miopia. Il problema è quindi vasto, storico e ontologico, si diceva una volta di «ontologia estetica», ma io direi di ontologia tout court. Dobbiamo andare avanti. Ma io non sono pessimista, ci sono in Italia degli elementi che mi fanno ben sperare, dei poeti che si muovono nel solco post-novecentesco in questa direzione.

Farò solo tre nomi: Mario Gabriele, Steven Grieco-Rathgeb e Roberto Bertoldo, altri poeti si muovono anch’essi in questa direzione. La rivista sta studiando tutte le faglie e gli smottamenti della poesia italiana di oggi, fa quello che può ma si muove anch’essa con decisione nella direzione del «Grande Progetto»: rifondare il linguaggio poetico italiano. Certo, non è un compito da poco, non lo può fare un poeta singolo e isolato a meno che non si chiami Giacomo Leopardi, ma mi sembra che ci sono in Italia alcuni poeti che si muovono con decisione in questa direzione.

Rilke alla fine dell’ottocento scrisse che pensava ad una poesia «fur ewig», che fosse «per sempre». Ecco, io penso a qualcosa di simile, ad una poesia che possa durare non solo per il presente ma anche per i secoli a venire.

Per tutto ciò che ha residenza nei Nuovi Grandi Musei contemporanei e nelle Gallerie di Tendenza, per il manico di scopa, per le scatolette di birra, insieme a stracci ammucchiati, sacchi di juta per la spazzatura, bidoni squassati, escrementi inscatolati, scarti industriali etichettati, resti di animali imbalsamati e impagliati, per tutti i prodotti battuti per milioni di dollari, nelle aste internazionali, possiamo trovare termini nuovi. Non ci fa difetto la fantasia. Che so, possiamo usare bond d’arte, per esempio, o derivati estetici.

Attraversare il deserto di ghiaccio del secolo sperimentale Infrangere ciò che resta della riforma gradualistica del traliccio stilistico e linguistico sereniano ripristinando la linea centrale del modernismo europeo. È proprio questo il problema della poesia contemporanea, credo. Come sistemare nel secondo Novecento pre-sperimentale un poeta urticante e stilisticamente incontrollabile come Alfredo de Palchi con La buia danza di scorpione (1945-1951), che sarà pubblicato negli Stati Uniti nel 1993 e, in Italia nel volume Paradigma (2001) e Sessioni con l’analista (1967) Diciamo che il compito che la poesia contemporanea ha di fronte è: l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo sperimentale per approdare ad una sorta di poesia sostanzialmente pre-sperimentale e post-sperimentale (una sorta di terra di nessuno?); ciò che appariva prossimo alla stagione manifatturiera dei «moderni» identificabile, grosso modo, con opere come il Montale di dopo La bufera e altro (1956) – (in verità, con Satura del 1971, Montale opterà per lo scetticismo alto-borghese e uno stile narrativo intellettuale alto-borghese), vivrà una seconda vita ma come fantasma, allo stato larvale, misconosciuta e disconosciuta. Ma se consideriamo un grande poeta di stampo modernista, Angelo Maria Ripellino degli anni Settanta: da Non un giorno ma adesso (1960), all’ultima opera Autunnale barocco (1978), passando per le tre raccolte intermedie apparse con Einaudi Notizie dal diluvio (1969), Sinfonietta (1972) e Lo splendido violino verde (1976), dovremo ammettere che la linea centrale del secondo Novecento è costituita dai poeti modernisti. Come negare che opere come Il conte di Kevenhüller (1985) di Giorgio Caproni non abbiano una matrice modernista? La migliore produzione della poesia di Alda Merini la possiamo situare a metà degli anni Cinquanta, con una lunga interruzione che durerà fino alla metà degli anni

Settanta: La presenza di Orfeo è del 1953, la seconda raccolta di versi, Paura di Dio con le poesie che vanno dal 1947 al 1953, esce nel 1955, alla quale fa seguito Nozze romane; nel 1976 il suo miglior lavoro, La Terra Santa. Ma qui siamo sulla linea di un modernismo conservativo.

 Ragionamento analogo dovremo fare per la poesia di una Amelia Rosselli, da Variazioni belliche (1964) fino a La libellula (1985). La poesia di Helle Busacca (1915-1996), con la fulminante trilogia degli anni Settanta si muove nella linea del modernismo rivoluzionario: I quanti del suicidio (1972), I quanti del karma (1974), Niente poesia da Babele (1980), è un’operazione di stampo schiettamente modernista.

Non bisogna dimenticare la riproposizione di un discorso lirico aggiornato da parte del lucano Giuseppe Pedota (Acronico – 2005, che raccoglie Equazione dell’infinito – 1995 e Einstein:i vincoli dello spazio – 1999), che sfrigola e stride con l’impossibilità di adottare una poesia lirica dopo l’ingresso nell’età post-lirica.

Il piemontese Roberto Bertoldo si muoverà, in direzione di una poesia che si situi fuori dal post-simbolismo ma pur sempre entro la linea del modernismo con opere come Il calvario delle gru (2000) e L’archivio delle bestemmie (2006). Nell’ambito del genere della poesia-confessione già dalla metà degli anni ottanta emergono Sigillo (1989) di Giovanna Sicari, Stige (1992) di Maria Rosaria Madonna.

È doveroso segnalare che in questi ultimi anni ci sono state altre figure importanti che ruotano intorno alla «nuova ontologia estetica»: Mario M. Gabriele con Ritratto di Signora (2015), L’erba di Stonehenge (2016)  In viaggio con Godot (2017), Antonio Sagredo con Capricci (2016), e poi Lucio Mayoor Tosi, Letizia Leone, Ubaldo De Robertis, Donatella Costantina Giancaspero, Francesca Dono, Giuseppe Talia, Edith Dzieduszycka.

È noto che nei micrologisti epigonici che verranno, la riforma ottica inaugurata dalla poesia di Magrelli, diventerà adeguamento linguistico ai movimenti micro-tellurici della «cronaca mediatica». La composizione adotta la veste di commento. Il questo quadro concettuale è agibile intuire come tra il minimalismo romano e quello milanese si istituisca una alleanza di fatto, una coincidenza di interessi e di orientamenti «di visione del mondo»; il risultato è che la micrologia convive e collima con il solipsismo asettico e aproblematico; la poesia come fotomontaggio dei fotogrammi del quotidiano, buca l’utopia del quotidiano rendendo palese l’antinomia di base di una impostazione culturalmente acrilica.

Lo sperimentalismo ha sempre considerato i linguaggi come neutrali, fungibili e manipolabili; incorrendo così in un macroscopico errore filosofico.

Inciampando in questo zoccolo filosofico, cade tutta la costruzione estetica della scuola sperimentale, dai suoi maestri: Edoardo Sanguineti e Andrea Zanzotto, fino agli ultimi epigoni: Giancarlo Majorino e Luigi Ballerini. Per contro, le poetiche «magiche», ovvero, «orfiche», o comunque tutte quelle posizioni che tradiscono una attesa estatica dell’accadimento del linguaggio, inciampano nello pseudoconcetto di una numinosità quasi magica cui il linguaggio poetico supinamente si offrirebbe. anche questa posizione teologica rivoltata inciampa nella medesima aporia, solo che mentre lo sperimentalismo presuppone un iperattivismo del soggetto, la scuola «magica» ne presuppone invece una «latenza».

1] T. W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, Torino, 1970, p. 37.

Lucio Mayoor Tosi

20 dicembre 2017 alle 23:38

Di Maio

«Solo i versi di un poeta possono cancellare la memoria
in meno di un istante».

Glielo disse ruotando attorno al vassoio
nel mezzo di una stanza.
«Per ritrovare la memoria bisogna scendere di un gradino.
Poi l’altro, poi l’altro».

«Al massimo tre, da che il vuoto si è avvicinato».
Luigi Di Maio s’aggiusta la cravatta.
Entra nell’ascensore.

Posto qui una poesia inedita di
Laura Canciani.

                                                        a a.s.

Questa volta saliamo sul ring.
Tu, con le tue vesti lunghe rosse fruscianti
– eresiarca di un fuoco baro –
io, con vestaglietta da cucina
e un occhio già ferito
da lama spinta:
potrei indossarle tutte le scarpette rosse
che girano vive tra luci e pareti
disattente.

Round primo:
quale arbitrocritico non esulta per il colpo
“Orfeo e Euridice”?

Round secondo:
creami adesso, qui, il più piccolo
fiore rosso…

Un colpo basso, a testa bassa, feroce
contro le regole
non viene perdonato.

La folla, a tentoni, monta le corde impoetiche
in un ridere di onda d’urto
che disfa persino l’invisibilità.

Provo dolore consapevole nel prodigio
del silenzio
ma sono viva e da viva mi giunge una voce
strana, anglosassone, elegante, come crudele.
«Liberati»
«Liberarmi, da che cosa?»
«Tu lo sai»
«Sì, liberarmi da tutta la zavorra
che impedisce la santità».

Commento estemporaneo di Giorgio Linguaglossa

Come si può notare, qui siamo in presenza di un tipo di discorso poetico che adotta il verso «spezzato»; ripeto: «spezzato». Questo è appunto il procedimento in uso nella poesia più aggiornata che si fa oggi dove il verso cosiddetto libero è stato sostituito con il verso «spezzato», singhiozzato…
E questo è il modus più proprio del poeta moderno erede della tradizione di un Franco Fortini, lui sì ancora addossato alla linea umanistica del novecento… ma Laura Canciani è una poetessa che non può più scrivere «a ridosso del novecento», semmai, oserei dire che può sopravvivere «nonostante» il novecento…
Oggi al poeta di rango può essere concessa solo una chance: il verso e il metro «spezzato»… che è come dire di una creatura alla quale abbiano spezzata la colonna vertebrale…

Gino Rago
18 dicembre alle 18.30

Dopo Lilith
(Dio presenta Eva ad Adamo)

“(…) Ti sento solo. Ecco l’altra compagna.
Ingoia l’acqua delle tue ghiandole
ma non superare la soglia.
Stai molto attento a non far piangere questa donna.
Io conto una ad una le sue lacrime.

Questa donna esce
dalla costola dell’uomo non dai tuoi piedi
per essere pestata
(né dalla tua testa
per sentirsi superiore).

Questa volta la donna esce dal tuo fianco per essere uguale.
Un po’ più in basso del braccio per essere difesa.
Ma dal lato del tuo cuore.
Per essere amata. Questo ti comando.(…)”

Adamo le sfiora le spalle. La distanza nel buio si assottiglia.
Un sibilo invade il giardino di gigli.

 

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Konstantin Bal’mont (1967-1942) Dieci poesie inedite a cura di Paolo Statuti, con un Appunto critico di Giorgio Linguaglossa

konstantin-dmitrijevic-balmont

Константин Дмитриевич Бальмонт, Konstantin Dmitrievič Bal’mont, poeta, critico e traduttore, fu uno dei primi poeti simbolisti dell’Epoca d’Argento della letteratura russa. Nacque il 15 giugno 1867 nel villaggio di Gumnišci, nei pressi di Vladimir, da una nobile famiglia. Della sua infanzia e adolescenza egli scrisse nella sua autobiografia: «I miei migliori maestri di poesia furono la nostra tenuta, il frutteto, i ruscelli, le paludi, il fruscio delle foglie, le farfalle, gli uccelli e le aurore».

Nel 1884 fu espulso dal ginnasio per essere entrato a far parte di un gruppo rivoluzionario. Quando frequentava la facoltà di Legge all’Università di Mosca, partecipò a una rivolta studentesca e fu espulso anche da lì. Poco dopo fu riammesso agli studi, ma non li terminò. Nel 1889 lasciò l’università per la letteratura. Su ciò che influì maggiormente sul corso della sua vita, Bal’mont scrisse: «E’ difficile elencare le esperienze che hanno lasciato un’impronta nella mia vita, ma ci proverò: la lettura di Delitto e Castigo quando avevo 16 anni e poi I fratelli Karamazov a 17. Quest’ultimo libro mi ha dato più di ogni altro libro al mondo. Il mio primo matrimonio (quando avevo 21 anni, e che finì col divorzio cinque anni dopo), il mio secondo matrimonio quando ne avevo 28. I suicidi di molti miei amici quando ero giovane. Il mio stesso tentativo di suicidio (a 22 anni), quando mi gettai dalla finestra al terzo piano, riportando fratture multiple, ma che portò a un risveglio senza precedenti della mia mente e della volontà di vivere. La scrittura di poesie (la prima a 9 anni, poi a 17 e 21) e i viaggi in Europa (restai particolarmente impressionato da Inghilterra, Spagna e Italia).

Dopo vari tentativi falliti finalmente riuscì a pubblicare la sua prima raccolta di poesie nel 1890. Ma fu un fiasco e Bal’mont distrusse quasi l’intera edizione. Poi, anziché scrivere, si dedicò alla traduzione, sfruttando anche le sue straordinarie capacità linguistiche e la conoscenza di una dozzina di lingue. Tradusse così in russo, tra gli altri, Poe, Ibsen, Calderon, Verlaine, Baudelaire, Whitman, nonché opere di poeti armeni e georgiani. Nel 1893 pubblicò l’intera opera di Percy B. Shelley in russo. Ma tradusse anche da altre lingue slave, dall’indiano e dal sanscrito. Il successo conseguito come traduttore lo spronò a pubblicare altri suoi lavori, e così nel 1894 vide la luce la raccolta “Sotto i cieli del nord”, in cui cantava l’astratta bellezza di favolosi paesaggi boreali, seguita da “Il silenzio” nel 1898. Queste opere gli procurarono il riconoscimento e il successo tanto attesi.

Konstantin Dmitrievič Bal_mont CoverLa poesia simbolista di Bal’mont si esprimeva attraverso allusioni e ritmi melodiosi. Divenne l’impressionista della poesia, del suo mondo fatto di delicate osservazioni e fragili sentimenti. Nel 1903 uscirono le sue raccolta più belle: “Saremo come il sole” e “Soltanto l’amore”. La sua popolarità era ora all’apice. La sua poesia diventò la nuova filosofia che segnò l’inizio dell’Epoca d’Argento. Nella creazione successiva Bal’mont mutò l’intonazione lirica in un tono più aggressivo e alquanto sorprendente. Egli protestava contro l’ingiustizia in generale, ma il suo spirito ribelle esplose nella controversa poesia “Il piccolo sultano”, nella quale egli criticava lo zar, e questo gli procurò l’esilio da San Pietroburgo e il divieto di abitare nelle città sedi di atenei. Allora il poeta lasciò la Russia, divenne un esiliato politico e viaggiò molto nei vari continenti. Nel 1913, in occasione del trecentesimo anniversario della dinastia dei Romanov, a tutti gli emigrati politici fu concessa l’amnistia e Bal’mont poté tornare in Russia. Nel 1917 egli accolse con entusiasmo la Rivoluzione di Febbraio, ma non mostrò lo stesso gradimento per quella di Ottobre. Soprattutto non poteva accettare la nuova politica volta alla soppressione dell’individualità. Egli ricevette un visto temporaneo e nel 1920 lasciò la Russia per sempre. Si stabilì a Parigi con la famiglia. Nell’esilio scrisse 22 libri dei circa 50 che costituiscono il suo patrimonio letterario. La sua poesia però era in declino. Inoltre non riusciva a inserirsi nella comunità degli immigrati russi e si isolò da essi. La nostalgia per la sua terra lo tormentava. Dopo il 1930 i segni dei suoi disturbi mentali si fecero sempre più evidenti, e le sue condizioni furono peggiorate dalla povertà, e soprattutto dal digiuno di scrittura. In realtà finì vittima della pazzia.
Morì il 23 dicembre 1942 nella Francia occupata dai nazisti, all’età di 79 anni e fu sepolto nella piccola città di Noisy-le-Grand. Sulla lapide fu semplicemente scritto: KONSTANTIN BAL’MONT, POETA RUSSO.

Strilli Rago

Grafica dei Frammenti di Lucio Mayoor Tosi

Bal’mont ebbe una grande influenza sulla letteratura e poesia russa, liberandole dai vincoli della vecchia scuola e creando nuovi mezzi espressivi. Egli aveva, tra l’altro, una straordinaria abilità di trattare i suoni, combinando le parole in modo da esprimere le impressioni poetiche in modo musicale. A questo proposito, Renato Poggioli, critico specializzato in letteratura russa e illustre studioso di critica comparata, ha scritto: «Egli riduce la poesia soprattutto a suono, ad “amore sensuale della parola”, o, per usare le sue parole, a una “illusione canora”». Il poeta Andrej Belyj lo definì un uomo solitario e vulnerabile, completamente fuori dalla realtà: «Non riusciva ad amalgamare e armonizzare i tesori ricevuti dalla natura, spendendo la sua ricchezza spirituale senza uno scopo preciso». Marina Cvetaeva disse di lui che “avrebbe dato a un bisognoso il suo ultimo pezzo di pane, il suo ultimo ciocco di legna”. Mark Talov, un traduttore russo che nel 1920 si trovò senza un soldo a Parigi, ricordava quante volte, dopo aver lasciato la casa di Bal’mont, egli si trovava del denaro in tasca; il poeta (egli stesso molto povero) preferiva aiutare in modo anonimo, per non mettere in imbarazzo un visitatore. Il poeta Valerij Brjusov scrisse di lui: «Regnava sulla poesia russa all’inizio del Novecento… Genio spontaneo, viaggiatore instancabile, idolo di tutta la sua generazione, distintosi per le sue avventure amorose e azioni stravaganti».

Strilli Gabriele

Appunto di Giorgio Linguaglossa

Nel saggio Sull’interlocutore degli anni Dieci, Osip Mandel’štam pone a confronto la poesia di un poeta «nuovo»: Baratynskij e quella di un poeta simbolista all’epoca molto noto: Konstantin Bal’mont. Lo scritto di Mandel’štam è una radicale stroncatura non tanto della poesia di Bal’mont quanto dell’intero simbolismo russo degli anni venti. Insomma, Mandel’štam colpisce Bal’mont ma il suo vero obiettivo è ridimensionare il simbolismo, ridimensionare l’influenza di Aleksandr Blok, il più grande e famoso poeta simbolista russo dell’epoca. Mandel’štam aveva ben chiaro in mente che l’affermazione dell’acmeismo avrebbe dovuto passare attraverso la stroncatura e il superamento del simbolismo. Delle due, l’una. Non c’era una via di mezzo percorribile. La grande intelligenza poetica di Mandel’štam mette a fuoco l’obiettivo del movimento acmeista.

Non posso non pensare alla analogia con la situazione della poesia in Italia, oggi: la nuova poetica della «nuova ontologia estetica» dei giorni nostri in Italia non potrà affermarsi se non a danno della poesia del minimalismo romano milanese e del post-minimalismo delle poesie «corporali» in auge ad esempio nella poesia «femminile» della collana bianca dell’Einaudi. Qui non ci devono essere possibili ambiguità, e lo dico a scanso di equivoci affinché i più timidi si ritirino dalla competizione. La conflittualità tra le due petizioni di poetica è frontale ed ineliminabile. Continua a leggere

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Il ritorno di Odisseo – L’oblio della memoria – Odisseo è un cialtrone, un disertore della guerra di Troia – Una poesia inedita di Giorgio Linguaglossa. La rilettura del mito dal punto di vista della nuova ontologia estetica – Interventi di Gino Rago e Carlo Livia con una poesia di Marina Cvetaeva e Paul Celan

Foto Man Ray stilleven

La Cosa è l’irrappresentabile, ciò che resta fuori della rappresentazione, l’inconscio è il luogo della non nominazione se non come catacresi

(opere grafiche di Lucio Mayoor Tosi)

Noi, reduci del Novecento, sappiamo che il canto delle sirene conteneva una «verità»

che non abbiamo voluto udire, quella «verità» che Odisseo non ha voluto che i suoi marinai ascoltassero. E quel «non-detto», quella «parola non ascoltata», ci perseguita ancora oggi, si ripresenta con il suo volto di spettro e ci chiede udienza, chiede di essere ascoltata, di essere compresa.

Chi è Odisseo per noi reduci del Novecento? Che cosa rappresenta?

Per Marco Revelli ne I demoni del potere il Canto XII è quello centrale dell’Odissea. «Il gioco di Ulisse con le Sirene si risolve, nell’epoca del trionfo della tecnica, in una serie di atti mancati».

Il «secolo breve», il Novecento, è il secolo della distruzione di massa, il secolo, come i nazisti dicevano con un eufemismo, della «soluzione finale». Il Novecento ci ha insegnato che molto più temibile del loro «canto» è il «silenzio» delle sirene. Per noi, reduci del Novecento il «viaggio di Ulisse» ha cessato di produrre senso, conserva zone di indicibilità, di non narrabilità. La frattura di civiltà, il vuoto di senso è ancora una volta Auschwitz. Auschwtiz si può verificare ancora una volta, si può ripetere. La IV guerra mondiale, la guerra nucleare, si può verificare in qualsiasi momento.

Oggi il capitalismo globale ci ha «gettati» in un paesaggio spaesante. Noi che viviamo nella Pars Occidentale della produzione capitalistica, dobbiamo ritenerci «fortunati», viviamo nel mondo del benessere, della democrazia e della ricchezza. Loro, gli esclusi dal mondo del benessere, sono i reietti.  Noi oggi non abbiamo un linguaggio adeguato, ci mancano le parole adeguate per rappresentare la nostra condizione di «fortunati».

Franz Kafka, in un raccontino paradossale del 1917 scrisse: «Le sirene possiedono un’arma ancora più temibile del canto, cioè il loro silenzio». Ulisse non si accorge del silenzio delle sirene, è ossessionato soltanto dal loro «canto». Per Kafka, se qualcuno raramente si salva dal canto delle sirene, nessuno si potrà mai salvare dal loro silenzio. Ma l’esperienza del Novecento ci ha insegnato che pari insidiosa nequizia è nascosta nel «silenzio» delle sirene, molto più temibile del loro «canto», temibile in quanto invisibile.

Ascoltiamo le parole di Primo Levi, un sopravvissuto ad Auschwitz, lui che ha ascoltato il canto delle sirene naziste, dei torturatori nazisti. Per resistere a quel «canto» Primo Levi si è tappato le orecchie con le ballate di Schiller. È stato questo lo stratagemma che gli ha dato la forza di restare in piedi per ore durante gli appelli mattutini da parte delle SS. Ed è sopravvissuto.

[…] Quando il tempo è dolore non si può far nulla di meglio che farlo passare, e ogni poesia diventa una formula magica. […] Le ballate di Schiller divennero le mie poesie dell’appello; grazie a loro riuscivo a stare in piedi per ore senza svenire, perché c’era sempre un altro verso da recitare, e quando un verso non ti veniva in mente, potevi pensarci, anziché pensare alla tua debolezza. […]

Tutt’intorno urla ripugnanti, angoscianti, che non accennavano a finire. Gli uomini che ci avevano fatto scendere dal vagone col loro «fuori, fuori», e che ora ci spingevano in avanti, erano come cani rabbiosi e ululanti. […] Quel tono carico d’odio, che scaccia […] e inchioda […] intendeva unicamente intimorire e stordire. […]

Nella mia poesia, Il ritorno di Odisseo,   non v’è traccia del canto delle sirene, per Odisseo si è trattato di un evento senza importanza, che ha già dimenticato. Nella mia poesia Odisseo è preda dell’Oblio della memoria, non ricorda nulla di ciò che è accaduto, nulla della guerra di Troia.

Si gode gli ozi di Ogigia.
Che fretta c’è?
Per tornare dalla vecchia Penelope,
c’è tempo.

Odisseo non è più ai nostri occhi un eroe, è un «cialtrone», un «fuggiasco», un «disertore» che comanda una ciurma di altri «disertori», di «straccioni», di «naufraghi». Odisseo è un abile manipolatore di parole, colui che racconta gli eventi in modo poetico e mirabolante per gabbare gli ingenui ascoltatori. I suoi marinai

Sono fuggiaschi, disertori della guerra di Troia.
Omero non lo dice ma lo deduciamo noi
dalla lettura degli eventi.

Anche Omero è colpito dall’anatema di aver detto delle menzogne, di averci dato il ritratto di un uomo «astuto» inventando il racconto del cavallo di Troia, in realtà Odisseo è un miserabile «disertore» che ama la bella vita e gli ozi dell’isola di Ogigia. Anche Omero quindi è colpevole di aver detto delle menzogne e neanche lui può essere considerato degno di fede. Il discorso poetico è già diventato menzogna. Continua a leggere

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POESIE EDITE E INEDITE di MARINA CVETAEVA (1892-1941) e ARSENIJ TARKOVSKIJ (1907-1989) – Una storia d’amore in versi – A cura di Donata De Bartolomeo e Kamila Gayazova

arsenij 6

Arsenij Tarkovskij

Nessuna di queste poesie di Marina Cvetaeva è stata tradotta in italiano ad eccezione di “Elabuga”, pubblicata e tradotta da Gario Zappi nel suo Poesie scelte di Arsenij Tarkovskij, Scheiwiller, Milano, 1988.
Si tratta di un ciclo di poesie palesemente scritte da Arsenij Tarkovskij à la màniere della Cvetaeva (vedi l’uso delle lineette). L’uno risponde all’altra.

“Io ascolto, non dormo, mi chiami, Marina…”
Gli ultimi anni della vita di Marina Cvetaeva sono stati studiati a fondo ma l’esatta data del suo incontro con Arsenij Tarkovskij non si trova da nessuna parte. E’ noto che pretesto della conoscenza fu la traduzione da parte di Tarkovskij dei versi del poeta turkmeno Kemine. Il titolo completo dell’opera è “Raccolta di canti e versi nella traduzione di Arsenji Tarkovskji con l’aggiunta di racconti popolari scelti sulla vita del celebre poeta”. L’accordo per l’edizione fu stipulato il 12 settembre del 1940 ed il libro uscì probabilmente dopo un mese.
La famosa brutta copia della lettera della Cvetaeva a Tarkovskji, appuntata nel quaderno di ottobre del 1940, fu ricopiata per qualcuno da Ariadna Efron. (1)

marina cvetaeva 1914

Marina Cvetaeva, 1914

“…Caro com.(pagno) T.(arkovskij),
la Vostra traduzione è una meraviglia. Che cosa potete fare – quando siete Voi stesso?
Perché per un altro poeta potete – tutto. Trovate (amate) – e le parole saranno vostre.
Presto Vi inviterò – una di queste sere – ad ascoltare versi (i miei) di un libro futuro. Per questo datemi il vostro indirizzo affinché l’invito non vada vagando – o non resti qui come questa lettera.
Vi pregherei molto di non mostrare a nessuno questa mia letterina, io sono una persona appartata e scrivo a Voi – a che vi servono gli altri? (mani ed occhi) e non dite a nessuno che presto, uno di questi giorni, sentirete le mie poesie, presto ci sarà da me una serata aperta ed allora verranno tutti. Io adesso Vi chiamo da amico.
Ogni manoscritto – è indifeso. Io nella mia interezza – sono un manoscritto
M. C.”

Questa tarda lettera dell’ultima Cvetaeva è totalmente giovanile nello spirito.
La traduzione di Tarkovskij capitò alla Cvetaeva, probabilmente, tramite una sua intima conoscente, la traduttrice Nina Gherasimovna Berner Yakovleva. In gioventù aveva preso parte ad un circolo artistico-letterario alla Bolshaya Dmitrovka, di cui era coordinatore Brjusov. Lì aveva visto per la prima volta Marina ed Asja Cvetaeva, accompagnate da Maximilian Voloscin.
Se giudichiamo dalla lettera, essa è indirizzata ad un uomo già conosciuto, per il quale è nata una simpatia. I due poeti potevano già essersi incontrati a qualche serata letteraria o ad una riunione di traduttori … Ma la Berner asserisce che si conobbero proprio da lei.
E’ sicuramente noto il loro incontro nella casa di Nina Gerasimovna nel vicolo Telegrafnij.

Marja Belkina ricorda quella stanza nella “kommunal’ka” : “…pareti verdi, dove si trovava una mobilia antiquata fatta di un legno rosso e negli scaffali libri francesi con le copertine di pelle.”

Marina Arsen’evna Tarkovskaja, figlia del poeta, nel suo libro Schegge di specchio, uscito di recente, ricorda così: “Sono andata laggiù diverse volte con la mamma – lei era amica di Nina Gherasimovna. La stanza era pitturata di un color verde antico – questo in un’epoca di carta da parati a basso prezzo e decorazioni di argento costoso. Ricordo che c’era lì una mobilia di un legno rosso – uno scrittoio, un divano e una credenza sormontata da un antico specchio. Sia il colore delle pareti che il mobilio si addicevano molto alla padrona di casa , una snella bella donna dai capelli rossi che anche negli anni maturi era assai piacente.”
La stessa Nina Gherasimovna ricordava: “ Si sono conosciuti a casa mia quel giorno. Ricordo molto bene quella giornata. Per qualche motivo uscii dalla stanza. Quando tornai, erano seduti vicini sul divano. Dai loro volti emozionati capii: era successa la stessa cosa alla Duncan e ad Esenin. Si sono incontrati, si sono librati in alto, si slanciati l’uno verso l’altro. Un poeta verso un altro poeta…”.

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Un poeta verso un altro poeta… Questo è molto importante. Quando Tarkovskij giunse nel 1925 a Mosca per studiare, Marina Cvetaeva già da tre anni viveva in Cecoslovacchia. Ma i suoi versi erano molto conosciuti da coloro i quali si interessavano di poesia. I suoi testi si potevano trovare nei negozi di libri usati, potevano essere letti o scambiati tra amici. Il giovane poeta stimava molto la Cvetaeva come un maestro, come un “maitre”, una collega più grande. Marina Arsen’evna scrive che a lei, nata nel 1934, Tarkovskij aveva dato il nome Marina in onore del poeta Cvetaeva.

Quando si incontrarono, Marina era appena tornata dalla Francia. Tarkovskij in quell’estate del 1939 con la sua seconda moglie Antonina al e la loro figlia Elena viveva in Cecenia Inguscezia, dove traduceva i poeti locali.
Aveva alle spalle l’antico, amaro amore per Maria Gustavovna Fal’z, dopo il fortunato matrimonio con Maria Ivanovna Visnjakova, la nascita in famiglia dei due figli Andrej e Marina, poi l’uscita dalla famiglia per Antonina Aleksandrovna Trenina per un amore appassionato… Scrive i suoi splendidi versi ma per l’uscita del suo primo libro ci volevano ancora degli anni, per cui la vita lo costringeva a darsi da fare con le traduzioni.
Tarkovskij non è semplicemente un poeta – è un vero poeta.
Egli non poteva non apprezzare i versi di Marina Cvetaeva, non poteva non passarle accanto anche nella vita senza fermarsi.
Si, sugli anni ’40 della Cvetaeva è stato scritto non poco. Fu un periodo difficile, pesante, insopportabile…tutte queste parole sono appropriate… Tuttavia per un poeta sempre- al di là di tutte le sciagure ed infelicità – più terribile di tutto è il vuoto del cuore.
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POESIE di Boris Pasternak traduzione e introduzione di Paolo Ruffilli – dalla Introduzione al volume “La notte bianca. Le poesie di Zivago” Biblioteca dei Leoni 2016- Marina Cvetaeva scrive di Pasternak che “somigliava a un arabo e al suo cavallo“; “Pasternak paragona spesso la propria poesia a una spugna che assorbe la vita solo al fine di essere poi spremuta e dunque restituita”; ““La storia non si vede, come non si vede crescere l’erba. La guerra, la rivoluzione, i re, i Robespierre sono i suoi stimolanti organici, i suoi lieviti. Fanno le rivoluzioni uomini attivi, fanatici unilaterali, geni dell’autolimitazione”.

Pasternak e Mayakovsky

tra gli altri Pasternak e Majakovskij

Il Poeta Boris Pasternak di Paolo Ruffilli
(dalla Introduzione al volume La notte bianca. Le poesie di Zivago Biblioteca dei Leoni 2016 pp. 94 € 12)

Marina Cvetaeva scrive di Pasternak che “somigliava a un arabo e al suo cavallo“: carnagione scura, un viso allungato, narici mobili come froge. Parlava lentamente, con voce di tenore, “usando periodi solenni, in cui si inserivano intense cascate di parole”. E l’uso delle parole era il più immaginoso, come ci testimonia Isaiah Berlin, che lo ha incontrato più volte: “il discorso dilagava spesso dagli argini della struttura grammaticale, e a brani lucidi si alternavano immagini sfrenate, ma sempre vivide e concrete”.
Molti interlocutori di Pasternak concordano nel dire che anche i suoi discorsi quotidiani erano sempre quelli di un poeta: un poeta di genio in tutto ciò che faceva. Anna Achmatova ripete spesso a chi la intervista che Pasternak era il più completo e il più straordinario della loro generazione di inizio Novecento, “un poeta magico, un poeta divino, uno dei grandi poeti della terra russa”. Ha scritto di lui: “un poeta puro, per niente in sintonia con il regime, tutt’altro che tenero verso la letteratura impegnata. Dotato di una perenne fanciullezza, di quella prodigalità e acutezza delle stelle, era tutta la terra suo retaggio e con tutti la condivise. Un artista sommo, uno di quelli rari che vengono al mondo come eredi della propria terra, della sua natura, della sua storia e cultura”.
Pasternak paragona spesso la propria poesia a una spugna che assorbe la vita solo al fine di essere poi spremuta e dunque restituita. E fa dire a Živago che nella poesia succede proprio come in una stanza in cui attraverso la finestra aperta irrompono dalla strada la luce e l’aria, il rumore della vita, l’essenza delle cose. “Gli oggetti del mondo esterno, gli oggetti d’uso comune, i sostantivi, affollandosi e incalzando, si impadroniscono dei versi, cacciando via le parti più indeterminate del discorso. Oggetti, oggetti e ancora oggetti si allineano in colonna rimata sul ciglio della strofe. È un verso, il celebre tetrametro puškiniano, che in un certo senso rappresenta l’unità metrica della vita russa, la sua misura lineare: quasi una misura presa a tutta l’esistenza russa, così come si disegna il contorno del piede per fare la scarpa, o si dice un numero per trovare un guanto che aderisca perfettamente alla mano. Così come i ritmi della Russia parlante, il canto del suo linguaggio colloquiale si sono intonati sulla misura di durata del trimetro di Nekrasov e sulla sua rima dattilica”.

Pasternak-Picture-QuotesPasternak è consapevole del fatto che il rapporto di forze che presiede alla creazione a un certo punto pare capovolgersi: la priorità non è più della persona né dello stato d’animo che la persona cerca di rendere, ma del linguaggio con cui vuole esprimerlo. “Il linguaggio, dal quale nascono e del quale si rivestono il contenuto e la bellezza, comincia a pensare e a parlare da sé, per conto dell’uomo, e diventa tutto musica, non nel senso di un’esteriore risonanza fonetica, ma in quello dell’impetuosità e potenza del suo flusso interiore. Allora, simile alla massa irruente di un fiume che con il suo scorrere leviga le pietre del fondo e fa girare le ruote dei mulini, il linguaggio che si effonde va creando da sé, con la forza delle sue leggi, procedendo nel suo corso, il metro e la rima e molte altre forme e rapporti più importanti, fino a quel momento non colti, non indagati, senza nome.”
È la sua vecchia idea portante che l’arte non sia una categoria o un’area che comprende un’infinità di concetti e fenomeni derivati, ma al contrario qualcosa di ristretto e concentrato, la designazione del principio che entra nella composizione dell’opera, la definizione della forza che vi è impiegata o della verità che vi è elaborata. Idea che mette in bocca sempre a Živago: “L’arte non mi è mai sembrata un oggetto o un aspetto della forma, ma piuttosto una parte misteriosa e nascosta del contenuto… Le opere d’arte parlano in tanti modi: con l’argomento, le tesi, le situazioni, i personaggi. Ma soprattutto parlano per la presenza dell’arte. La presenza dell’arte nelle pagine di Delitto e castigo sconvolge più del delitto di Raskòl’nikov… L’arte è una sorta di idea, di affermazione della vita, che per la sua sconfinata ampiezza non si può scomporre in singole parole. Ma, quando una briciola di questa forza entra nella composizione del più complesso organismo, l’ingrediente arte supera di per sé il significato di tutto il resto e diventa l’essenza, l’anima e il fondamento dell’intera rappresentazione.”
L’arte è sempre “al servizio della bellezza e la bellezza è la felicità di dominare la forma e la forma è il presupposto organico dell’esistenza.” Per esistere, ogni cosa vivente deve possedere la forma e di conseguenza tutta l’arte, non esclusa quella tragica, è il racconto della felicità di esistere. Ecco la convinzione profonda di Pasternak e il motore stesso della sua ispirazione.
L’arte è intimamente compromessa con la vita e la vita è un mistero aperto e positivo. “L’uomo nasce per vivere, non per prepararsi alla vita, e la vita stessa, il fenomeno vita, il dono della vita, sono una cosa così affascinante, così seria! Come è bello il mondo, nonostante il dolore, nonostante la morte, nonostante tutto.” Pasternak è convinto che l’uomo viva non nella natura, ma nella storia. E la storia è un dar principio a lavori secolari per riuscire poco a poco a risolvere il mistero della morte e a vincerla un giorno. Si vive e si muore nella storia.

pasternak 1Paradossalmente, nessuno fa la storia. “La storia non si vede, come non si vede crescere l’erba. La guerra, la rivoluzione, i re, i Robespierre sono i suoi stimolanti organici, i suoi lieviti. Fanno le rivoluzioni uomini attivi, fanatici unilaterali, geni dell’autolimitazione. In poche ore o in pochi giorni abbattono il vecchio ordinamento. I rivolgimenti durano settimane, tutt’al più qualche anno e poi, per decenni, per secoli, gli uomini venerano come qualcosa di sacro lo spirito di limitazione che ha portato al rivolgimento.” Il senso della vita che “incommensurabilmente identica, riempie l’universo, e a ogni ora si rinnova in innumerevoli combinazioni e trasformazioni” spinge l’uomo “a tendere in avanti, verso l’alto, verso la perfezione, e a raggiungerla.”
Tutto ciò passa attraverso le parole di Živago: per vivere, occorre “un’attrezzatura spirituale” i cui dati sono già nel Vangelo: “in primo luogo, l’amore per il prossimo, questa forma suprema dell’energia vivente, che riempie il cuore dell’uomo ed esige di espandersi e di essere spesa.” Poi i principali elementi costitutivi dell’uomo d’oggi, secondo i quali non è ormai più pensabile: “il senso della libera individualità” che tuttavia non cancella il principio “della vita come sacrificio.” È, insomma, la convinzione che i legami tra i mortali sono immortali e che la vita è simbolica perché ha un significato. Il Cristo e il Vangelo hanno inciso profondamente su Pasternàk e, alla fine, il messaggio che passa attraverso le sue pagine direttamente e indirettamente è profondamente cristiano.
La concezione dell’amore si lega sempre a indici supremi. Anche l’amore che lega Jurij e Lara è fuori dal comune: “non si erano amati perché era inevitabile, non erano stati bruciati dalla passione, come si dice. Si erano amati perché così voleva quanto li circondava: la terra sotto di loro, il cielo sopra la loro testa, le nuvole e gli alberi.” Un’idea romantica, intrisa di un senso panico di esaltazione della natura e riportata tuttavia al senso di comunione cristiana. Idea che, estesa ai protagonisti del suo romanzo, Pasternàk sembra sperimentare in prima persona con Ol’ga Ivinskaja con la quale convisse senza che venisse spezzato il vincolo familiare con Zinaida, proprio come per Živago che nel romanzo non rompe con Tonja mentre vive il suo amore con Lara.

LA RIVOLUZIONE

Nonostante la funzione positiva svolta dal Partito Comunista durante la guerra, “l’idea di avere con i capi del regime un qualsiasi rapporto” riusciva a Pasternak “sempre più disgustosa”, dichiara nel 1945 a Isaiah Berlin. La Russia gli appariva “una galera, una nave di forzati” e i capi erano “i guardiani che frustavano i rematori”.

La rivoluzione, contro le aspettative e le speranze degli inizi, si era rivelata un mostro terribile: “il salto da una regolarità placida e innocente nel sangue e nei gemiti, nella follia generale e nella barbarie dell’omicidio di ogni giorno e di ogni ora, legalizzato ed esaltato”. Paradossalmente la rivoluzione aveva presto dispiegato “tutta la conseguente spietatezza elaborata in nome della pietà,” in nome di quell’ordine nuovo diventato “la divinità ingorda di sacrifici umani”.
In nome delle presunte conseguenze a venire della rivoluzione, deve ammettere Živago-Pasternak, “alla gran parte di noi si richiede un’ipocrisia costante, eretta a sistema. Ma non si può, senza conseguenze, mostrarsi ogni giorno diversi da quello che ci si sente: sacrificarsi per ciò che non si ama, rallegrarci di ciò che ci rende infelici.” Di qui le depressioni, le malattie mentali che attraversano la società sovietica e moltiplicano l’apertura dei manicomi accanto alle prigioni, perché “il sistema nervoso non è un vuoto suono” e patisce le conseguenze di tale continua violenza.
Nonostante tutto, Pasternak sperava ancora in un grande rinnovamento della vita russa “per effetto di quella bufera purificatrice che era stata la guerra”. In lui era molto profondo il senso del legame storico con il suo paese, sulla linea degli slavofili, della tradizione che partiva dal leggendario Sadko per arrivare a Stroganov e a Kočubey, a Deržavin, a Žukovskij, a Tjutčev, a Puškin, a Baratynskij, a Lermontov, fino a Tolstoj. Sentiva di vivere in comune con la vita interiore del popolo russo, “di condividerne le speranze, le paure, i sogni, di esserne la voce, come lo erano stati ciascuno a suo modo Tjutčev, Tolstoj, Dostoevskij, Čechov e Blok”.

È da questa vocazione di fondo e dalla tormentata elaborazione che mette in moto e fa lievitare per anni che nasce Il dottor Živago, secondo la definizione dell’autore: “amore, sofferenza e libertà, un religioso atteggiamento verso l’uomo e il suo destino, e la estenuante ricerca della verità e della giustizia sono i temi cardini del romanzo. Tutto ruota intorno alla guerra e alla rivoluzione, il tutto pervaso da un forte e urgente senso di libertà, fisica e di espressione della parola”, dentro il quadro di una ricostruzione di ventisei anni della storia russa, dal 1903 al 1929, dall’ultima fase zarista all’imporsi del nuovo sistema dell’Unione Sovietica.
Le promesse della rivoluzione erano state tradite in tutto, secondo Pasternak, anche dal punto di vista creativo. Si era risolta in una cocente delusione la grande fioritura di esperimenti innovativi che caratterizzava la vita artistica dei primi vent’anni del secolo: i nuovi movimenti della pittura e della scultura e le loro varie articolazioni e confluenze in letteratura. Con il suo occhio lungo e la sua sensibilità sorda a qualsiasi compromesso, Pasternak ha colto l’illusione molto prima di altri: “l’avanguardia ha avuto una breve euforica fioritura, ma era chiaro che la sua filosofia anarchica, per quanto utile a svecchiare i canoni imperanti, contrastava con i dogmi fondamentali del marxismo sovietico”, ai quali come autore non ha mai aderito resistendo alla pressione dell’ambiente ufficiale e alle richieste di una letteratura di propaganda.

In ogni caso, Pasternak non credeva che l’arte delle avanguardie fosse capace di trasformare il mondo, meno che mai in quella polverizzazione di gruppi dai nomi assurdi che si combattevano reciprocamente sulla scena dei primissimi anni della rivoluzione: costruttivisti, produttivisti, oggettivisti, suprematisti, formalisti, transmentalisti… I suoi riferimenti e le sue fonti privilegiate, anche in letteratura, pescavano soprattutto nella grande tradizione, pur essendo attratto e coinvolto dalle “vere innovazioni” come le chiamava lui, forte di fronte alle accuse di individualismo e di formalismo che gli venivano dalle associazioni degli scrittori e di fronte alle calunnie dei nemici e alle gelosie dei rivali.
Degli scrittori russi, amava su tutti Tolstoj, “genio incomparabile”, poi Puškin, Lermontov, Čechov e Dostoevskij. Dei suoi contemporanei, pur leggendo con interesse Blok, Pasternak sentiva più congeniale Belyj per le sue aspirazioni alla rinascita spirituale della Russia. Gli piacevano la Cvetaeva e l’Achmatova, cioè due poeti estranei del tutto alle influenze del regime. Considerava Brjusov “un’ingegnosa scatola musicale”, ma non un poeta. Verso Majakovskij aveva un atteggiamento ambivalente: un distruttore delle vecchie forme, fondamentale nell’evoluzione della poesia in Russia, ma non un grande poeta, rovinato da una “insopportabile retorica declamatoria”.
Tra gli scrittori stranieri, “per la profondità psicologica e la potenza espressiva” la sua predilezione andava a Shakespeare, di cui aveva tradotto alcuni drammi e, tra gli altri, Amleto, Antonio e Cleopatra, Romeo e Giulietta e, in parallelo, a Proust, del quale aveva riletto più volte l’intera Recherche. Era interessato ai simbolisti francesi e al Rilke dei Quaderni di Malte Laurids Brigge, che tradusse in russo e in cui ritrovava autobiograficamente la tormentosa condizione esistenziale dell’artista chiuso nella propria interiorità, riproposta poi narrativamente attraverso Živago. Prima e durante la composizione del suo romanzo, Pasternak tornava spesso sulle pagine dell’Ulisse di Joyce, sentito non come modello ma come “esempio di libertà compositiva”.

LE POESIE DI ŽIVAGO

Jurij Živago è la trasposizione romanzata, l’alter ego narrativo di Pasternak. Si fa interprete nelle pagine del romanzo di quella stessa fragilità dell’individuo e di quella solitudine dell’intellettuale che Pasternak sperimenta nella sua esistenza dentro la violenta morsa della storia del suo paese “stravolto e squartato” dalla guerra e dalla rivoluzione. Si fa portavoce di quella stessa alternativa spiritualistica impregnata di sensibilità cristiana di cui Pasternak è stato testimone coraggioso nella sua vita. Dietro alla sua creatività e all’esercizio del pensiero, Jurij nel romanzo scrive e pubblica poesie proprio come fa lo stesso Pasternak nella vita reale. E Jurij nel romanzo vive lo stesso dissidio del suo autore tra l’artista e la società, tra la poesia e la politica, tra l’arte e la storia, tra l’amore e il matrimonio.
Se dunque Jurij è Boris, le poesie che devono concludere il romanzo non possono che essere quelle più rappresentative e autenticamente appartenenti a Pasternak. È un progetto al quale l’autore lavora con convinzione parallelamente alla stesura delle pagine narrative, andando a costruire un nucleo denso e articolato secondo i temi stessi del romanzo, una sorta di antologia intesa come fiore del fiore, anticipandone a verifica delle intenzioni la pubblicazione nella rivista “Znamja,” nell’aprile del 1954. Non è un caso perciò che, come parte integrante del romanzo, le Poesie di Živago siano le più incisive, le più intense, le più suggestive poesie di Pasternak.

Compagni di strada come Anna Achmatova e Marina Cvetaeva, consideravano Pasternak il poeta più rappresentativo e più grande della loro generazione, non solo o non tanto per le vertiginose trame verbali e metaforiche di cui aveva dato prova nella sua prima produzione, ma per la straordinaria misura lirica dentro cui aveva saputo far emergere la sua più autentica umanità. Per le atmosfere intime e personalissime, prive di qualsiasi accento declamatorio, con cui tratta il tema storico e della patria sofferente, e per lo “scintillante mosaico di immagini” attraverso cui parla d’amore, di illusioni e delusioni, di insoddisfazione personale, di ansia religiosa, di ricerca spirituale.

Le Poesie di Živago ripercorrono l’intera vicenda di Jurij nel romanzo, facendo da riassunto per “tappe” del percorso esistenziale e costituendo ciascuna la “stazione” e “icona” di una fase, di una meta, di una caduta, di una ripresa, di un ritorno. E, come nel romanzo, di fronte alla violenza della storia che “piega e piaga” nel dolore e nel sangue gli uomini, risalta la felicità che per breve tratto nella discontinuità comunque li attraversa in virtù della natura e della misteriosa carica spirituale di cui sono ricchi senza rendersene conto.
Nelle Poesie di Živago Pasternak realizza al massimo grado quella qualità dello stile le cui caratteristiche mette in bocca, in trasposizione autobiografica, a Jurij: “Per tutta la vita ho sognato un’originalità sobria, smussata, irriconoscibile all’esterno, nascosta sotto il velo di una forma ovvia e consueta. Per tutta la vita ho mirato all’elaborazione di quel linguaggio semplice e discreto, in virtù del quale lettore e ascoltatore si impadroniscono del contenuto senza accorgersi del modo in cui lo assimilano.” Uno stile inavvertito, “che non attirasse l’attenzione”, ma capace di sprigionare una grande suggestione, perseguito da Pasternak con una rara consapevolezza del suo percorso di ricerca creativa.
Come sottolinea Renato Poggioli, nelle Poesie di Živago “sono rievocati in una specie di penombra psichica, in un delicato chiaroscuro che suggerisce quasi senza parlarne, i più profondi misteri dell’anima e della vita.” E Angelo Maria Ripellino osserva che la poesia di Pasternak “è tessuta di elementari sensazioni psichiche. Nei suoi versi, come nel campo d’un microscopio, palpita uno sconnesso formicolio di impressioni primordiali. Ed è questa sequela di sensazioni iniziali, di improvvisi stupori, di incantamenti a dare a quei versi una straordinaria freschezza, un sapore di meraviglia. Rispecchiando i riflessi più semplici della coscienza nella loro immediatezza, le immagini, inusitate, dischiudono il magico spazio d’un mondo che sembra creato da poco, ancora gonfio di sonno e stillante di colori. Gli oggetti assumono una nuova solidità di contorni, come se il poeta li avesse liberati dalla muffa del tempo. Attonito, con gli occhi spalancati, coi nervi tesi a sorprendere le più sottili minuzie, Pasternak s’aggira in quel mondo a tentoni, come uno stralunato che veda ogni cosa per la prima volta. C’è nelle sue pagine un’aria da giorno della creazione.”
Nella più assoluta precisione dei dettagli, ogni elemento della realtà cessa subito di essere realistico per farsi luminosamente simbolico. Tutte le situazioni, di pensiero (“la vita ha la durata di un istante, / solo un rapido dissolversi / di noi stessi in tutti gli altri, / come ci fossimo offerti loro in dono”) o di emozione (“non riesco a tracciare / il confine che mi separi da te”), di illuminazione (“libera ostinazione di volare, / slancio dell’ala appena calibrata / e creazione e dono dei miracoli e immagine / del mondo fatta parola e rivelata”) o riflessione (“è una pena che l’universo sia più semplice / di quanto pensi qualcuno più istruito”), comprese le rievocazioni di figure storiche (Maria, il Cristo, Maddalena) o leggendarie (il cavaliere senza macchia e senza paura, il Brigante Usignolo), le riprese di episodi del passato comune o del proprio, sono sempre calate in precise atmosfere di ore e di stagioni.

mandel'stam Achmatova e Pasternak 1940

Achmatova e Gumilev

L’amore occupa una parte importante delle poesie e, soprattutto, ricostruisce in versi il percorso sentimentale di Jurij nel parallelo con lo sviluppo del romanzo. A ben guardare, si attesta anche nelle poesie l’assunto fondamentale, prima di tutto autobiografico, che innamorarsi non è sempre lo stesso che voler bene e che, quando le due cose coincidono, l’esperienza dell’amore è esaltante e “due esseri a un tratto, pur nella loro concretezza terrena, si staccano da ogni cosa terrena.”
L’amore si manifesta addirittura come dono straordinario: “Amano tutti senza rendersene conto, / di quanto è straordinario / questo loro sentimento.” Siamo in un’ottica superiore, più cristiana che romantica: “Il dono dell’amore, è vero, / è come ogni altro dono: / non chiede spiegazione, / per quanto grande sia / non si rivela mai senza sorpresa / nell’illuminazione.” Ha la sua carica di sensualità: “Tu lasci andare giù il vestito in modo naturale / come, spogliandosi, il bosco fa con le sue foglie / quando ti abbandoni ebbra nel mio abbraccio / nella vestaglia a fiocchi lucida di seta.” Ma lo slancio dei corpi “in tutto si fa anima e dolcezza” e ha una sua azione costruttiva: “ognuno degli istanti, / in cui ci viene addosso come un alito / d’eternità il fremito della passione, / è un momento di rivelazione, / di un approfondimento / di noi stessi e della vita.”
L’amore è “l’apice di una reciproca / compatibilità di intenti / che non ammette gradazioni / e in cui nessuno sta sopra o sotto, / è un’equivalenza di intenzioni / dell’essere pieno nella sua interezza.” Senza che si perda però la consapevolezza che nella sua “selvaggia tenerezza, / che se ne sta sempre in agguato, / c’è qualcosa di ribelle e di vietato.” E dunque, proprio per questo, nella necessità di essere “cauti, / averne sempre un po’ paura / e, aderendo, sempre diffidarne, “ perché è “una forza distruttiva che è arbitraria, / contraria alla pace della casa.” L’amore tuttavia spinge al salto nel vuoto: “Tu sei il bene di un passo che è fatale, / quando vivere dà fastidio più di un male. / Ma la bellezza incita al rischio con coraggio / ed è la cosa che attira noi l’uno sull’altra.
Si diceva della dimensione spiritualistica nutrita di sensibilità cristiana che caratterizza l’esperienza di Pasternak. Pasternak la condivide con tutta la grande tradizione russa, in particolare con Tolstoj e con Dostoevskij, del quale cita altrove un passaggio tratto dai Fratelli Karamazov e messo in bocca a padre Zosima: “Loro hanno la scienza, ma nella scienza c’è soltanto quello che cade sotto i sensi. Il mondo dello spirito, che è la meta superiore dell’essere umano, è stato ripudiato completamente, è stato bandito con un’aria di trionfo, anzi con un senso di odio.” E il Vangelo, che entra spesso come riferimento diretto nelle pagine del romanzo attraverso le parole di Jurij, caratterizza attraverso singoli episodi e certe figure portanti anche alcune delle Poesie di Živago.

C’è la rievocazione di feste religiose, la cui situazione per altro non è mai celebrativa ma mette in moto sempre un confronto drammatico nella dinamica esistenziale intimamente coinvolgente, come per esempio nell’atmosfera angosciante del venerdì santo (“sta vacillando l’ordinamento stesso / della terra: si seppellisce Dio!”) o nello scenario di stupore della “pianura carica di neve” attraversata dalla stella cometa che in “un riverbero di incendio” guida alla grotta pastori e re magi. E ci sono i racconti che chiamano in scena i protagonisti: Maria, Gesù, Maddalena. Il mistero della rinascita si rispecchia nell’atteggiamento protettivo di Maria nei confronti del bambino appena nato, “splendente nella sua mangiatoia, / come raggio di luna nella cavità di una quercia.” Leggiamo di Gesù che compie il miracolo del fico ridotto in cenere mentre è in cammino verso Gerusalemme o quando, la domenica delle Palme, entra in città per l’ultima sua settimana di vita sotto un cielo dalla “pesantezza livida del piombo” o quando viene fatto prigioniero nell’orto del Monte degli Ulivi in una notte dominata dallo “scintillio lontano delle stelle.” Scopriamo Maddalena ossessivamente visitata di notte dal demone dei ricordi della sua dissolutezza “a espiazione di tutto il suo passato” o in lacrime mentre lava i piedi di Gesù prevedendone la fine imminente.

Sempre e comunque, oltre al nucleo intellettuale o al racconto in sé di ogni singola poesia, restano al lettore, altra virtù della potenza espressiva di Pasternak, le suggestioni che si scatenano dal compiersi attraverso le parole delle variazioni metereologiche che caratterizzano e attraversano la vita nelle diverse ore e stagioni. Una chiara notte di ghiaccio, con la straordinaria luminosità di tutto ciò che si vede: la terra, l’aria, la luna, le stelle, saldate insieme dal gelo. L’aria densa di brina, un ghiaccio nero che ricopre le strade, la neve alle finestre e sui tetti, gli alberi come lenzuoli tremolanti di fantasmi.
O, ancora, i primi annunci della primavera, con il disgelo che mette in moto tutto un flusso in crescendo: il parlottio di gocce, scoli, rivoli, rigagnoli, mulinelli. E con la natura che sbadiglia, stirandosi, mentre dalle stalle spalancate si sparge l’odore del letame e tutto intorno fermenta, cresce, sale al magico lievito dell’esistenza.

Per non parlare dei luoghi e, in particolare, della città amata: Pasternak è indissolubilmente legato alla capitale russa. “Per il sognatore e il nottambulo non vi è nulla di più caro al mondo che la città di Mosca.” Mosca estiva, abbagliata dal sole, arroventata negli asfalti dei suoi cortili, che getta riflessi dalle finestre dei piani superiori e “respira la fioritura delle nuvole e dei viali.” L’odore dell’incipiente inverno cittadino, di foglie d’acero calpestate, di neve fradicia, di fumo di locomotiva e di caldo pane di segale appena sfornato. La corsa delle nuvole sopra i tetti della città e la pioggia che cade obliqua sotto la furia del vento e le raffiche che tormentano le piante dell’orto, i tralci di vite. I boati dei tuoni che si susseguono senza interruzione, trasformandosi in un rombo continuo, e, alla luce dei lampi, gli alberi che sembrano correre tutti insieme lungo la strada. Mosca che rinasce infine con l’aprile: “nelle case di Mosca, è a un tratto / che irrompe d’impeto la primavera. / Volano via le tarme dall’armadio / strisciando sui cappelli estivi, / mentre si ripongono le pellicce nei bauli. // Lungo i mezzanini in legno / si espongono di nuovo vasi di fiori / con le violaciocche colorate, / e le stanze respirano aria aperta / e sanno di polvere solo le soffitte.”
L’altro polo per Pasternak è la dacia di Peredelkino (“il vento, con i suoi gemiti di pianto, / fa tremare il bosco fino alla dacia… / e tutti quanti insieme gli alberi / nella loro sconfinata quantità / come armature di velieri oscillano”), cioè un concentrato del paesaggio russo ricapitolato in giardino, con aceri e betulle, siepi di uvaspina e ribes (“la foglia del ribes è un tessuto granuloso”), in mezzo ai tronchi fitti dei tigli e ai vecchi arbusti di sambuco e di lilla (“la recinzione sfondata del giardino / apre un varco fin dentro il bosco di betulle”). È agosto: “come promesso, mantenendo la parola, / il sole è entrato di primissima mattina / con una obliqua striscia zafferano / dalla tendina giù fino al divano. // Ha tinteggiato di ocra caldo / il bosco, le case del villaggio, / l’umido cuscino del mio letto / e l’orlo del muro dietro lo scaffale.”
Senza che Pasternak rinunci, anche nei suoi versi, alle misure estreme e sterminate delle steppe, dei boschi, delle montagne che caratterizzano la movimentata sceneggiatura del romanzo: “Si spegnevano le luci del tramonto / su una pista di fango dentro la foresta, / verso la lontana fattoria dei monti Urali.” E, anche nei versi, ricompaiono ondeggiando i campi di girasoli senza confini e ritornano le vorticose fasi del disgelo, più mosse e più potenti delle versioni in prosa: “l’acqua scava buchi nelle sponde / e si attorciglia in gorghi e mulinelli”, “precipitando giù spandeva, / si riversava ovunque e il bosco / si riempiva del suo rombo. // Nel suo fumido vapore, / strisciavano come serpenti i rivoli, / si impantanavano affondando / e sibilando riaffioravano più in basso.
La poesia è dunque, per Pasternak, quella “spugna” capace di restituire in tutti i suoi molteplici aspetti (esperienze, vicende, avvenimenti) e in tutte le sue infinite sfumature la “semplice complessità della vita.”

boris pasternak cop La notte biancaLA VITA

Borís Leonídovič Pasternak nasce a Mosca nel 1890, figlio di artisti di talento: la madre pianista molto nota e il padre pittore, insegnante nella locale Accademia, e illustratore di opere di Tolstoj. La sua educazione inizia al Gymnasium tedesco moscovita e prosegue poi studiando filosofia presso l’Università di Mosca.
Grazie all’amicizia con il compositore Skrjabin, per una passione della sua prima giovinezza intraprende lo studio della composizione musicale a cui si dedica per sei anni. Ma nel 1912 rinuncia alla musica come vocazione di vita da pianista e compositore, tornando all’interesse esclusivo per la filosofia e decidendo di andare all’Università di Marburgo. Qui, sotto la guida di Hermann Cohen, viene in contatto con le tendenze neokantiana e neoegheliana.
Dopo intensi mesi di studio e un viaggio in Svizzera e in Italia, torna in Russia per dedicarsi alla letteratura, che gli si è rivelata come la sua vera vocazione. Esordisce giovanissimo nell’atmosfera della poesia d’avanguardia e scrive le sue prime poesie, che escono nell’almanacco “Lirika”. Fa parte di un gruppo di Futuristi moscoviti, vicini soprattutto all’opera di Chlebnikov, ma che risalgono anche a modelli precedenti come Ivan Konevskoj e l’anticonvenzionale poeta ottocentesco Jazykov. Il gruppo prende il nome dall’almanacco “Centrifuga”, pubblicato nel 1913. E, più tardi, collabora anche alla prima “LEF” di Majakovskij.

Nel 1914 esce la sua prima raccolta di poesie Il gemello delle nuvole, seguita nel 1917 da Oltre le barriere, che gli porta un’attenzione maggiore negli ambienti letterari. Ma sono le raccolte successive a segnare il più ampio riconoscimento critico per l’originalità e la maturità espressiva. Scritte nel 1917, dopo aver circolato per anni in manoscritto, le poesie di Mia sorella la vita vengono pubblicate nel 1922 ed esercitano un grande influsso non solo sui poeti più giovani, ma perfino sui più anziani.
Nel 1922 Pasternak sposa l’artista Evgenija Vladimirovna Lourie, dalla quale ha un figlio. Famosa è una sua lettera d’amore a Evgenija, rivelatrice del temperamento di Pasternak: “Dolce amore mio, mi gira la testa sotto l’effetto tormentoso di queste tre parole: Dolce Amore Mio. Spesso ti vedo come dal vivo, come se tu stessi qui dietro la mia schiena, e ti amo terribilmente, con un impeto che fa impallidire… La sfumatura della tua voce di petto singolare, irripetibile, così mia, così cara. E, quando sorridi e nello stesso tempo sei arrabbiata, gli occhi ti si socchiudono meravigliosamente, il mento si arrotonda in modo indicibile.” L’amore, tuttavia, sarà destinato a durare poco, come il matrimonio.
Nel 1923 pubblica una nuova importante raccolta di versi, Temi e variazioni, che segna un’ulteriore crescita del suo stile. Il meglio di questo come del precedente Mia sorella la vita viene poi raccolto nel volume Due libri nel 1927.
Del 1926 è il testo poetico-narrativo Spektorskij, poema autobiografico che rievoca la vita spirituale del protagonista, il cui nome dà il titolo all’opera, sulle tracce di esperimenti analoghi di Solovjev, Belyi, Blok e soprattutto dell’Onegin di Puškin. Ma i risultati sono deludenti quanto a suggestione e forza espressiva, come per il successivo poema L’anno 1905, rievocazione epica della rivoluzione del 1905 culminante nell’episodio del “Luogotenente Schmidt”, che ricostruisce con potenza l’ammutinamento della corazzata Potemkin. Prove che Pasternak, nell’atmosfera di generale entusiasmo patriottico, aveva perseguito nel tentativo di “uscire dal cerchio dell’introspezione, e di spersonalizzare e oggettivare l’ispirazione”.
Il lavoro sui poemi narrativi dà intanto i suoi frutti nella scrittura in prosa, in particolare nella felice serie dei Racconti pubblicati nel 1925 e in particolare nell’ultimo, “L’infanzia di Lüwers”, che fa pensare al Rilke di Malte Laurids Brigge e in cui il preannuncio di un’adolescenza femminile, “il maturarsi nella pubertà del corpo e dell’anima di una fanciulla”, è rievocato con una grande sottigliezza psicologica.

Il 1930 è cruciale nella vita di Pasternak. Il suicidio di Vladimir Majakovskij, il 14 aprile di quell’anno, evento simbolicamente decisivo di tutta la storia culturale russa post rivoluzionaria, diviene per lui, che di Majakovskij era stato amico pur distanziandosi sempre più dal suo impegno politico, un momento carico di significato, alla cui decifrazione dedica la sua prima autobiografia spirituale, Il salvacondotto, pubblicato nel 1931 e in cui si rivela ormai chiaramente il suo temperamento, nella testimonianza del dissidio tra l’artista e la società, tra la poesia e la politica, tra l’arte e la storia.
Nel 1935, in uno stato di depressione fisica che era il segno della sua crisi interiore, Pasternak, per ordine di Stalin, viene inviato, contro il suo desiderio, a Parigi, al “Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura”, dove la sua eventuale assenza sarebbe stata imputata a ragioni politiche, mentre la sua presenza serviva a dar lustro al regime sovietico, che in quegli anni era impegnato in un’ azione di egemonia sulle forze culturali antifasciste.
Lo stesso Pasternak racconta le modalità del suo coinvolgimento: “Ero in campagna quando arrivarono due funzionari dell’Unione degli Scrittori. A Parigi si tiene un congresso antifascista, mi dicono, e lei è stato invitato. È opportuno che lei parta domani. Passerà da Berlino e lì può fermarsi qualche ora e vedere chi vuole. Arriverà a Parigi il giorno dopo e parlerà al congresso in serata. Replicai che non avevo un vestito adatto alla circostanza e mi dissero che avrebbero provveduto loro. Mi fecero avere una giacca scura da mattino con i pantaloni a righe, una camicia bianca con i polsini rigidi e il colletto a punta, un magnifico paio di scarpe di vernice nera che, scoprii, mi andavano alla perfezione. Ma riuscii, non so bene come, a presentarmi al convegno nei miei abiti di ogni giorno. Appresi poi che André Malraux, uno dei principali organizzatori del congresso, aveva esercitato tutte le pressioni possibili, all’ultimo minuto, perché fossi invitato. Aveva spiegato alle autorità sovietiche che l’assenza mia e di Babel’ avrebbe dato luogo a inutili congetture, perché tutti e due eravamo conosciuti in Occidente. E poi, a quel tempo, non erano molti gli scrittori sovietici ai quali i liberali d’Europa e d’America fossero disposti a prestare ascolto. Così, benché io non fossi nella prima lista dei delegati sovietici (e come avrei potuto esserci?), le autorità non poterono opporsi”.

Come previsto, Pasternak si ferma a Berlino, dove incontra solo la sorella maggiore Josephine perché i genitori in quei giorni si trovavano a Monaco, prima di arrivare a Parigi. Ma il periodo del convegno è disturbato da problemi di salute, come scrive: “Tutti questi giorni sono stato come in delirio e in uno stato di tremenda debolezza non per l’abbondanza di incontri e di impressioni, ma perché, come pensavo, la mia salute è molto peggiorata durante il viaggio… È stato pur sempre un atto di grande crudeltà da parte di tutti mandarmi qui in un simile stato… sono tre mesi che durano questo strazio di nervi e l’insonnia ogni notte, roba da far impazzire chiunque”.
Ma, in ogni caso, Parigi è un luogo pieno di fascino: “È la protopatria delle città. È un vero universo di bellezza, nobiltà e umanità sedimentate per secoli, dal quale, quasi per un prestito, a suo tempo sono nate la varie Berlino, Vienna e Pietroburgo”. Ed è l’occasione per tutta una serie di contatti: “ho avuto frequenti incontri: con Zamjatin e sua moglie, col pittore Larionov e Natalia Goncarova, con Ju, Annenkov, con la Cvetaeva, con Frenburg e coi Savic”. Per non parlare dei molti scrittori che conosce in occasione del congresso: Dreiser, Gide, Forster, Aragon, Auden, Spender, Rosamond Lehmann, tra gli altri.
Da Parigi si reca a Londra, dove vede l’amico Lomonosov, per tornare poi a Leningrado in nave, dividendo la cabina con Sčerbakov, allora segretario dell’Unione degli Scrittori. “Parlai senza sosta giorno e notte” racconta Pasternak a Isaiah Berlin. “Lui mi pregò di smettere, di lasciarlo dormire. Ma io continuai imperterrito. Parigi e Londra mi avevano svegliato, non potevo smettere. Chiese pietà, ma fui inesorabile. Dovette pensare che fossi uscito di senno e può darsi che io debba ringraziarlo per la sua diagnosi sul mio stato mentale”. Perché il ritratto di uno scrittore un po’ matto, diffuso al ritorno da Sčerbakov, insieme con il prestigio internazionale di cui godeva, può essere stato provvidenziale per Pasternak salvandolo durante la Grande Purga staliniana. In ogni caso, di lì in poi, Pasternak resisterà a qualsiasi pressione dell’ambiente ufficiale e politico, contro l’obbligo della letteratura di propaganda, contro le calunnie dei nemici e la gelosia dei rivali. Un’opera come la sua “era destinata ad essere accusata di individualismo e di formalismo” e, se l’ostracismo a cui lo condannavano la stampa letteraria e le associazioni degli scrittori era naturale nell’atmosfera sovietica, “fu ingiusto che assumesse l’aspetto di vera e propria proscrizione.”

Nel giugno del 1936, trascorre l’estate a Irpen, nei pressi di Kiev, in una casa di campagna affittata in comune con il filosofo Valentin Asmus, il pianista Heinrich Neuhaus e le loro mogli. È lì che Pasternak si innamora di Zinaida Nikolaevna Neuhaus, amore tanto forte da portare a due divorzi: quello di Pasternak dalla prima moglie Evgenija e quello di Zinaida dal marito Heinrich e al matrimonio dei due. Amore che, verificato dalla lunga vita coniugale, trova la testimonianza del suo principio nella ripresa del ciclo di poesie Seconda nascita, titolo che Pasternak interpretava come riferito a lui e a Zinaida. La nuova famiglia si trasferisce, nel 1936, nel sobborgo moscovita di Peredelkino, il villaggio degli scrittori voluto da Gor’kij per assicurare condizioni di tranquillità al lavoro creativo.
Per Pasternak, gli anni Trenta sono il periodo di una tormentosa crisi spirituale, conclusasi con la caduta di ogni illusoria speranza nelle promesse della rivoluzione. Il 1937, l’ anno dei grandi processi staliniani, è l’ acme di quella crisi che, già manifesta al tempo del suicidio di Majakovskij, si era accentuata nel 1934, durante il primo Congresso degli scrittori sovietici, quando Pasternak aveva evitato “la triste e pericolosa sorte di vedersi attribuire un riconoscimento semiufficiale della sua poesia e del suo ruolo di poeta”.
Nel 1941 la Germania invade la Russia e Stalin fa ricorso a tutti quei nomi che, da tempo in disgrazia, potevano tornare utili. Pasternak e l’Achmatova, con il prestigio e la fama che avevano, si coalizzano per favorire l’unità del popolo russo contro la minaccia hitleriana e aderiscono, con autentico patriottismo, alla campagna in difesa dell’integrità territoriale. Pasternak, che si era dedicato per alcuni anni esclusivamente alla traduzione (da Shakespeare, Goethe, von Kleist, i poeti georgiani), torna a pubblicare poesie durante la guerra: Sui treni del mattino (1943); La vastità terrestre (1945).

L’amore con Zinaida viene compromesso dall’incontro di Pasternak, nel 1946, con un’ altra donna, Ol’ga Ivinskaja, alla quale da quel momento la sua vita resta legata, senza che per altro ne risulti spezzato il vincolo familiare con Zinaida. Con la moglie e con il figlio Leonid, continua a vivere nella dacia di Peredelkino, dividendo la sua esistenza tra due famiglie distanti l’una dall’altra (Ol’ga Ivinskaja visiterà la dacia di Peredelkino per la prima volta soltanto dopo la morte di Pasternak). Del resto, già da tempo la passione per Zinaida, “donna priva di esaltazioni e ricca di ragionevolezza”, si era affievolita ed era diventata affetto. Era l’opposto della rivale Ol’ga, la quale, “piena di ambizione e di dedizione, oltre che di fascino e di gioiosità”, si legherà, anche drammaticamente, all’ attività letteraria di Pasternak, attività dalla quale Zinaida era sempre rimasta distante. Arrestata, interrogata e maltrattata, Ol’ga sarà inviata per cinque anni in un campo di lavoro.
Dopo la seconda guerra mondiale, Pasternak mette mano al suo unico romanzo, Il dottor Živago, che si diffonde in occidente e nel giro di pochissimo tempo, tradotto in più lingue, diventa il simbolo della testimonianza della realtà sovietica, con una scrittura drammatica e lirica: è il testamento artistico dell’autore. A Isaiah Berlin, parlando dei primi capitoli scritti alla fine della guerra, confessa: “sto lavorando a qualcosa di nuovo, veramente nuovo, qualcosa di luminoso, elegante, armonioso, ben proporzionato, classicamente puro, semplice… e sarà la mia ultima parola al mondo, e la più importante. Quello per cui desidero essere ricordato, quello cui dedicherò il resto della mia vita”.
Nel romanzo, potente affresco che si riallaccia alla tradizione della grande narrativa russa, incentrato sulla vita di Jurij Živago, medico e poeta, le vicende storiche vengono viste e interpretate “attraverso il racconto di piccoli, umili destini umani”. Se attraverso Jurij Živago Pasternak riesce, da una parte, ad esprimere non senza fierezza il senso tragico del proprio isolamento e della propria distinzione, dall’altra tenta, senza concessioni o compromessi, di mettersi in armonia con l’atmosfera storica del suo tempo e “di sentirsi all’unisono con gli uomini della sua nazione.”

boris pasternakPasternak aveva cominciato a scrivere il romanzo prima della morte di Stalin. Terminato alla fine del 1955, lo dà in lettura a molte case editrici moscovite. Non dubita che venga pubblicato e, del resto, alcune parti erano già uscite in anteprima fin dal 1954 sulla rivista sovietica “Znamja”. Al principio del 1956 una casa editrice accetta Il dottor Živago e si prepara a pubblicarlo con qualche taglio a cui l’autore aveva consentito. Contemporaneamente Pasternak, attraverso il giornalista italiano Sergio D’Angelo, fa pervenire il manoscritto all’editore Feltrinelli per una traduzione. Nel frattempo le autorità sovietiche bloccano la pubblicazione in Russia e richiedono all’autore di ottenere da Feltrinelli la restituzione del romanzo “allo scopo di apportarvi alcuni miglioramenti”. Pasternak si sottomette all’imposizione inviando un telegramma a Giangiacomo Feltrinelli, ma senza risultato, nonostante il successivo intervento di Surkov, presidente dell’Unione degli Scrittori dell’U.R.S.S. e altre pressioni esercitate attraverso i capi del partito comunista italiano.
Feltrinelli pubblica Il dottor Živago in edizione italiana alla fine del 1957. Le circostanze della successiva edizione in lingua russa non sono state mai del tutto chiarite: durante l’Esposizione Internazionale di Bruxelles del 1958, in un’operazione in cui a quanto pare era coinvolta anche la CIA, migliaia di copie del romanzo in lingua originale vengono distribuite a cura dell’organizzazione “Pro Russia” a turisti sovietici che visitavano il padiglione della Santa Sede. Il volume risultava stampato all’Aja, ma non era chiaro se si trattasse dell’originale o di una ritraduzione in russo dall’italiano. Fatto sta che un’edizione nella lingua originale era indispensabile per l’attribuzione del Premio Nobel, che venne infatti assegnato a Pasternak nell’ottobre nel 1958.
L’attribuzione del Nobel viene subito strumentalizzata politicamente: celebrato in nome della libertà in occidente, Pasternak viene attaccato violentemente in patria con un articolo apparso sulla rivista “Literaturnaja Gazeta” ed espulso dall’Unione degli Scrittori, oltre che minacciato di esilio. Temendo di non poter rientrare in Russia, dove desidera morire, il 30 ottobre Pasternak rifiuta ufficialmente il premio, delineando poi una specie di autocritica in due lettere, una per Chrušč’ev e l’altra per la “Pravda”, in cui denuncia le interpretazioni tendenziose del suo romanzo.
La rinuncia accresce la notorietà del romanzo, di cui circolano centinaia di copie dattiloscritte tra gli intellettuali, ma la fama non impedisce l’isolamento dello scrittore, che muore nel 1960 a Peredelkino e il suo funerale si svolge in forma clandestina. Per ristabilire la giusta stesura dell’opera, nel 1961 Feltrinelli pubblica un’edizione russa del Dottor Živago direttamente dal manoscritto dell’autore. La riabilitazione ufficiale, in Unione Sovietica, avviene solo alla fine degli anni ottanta, sotto Gorbačev.

Paolo Ruffilli

Nota di traduzione La versione delle poesie è quella della pubblicazione nella rivista “Znamja” dell’aprile 1954.

LA NOTTE BIANCA

LE POESIE DI ŽIVAGO
IL VENTO

Io ero morto già e, ancora viva, tu.
E il vento, con i suoi gemiti di pianto,
fa tremare il bosco fino alla dacia.
E non per proprio conto ognuno
ma tutti quanti insieme gli alberi
nella loro sconfinata quantità
come armature di velieri oscillano
sulla superficie mossa di una baia.
E non per prepotenza, credi,
o per chissà quale furore vano
ma nell’ansia di trovare le parole
di un canto per cullare te.

.
AMLETO

Spente le voci, eccomi entrato in scena.
Poggiato a uno stipite di porta,
vado intuendo nell’eco sempre più smorta
quello a cui la vita mi incatena.

Il buio notte mi ha già puntato addosso
mille binocoli nel loro fuoco incrociato.
Padre dolcissimo, considera il mio stato
e fa che io sfugga a questo calice, se posso.

La tua regia ostinata va comunque accolta
e io reciterò, va bene, la mia parte.
Ma un altro dramma dettano le carte,
dispensami almeno questa volta.

Si innesca la trafila dei gesti come un lampo,
non più eludibile il viaggio, fino in fondo.
Solo, affogato tra i farisei di questo mondo.
Vivere non è come attraversare un campo.

.
IL DISGELO

Prima da dentro disgelò
l’acqua nel più segreto
ma, compiuta l’impresa per metà,
si rivelò il prodigio

e dalla bianca coltre corse fuori
e cantò. Precipitando giù spandeva,
si riversava ovunque e il bosco
si riempiva del suo rombo.

Nel suo fumido vapore,
strisciavano come serpenti i rivoli,
si impantanavano affondando
e sibilando riaffioravano più in basso.

La primavera inebriava il cielo
che stordito si copriva
di nuvole di feltro sfilacciate
e le nuvole scoppiavano

in tiepidi acquazzoni
con un odore di terra e di sudore
a spazzare via gli ultimi resti
della nera crosta di ghiaccio.

MARZO

Scalda il sole da bagnare la camicia addosso
e precipita su di sé il burrone intontito a morte.
Come quello della mandriana rude e forte
ferve a primavera il lavoro a più non posso.

È languida la neve, in preda all’anemia,
ramificando in vene azzurre e in sacche.
E fumiga la vita dalla stalla delle vacche,
salute i denti dei forconi sprizzano via.

Ah, questi giorni e queste notti a non finire!
Avendo il caldo un crepitio di gocce come effetto,
a sciogliere i ghiaccioli giù dal tetto,
e un chiacchiericcio di rivoli senza più dormire.

Spalancati la rimessa, la cucina e il forno.
I colombi a beccare nella neve chicchi di avena
e a dare a tutto quanto vita nuova e piena,
odorando d’aria fresca, il letame sparso intorno.

.
LA NOTTE BIANCA

Mi riappare in sogno un’epoca lontana,
a Pietroburgo, la casa nel quartiere.
Figlia di una modesta proprietaria della steppa,
all’istituto, tu che eri nata a Kursk.

Sei bella e susciti l’ammirazione.
Noi due insieme, in quella notte bianca,
al davanzale stretti su una panca,
guardiamo giù dall’alta postazione.

Come farfalle di gas abbandonate,
il mattino scivola giù tremante.
Quel che ti racconto con voce bisbigliante
è simile a certe lontananze addormentate.

Siamo presi nella stessa velata
trepida tela di ragno del mistero,
come la città con il suo panorama intero
che piega laggiù oltre la Neva sconfinata.

Laggiù, lontano, oltre gli inarrivabili confini,
in quella bianca luce di pura primavera,
con uno strepito di canti gli usignoli a sera
fanno echeggiare i boschi come fossero vicini.

Frenetico dilaga il cinguettio di festa.
La voce del piccolo uccellino nel suo lievitare
spinge all’entusiasmo fino a scompigliare
la profondità incantata di tutta la foresta.

E là, come una viandante scalza,
la notte penetra lambendo lo steccato
e, dietro a lei, dal davanzale scavalcato
l’eco delle nostre voci si alza.

Sulle tracce di quei discorsi un po’ origliati,
nei giardini chiusi ognuno da un recinto,
indossano il loro abito dipinto i rami
dei meli e dei ciliegi tutti imbiancati.

E come fantasmi gli alberi dallo steccato
in folla bianca, in coro, sembrano andare
muovendo cenni d’addio per salutare
la notte bianca che tante cose ha rivelato.

.
SETTIMANA SANTA

Ancora il buio della notte intorno.
È ancora così presto a questo mondo
che le stelle in cielo sono in numero infinito
e ognuna ha in sé luce di giorno
e la terra, se fosse in suo potere,
sentendo leggere il salterio
a Pasqua si lascerebbe scivolare al sonno.

Ancora il buio della notte intorno.
È un’ora del mattino così presto in terra
che all’angolo del crocevia
la piazza se ne sta sdraiata là
e all’alba e al primo timido tepore
ancora manca un’intera eternità.

La terra è ancora tutta nuda
e di notte non sa come riuscire
a dondolare le campane
e a rispondere da fuori ai salmi dei cantori.

Dal Giovedì Santo fino
al Sabato di Pasqua,
l’acqua scava buchi nelle sponde
e si attorciglia in gorghi e mulinelli.

Il bosco è spoglio, senza fronde,
e nella settimana di Passione
la schiera dei tronchi in fila
sembra una folla assorta lì a pregare.

Ma in città, nel poco spazio,
riuniti come fossero a convegno
gli alberi stanno nudi a riguardare
oltre la cancellata della chiesa.

Il loro sguardo è pieno di terrore
e la loro angoscia ha una ragione.
I giardini escono fuori dai recinti,
sta vacillando l’ordinamento stesso
della terra: si seppellisce Dio!

Vedono una luce al presbiterio,
e il manto nero, e i ceri in fila,
le facce in lacrime…
e a un tratto la processione
esce incontro a loro con il sudario
e, all’ingresso, sembra
che si facciano da parte le betulle.

Il corteo, in giro per lo spiazzo,
avanza camminando sopra il ciglio
mentre intanto dalla strada
l’aria nuova porta sul sagrato
accenti di stagione e un soffio sapido
di ostie e d’ebrietà di primavera.

Marzo sparge neve a piene mani
sulla folla degli storpi del sagrato,
come fosse uscito col ciborio in mano
qualcuno dalla porta schiusa e avesse
elargito tutto quanto fino in fondo.

Il canto dura fino all’alba
e, recitati tra i singhiozzi a sazietà,
da dentro arrivano sommessi
e a tratti l’apostolo o il salterio
fin là, sotto i lampioni.

Ma a mezzanotte ogni creatura tace,
perché la primavera ha sparso voce
che basta appena che il bel tempo torni
e si potrà sconfiggere la morte
con lo sforzo della resurrezione.

Pasternak 10

STRADE DI FANGO

Si spegnevano le luci del tramonto
su una pista di fango dentro la foresta,
verso la lontana fattoria dei monti Urali
si trascinava l’uomo in groppa al suo cavallo.

Sussultava scossa la milza della bestia,
e ai tonfi degli zoccoli che sguazzavano nel fango
faceva eco tenendogli dietro per la via
l’acqua dentro i coni delle sorgenti.

Ma non appena gli allentò le redini
mettendo al passo il suo cavallo,
la piena trascinò con sé fin là da loro
l’urlo in tutto il suo fragore.

Come ci fosse qualcuno in risa o in pianto,
si frantumavano pietre contro le rocce
e precipitando ruotavano nei gorghi
tronchi divelti con tutte le radici.

E là dove il tramonto si incendiava
contro il nero di alberi lontani,
come una campana che suonasse a stormo
si alzò nell’aria la frenesia di un usignolo.

Dove il salice piegava il suo velo funebre
tutto incurvato giù, sul vuoto del burrone,
al modo del Brigante Usignolo° della tradizione
levava a gola spiegata il suo canto al cielo.

A quale pena mai, a quale mai passione
era destinato così tanto ardore?
E contro chi sparava dentro la macchia
la grossa scarica del suo fucile?

Pareva che dal posto di tappa dei forzati
dovesse uscire fuori un demone dei boschi
incontro ai drappelli di partigiani della zona
che procedevano chi a piedi e chi a cavallo.

La terra e il cielo, il bosco e il prato
erano pieni tutti di quei suoni sorprendenti:
versi a singulto, gridi ritmati
di felicità e dolore, di pena e di follia.
È il personaggio cantato in una celebre bylina, poema epico eroico tradizionale degli antichi slavi della Rus’, detto il Brigante Usignolo “forse per il suo fischio d’usignolo / forse per il suo grido di animale”.

DICHIARAZIONE

La vita è ritornata, così, senza ragione,
come allora, che si era interrotta in modo strano.
E sempre nella stessa vecchia strada,
la stessa ora nello stesso giorno dell’estate.

La stessa gente e ansie sempre uguali,
e il fuoco del tramonto ancora acceso:
contro il muro del Maneggio, come allora,
a cui mi aveva inchiodato il crepuscolo mortale.

Donne in abiti da poco, come allora,
vanno strascicando di notte con le scarpe
a rinchiudersi sui tetti di lamiera,
crocifisse come allora su in soffitta.

Eccola che, a passi lenti e stanca,
si affaccia piano piano sulla soglia,
e, salendo su dall’interrato,
taglia per traverso lo spiazzo del cortile.

E io, di nuovo, che cerco futili pretesti,
e poi di nuovo mi appare tutto indifferente.
Con la vicina che passa e gira l’angolo,
lasciandoci da soli l’uno in fronte all’altra.

Non piangere, le dico, non stringere
le labbra riempiendole di rughe,
che riaprirai le croste ormai seccate
di quello sfogo avuto in primavera.

Togli la tua mano dal mio petto,
lo sai che siamo cavi in stabile tensione.
Guarda che senza accorgerci neppure
saremo spinti ancora l’uno sull’altra.

E gli anni passeranno e tu ti sposerai,
dimenticando questi disordini felici.
Ma, farsi donna, sì che è una conquista,
fare impazzire è solo impresa da eroina.

Comunque sia, davanti al gran miracolo
di mani, spalle, dorso e collo di una donna
con la devota fedeltà di un servo
io benedico grato tutta la mia vita.

Ma, per quanto mi tenga incatenato
la notte con i lacci dell’angoscia,
la spinta alla fuga è la più forte al mondo
e la passione stessa invita a rompere i legami.

Boris PasternakESTATE IN CITTÀ

Parole tra loro dette a mezza voce,
tra l’una e l’altra i gesti più impazienti,
con i capelli riuniti a treccia
raccolti in alto sulla nuca.

Guarda la donna con il suo casco
sotto il gran pettine
mentre rovescia il capo
indietro con tutti i suoi capelli.

La notte afosa per la strada
preannuncia l’arrivo del maltempo
e trascinandosi i passanti
si dividono per tornare a casa.

A singulti si espande un tuono
e lo scoppio subito riecheggia,
mentre il vento va agitando
le tendine alla finestra.

Poi, di nuovo, cala il silenzio
ma si continua a soffocare come prima
e nel cielo come prima
i lampi continuano a scavare.

Quando, poi, brillando intorno
il mattino da subito infuocato
asciuga le pozzanghere nei viali
dopo il temporale della notte,

a guardare lì con piglio indispettito
per il sonno che è stato disturbato
sono i secolari e profumati
alberi di tiglio ancora in fiore.

.
EBBREZZA

Sotto il salice che a sé l’edera avvince
dalle intemperie cerchiamo la salvezza.
Per ripararci le spalle, il mantello cinge
e le mie braccia avvincono te con la dolcezza.

Ma le piante, nel folto del loro gran cappello,
non è l’edera che le avvolge ma l’ebbrezza.
Stendiamolo, allora, questo bel mantello
sotto di noi per tutta quanta la sua ampiezza.

 

ESTATE DI SAN MARTINO

La foglia del ribes è un tessuto granuloso.
Ridono in casa e i vetri vanno tintinnando:
dentro, tagliano, fanno l’impasto e mettono
pepe e chiodi di garofano nel macinato.

Scherzando il bosco gioca a lanciare
un suo rumore sull’erta del pendio
dove i noccioli arsi dal sole estivo
stanno bruciacchiati come dal fuoco.

Dove la strada piega giù lungo il dirupo
fanno pena quei vecchi ceppi rinsecchiti
e l’autunno liso e consumato
che tutto ammassa giù per il burrone.

Ed è una pena che l’universo sia più semplice
di quanto pensi qualcuno più istruito,
e che il bosco sia andato così giù
e che per ogni cosa arrivi la sua fine.

Ma è assurdo il non voler capire
che è andato in fumo quel che c’era prima
e la bianca caligine autunnale salendo
si attacca alle finestre come ragnatela.

La recinzione sfondata del giardino
apre un varco fin dentro il bosco di betulle.
Risate in casa tra le faccende fanno baccano,
stesso rumore e stesse risa anche più lontano.

.
LE NOZZE

Superato il lato del cortile,
entrarono nella casa della sposa
gli invitati a fare festa
suonando l’armonica fino al mattino.

Dietro le porte degli sposi
foderate di feltro, si spensero
in silenzio dall’una alle sette
i frammenti dei discorsi fuori.

Ma all’alba, nell’ora del sonno pieno,
–quando si dorme sodo per davvero–
ricominciò l’armonica a cantare
per congedarsi infine dalle nozze.

E nuovamente il suonatore levò
col suo baján° lo sciacquettio
di un battimani, lo scintillio delle collane
e il chiassoso strepito della baldoria.

E ancora, in un crescendo ancora,
il sapido fraseggio delle častuški°
irruppe direttamente dal festino
fin sopra il letto dei dormienti.

E poi una donna, più bianca della neve,
nel chiasso della musica e degli urli
riprese a fluttuare nuovamente
ancheggiando come una pavona,

coinvolgendo con un cenno della testa
e attirando con la mano destra
in quel ballo senza freni sopra il lastricato,
ancheggiando come una pavona.

Lo slancio, a un tratto, lo strepito giocoso,
il trepestio del ballo in tondo
sprofondando di colpo in un burrone
cessarono affogati come nell’acqua.

Tornava, il cortile, a risvegliarsi
con i suoi rumori: un’eco di faccende
si mescolava al suono delle chiacchiere
e allo scrosciare continuo di risate.

Più in alto, lassù nell’infinito cielo,
un turbinio di macchie azzurre:
a stormo volavano i colombi in fuga
stanati dalle loro colombaie.

Quasi, avendoli scossi via dal sonno,
li avessero messi in movimento
sulle tracce delle nozze celebrate
con l’augurio dei futuri anni a venire.

Anche la vita ha la durata di un istante,
solo un rapido dissolversi
di noi stessi in tutti gli altri,
come ci fossimo offerti loro in dono.

Solo una festa di nozze che dal basso
irrompe dentro le finestre della casa,
soltanto un sogno, solo una canzone,
solo un colombo azzurro che se ne vola in cielo.
° baján: è uno strumento musicale popolare
° častuški: sono rime impertinenti e spesso oscene, tramandate oralmente da una generazione all’altra

 

AUTUNNO

Ho lasciato andarsene i miei cari,
tutti i miei sono da tanto chissà dove
e, nel mio cuore come intorno a me,
tutto è pieno della solitudine di sempre.

Sto qui con te da soli, in questa dacia,
in mezzo al bosco che è deserto.
Come dice la canzone, viottoli e sentieri
quasi li ricopre l’erba cancellandoli.

Solo noi possono guardare adesso
queste pareti di tronchi rattristate.
Senza promessa di saltare ostacoli,
noi moriremo comunque a viso aperto.

All’una ci sediamo, per alzarci poi alle tre,
io con un libro e tu con il ricamo,
e all’alba neppure ci accorgiamo
che abbiamo smesso di baciarci già.

Più sontuose e più smodate ancora
scuotetevi e stormite, foglie,
e con l’angoscia d’oggi fate in modo
che trabocchi l’amaro calice di ieri.

Passione, slancio, fascino e fervore!
Annulliamoci nel frusciare di settembre!
Immergiti in questo crepitio d’autunno!
Lasciati andare sennò esci di senno!

Tu lasci andare giù il vestito in modo naturale
come, spogliandosi, il bosco fa con le sue foglie
quando ti abbandoni ebbra nel mio abbraccio
nella vestaglia a fiocchi lucida di seta.

Tu sei il bene di un passo che è fatale,
quando vivere dà fastidio più di un male.
Ma la bellezza incita al rischio con coraggio
ed è la cosa che attira noi l’uno sull’altra.

.

TRE VARIAZIONI SULL’AMORE

1.Rivelazione

Anche più di questa affinità
che unisce le nostre anime tra loro
ci lega, intanto, l’abisso
che ci tiene uniti insieme
separati dal resto del mondo.
Amano tutti senza rendersene conto,
di quanto è straordinario
questo loro sentimento.
Per noi invece ognuno degli istanti,
in cui ci viene addosso come un alito
d’eternità il fremito della passione,
è un momento di rivelazione,
di un approfondimento
di noi stessi e della vita.

.
2.Il dono dell’amore

Mi hai detto che devo io
tenerti sempre sottomessa
e ricordarti ogni momento
che sei tu la schiava
che mi ama ciecamente.
Che mi ama e non ragiona.
Il dono dell’amore, è vero,
è come ogni altro dono:
non chiede spiegazione,
per quanto grande sia
non si rivela mai senza sorpresa
nell’illuminazione.

.
3.Selvaggia tenerezza

È l’apice di una reciproca
compatibilità di intenti
che non ammette gradazioni
e in cui nessuno sta sopra o sotto,
è un’equivalenza di intenzioni
dell’essere pieno nella sua interezza:
con tutto intorno a sé genera gioia,
in tutto si fa anima e dolcezza.
Ma, in questa selvaggia tenerezza,
che se ne sta sempre in agguato,
c’è qualcosa di ribelle e di vietato.
È una forza distruttiva che è arbitraria
e contraria alla pace della casa.
Per questo occorre andarci cauti,
averne sempre un po’ paura
e, aderendo, sempre diffidarne.

 

FIABA

In un paese di fiaba,
al tempo dei tempi che già fu,
galoppava un cavaliere
tra i cespugli di bardana.

Correva alla battaglia
e nella steppa polverosa
gli veniva incontro
di lontano un bosco nero.

Un presagio gli mordeva
senza tregua il cuore:
“Stringi la sella e
non abbeverare il tuo cavallo.”

Non ascoltò il presagio
e a spron battuto il cavaliere
si lanciò d’impulso
verso la boscosa altura.

Doppiato il dosso di un sepolcro,
entrò in una valle desolata
e attraversò al galoppo la radura
superando la montagna.

Scendendo giù lungo una gola,
ritrovò il sentiero dentro al bosco
e sbucò nella pista che le belve
usavano per andare a abbeverarsi.

Sordo al presagio avuto e senza
preoccuparsi del suo istinto,
lasciò briglia al cavallo
che si spinse nel torrente.

C’era una grotta lungo la corrente
e un guado davanti alla spelonca.
Una fiamma come di zolfo
faceva lume sull’ingresso.

E, nel purpureo barbaglio di quel fumo
che impediva di vedere oltre,
la boscaglia risuonò a un tratto
di un lontano grido che chiedeva aiuto.

Sussultando a quel richiamo
insieme con l’intera cavità,
di slancio il cavaliere si gettò
verso il punto dell’invocazione.

E, riuscendo a scorgere nel fumo,
preparò la lancia per trafiggere
al drago che era dentro
e testa e coda e squame.

Dalle fauci fiammeggianti
un bagliore si irradiava intorno
dalle spire che in tre nodi
avvolgevano stretta la fanciulla.

Come la corda di una frusta
il lungo collo del drago
le si attorcigliava in su alla gola
passandole sopra le spalle.

Era usanza in quel paese
di offrire in sacrificio
al mostro che opprimeva la foresta
una giovane e bella prigioniera.

Era il tributo di riscatto
che gli abitanti del posto
davano ogni anno al drago
per salvarsi la vita e le capanne.

Lui le imprigionava le braccia
e le stringeva un nodo al collo,
contento della vittima
da torturare a suo piacere.

Si volse al cielo il cavaliere
per un’invocazione a dio
e poi brandì la lancia per
prepararsi a combattere il serpente.

Palpebre chiuse, serrate strette.
Supreme altezze del cielo. E nuvole.
Fiumi. Guadi. Acque correnti.
Anni e secoli a venire.

Il cavaliere senza più elmo,
disarcionato nella lotta.
Il fido cavallo con gli zoccoli
calpesta il drago.

Cavallo e drago, morti,
accanto sulla rena.
Il cavaliere, svenuto, a terra.
E la fanciulla ha perso i sensi.

Azzurro tenero, là sopra nella volta
del mezzogiorno più splendente.
E lei chi è mai? Figlia di zar?
O principessa? O figlia della terra?

Ora, per la felicità,
versano lacrime a torrenti,
ora hanno l’animo in preda
al sogno e alla dimenticanza.

Ora gli tornano le forze,
ora giacciono immobili
per il troppo sangue versato
e per lo sfinimento.

Ma il loro cuore batte in petto.
Adesso lei e poi lui
si sforzano di risvegliarsi,
però ricadono nel sonno.

Palpebre chiuse, serrate strette.
Supreme altezze del cielo. E nuvole.
Fiumi. Guadi. Acque correnti.
Anni e secoli a venire.

.
AGOSTO

Come promesso, mantenendo la parola,
il sole è entrato di primissima mattina
con una obliqua striscia zafferano
dalla tendina giù fino al divano.

Ha tinteggiato di ocra caldo
il bosco, le case del villaggio,
l’umido cuscino del mio letto
e l’orlo del muro dietro lo scaffale.

Allora mi è venuta in mente la ragione
di quella traccia di umido sul mio cuscino.
A darmi, in sogno, l’estremo addio,
in corteo mi seguivate dentro il bosco.

In fila, al passo, solitari o in coppia,
e poi qualcuno a un tratto si ricordò
che era il sei d’agosto nel vecchio calendario,
la Trasfigurazione del Signore.

Una luce senza fiamma emana
di solito quel giorno dal monte Tabor°
e il chiaro autunno come un presagio
attira su di sé tutti gli sguardi.

E voi passaste per il piccolo,
spoglio tremolante gruppo degli ontani,
fino al bosco del cimitero, rosso zenzero,
infuocato come in forno il pan pepato.

Messi a tacere gli alberi,
il cielo la faceva da invitato principale
e dappertutto intorno riecheggiava
senza mai smettere il canto dei galli.

Nel cimitero in mezzo al bosco,
agrimensore ufficiale, ecco la morte:
guardava me, inanimato, in faccia
per scavarmi la fossa di giuste dimensioni.

E ciascuno percepiva nel concreto
accanto a sé una flebile voce sussurrante.
Era la mia d’un tempo, preveggente,
immune, rimasta inalterata:

“Addio, azzurro della Trasfigurazione,
e oro della seconda festa del Salvatore.
Addolcisci con un’ultima carezza
di donna l’amarezza dell’ora mia fatale.

Addio, anni tremendi della mia vita.
Separiamoci, o donna che hai gettato
la tua sfida all’abisso delle umiliazioni,
Sono io il campo della tua battaglia.

Addio, libera ostinazione di volare,
slancio dell’ala appena calibrata
e creazione e dono dei miracoli e immagine
del mondo fatta parola e rivelata.”
°Secondo la tradizione, sul monte Tabor sarebbe avvenuta la Trasfigurazione del Signore.

 

NOTTE D’INVERNO

Tormenta in ogni angolo del mondo,
fino agli estremi confini della terra.
Sul tavolo bruciava una candela,
lì sopra restava tremolando accesa.

Come un farfallio di moscerini,
d’estate, sopra la fiamma
così da fuori i fiocchi si lanciavano
addosso alla finestra.

E la tormenta lasciava impressi
cerchi e frecce sopra il vetro.
Sul tavolo bruciava la candela,
lì sopra restava tremolando accesa.

Sulla luce dell’intonaco a soffitto
le ombre andavano a sdraiarsi.
Intrecci di gambe e braccia,
altrettanti intrecci di destini.

Due piccole scarpe cadevano
con un colpo secco al pavimento
e dal lume la cera lacrimando
gocciolava sul vestito.

Tutto appariva perso, fuori,
in una candida nebbia bianca.
Sul tavolo bruciava la candela,
lì sopra restava tremolando accesa.

Un alito d’aria sopra la fiamma
e la febbre della tentazione
come un angelo levava aperte
in forma di croce le sue ali.

La tormenta è durata ininterrotta
tutto febbraio e senza mai cessare
sul tavolo bruciava la candela,
lì sopra restava tremolando accesa.

.
SEPARAZIONE

Guarda perso sul limitare della soglia
non riconoscendo casa sua.
Una fuga la partenza
e ritrovava tutto devastato.

Caos dapertutto nelle stanze.
E non si accorge, piangendo,
della gravità di quel disastro,
in preda al suo mal di testa.

Ha un rombo nelle orecchie
dal mattino. È in sé o sta sognando?
E perché mai gli torna di continuo
l’immagine del mare in mente?

Quanto più non si vede niente,
dalla brina che copre la finestra,
più ancora disperante la tristezza
gli ricorda la distesa del mare più deserta.

Gli era in tutto, lei, così tanto cara:
nel pieno disvelarsi di ogni suo tratto
come le segrete rive della costa
lungo la curva linea della risacca.

Al modo in cui affonda in acqua i giunchi
il mescolio di dopo la burrasca,
così nel fondo della sua anima stavano
immersi quei lineamenti e quelle forme.

In tempi di traversie, negli anni
di un’esistenza che non avevano pensata,
l’onda e il frangente del destino
gliela avevano riportata su dal fondo.

In mezzo a ostacoli infiniti,
riuscendo a superare tutte le insidie,
l’ondata l’aveva spinta su
e ricongiunta stretta a lui.

Ma non è lì, non c’è, è partita:
devono averla costretta a andarsene di lì.
Il distacco li consuma entrambi
e morde l’angoscia le ossa a tutti e due.

Si guarda attorno l’uomo:
nel momento della sua partenza,
lei ha buttato tutto all’aria
dai cassetti del comò.

Si muove per le stanze della casa
finché è buio e rimette nei cassetti
un taglio di vestito e
le pezze di stoffa sparse in giro.

E, pungendosi il dito su di un ago
lasciato a sporgere sopra il cucito,
rivede a un tratto l’immagine di lei
e ricomincia a piangere quasi di nascosto.

Paolo Ruffilli

Paolo Ruffilli

Paolo Ruffilli è nato nel 1949. Ha pubblicato di poesia: Piccola colazione (1987; American Poetry Prize), Diario di Normandia (1990; Premio Montale e Premio Camaiore), Camera oscura (1992), Nuvole (con foto di F. Roiter; 1995), La gioia e il lutto (2001; Prix Européen), Le stanze del cielo (2008), Affari di cuore (2011); Natura morta (Poetry-Philosophy Award). Di narrativa: Preparativi per la partenza (2003); Un’altra vita (2010); L’isola e il sogno (2011). Di saggistica: Vita di Ippolito Nievo (1991), Vita amori e meraviglie del signor Carlo Goldoni (1993); La Regola Celeste – Il libro del Tao (2004); Affari di cuore (2011) e Variazioni sul tema (2014).

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L’intervista “Marina Cvetaeva” di Solomon Volkov a Iosif Brodskij è stata pubblicata da Lietocolle (2016, pp.400 € 20) “Dialoghi con Iosif Brodskij”a cura di Gala Dobrynina, prefazione di Jakov Gordin e postfazione di Alessandro Niero. Lietocolle, 2016 “È il tempo la fonte del ritmo”, “Cvetaeva: Al tuo mondo dissennato /  una sola risposta – il rifiuto”, “In Occidente, quando si discute di Mandel’štam si crede di trovarlo da qualche parte tra Yeats ed Eliot, perché la musica dell’originale scompare”, “Credo che Cvetaeva sia il più grande poeta del XX secolo”.

rivoluzione d'ottobre 3L’intervistadi Solomon Volkov a Iosif Brodskij “Marina Cvetaeva, Primavera 1980 – Autunno 1990″.

Volkov: Di solito si parla di lei come di un poeta appartenente alla cerchia di Anna Achmatova, che l’ha amata e sostenuta nei momenti difficili e a cui lei deve molto. Ma dalle nostre conversazioni so che, sulla sua formazione poetica, Marina Cvetaeva ha influito molto più dell’Achmatova, e che lei ha conosciuto le poesie di Cvetaeva prima di quelle di Achmatova. Si può dire dunque che è stata lei il “poeta della sua giovinezza”, la “stella cometa” di quel periodo. Lei parla ancora oggi della creatività di Cvetaeva con incredibile entusiasmo e con una passione che, per un ammiratore dell’Achmatova come me, sono molto insolite. Molti dei suoi commenti su Cvetaeva, almeno per me, suonano paradossali. Ad esempio, quando parla della sua poesia, spesso la definisce calvinista. Perché?

Brodskij: Prima di tutto per l’assoluta novità della sua sintassi, che le permette o meglio la costringe ad andare fino al limite estremo del verso. Il calvinismo in fondo è una cosa molto semplice, è una dura lotta dell’uomo con se stesso, con la sua coscienza e la sua consapevolezza. In questo senso, tra l’altro, anche Dostoevskij è un calvinista. Calvinista, in sostanza, è l’uomo che esercita su se stesso una sorta di Giudizio Universale, senz’attendere l’arrivo dell’Onnipotente. In questo senso, non esiste in Russia un altro poeta come lei.

Volkov: E il Puškin della Rimembranza?

E con disgusto io rileggendo la mia vita

 Mi sento tremare e maledico.

Tolstoj ha sempre sottolineato l’aspetto di cruda auto condanna di questi versi di Puškin.

Brodskij: Di solito si pensa che in Puškin ci sia tutto, si è sempre pensato così per più di settant’anni dopo il duello. Dopo di che è arrivato il XX secolo… Ma ci sono molte cose che mancano in Puškin e non solo per il cambiamento delle epoche, della storia. In Puškin mancano molte cose, sia per una questione di temperamento, sia per un fatto di sesso; le donne sono sempre le più spietate nelle loro pretese morali. Dal loro punto di vista, da quello di Cvetaeva in particolare, Tolstoj semplicemente non esiste. Come fonte di giudizio su Puškin, comunque. In questo senso io sono addirittura più donna di Cvetaeva. Cosa poteva saperne il nostro conte “millelibri” di auto condanna?

Volkov: Ricorda Festino in tempo di peste? “Si dà un’ebbrezza nella guerra, sul ciglio del pauroso abisso”: in questi versi di Puškin non si sente la furia delle forze elementari, l’impeto della ribellione, come in quelli di Cvetaeva?

Brodskij: In Cvetaeva non c’è nessuna ribellione, Cvetaeva è una radicale impostazione del problema:

La voce della verità celeste

 contro la verità terrestre.

In entrambi i casi – si badi bene – dice “verità”. In Puškin questo non c’è, soprattutto la seconda verità. La prima è evidente, ed è stata completamente usurpata dall’ortodossia. La seconda, nel migliore dei casi, è soltanto una realtà, ma non la verità.

Volkov: Mi sorprende sentirglielo dire. Ho sempre pensato che Puškin parlasse anche di questo.

Brodskij: No, questo è un argomento enorme e sarebbe meglio non toccarlo. Cvetaeva qui parla davvero del Giudizio Universale, del “giorno dell’ira”, che è veramente tale, non fosse altro per il fatto che tutti gli argomenti a favore della verità della terra sono già stati elencati, e in questo elenco Cvetaeva arriva fino al limite estremo, anche se sembra si lasci trasportare. Proprio come gli eroi di Fëdor Michajlovič Dostoevskij. Non dimentichiamo che Puškin è un aristocratico. E, se vogliamo, un inglese nel suo rapporto con la realtà, un membro di un club inglese: ed è sempre discreto, in lui non c’è angoscia, non ce l’ha. Non c’è neanche in Cvetaeva, ma il suo modo di fare domande à la Job, alla maniera di Giobbe, “o questo, o niente”, genera quell’intensità che in Puškin non si trova. E i suoi puntini sopra la “ë” vanno oltre ogni connotazione musicale, ogni epoca, ogni contesto storico, ogni esperienza personale e temperamento. Sono lì perché lo spazio sopra le “e” deve essere riempito.

Volkov: Se si parla di angoscia, allora artisti considerati universali, come ad esempio Puškin o Mozart, non ne hanno davvero. Mozart aveva un sapere precoce, come un lillipuziano: era già vecchio prima ancora di crescere.

Brodskij: In Mozart non c’è niente di straziante, perché è oltre l’angoscia. Mentre Beethoven o Chopin vi erano immersi.

Volkov: Certo, in Mozart possiamo trovare dei riflessi del sovraindividuale, riflessi che Beethoven e soprattutto Chopin non avevano. Ma Beethoven e Chopin furono figure talmente vaste…

Brodskij: Può darsi, ma più in senso orizzontale che in altezza.

Volkov: Capisco cosa vuol dire. Ma da questo punto di vista, il crescendo del tono emotivo di Cvetaeva dovrebbe, piuttosto, scoraggiarla.

Brodskij: Proprio il contrario, nessuno lo capisce.

Volkov: Quando, riferendoci ad Auden, parlammo della neutralità della voce poetica, allora lei difese questa neutralità…

Brodskij: Ma questa non è affatto una contraddizione. È il tempo la fonte del ritmo. Ricorda quando ho detto che ogni poesia è tempo riorganizzato? E più un poeta è tecnicamente vario, tanto più intimo è il suo contatto col tempo, con la fonte del ritmo. Così Cvetaeva è uno dei poeti più ritmicamente vari, ricchi e generosi. Tuttavia, la “generosità” è una categoria della qualità; e noi cerchiamo di operare solo quantitativamente, non è vero? Il tempo parla all’individuo con voci diverse. Il tempo ha un suo basso, un suo tenore. E un suo falsetto. Semmai, Cvetaeva è il falsetto del tempo, una voce che va oltre la nozione musicale.

 Volkov: Così lei pensa che l’eccedenza emotiva di Cvetaeva abbia lo stesso scopo della neutralità di Auden? Cvetaeva raggiunge lo stesso effetto?

Brodskij: Lo stesso, se non maggiore. Secondo me, Cvetaeva, come poeta, per tanti aspetti è più grande di Auden. Quel suo tono tragico… alla fine, il tempo stesso capisce cosa sia. Deve capirlo e farsi sentire. È da qui, da questa funzione del tempo, che è apparsa Cvetaeva.

 

Mandel'stam a Firenze 1913

Mandel’stam a Firenze, 1913

Volkov: Ieri, tra l’altro, era il suo compleanno, e ho pensato: sono passati così pochi anni; se Cvetaeva fosse sopravvissuta potrebbe essere ancora con noi, potremmo vederla e parlare con lei. Lei, Iosif, ha parlato sia con Achmatova che con Auden. Frost è morto da non molto. Insomma, i poeti di cui stiamo discutendo, sono nostri contemporanei, e allo stesso tempo sono già figure storiche, quasi dei fossili.

 Brodskij: Sì e no. Questo è molto interessante Solomon. Di fatto, la visione del mondo che lei trova nelle opere di questi poeti è entrata a far parte della nostra percezione. Se vuole, la nostra percezione è il completamento logico (o forse illogico) di ciò che è contenuto nelle loro poesie; è lo sviluppo dei principi, delle motivazioni, delle idee, che si esplicitano nelle opere degli autori da lei citati. Dopo averli scoperti, nella nostra vita non è successo più nulla di così sostanziale, non è così? Cioè, io ad esempio, non ho incontrato niente di più significativo. Compreso il mio proprio pensiero… queste persone semplicemente ci hanno creato. E basta. Ecco cosa li rende nostri contemporanei. Nient’altro ci poteva formare così, almeno me, come Frost, Cvetaeva, Kavafis, Rilke, Achmatova, Pasternak. È questo che li rende nostri contemporanei, finché non tireremo le cuoia, fintanto che saremo vivi. Penso che l’influenza di un poeta, questa sua emanazione o irradiazione, si estenda per una o due generazioni.

 Volkov: Quando ha conosciuto per la prima volta le poesie di Cvetaeva?

 Brodskij: A diciannove, vent’anni circa. Perché prima non ero particolarmente interessato a tutto questo. Cvetaeva, ovviamente, la leggevo già allora, ma non nei libri, solo nelle copie battute a macchina del samizdat. Non mi ricordo chi me l’ha dato, ma quando ho letto il Poema della montagna, tutto si è sistemato. E da allora, niente di quello che poi ho letto in russo mi ha fatto un’impressione così grande come Marina.

Volkov: Nella poesia di Cvetaeva una cosa mi ha sempre spaventato, e cioè la sua didatticità. Non mi piaceva il suo indice puntato, la sua voglia di masticare tutto fino alla fine e di concludere poi con un truismo rimato, per cui, forse, non valeva neanche la pena di coltivare quegli orti poetici.

marina cvetaeva 1914

Marina Cvetaeva, 1914

Brodskij: Sciocchezze! In Cvetaeva non c’è nulla di simile! C’è un pensiero che di solito è estremamente scomodo e che viene portato fino alle estreme conseguenze. Da questo, forse, si può avere l’idea che quel pensiero, come si dice, punti l’indice contro di noi. Una certa didascalicità si può trovare in Pasternak: “Vivere una vita non è attraversare un campo”, ecc… ma in ogni caso non in Cvetaeva. Se si potesse ridurre la poesia di Cvetaeva ad una formula, allora questa sarebbe:

Al tuo mondo dissennato

 una sola risposta – il rifiuto.

Da questo rifiuto Cvetaeva trae anche un certo godimento; quel “no” lei lo pronuncia con un piacere sensuale: “No-o-o!”

Volkov: In Cvetaeva c’è una qualità che è anche una forma di dignità: è aforistica. Tutta Cvetaeva si può scomporre in citazioni, quasi come in L’ingegno, che guaio! di Griboedov.

Brodskij: Oh, certo!

Volkov: Ma proprio questo senso aforistico di Cvetaeva, in qualche modo, mi ha sempre spaventato.

Brodskij: Io non ho la stessa sensazione. Perché la cosa principale in Cvetaeva è il suono. Ricorda il famoso almanacco del periodo di Chruščëv Pagine di Tarusa? È uscito, mi sembra, nel 1961. C’era una raccolta di poesie di Cvetaeva (e a chi le ha scelte, per inciso, faccio un profondo inchino). E quando ho letto una sua poesia dalla serie Alberi ero completamente scioccato. Cvetaeva ci dice:

“Amici!

 Legione di confratelli!

 Voi, onde, spazzate via

 le tracce dell’offesa terrena.

 Bosco! Il mio Eliseo!”

Cos’è questo? Sta forse parlando di alberi?

 Volkov: “La mia anima, le ombre dei Campi Elisi…”.

Brodskij: Certo, chiamare bosco i Campi Elisi è una grande formula. Ma non è soltanto una formula.

Volkov: Negli Stati Uniti, e sulla loro scia in tutto il mondo, si studia il ruolo delle donne nella cultura con grande interesse; si esplorano le caratteristiche del contributo delle donne nelle arti, nel teatro, nella letteratura. Pensa che la poesia delle donne sia qualcosa di specifico?

Brodskij: Alla poesia non si possono applicare aggettivi, così come al realismo, tra l’altro. Molti anni fa, credo nel 1956, ho letto da qualche parte che in un incontro tra scrittori polacchi, in cui si stava discutendo della questione del “realismo socialista”, qualcuno si è alzato e ha detto: “Sono dalla parte del realismo, ma senza l’aggettivo”. Affari polacchi…

Volkov: Tuttavia, in poesia, la voce di una donna è diversa da quella di un uomo?

Brodskij: Solo nelle desinenze verbali. Quando sento:

Ci sono tre epoche della memoria.

 La prima è come fosse ieri…

non so dire se chi li ha pronunciati è maschio o femmina.

achmatova seduta

ritratto di Anna Achmatova

Volkov: Non riuscirò mai a separare questi versi dalla voce di Achmatova. Questi versi sono pronunciati proprio da una donna con un portamento regale…

Brodskij: L’intonazione regale di queste poesie non è tanto nella postura dell’Achmatova, quanto in quello che lei dice. La stessa cosa è con Cvetaeva:

Amici!

Legione di confratelli!

Chi dice questo? Un uomo o una donna?

Volkov: E allora questo:

Oh, lamento delle donne di tutti i tempi:

 Mio caro che cosa ti ho fatto?

Questo è proprio il grido di una donna…

Brodskij: Sa Solomon, sì e no. Naturalmente, il contenuto è di una donna. Ma in realtà… in realtà è solo la voce della tragedia – a proposito, la musa della tragedia è femminile, come tutte le muse del resto. La voce di un’enorme sciagura. Giobbe è un maschio o una femmina? Cvetaeva è un Giobbe con la gonna.

Volkov: Perché la poesia di Cvetaeva è cosi appassionata e tempestosa, e allo stesso tempo così poco erotica?

Brodskij: Mio caro, rilegga le poesie di Cvetaeva a Sofija Parnok! Per quanto riguarda l’erotismo ci mette tutti nel sacco, compreso Kuzmin e tutti gli altri. “Senza penetrare, e senza penetrare, e senza penetrare…” Oppure: “Riconosco l’amore dal dolore lungo tutto il corpo”. Allora che altro serve! È che qui ancora una volta non è l’erotismo ciò che vale, ma il suono. Il suono per Cvetaeva è sempre la cosa più importante, indipendentemente da quello di cui tratta. E ha ragione, e alla fine questo suono si riduce ad una cosa sola: “Tic-tac, tic-tac”. Scherzo…

Volkov: Alla poesia russa è successo qualcosa di strano. Per circa cento anni, da Karolina Pavlova a Mirra Lochvickaja, la donne hanno svolto un ruolo marginale nella poesia russa. E improvvisamente, sono apparsi di colpo due talenti come Cvetaeva e Achmatova, a livello dei giganti della poesia mondiale!

Brodskij: Forse non c’è nessun collegamento con il tempo. O forse c’è. Il fatto è che le donne sono più sensibili alle violazioni etiche, all’immoralità psicologica e intellettuale. E questa immoralità generalizzata è esattamente quello che il XX secolo ci ha offerto in abbondanza. E le direi anche questo: nel suo ruolo biologico l’uomo è un conformista, giusto? Un semplice esempio mondano: il marito rientra a casa dal lavoro accompagnato dal suo capo. Dopo aver pranzato il capo se ne va. La moglie allora dice al marito: “Come hai osato portare quel bastardo a casa mia?” Ma quella casa, se proprio vogliamo, va avanti grazie ai soldi che quel bastardo dà a suo marito. “A casa mia!” La donna si erge su una posizione morale perché può permetterselo. L’uomo ha un obiettivo diverso, e per questo chiude gli occhi su molte cose. Quando poi, di fatto, dovrebbero essere la posizione etica e i valori etici a stabilire il bilancio dell’esistenza. Le donne affrontano questa situazione in un modo più efficace.

 Volkov: Ma allora, come spiega il comportamento così ambiguo di Cvetaeva in quella losca storia di spionaggio in cui fu implicato suo marito, Sergej Efron: l’omicidio del transfuga Ignatij Rejss e la precipitosa fuga di Efron a Mosca? Efron è stato un agente dello spionaggio sovietico nel periodo più sordido dell’epoca staliniana. E non parliamo poi di quanto sia facile, dal punto di vista etico, condannare un tale personaggio! Ma Cvetaeva, ovviamente, ha pienamente e completamente accettato e sostenuto Efron.

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Brodskij: Per questo c’è un proverbio: “l’amore è cieco”. Cvetaeva si è innamorata di Efron molto presto, da ragazza, e per sempre. Era una persona di grande onestà interiore. Ha seguito Efron “come un cane”, mettendo in pratica le sue stesse parole. E qui si vede il suo principio morale: essere fedele a se stessa. Essere fedele alla promessa fatta quando era ancora una giovane ragazza. E niente di più.

Volkov: Posso essere d’accordo con questa spiegazione. Ogni tanto si cerca di giustificare Cvetaeva con il fatto che era probabilmente all’oscuro dell’attività di spionaggio di Efron. Ma è ovvio che sapeva! Se gli eventi drammatici legati all’assassinio di Rejss fossero stati per lei una sorpresa, non avrebbe mai seguito Efron a Mosca. È probabile che Efron non le avesse mai rivelato i dettagli del suo lavoro di spionaggio. Ma Cvetaeva lo sapeva, o almeno intuiva l’essenziale. Lo vediamo nella sua corrispondenza.

Brodskij: Assieme a tutte le altre disgrazie, ha dovuto vivere anche questa catastrofe. In effetti non so nemmeno se sia una catastrofe. Il ruolo del poeta è di spiritualizzare la comunità umana: tanto gli uomini quanto il loro ambiente. Cvetaeva possedeva questa capacità, o meglio, vocazione, al massimo grado: mi riferisco alla sua tendenza a mitizzare l’individuo. Più una persona è piccola, meschina, più è gratificante il materiale adatto a questa mitizzazione. Non so cosa sapesse Cvetaeva della collaborazione di Efron col GPU, ma penso che se anche avesse saputo tutto, non lo avrebbe mai abbandonato. La capacità di vedere un senso contro ogni apparenza è una caratteristica del vero poeta. E Cvetaeva poteva spiritualizzare Efron, se non altro perché si trovava già di fronte al disastro totale della sua persona. E oltre a questo, per Cvetaeva è stata una colossale lezione sul male e un poeta non può non trarre profitto da una simile esperienza. Marina si è comportata in questa situazione con molta più dignità, e in un modo molto più naturale di come siamo abituati ad agire noi! Noi infatti che facciamo? Qual è la prima e principale reazione quando ti fanno il “contropelo”? Se una sedia non ti piace, non fai che portarla fuori dalla stanza! Se una persona non ti piace, la mandi al diavolo! Ti sposi, divorzi, ti sposi un’altra volta, due volte, tre volte, cinque volte! Hollywood, insomma. Marina, invece, ha capito che un disastro è un disastro, e che da questo si possono imparare molte cose. E inoltre – cosa che forse era più importante per lei in quel momento – con Efron nonostante tutto aveva avuto tre figli, che non erano così simili al padre, erano diversi. Questa, almeno, era l’impressione che aveva. E tra l’altro, provava un tale senso di colpa nei confronti della figlia, che non era riuscita a strappare alla morte, e si giudicava così duramente, da non potere nemmeno condannare Efron. Mi ricordo che una volta, Susan Sontag, in una conversazione, ha detto che la prima reazione di un essere umano di fronte a una catastrofe è pressappoco la seguente: dov’è l’errore? Cosa si deve fare per riprendere il controllo della situazione perché non si ripeta? Ma diceva anche che esiste un altro modo di comportarsi: lasciare che la tragedia faccia il suo corso, lasciarsi trapassare, schiacciare. Come dicono i polacchi: “stendersi sotto”. E se si riesce a rimettersi in piedi si è diventati un’altra persona. Questo, se vuole, è il principio della Fenice. Ricordo spesso queste parole della Sontag.

Volkov: Mi sembra che Cvetaeva non si sia mai ripresa dopo il disastro con Efron.

Brodskij: Non so. Non ne sono così sicuro.

Volkov: Il suo suicidio è stato una risposta alle sofferenze che ha accumulato nel corso di molti anni. Non è così?

Brodskij: Certamente. Ma sa, solo la persona che si è suicidata potrebbe analizzare e parlare con autorevolezza degli eventi che l’hanno condotta a farlo.

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Volkov: Tempo fa mi sono interessato alla questione degli omicidi politici in Europa negli anni trenta, anche perché è stata coinvolta una grande cantante russa, Nadežda Plevickaja. Ho letto molto su queste persone. Ora c’è la tendenza a presentare gli assassini come idealisti che si sono lasciati trascinare in quegli affari loschi dalle loro convinzioni ideologiche. In realtà, c’era un gran numero di sordidi personaggi che lavoravano sia per l’Unione Sovietica di Stalin che per la Germania di Hitler. Con il loro aiuto sono state eliminate molte personalità indipendenti che ostacolavano sia Stalin che Hitler. Alcuni diventavano spie per denaro, per avere privilegi, altri per sete di potere. Qui l’idealismo davvero non c’entra.

Brodskij: Credo che il caso Efron sia un classico esempio della catastrofe di una personalità mancata. Da giovane sei pieno di ambizioni, speranze, di mille cose. E alla fine ti ritrovi a Praga a recitare in un teatro di dilettanti. E allora cosa fai? O ti suicidi o ti metti al servizio di qualcosa. Perché proprio col GPU? Perché la sua famiglia, tradizionalmente, era antimonarchica e perché quando lasciò la Russia con l’Armata Bianca non era che un ragazzo. Una volta cresciuto, poi, ne aveva visti abbastanza di tutti questi “difensori della patria” in esilio, e così non gli rimaneva altra scelta che andare nella direzione opposta. E in più c’erano lo Smenovechovstvo, l’Eurasismo, Berdjaev, Ustrjalov. Ingegni raffinati, l’idea della statalizzazione comunista. “La Sovranità”. Per non parlare poi del fatto che era più comodo lavorare come spia piuttosto che abbrutirsi in una catena di montaggio di una qualsiasi Renault. E inoltre non è così invidiabile essere il marito di una famosa poetessa. Non so se Efron fosse una carogna o un miserabile, forse più quest’ultimo, anche se si è comportato davvero come una carogna. Ma perché Marina lo amasse, non spetta a me giudicarlo, e anche se le avesse dato qualcosa, da lei ha ricevuto molto di più. E per quel poco che le aveva dato, verrà salvato. Quel “poco” sarà la chiave, la “cipollina” che gli spalancherà le porte del paradiso. E poi dove ha mai visto, in questo ambiente, un matrimonio felice? Un poeta felice nella sua vita coniugale? No, le disgrazie non arrivano mai da sole, ma in “branco”, col marito o la moglie in testa.

 Volkov: Come spiega l’indistruttibile entusiasmo di Cvetaeva per Vladimir Majakovskij? Gli ha dedicato una poesia quando era ancora in vita, poi ha risposto al suo suicidio dedicandogli un intero ciclo. Mentre l’opinione di Achmatova su Majakovskij cambiava in continuazione. Lei, ad esempio, si è offesa moltissimo quando ha scoperto che la sua Il re dagli occhi grigi era stata cantata da Majakovskij sull’aria di Alla fiera se ne andava lo spavaldo villano.

 Brodskij: Non avrebbe dovuto prendersela per questo. Perché anche i versi di Majak si possono trasporre e ripresentare nel modo che si preferisce. Tutte le sue poesie in scala si possono ristampare in colonna, in quartine, e tutto semplicemente troverà il suo posto. E forse un esperimento del genere è molto più rischioso per Majakovskij che per Achmatova. D’altronde questo succede spesso: al poeta piace proprio quello che non farebbe mai nella vita. Prenda, ad esempio, l’atteggiamento di Mandel’štam verso Chlebnikov. Per non parlare poi del fatto che Majakovskij si comportava in modo davvero archetipico. Un quadro completo: dal poeta d’avanguardia, fino ad arrivare al cortigiano e alla vittima. E sei sempre roso dal tarlo del dubbio: forse bisogna fare proprio così? Forse siamo noi a essere troppo chiusi e Majak, invece, era veramente autentico, estroverso e faceva tutto in modo grandioso? E se una poesia non funziona, si può sempre trovare una scusa: le cattive poesie sono i cattivi giorni del poeta. Poi andrà meglio, poi ci si riprenderà. Ma i giorni cattivi di Majak sono stati davvero tanti… Eppure è proprio quando è andato tutto storto che le poesie sono diventate meravigliose. Certo che poi è uscito di carreggiata definitivamente. E proprio lui è stato la prima grande vittima, grande perché aveva un grande dono. Poi quello che ne ha fatto è un’altra questione. Certamente anche a Marina sarebbe piaciuto questo ruolo di poeta tribuno, aveva dentro la stessa “bestia”. Da qui sono nati i versi con questo meraviglioso pastiche à la Majak, che sono perfino meglio dell’originale:

Arcangelo dal passo pesante

 salve, nei secoli, Vladimir!

Ecco qua tutta la scaletta majakovskiana confezionata in due versi.

Volkov: A questo proposito, uno degli esperimenti che Majakovskij ha fatto sulle poesie di un altro poeta mi sembra molto ingegnoso. Nella Sconosciuta di Blok, Majakovskij, ha sostituito “sempre senza compagni, sempre sola” con “tra i libertini, sempre sola”. Majakovskij ci diceva che “sola, senza compagni” è una tautologia.

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Brodskij: Mi sembra un giochetto abbastanza mediocre. Per quello che riguarda Majkovskij e Cvetaeva avrei un’ulteriore considerazione. Penso sia stata attratta da lui per ragioni polemiche e poetiche. È Mosca, lo spirito di Mosca, il pathos espressivo della poesia. Le assicuro che in termini puramente tecnici Majakovskij è una figura estremamente seducente. Le rime, le pause. E soprattutto, credo, la complessità e la libertà dei suoi versi. Questa tendenza si ritrova anche in Cvetaeva. Marina, però, non va mai a briglie sciolte come Majakovskij. Majakovskij non conosceva altra lingua poetica, mentre Cvetaeva poteva lavorare su più registri. E comunque, qualunque sia la libertà sonora e d’intonazione dei versi di Cvetaeva, lei tendeva sempre all’armonia. Le sue rime sono più precise di quelle di Majakovskij, anche nei casi in cui i loro stili convergono.

Volkov: Tra l’altro, c’è un punto dove i suoi gusti si avvicinano sor-prendentemente a quelli di Majakovkskij: entrambi non amate Tjutčev. Majakovskij trovava solo due o tre poesie decenti in Tjutčev.

Brodskij: Non posso dire di avere un’avversione per Tjutčev, ma naturalmente preferisco di gran lunga Batjuškov. Tjutčev è indub-biamente una figura più significativa. Ma tutte queste discussioni sulle sue posizioni metafisiche, e cose del genere, non devono farci trascurare il fatto che mai prima d’allora la letteratura russa aveva prodotto figure così servili. I nostri lacchè dell’epoca di Stalin non sono che dei mocciosi rispetto a Tjutčev, non solo nei confronti del suo talento, ma soprattutto rispetto all’autenticità dei suoi sentimenti. Tjutčev non si accontentava di baciare gli stivali dell’imperatore, glieli leccava proprio. Non so perché Majakovskij ce l’avesse tanto con lui, forse perché le loro situazioni erano simili. Io non riesco a leggere il secondo volume di Tjutčev, non dico senza disgusto, ma senza esserne stupefatto. Da una parte sembra che il carro dell’universo si lanci verso il santuario del Cielo, dall’altra si cade sulle cosiddette “odi servili”, per utilizzare l’espressione di Vjazemskij. Tra poco, ci può scommettere, in Russia quei “bastardi al potere” lo metteranno su un piedistallo. Insomma, coi grandi poeti lirici che osannano tanto i circoli illegali bisogna tenere gli occhi aperti. Prima o poi vorranno la loro ricompensa. Così i dissapori con la “polizia morale” verranno equilibrati dagli Osanna al Capo Supremo. È sgradevole tutto questo. Ma ci pensa il nostro secolo, con le sue bassezze ripugnanti, a liberarci da tutti questi miseri tornaconti. Batjuškov, ad esempio, era un patriota tanto quanto Tjutčev, e per di più è stato in guerra. Tuttavia non si sarebbe mai prestato ad una simile indecenza. Batjuškov è stato largamente sottovalutato nella sua epoca, e lo è ancora oggi.

 Volkov: Mi piace molto Batjuškov, tra l’altro mi sono interessato a lui dopo aver letto Cvetaeva, che nella sua poesia “In memoria di Byron” inizia proprio con un meraviglioso e incantevole verso di Batjuškov: “Ho lasciato la brumosa riva di Albione…”. Le poesie di Cvetaeva e di Batjuškov sono state pubblicate quasi contemporaneamente, se lei ricorda, nella collana “Biblioteca del Poeta”. Ciò nonostante non possiamo paragonare Batjuškov a Tjutčev.

Brodskij: Sa, Solomon, probabilmente ho i miei pregiudizi, dei chiodi fissi professionali, e magari questa è una scusa. Ma le consi-glio di rileggere Batjuškov, tra l’altro, rileggerlo a New York…

Volkov: Secondo me non c’è niente di meglio che rileggere Batjuškov guardando l’Hudson. I tramonti sull’Hudson “si sdraiano” perfettamente “sotto” Batjuškov, anche “sotto” i poeti minori. E infatti, qui a New York, rileggo anche Goleniščev-Kutuzov due o tre volte l’anno.

Velemir Chlebnikov

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Brodskij: Che non è male. In generale, tra i poeti russi, non vorrei dire di secondo piano, ma di seconda fila, c’erano delle personalità assolutamente meravigliose. Ad esempio Dmitriev con le sue favole. Che poesia! La fiaba russa è una cosa assolutamente stupefacente. Krylov è un poeta geniale con una capacità sonora comparabile alla poesia di Deržavin. E Katenin! Nessuno ha scritto niente di così penetrante sul triangolo amoroso. Guardi adesso se i tramonti sull’Hudson non s’intonano con Katenin. O ancora Vjazemskij, a mio parere è il fenomeno più considerevole della pleiade puškiniana. È sempre così, la società designa un poeta come il più grande, come capofila. Questo accade soprattutto in una società autoritaria, a causa di quel parallelismo idiota tra il poeta e lo zar. Ma la poesia è molto di più di quello che un “dominatore delle menti” suggerisce. Scegliendone uno solo, la società si condanna all’una o all’altra versione di assolutismo monarchico. Cioè, rifiuta il principio democratico. Ed è per questo che poi non ha alcun diritto di incolpare il sovrano o il suo primo ministro: la società stessa è colpevole della scelta dei suoi lettori. Se avessero conosciuto meglio Vjazemskij e Baratynskij, non avrebbero avuto una fissazione così grande per lo zar Nikolaša. Le libertà dei cittadini sono il prezzo che la società civile paga per l’indifferenza alla cultura. Il restringimento dell’orizzonte culturale è l’origine delle ristrette prospettive politiche; niente quanto l’autocastrazione culturale prepara così bene il terreno per l’instaurazione della tirannia. E alla fine è logico che si arrivi a tagliare le teste.

Volkov: Lei ha elencato alcuni poeti di, diciamo, “seconda fila”: Dmitriev, Katenin, Vjazemskij. Cosa mi piace di loro? Che sono personalità forti e attraenti e non solamente degli scrittori notevoli. La vita di ciascuno di loro è un romanzo appassionante. Per non parlare di Krylov o di Baratynskij…

Brodskij: Quello che m’interessa, in questi casi, è il lato umano. Un uomo che scrive può avere successo o fallire. Ma per lui non è questo l’essenziale, l’essenziale è la sua scommessa sul futuro. Non si tratta tanto di contare sulla posterità, ma sulla longevità del linguaggio che usa. Il poeta possiede, percepisce con il suo senso musicale qualcosa che gli assicura se non l’immortalità, almeno un futuro immaginabile.

Volkov: Per quello che riguarda Ivan Krylov, possiamo dire con certezza che, fino a quando vivrà la lingua russa, le sue fiabe saranno lette. Anche se la scuola in Russia sta facendo di tutto per toglierci il piacere che Krylov ci procura.

Brodskij: No, se c’è una cosa che la scuola non è riuscita ad avvelenarmi, è proprio Ivan Andreevič… Anche se facevano tutto quello che gli passava per la testa…

Volkov: Dicevamo che questa dichiarazione di Cvetaeva –

Al tuo mondo dissennato

 una sola risposta – il rifiuto

– costituisce, in sostanza, il programma della sua opera. E inoltre questi versi sono una sorta di, come si suol dire, “poesia d’occasione”, scritti in coincidenza con l’invasione della Cecoslovacchia da parte dell’esercito di Hitler nel marzo del 1939. Cvetaeva ha consacrato a questo evento undici poesie, una più bella dell’altra. Aveva già scritto quattro poesie nel settembre del 1938, quando Hitler aveva annesso i Sudeti della Cecoslovacchia, e queste non sono le sole risposte poetiche di Cvetaeva su temi d’attualità. Ha scritto poesie politiche durante tutta la sua vita; basta ricordare il ciclo L’accampamento dei cigni, dove celebra il Movimento Bianco. Ma deve ammettere che, a questo proposito, Cvetaeva non è una figura tipica della poesia russa moderna. C’è la convinzione diffusa che la poesia russa di oggi sia molto politicizzata. Ma è un errore. In realtà sono pochi i grandi poeti russi del XX secolo che hanno scritto poesie su soggetti politici; e non parlo, naturalmente, delle poesie “su commissione”: di quelle ce n’erano a bizzeffe. Questo è singolare. Guardi il XIX secolo: abbiamo Ai calunniatori della Russia di Puškin, le poesie di Vjazemskij, Russia di Chomjakov, le poesie di Tjutčev – che lei ama così poco –, tutte opere di prim’ordine, degne di un’antologia letteraria. Dove sono oggi versi della stessa caratura, dedicati a fatti d’attualità della seconda metà del XX secolo? Deržavin ha accompagnato la morte di Paolo I con i versi ‘‘tace il rauco ruggito del Nord”. Dove sono i versi sulla caduta di Chruščëv? Perché i poeti russi non hanno reagito all’invasione della Cecoslovacchia del 1968 con la stessa forza con cui Cvetaeva aveva risposto all’occupazione nel 1939? Dopo tutto, anche lei, in realtà, scriveva “per il cassetto”, e non si aspettava una pubblicazione immediata.

Brodskij: Ciò non è del tutto giusto. Credo ci siano cose che non conosciamo ancora. Ma è vero che, ancora oggi, io non ho letto niente che descriva direttamente la presa di Budapest o di Praga da parte degli invasori sovietici. Anche se conosco un gruppo di poeti russi per cui il riferimento, diciamo, alla rivolta ungherese del 1956 o ai disordini in Polonia negli anni cinquanta, è stato essenziale.

Volkov: Non si può ricostruire la storia moderna a partire da questi versi.

Brodskij: Sì, certo, né la storia morale né la storia politica. E c’è un’altra cosa interessante: nella poesia russa non si è quasi mai riflessa l’esperienza della Seconda Guerra Mondiale. C’è, naturalmente, una generazione di cosiddetti poeti di guerra, a cominciare da quella assoluta nullità di Sergej Orlov, pace all’anima sua. O Mežirov, con le sue schifezze che non stanno né in cielo né in terra. E poi ancora Gudzenko, Samojlov. Alcune poesie sulla guerra, veramente belle devo dire, le ha scritte Boris Sluckij, e cinque o sei anche Arsenij Aleksandrovič Tarkovskij. In realtà a tutti questi Konstantin Simonov e Surkov (pace all’anima loro, ma ho dei forti dubbi che la possano trovare) non interessava né la tragedia nazionale né la catastrofe mondiale, ma piuttosto provavano compassione per se stessi. Chiedevano che li si compiangesse. Per non parlare dei fiumi di fango del dopoguerra, dei pugni alzati nel vuoto dopo la battaglia… Nel migliore dei casi, si trattava di un dramma preso in prestito dalla guerra, in assenza del loro dramma personale; nel peggiore dei casi era un vero e proprio sfruttamento dei morti, un portare acqua al mulino del Ministero della Difesa. Semplicemente per accalappiare nuove reclute. Non c’era un minimo di comprensione per quello che era successo all’intera nazione. E questa è una barbarie: in fondo abbiamo sepolto venti milioni morti… Ma questa mattina, in un certo senso ho avuto fortuna, stavo preparando un’edizione per una raccolta di versi scelti di Semën Lipkin. C’è un enorme numero di poesie su questo argomento: sulla guerra, o comunque legate alla guerra. L’impressione è che lui solo sia intervenuto in difesa di tutti, in difesa della nostre belle lettere: ha salvato, per così dire, la reputazione nazionale. Tra l’altro è stato uno dei pochi che si è preso cura di Cvetaeva al suo ritorno in Russia dopo l’esilio. Insomma, per me è un poeta meraviglioso. Non era secondo a nessuno. Nessun prosaicismo scontato, è dell’orrore dell’epoca che ci parla; in questo senso, Lipkin è proprio allievo di Cvetaeva. E se parliamo dei versi che Cvetaeva ha dedicato alla Cecoslovacchia, o del suo L’accampamento dei cigni, dobbiamo dire che i primi sono una variazione sul tema del suo Accalappiatopi e che nel secondo l’elemento più importante è quello vocale. Credo che il “movimento Bianco” abbia sedotto Cvetaeva più come formula poetica che per la sua realtà politica. La migliore delle sue poesie sull’Armata Bianca è quella con gli otto versi che finiscono con: “Dopo la parola dovere si scriverà la parola Don”.

Volkov: Ciononostante mi stupisce che nell’ambito della poesia d’occasione, d’attualità, agli autori russi del XX secolo, così ricco di spunti, siano mancati il temperamento e lo slancio. In questo senso, la sua poesia In morte di Žukov, a mio parere, va per conto suo, rinnova una tradizione russa antica che risale a Deržavin e alla sua poesia Il fringuello, che è l’epitaffio a un altro grande comandante russo, Suvorov. È quello che chiamiamo una poesia “statale”, o se preferisce “imperiale”.

Brodskij: In questo specifico caso il termine “statale” non mi dispiace. Penso anche che questa poesia a suo tempo avrebbe dovuto essere pubblicata sulla “Pravda”. E per quella poesia, tra l’altro, ne ho dovuta mandar giù di merda.

Volkov: Cosa intende?

Brodskij: Per gli emigrati del dopoguerra, per tutti quei DP sfollati in Occidente, beh, Žukov è legato a cose davvero sgradevoli. Con l’avanzata delle sue truppe sono stati costretti a fuggire, per questo non hanno nessuna simpatia per Žukov. E poi anche i Paesi Baltici hanno molto sofferto a causa sua.

Volkov: Nella sua poesia non si sente nessuna particolare simpatia per il maresciallo Žukov, sul piano emotivo si è davvero trattenuto.

Brodskij: È proprio vero. Ma se un uomo non è abbastanza colto, o addirittura non lo è per niente, di solito non nota questi “particolari”. Reagisce come il toro davanti al mantello rosso. Vede Žukov e basta. Ho sentito tante di quelle chiacchiere anche dalla Russia, anche cose completamente ridicole, come se con questa poesia mi fossi prostrato ai piedi dei superiori. Molti tra noi sono rimasti in vita grazie a Žukov e farebbero bene a ricordare che è stato Žukov, e non un altro, a salvare Chruščëv da Berija. È stata la sua divisione Kantemirovskaja a entrare a Mosca con i carri armati nel luglio del 1953 e a circondare il Teatro Bol’šoj.

Volkov: I carri armati si sono fermati davanti al Bol’šoj o davanti al Ministero dell’Interno?

Brodskij: Che importa, in fondo è la stessa cosa… Žukov è stato “l’ultimo dei Mohicani” russi, l’ultimo “capotribù dei pellerossa”, come si dice.

Volkov: Capisco cosa intende quando parla di vite salvate da Žukov. Quasi tutti i miei parenti sono morti nell’Olocausto, nel ghetto ebraico di Riga. E mi ricordo che una volta, era probabilmente alla fine degli anni sessanta, ad un concerto di musica sinfonica nelle vicinanze di Riga, a Dzintari, ho notato un uomo seduto di fronte a me; sulla sua giacca aveva quattro stelle d’oro, come dire che era stato quattro volte Eroe dell’Unione Sovietica! La luce si spense ra-pidamente senza che io riuscissi a riconoscerlo. E osservando questa specie di riccio bianco e la sua corposa nuca rossa, mi sono chiesto fino all’intervallo chi poteva mai essere quell’uomo, con un numero così grande di onorificenze sul petto. Quando nell’intervallo il maresciallo Žukov, perché naturalmente era proprio lui, si alzò, tutta la sala lo fissò con ammirazione. E ricordo che questo mi sorprese: perché mai Žukov, che nella sua vita aveva già avuto tutta la gloria e il rispetto possibili, aveva bisogno di venire al concerto indossando una giacca civile con le sue decorazioni?

Brodskij: Lo trovo assolutamente naturale, è un’altra mentalità, quella militare. Qui non si tratta di sete di gloria, non dimentichiamo che in quel momento era già stato escluso da tutto.

Volkov: Sì, ai tempi era stato congedato in via definitiva da almeno un decennio.

Brodskij: Sì, appunto. E non dimentichiamo che gli eroi dell’Unione Sovietica, non devono “fare la fila per prendersi una birra”.

Volkov: E cosa l’ha spinta a scrivere Versi sulla campagna d’inverno del 1980? Questa poesia sull’invasione sovietica dell’Afghanistan è stata, credo, per i suoi lettori, tanto inaspettata quanto la sua poesia In morte di Žukov…

Brodskij: È stata una reazione a quello che avevo visto alla televisione, Budapest, Praga… noi ascoltavamo la BBC, o leggevamo i giornali, ma non vedevamo niente. Ma con l’invasione dell’Afghanistan… non so quale altro avvenimento mondiale mi abbia così impressionato. Eppure alla televisione non hanno mostrato nessun orrore. Ho semplicemente visto dei carri armati, che avanzavano su un altopiano pietroso. E mi ha colpito l’idea che questo altopiano non aveva conosciuto prima nessun carro armato, nessun trattore, nessuna ruota ferrata, mai. È stato uno scontro sul piano degli elementi, del ferro contro la pietra. Si fossero limitati a mostrare gli afghani uccisi o feriti…. Sa, a tutto questo, soprattutto in quei luoghi, l’occhio umano è già abituato: senza cadaveri non ci sono notizie. Ma la cosa è successa in Afghanistan, e oltre a tutto il resto, era una violazione dell’ordine naturale. Ecco cosa ti fa impazzire, insieme al sangue. Mi ricordo che sono rimasto annichilito per tre giorni. E poi, nel mezzo della discussione sull’invasione, ho di colpo realizzato che i soldati russi che si trovavano in Afghanistan avevano diciannove o vent’anni. Se negli anni sessanta, io e i miei amici, con le nostre “signore”, non avessimo avuto una condotta più o meno “protetta”, è del tutto possibile che i nostri figli si sarebbero trovati lì, tra gli invasori. E questo pensiero mi ha procurato una nausea intollerabile. È da qui che ho cominciato a scrivere questi versi. Quando hanno fatto la stessa cosa in Europa, quando sono entrati in Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia, era chiaro che dopo tutto era solo un’altra ripetizione, l’ennesimo “giro” della storia europea in una nuova tappa. Rispetto alle tribù afghane, però, non era solamente un crimine politico, ma anche un crimine antropologico, e un colossale errore di evoluzione. È come un’irruzione dell’età del ferro nell’età della pietra, o come un’improvvisa glaciazione. Quanto alle sue osservazioni sulle sorprese inattese dei Versi sulla campagna invernale… non vedo alcuna differenza stilistica tra questi e le mie poesie sulla natura e sul tempo. E naturalmente, quando ho cominciato a scrivere Versi sulla campagna invernale ho cercato di risolvere altri problemi, non precisamente formali, piuttosto di intonazione. Ma è successo più tardi…

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Volkov: I lettori occidentali conoscono bene Cvetaeva, Mandel’štam, Pasternak, Achmatova, particolarmente gli ultimi due. Puškin è conosciuto soprattutto grazie alle opere di Čajkovskij. Ma i nomi di Baratynskij e Tjutčev non dicono nulla nemmeno al lettore occidentale più istruito. Voglio dire che la poesia russa in Occidente è soprattutto quella del XX secolo, mentre la prosa russa è conosciuta grazie agli autori del XIX secolo. Come è successo?

Brodskij: Per questo ho una risposta semplice. Prenda ad esempio Dostoevskij. La problematica di Dostoevskij, sempre se usiamo un concetto sociologico, è legata a un tipo di società che in Russia ha cessato di esistere dopo la rivoluzione del 1917, mentre qui in Occidente, la società è rimasta la stessa, vale a dire, capitalista. È per questo che Dostoevskij è così fondamentale per l’Occidente. Prendiamo l’uomo russo di oggi: certo, Dostoevskij può essere interessante per lui; può svolgere un ruolo cruciale nello sviluppo dell’individuo, nel risvegliare la sua coscienza. Ma quando il lettore russo esce di casa, si trova di fronte ad una realtà che non è quella descritta da Dostoevskij.

Volkov: Ricordo che anche Achmatova ha parlato di questo argomento.

Brodskij: Esatto. Si ricorda? Quando un uomo, dopo aver fucilato un ennesimo gruppo di condannati, rientra a casa dopo il suo “lavoro”, e si prepara per andare a teatro con sua moglie e litiga pure con lei per la sua acconciatura… E non ha nessun rimorso di coscienza, niente di dostoevskijano! Mentre per un occidentale le situazioni, i dilemmi di Dostoevskij sono sempre anche i suoi. Per lui sono riconoscibili. Da qui viene la popolarità di Dostoevskij in Occidente, da qui nasce l’intraducibilità di gran parte della prosa russa del XX secolo.

Volkov: La sua inaccessibilità.

Brodskij: Sì, una certa incompatibilità. Per leggere della prosa bisogna almeno immaginare la realtà che c’è dietro. Ma la realtà sovietica, descritta dalla migliore prosa russa di quel periodo, è stata così tanto rovesciata e trasformata, non trova? Per apprezzare la prosa che la descrive è indispensabile avere una certa conoscenza della storia dell’Unione Sovietica, o comunque fare uno sforzo d’immaginazione – cosa a cui non ogni lettore si presta, occidentale compreso. Mentre per leggere Dostoevskij o Tolstoj, il lettore occidentale non deve fare alcun sforzo di immaginazione; l’unica fatica che gli è richiesta è quella di sfondare il muro di quei nomi e patronimici russi. Tutto qui.

 Volkov: Perché allora la poesia russa del XIX secolo rappresenta una difficoltà così insuperabile?

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Brodskij: Per quello che riguarda la reazione del pubblico inglese, ho una teoria. Di fatto la poesia russa del XIX secolo si fonda in modo naturale sulla metrica, e la traduzione in inglese richiede il mantenimento di questa metrica. Ma non appena il moderno lettore inglese si trova di fronte a questa misura di regolarità, pensa subito alla sua poesia nazionale che già da un bel po’ di tempo l’ha tediato. O, peggio ancora, non la riconosce come familiare. E tra l’altro, le conversazioni impegnate degli snob di qui sulla poesia russa del XX secolo, non mi sembrano così convincenti. E questo perché la loro conoscenza di Pasternak o Achmatova si basa sulle traduzioni, che discordano enormemente dagli originali. In queste traduzioni spesso si enfatizza il contenuto, ma si trascurano gli aspetti strutturali. Questo è giustificato anche dal fatto che nella poesia inglese del XX secolo l’idioma principale è il verso libero. E direi ancora: l’utilizzo del verso libero nelle traduzioni, naturalmente, permette di rendere il testo originale in modo più o meno completo, ma solo a livello del contenuto, non oltre. È per questo che, in Occidente, quando si discute di Mandel’štam si crede di trovarlo da qualche parte tra Yeats ed Eliot, perché la musica dell’originale scompare. Ma, dal punto di vista degli esperti di qui, nel XX secolo ciò è ammissibile e giustificato. E su questo punto i piedi.

Volkov: Se volesse spiegare l’essenza della poesia di Cvetaeva agli studenti americani che non conoscono il russo, a quale poeta anglofono la paragonerebbe?

Brodskij: Quando parlo loro di Cvetaeva cito l’inglese Gerard Manley Hopkins e l’americano Hart Crane, anche se di solito questi confronti sono sprecati perché i giovani non conoscono né la prima né il secondo, e ancora meno il terzo. Ma se si prendessero la briga di gettare uno sguardo su Hopkins e Crane, almeno scoprirebbero la complessità della dizione di Cvetaeva, cosa che in inglese non si incontra tanto facilmente: la complessità della sintassi, l’enjambement, questi salti attraverso l’evidente, tutto quello che ha reso celebre Cvetaeva, almeno sul piano della tecnica. E se continuassimo il parallelismo con Crane (anche se in generale non esiste una vera somiglianza), vedremmo che la loro fine è stata la stessa: Il suicidio. Anche se Crane, credo, avesse meno motivi per suicidarsi. Ma, ancora una volta, non sta a noi giudicare.

 Volkov: A proposito di parallelismi, accidentalmente o no, per le nostre conversazioni abbiamo selezionato quattro poeti: Auden, Frost, Cvetaeva e Achmatova, cioè due donne russe e due uomini di cultura anglosassone. Frost e Achmatova hanno verosimilmente pensato di emigrare, ma poi sono rimasti nei loro paesi. Mentre Cvetaeva e Auden sono entrambi emigrati, per poi “rientrare” prima della loro morte. Naturalmente, questa è una coincidenza puramente esteriore. Ma suggerisce il pensiero che, alla fine, al poeta viene data una scelta limitata di ruoli da giocarsi nella vita. A questo proposito vorrei chiederle: da quando lei è emigrato qui, Cvetaeva le è diventata più vicina? Ora la capisce meglio “da dentro”?

Brodskij: La comprensione non dipende dagli spostamenti geografici, dipende dall’età. E penso che se oggi ho capito qualcosa di diverso della poesia di Cvetaeva, è per un’affinità di sentimenti. In realtà Cvetaeva era estremamente riservata su ciò che le accadeva attorno, non ha quasi mai sfruttato la sua biografia per i suoi versi. Prenda il Poema della montagna o il Poema della fine: qui si tratta di una lacerazione globale e non della rottura con una persona reale.

Volkov: Penso che per Cvetaeva quell’effetto di distacco sia dovuto all’impossibilità di paragonare la valanga delle sue poesie con i personaggi concreti che le hanno provocate. Cvetaeva, molto probabilmente, aveva l’impressione di descrivere una situazione reale. Lei stesso ha detto che era la più sincera dei poeti russi.

Brodskij: Proprio così.

Volkov: E non si riferiva forse anche alla sincerità “biografica” dei suoi versi? E la sua prosa? Dopo tutto è completamente autobiografica!

Brodskij: Cvetaeva è veramente il poeta russo più sincero, ma è una sincerità, questa, che si pone prima di tutto sul piano della musicalità, come quando si grida di dolore. Il dolore è biografico, ma il grido è impersonale. Quel suo “rifiuto”, quello di cui abbiamo parlato prima, ricopre tutto, include ogni cosa. Compreso il dolore personale, la patria, l’esilio, i bastardi incrociati qua e là nella vita. La cosa più importante è che questa intonazione, questo tono di rifiuto, in Cvetaeva è anteriore alla sua esperienza. “Al tuo mondo dissennato una sola risposta – il rifiuto”. Non si tratta tanto del “mondo dissennato” (per provare questo sentimento in fondo basterebbe un solo incontro con la sfortuna), ma del triplice suono della lettera “o”, che funge qui da denominatore comune. E possiamo certamente dire che gli eventi della sua vita hanno confermato la giustezza della sua intuizione originale. Ma l’esperienza della vita non conferma nulla. Nella poesia, come nella musica, l’esperienza è qualcosa di secondario. Nella materia con cui operano i vari settori dell’arte c’è sempre una specifica, irrevocabile dinamica lineare. Un proiettile, metaforicamente parlando, percorre la distanza che il materiale di cui è fatto gli impone. Non dipende dall’esperienza. Tutti facciamo più o meno le stesse esperienze. Possiamo anche supporre che ci fossero delle persone che hanno vissuto esperienze più dolorose di Cvetaeva, ma non c’erano persone con la sua capacità di piegare la materia e di subordinarla. L’esperienza, la vita, il corpo, la biografia, tutt’al più assorbono il contraccolpo. Il proiettile invece viene lanciato lontano seguendo le dinamiche del suo materiale. In ogni caso non sto cercando nelle poesie di Cvetaeva dei parallelismi con la mia personale esperienza. E davanti alla sua forza poetica non posso che rimanere completamente stupefatto.

Volkov: Cosa direbbe del rapporto di Cvetaeva con la stampa degli emigrati?

Brodskij: Dei miserabili. Gentaglia. Tra l’altro, non va dimenticato quanto questo pubblico fosse politicizzato, soprattutto nell’ambiente dell’emigrazione. E in più, no, piuttosto in meno, la mancanza di risorse.

Volkov: Per undici anni Cvetaeva in esilio non ha potuto pubblicare un solo libro. Gli editori non volevano rischiare di pubblicarla. Lei invece lo desiderava molto. E mi ha veramente stupito quante umiliazioni, quante imposizioni della censura era pronta ad accettare.

Brodskij: È davvero incredibile. Ma d’altronde, quando hai detto l’essenziale, poi si può anche tagliare qualche passaggio, qualche “pezzo-non pezzo”. Ancora una volta anche questo diventa secondario.

Volkov: Nella sua vita non è mai stato costretto da pressioni esterne a dover modificare le sue poesie o la sua prosa?

Brodskij: Mai.

Volkov: Mai?

Brodskij: Mai.

Volkov: Cvetaeva suscita facilmente avversione proprio a causa del suo “calvinismo”. Ho ascoltato le sue lezioni, ho letto i suoi articoli su Cvetaeva. Da tutto questo, tenendo conto anche delle nostre conversazioni precedenti, ho imparato a leggere la sua poesia e la sua prosa con molta più attenzione di prima. Devo ammettere che preferisco decisamente Achmatova a Cvetaeva, e tra loro due, diciamolo pure, le relazioni erano piuttosto complicate. E la stessa Achmatova ha sempre ripetuto che il poeta più importante del XX secolo era Mandel’štam. Lei è d’accordo?

Brodskij: Beh, se davvero dobbiamo lasciarci andare a questo tipo di discorsi, allora no, non sono d’accordo. Credo che Cvetaeva sia il più grande poeta del XX secolo. Certamente, Cvetaeva.

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MARINA IVANOVNA CVETAEVA (1892-1941) POESIE SCELTE NUOVA VERSIONE a cura di Donata De Bartolomeo e Kamila  Gayazova – Scrive di lei Iosif Brodskij ne Il canto del pendolo «Sul piano formale è considerevolmente più interessante di tutti i sui contemporanei, compresi i futuristi, e le sue rime sono più inventive di quelle di Pasternak»

Pasternak e Mayakovsky
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Marina Ivanovna Cvetaeva (Zvetaeva), in russo: Мари́на Ива́новна Цвета́ева (Mosca, 8 ottobre 1892 – Elabuga, 31 agosto 1941). Scrive di lei Anna Achmatova: «Spesso Marina inizia una poesia con un do di petto». A 18 anni pubblica (1910) Album Serale, la sua prima raccolta di poesie. È l’esordio di un autentico talento: il libro viene recensito dai principali poeti dell’epoca. È  bella, ricca, intelligente, anticonformista. Scriverà centinaia di poesie, diciassette poemi, otto drammi in versi, opere di narrativa e saggistica oltre ad uno scambio epistolare con Rainer Maria Rilke e Boris Pasternak, suo grande platonico amore impossibile. Pasternak le scrive nella sua Autobiografia un commosso riconoscimento: «La verità è che bisognava leggerla attentamente. Quando lo feci rimasi senza respiro per l’abisso di purezza e forza che si spalancava… In breve non è un sacrilegio dire che ad eccezione di Annenskij, Blok e con qualche riserva Andrej Belyi, la Cvetaeva prima maniera era precisamente ciò che avrebbero voluto essere e non furono tutti gli altri simbolisti messi insieme».
Scrive di lei Iosif Brodskij ne Il canto del pendolo «Sul piano formale è considerevolmente più interessante di tutti i sui contemporanei, compresi i futuristi, e le sue rime sono più inventive di quelle di Pasternak». Nella sua poesia c’è una sorta di partitura musicale. Scrive Marina ai suoi lettori: «Il mio libro deve essere eseguito come una sonata. I segni sono le note. Sta al lettore realizzare o deformare». Nel 1911 sposa Sergej Efron a cui fa una promessa che manterrà nonostante i suoi amori collaterali etero e saffici: «Ti seguirò come un cagnolino».
Nel 1912 esce la seconda raccolta, Lanterna magica, e nel 1913 Da due libri. Nel 1917 inizia la rivoluzione, Efron si arruola tra le guardie bianche, e di lui non si saprà più nulla. Assiste ad ogni umiliazione fino ad elemosinare il cibo per sé e le due figlie Alja e Irina che morirà a due anni in un orfanatrofio per denutrizione. Nel 1922 fugge a Praga per raggiungere il marito. Nasce il terzo figlio, della cui paternità si dubita e al quale lei si lega morbosamente. A Praga scrive molte opere importanti: Dopo la Russia, L’accalappiatopi, Il poema della montagna e Il poema della fine. Nel ’25 la famiglia è a Parigi dove vivono di stenti grazie ai lavori domestici di Marina presso varie famiglie. Efron si arruola ai servizi segreti russi ed è accusato di aver partecipato ad un omicidio. Fugge a Mosca con la figlia Alja che condivideva i principi rivoluzionari. Marina resta fedele alla sua antica promessa: «Ti seguirò come un cagnolino». Nel 1939 Marina li raggiunge a Mosca con Mur. In tempo per salutarli poco prima che vengano arrestati.
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mandel'stam foto segnaletica nel lager 1938

osip mandel’stam, foto segnaletica nel lager 1938

Marina invia nei campi di concentramento dove si trovano il marito e la figlia lettere e pacchi con stivali, berretti, scialli, carote essiccate: «a immergerle nell’acqua bollente rinvengono, Alja ricordati che contengono vitamine». Inizia la guerra, i nazisti invadono la Russia, Marina con il figlio nel 1941 sono evacuati a Elabuga, nella Repubblica autonoma di Tataria. Fa domanda per ottenere un posto di lavapiatti in un mensa del Fondo letterario e non lo ottiene. Mur si lamentava della vita che conducevano, pretendeva un abito nuovo ma il denaro che avevano bastava appena per due pagnotte. La domenica 31 agosto del 1941, rimasta da sola a casa, la Cvetaeva salì su una sedia, rigirò una corda attorno ad una trave e si impiccò. Lasciò un biglietto, poi scomparso negli archivi della milizia. Nessuno andò ai suoi funerali, svoltisi tre giorni dopo nel cimitero cittadino, e non si conosce il punto preciso dove fu sepolta. Domenica 31 agosto 1941 rimasta sola a casa, sale su una sedia e si impicca a una trave. Ha 49 anni. Lascia un biglietto d’addio e d’amore profondo: per Mur che la disprezzava per la sua sciatteria e per la sua dubbia reputazione. L’epitaffio era già stato scritto, autografo, il 3 maggio 1913 a 20 anni:
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«… Leggi – di ranuncoli
e papaveri colto un mazzetto –
che io mi chiamavo Marina
e quanti anni avevo… Solo non stare così tetro,
la testa china sul petto.
Con leggerezza pensami,
con leggerezza dimenticami»
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Qualche tempo fa commentando l’uso/abuso delle lineette da parte di una poetessa, pubblicata sulla Rivista internazionale L’Ombra delle Parole, Antonio Sagredo invitava alla lettura di Marina Cvetaeva da lui definita «maestra» nell’uso delle lineette.
L’input è stato da me raccolto e condiviso con Kamila  Gayazova che ha contribuito a questo lavoro con la consueta passione e professionalità.
I testi originali sono stati reperiti in Socinenija (Opere) – 2 v. Mosca,  1988 ed in parte sui numerosissimi siti in lingua russa espressamente dedicati alla Cvetaeva.
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“La lettura è innanzitutto con-creazione… Sei stanco della mia cosa, vuol dire che hai letto bene e – hai letto una cosa buona. La stanchezza del lettore non è una stanchezza che svuoti, ma creativa. Con-creativa. Fa onore al lettore e a me”.
(Marina Cvetaeva, Poet o kritike (Un poeta a proposito della critica) – Sovestkij pisatel’ – Mosca, 1965)
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(Donata De Bartolomeo)

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marina cvetaeva 1914

Marina Cvetaeva, 1914

Poesie di Marina Cvetaeva

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Mi piace che siete malato ma non di me,
mi piace che io sono malata ma non di voi,
che mai la pesante sfera terrestre
scivolerebbe sotto i nostri piedi.
Mi piace che si può essere spiritosa –
Indisciplinata – e non giocare con le parole
e non arrossire per una asfissiante ondata
toccandosi con le maniche con leggerezza.
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Mi piace anche che voi in mia presenza
abbracciate tranquillamente un’altra,
non condannatemi a bruciare
nel fuoco dell’inferno perché non vi bacio,
perché il mio tenero nome, mio caro, non
menzionate né di giorno né di notte – invano …
Perché nel silenzio di una chiesa
non canteranno mai sopra di noi “alleluia”!
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Grazie a voi col cuore e con la mano
perché voi – senza neanche saperlo! –
mi amate così tanto: per la mia quiete notturna,
per la rarità degli incontri nelle ore del tramonto,
per le nostre non passeggiate sotto la luna,
per il sole non sulle nostre teste,
perché voi siete malato – purtroppo! – non di me,
perché io sono malata – purtroppo! – non di voi.
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SOTTO UN CAREZZEVOLE PLAID FELPATO
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Sotto un carezzevole plaid felpato
chiamo il sonno di ieri –
Cosa è stato? Di chi è la vittoria?
Chi è lo sconfitto?
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Tutto ripenso di nuovo,
per tutto di nuovo mi torturo.
In questo, per cui non conosco le parole,
consisteva forse l’amore?
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Chi era il cacciatore? Chi la preda?
Tutto diabolicamente al contrario!
Cosa ha capito, facendo a lungo le fusa,
il gatto siberiano?
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In questo duello di ritrosia
chi, nella mano di chi stava solo la palla?
Quale cuore – il vostro forse, forse il mio
volava al galoppo?
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E tuttavia – cos’è stato allora?
Cosa voglio e cosa rimpiango?
Continuo a non capire: ho forse vinto?
Forse sono stata sconfitta?
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FRIVOLEZZA – CARO PECCATO
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Frivolezza! – caro peccato,
caro compagno di viaggio e mio caro nemico!
Tu hai spruzzato nei mie occhi il riso
e nelle mie vene hai spruzzato la mazurca.
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MI hai insegnato a non conservare l’anello nuziale
con qualunque persona la Vita mi avrebbe sposato!
Iniziare a casaccio dalla fine
e finire ancor prima dell’inizio.
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Essere come uno stelo ed essere come acciaio
nella vita dove noi così poco possiamo …
Curare la tristezza con la cioccolata
e ridere in faccia ai passanti!
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1915
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AD ANNA ACHMATOVA
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Un corpo sottile, non russo –
sui tomi.
Lo scialle dai paesi turchi
è sceso, come un manto.
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Vi si può rendere con una sola
linea nera spezzata.
Il freddo – nell’allegria, la calura –
nel vostro sconforto.
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Tutta la Vostra vita è un brivido
e si compierà – ma in che modo?
La nuvolosa – plumbea – fronte
di un giovane demonio.
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Conquistare qualsiasi persona terrena
per lei è un gioco!
E il verso disarmato
mira al cuore.
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Nell’ora assonnata del mattino –
mi sembra alle quattro e un quarto –
io mi sono innamorata di Voi,
Anna Achmatova.
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(1915)
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*
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Pasternak_croppedpasternak 5
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Sole bianco e basse, basse nuvole,
lungo gli orti – oltre la bianca parete – un camposanto.
E sulla sabbia file di spaventapasseri di paglia
sotto traverse dalla statura umana.
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E, spenzolando attraverso pali di steccato,
vedo: strade, alberi, soldati in disordine.
Una vecchia, una fetta di pane cosparsa
di sale grosso accanto al cancello mastica e mastica …
.
Cosa hanno fatto queste grigie case per farti arrabbiare,
Signore! – e a che pro’ tenere sotto tiro il cuore a così tante persone?
Il treno se n’è andato ed ha ululato ed hanno ululato i soldati
ed ha coperto di polvere la strada dietro di sé …
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No, morire! Non nascere mai sarebbe stato meglio
di questo ululato dolente, compassionevole, galeotto
sulle belle donne dalle ciglia nere. Oh, cantano
adesso i soldati – oh, Signore, mio Dio!
.
*
.
ECCETTO L’AMORE
.
Non amavo ma piangevo. No, non amavo tuttavia
solo a te ho indicato nell’ ombra il volto adorato.
Tutto nel nostro sogno non assomigliava all’amore:
né ragioni né indizi.
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Solo noi ha salutato questa immagine dalla sala serale,
solo noi – tu ed io – le abbiamo portato un verso lamentoso.
Il filo dell’adorazione ci ha legati più forte
dell’innamoramento – degli altri.
.
Ma l’impeto è passato e dolcemente qualcuno si è avvicinato
che non poteva pregare ma amava. Non affrettarti a condannare!
Ti ricorderò come la più tenera nota
nel risveglio dell’anima.
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Tu vagavi in questo animo triste come in una casa non chiusa.
(Nella nostra casa, in primavera …) non definirmi quella che ha dimenticato!
Io ho riempito di te tutti i miei minuti tranne
Il più triste – quello dell’amore.
.
*
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Essere tenera, matta e chiassosa
-bramare di vivere!-
Essere affascinante ed intelligente,
incantevole!
.
Più tenera di tutti quelli che sono e sono stati,
non conoscere la colpa …
-oh, indignazione, perché nella tomba
tutti noi siamo uguali!
.
Diventare ciò che non è caro a nessuno,
-oh, diventare come ghiaccio!-
senza sapere ciò che è stato
né ciò che verrà,
.
dimenticare come il cuore si è spaccato
e si è di nuovo saldato –
dimenticare le proprie parole e la voce
e lo splendore dei capelli.
.
Il braccialetto di turchese antico
sul piccolo gambo
su questa sottile, su questa lunga
mia mano …
.
*
.
Come avesse abbozzato una nuvoletta
da lontano,
dalla manina di madreperla
prendeva la mano.
.
Come saltavano le gambe
al di là della siepe,
dimenticare come vicino, lungo il cammino,
un’ombra correva.
.
Dimenticare l’ ardore nell’azzurro,
come sono quieti i giorni …
-Tutte le proprie birichinate, tutte le tempeste
e tutti i versi!
.
Il mio miracolo compiuto
scaccerà il riso.
Io, l’eternamente-rosata, diventerò
la più bianca di tutti.
.
E non si apriranno – così deve essere –
oh, abbi pietà!
né per un tramonto, né per uno sguardo
né per i campi
.
le mie palpebre abbassate
-nemmeno per un fiorellino!
Terra mia, perdona per sempre,
per tutti i secoli.
.
E tuttavia si scioglieranno le lune
e si scioglierà la neve
quando volerà via questo giovane,
incantevole secolo.
.
*
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Aleksandr Blok 7.
Non penso, non mi lamento, non discuto.
Non dormo.
Non aspiro
né al sole né alla luna né al mare
né alla nave.
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Non mi accorgo di quanto fa caldo tra queste pareti,
di quanto verde c’è nel giardino.
Da tempo il dono desiderato ed atteso
non aspetto.
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Non mi rallegra né il mattino né la corsa
sonora del tram.
Vivo, senza vedere il giorno, dimenticando
la data e il secolo.
.
Sulla fune, che sembra intagliata,
io – sono un piccolo danzatore.
Io – ombra dell’ombra di qualcuno. Io – sonnambulo
di due oscure lune.
.
*
.
OSIP E. MANDEL’STAM
.
Da dove questa tenerezza?
Non sono i primi – questi ricci
che liscio ed ho conosciuto labbra
più oscure delle tue.
.
Spuntavano e si spegnevano le stelle,
da dove questa tenerezza? –
spuntavano e si spegnevano gli occhi
dinanzi ai miei stessi occhi.
.
Inni ancora migliori
ho ascoltato nella notte oscura,
incoronata – oh tenerezza! –
sul petto stesso del cantore.
.
Da dove questa tenerezza
E cosa farne, malizioso
adolescente, cantore errante
dalle ciglia che più lunghe non si può?
.
(1916)
.
*
.
Si è svegliata la strada. Guarda, stanca
con gli occhi aggrottati delle finestre mute
sui volti assonnati, rossi per il gelo
che scacciano con i pensieri il sonno caparbio.
.
Coperti di brina gli alberi neri –
con la traccia misteriosa dei divertimenti notturni,
nel broccato più splendente stanno cupi
come fossero morti tra i vivi.
.
Balugina il grigio cappotto sgualcito,
il berretto con il fregio, il volto rattristato
e le mani rosse, premute contro le orecchie,
e un grembiulino nero con un fascio di libri.
.
Si è svegliata la strada. Guarda, accigliata
con gli occhi aggrottati delle finestre mute.
Addormentarsi, potersi dimenticare con pensiero consolante
che sogniamo la vita e questo – è un sogno!
.
(27 aprile 1920)
.
*
.
Io ho parlato ed un altro ha sentito
ed ha bisbigliato ad un altro, un terzo ha capito
mentre un quarto, prendendo un bastone di quercia,
è uscito nella notte – verso un’azione eroica. Il mondo su questo
ha composto una canzone e con questa stessa canzone
sulle labbra – o vita! – vado incontro alla morte.
.
(6 luglio 1918)
.
*
.
mandel'stam stalin

Stalin

A BORIS PASTERNAK
.
Dis-tanze: verste, miglia…
Ci hanno dis-trutti, dis-tanziati
perché non facessimo rumore
nei due diversi estremi della terra.
.
Dis-tanze: verste, lontananze…
Ci hanno scollati, dissaldati
e due mani hanno allungato, crocifiggendo,
e non sapevano che questa è una lega
.
di ispirazioni e tendini …
non ci hanno resi nemici – ma dis-persi,
ci hanno fatti a strati …
una parete e un fossato.
Ci hanno separati, come aquile-
.
cospiratori: verste, lontananze …
Non ci hanno separati – ci hanno sparsi.
Lungo i tuguri delle latitudini terrestri
ci hanno scaraventati come orfani.
.
Quale ormai ma quale marzo?!
Ci hanno frantumati – come un mazzo di carte!
24 marzo 1925
Nostalgia della patria! Da tempo
smascherata seccatura!
Mi è completamente indifferente
dove essere completamente
.
sola, per quali sassi a casa
trascinarmi con la borsa della spesa
in una casa che nemmeno sa che è mia
come un ospedale o una caserma.
.
Per me fa lo stesso tra quali
persone rizzare il pelo come un leone
prigioniero, da quale ambiente umano
essere sloggiata – immancabilmente –
.
verso me stessa, nell’individualità dei sentimenti.
Come un orso della Kamciatka senza lastra di ghiaccio
dove non acclimatarmi (e non mi sforzo!),
dove umiliarmi – per me fa lo stesso.
.
Non mi farò illudere nemmeno dalla lingua
materna, dal suo latteo richiamo.
Mi è indifferente in quale lingua
non essere compresa da chi incontro!
.
(da un lettore, di tonnellate di giornali
divoratore, mungitore di pettegolezzi …)
Lui – è del ventesimo secolo,
mentre io arrivo ad ogni secolo!
.
Stordita, come una trave
che è rimasta da un viale,
per me sono tutti uguali, per me tutto è uguale
e, forse, più uguale di tutto
.
quello che era nativo – più di tutto
da me tutti i segni, tutti i marchi,
tutte le date – sono stati cancellati con un colpo di mano:
l’anima, nata da qualche parte.
.
Il mio paese non mi ha protetta così
che la più penetrante spia
lungo tutta l’anima – tutta di traverso!
non troverà un neo!
.
Qualsiasi cosa mi è estranea, ogni tempo è per me vuoto,
tutto è la stessa cosa e tutto è uguale.
Ma se lungo la strada un arbusto
si alza, soprattutto – un sorbo …
.
(1934)
.
*
.
Si è svegliata la strada. Guarda, stanca
con gli occhi aggrottati delle finestre mute
sui volti assonnati, rossi per il gelo,
che scacciano con i pensieri il sonno caparbio.
.
Coperti di brina gli alberi neri –
con la traccia misteriosa di divertimenti notturni,
nel broccato più splendente stanno cupi
come fossero morti tra vivi.
.
Balugina il grigio cappotto sgualcito,
il berretto con il fregio, il volto rattristato
e le mani rosse, premute contro le orecchie
ed un grembiulino nero con un fascio di libri.
.
Si è svegliata la strada, accigliata
con gli occhi aggrottati delle finestre mute.
Addormentarsi, poter dimenticare con pensiero consolante
sogniamo la vita e questo – è un sogno!
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(27 aprile 1920)
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Io ho parlato ed un altro ha sentito
ed ha bisbigliato ad un altro, un terzo – ha capito
mentre un quarto, prendendo un bastone di quercia,
è uscito nella notte – verso l’azione. Il mondo su questo
ha composto una canzone e con questa stessa canzone
sulle labbra – oh vita! – vado incontro alla morte.
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cvetaeva-468.
Chi è fatto di pietra, chi è fatto d’argilla –
Io invece sono fatta d’argento e brillo!
La mia occupazione – è il tradimento, il mio nome – Marina,
io – sono l’effimera spuma del mare.
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Chi è fatto d’argilla, chi è fatto di carne –
a costoro la bara e le lastre tombali …
-battezzata nella fonte marina – e nel mio
volo continuamente infranta!
.
Attraverso ogni cuore, attraverso ogni rete
batte il mio arbitrio.
Io – vedi questi ricci scomposti? –
non sono fatta del sale della terra.
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Mi frango sulle vostre granitiche ginocchia
e da ogni onda – risuscito!
Evviva la schiuma – l’allegra schiuma –
l’alta schiuma del mare!
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(1920)
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*
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Tu, che mi hai amata con l’inganno
della verità – e con la falsa verità,
tu , che mi hai amato – che oltre
non si va! Oltre la frontiera!
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Tu, che mi hai amata più a lungo
del tempo – gesto della mano divina!
Tu non mi ami più:
la verità in cinque parole.
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(1923)
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I giorni lumache che strisciano,
… cucitrice giornaliera di linee …
Che mi importa della mia stessa vita?
Non è la mia, dal momento che non è la tua.
E mi importano poco le sciagure
personali … una mangiata? Una dormita?
Che mi importa del mio corpo mortale?
Non è il mio, dal momento che non è il tuo.
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(Gennaio 1925)
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*
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La mia strada non passa accanto alla casa – la tua.
La mia casa non passa accanto alla casa – di nessuno.
E tuttavia smarrisco il cammino,
(soprattutto – in primavera!)
e tuttavia mi struggo in mezzo alla gente
come un cane sotto la luna.
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Ospite ovunque gradita!
Non faccio dormire nessuno!
Gioco col nonno ai dadi
e col nipote – canto.
.
Le mogli non sono gelose di me:
io – voce e sguardo.
E per me nessun innamorato
ha costruito un palazzo.
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Mi fanno ridere le vostre
grazie non richieste, mercanti!
Innalzo da sola in una notte
ponti e regge.
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(Ma quello che dico – non lo ascoltare!
Tutte chiacchiere – di donne!)
Io stessa al mattino distruggerò
la mia creazione.
.
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Palazzi – come un covone di paglia – nulla!
La mia strada non passa accanto alla casa – la tua.
.
*
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cvetaeva6

Marina Cvetaeva

Il nomadismo del mondo è iniziato nelle tenebre:
sono loro che brancolano lungo la terra notturna – gli alberi,
sono loro che fermentano come vino dorato – i grappoli,
sono loro che vagano di casa in casa – le stelle,
sono i fiumi che cominciano il cammino – controcorrente!
Ed io ho voglia sul tuo petto – di dormire.
.
(1917)
.
*
.
.
LA TRIPLICE ALLEANZA

.

Noi, dietro la timidezza del volto,
celiamo dell’altro.
Noi siamo cuori ribelli.
Noi siamo giovani. Siamo in tre.
.
Durante la lezione siamo così silenziosi
tanto ardenti nel maneggio.
Abbiamo versi simili
e sogni unici e medesimi.
.
Servire la libertà – è il nostro motto
e finire come eroi.
Abbiamo giurato sull’ombra di Schiller.
Noi siamo giovani. Siamo in tre.
.
(1909-1910)
.
*( NdT) Si riferisce a Mandel’stam, Pasternak e se stessa.
.
*
.
Morendo, non dirò: sono stata.
E non ho rimpianti e non cerco colpevoli.
Ci sono al mondo fatti più importanti
di tempeste appassionate ed avventure amorose.
.
Tu, che hai bussato con l’ala su questo petto,
giovane colpevole dell’ispirazione,
io ti ordino: – sii!
Io – non smetto di obbedire.
.
(1918)
.
*
.
Ma chi se ne importa!
Siate pecore!
Andate in branchi, in stuoli
senza un sogno, senza un pensiero proprio
dietro Hitler o Stalin:
.
mostrate dai corpi fatti a pezzi
la stella o le croci celtiche.
.
(23 giugno 1934)
.
*
.
A mamma
.
Nel vecchio valzer di Strauss
noi abbiamo udito il tuo sommesso appello,
da quel momento ci sono estranei tutti i vivi
e consolante il fugace combattimento delle ore.
.
Noi, come te, salutiamo i tramonti
ebbri della vicinanza della fine.
Tutto quello di cui siamo ricchi nella sera migliore
tu ce lo hai messo nel cuore.
.
Inchinandoti ai sogni infantili senza stancarti
(senza di te soltanto la luna li guardava!)
hai guidato i tuoi piccoli oltre
i pensieri e le azioni di una vita amara.
.
Dai primi anni ci era vicino chi soffriva,
noioso il riso ed estraneo il tetto familiare …
La nostra nave non salpò in un buon momento
e naviga secondo il capriccio di tutti i venti!
.
Sempre più pallida l’isola celeste – l’infanzia,
noi siamo soli sul ponte.
Si vede che tu, mamma, alle tue figlie
hai lasciato in eredità la tristezza.
.
(1907-1910)
.
Agli Ebrei
.
Chi non ti ha calpestato – e chi non ti ha fuso,
oh, roveto ardente di rose!
Unica cosa che lasciò sulla terra
di incrollabile su di se Cristo:
.
Israele! Si avvicina un secondo
tuo impero. Per tutti i centesimi
voi ci avete ripagato col sangue: Eroi!
Traditori! Profeti! Mercanti!
.
In ciascuno di voi – persino in quello che a lume di candela
conta l’oro nel sacchetto –
Cristo parla più forte che in Marco,
Matteo, Giovanni e Luca.
.
Per tutta la terra – da un capo all’altro –
crocifissione e deposizione dalla croce
con l’ultimo dei tuoi figli, Israele,
in verità seppelliremo Cristo.
.
(1916-1924)
.
.
È ora! per questo fuoco –
Sono vecchia!
• L’amore – più vecchio di me! –
-Di 50 gennai
montagna!
-L’amore – ancora più vecchio: –
vecchia come un equiseto, vecchia come un serpente,
più vecchia delle ambre lituane,
più vecchia di tutte le navi trasportate
più vecchia! – delle pietre, più vecchia dei mari…
Ma il dolore, che sta nel petto,
è più vecchio dell’amore, più vecchio dell’amore…
.
(1940)
Donata De Bartolomeo è nata a Taranto e vive a Roma, ha tradotto poesie di Osip Mandel’stam, Anna Achmatova, Arsenij Tarkovskij, Aleksandr Blok, Cvetaeva e altri poeti e narratori russi.

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NOVE POESIE di Anna Andreevna Achmatova da “Il silenzio dell’amore. Poesie” nuova traduzione di Manuela Giabardo e Presentazione di Paolo Ruffilli

 

anna achmatova, ritratto di Kuzma-Petrov-Vodkin

anna achmatova, ritratto di Kuzma-Petrov-Vodkin

 Anna Andreevna Achmatova (1889-1966) pseudonimo di Anna Andreevna Gorenko nacque a Bol’soj Fontan, un elegante quartiere di Odessa, il 23 giugno1889, terza dei cinque figli di Andreij Antonovich Gorenko, funzionario pubblico, e di Inna Erazmovna Stogova, entrambi di nobile famiglia. Il padre, ingegnere meccanico di marina, si trasferì prima nei sobborghi di Pietroburgo, a Pavlovsk, e poi a Càrskoe Selò.

Precoce, Anna a cinque anni parlava perfettamente il francese ed era una grande lettrice. A dieci, superata una grave malattia, cominciò a scrivere: un diario, piccole storie, ritratti di compagni di gioco. Nel 1905 i genitori si erano separati e Anna si era trasferita a Kiev, dove nel 1907 terminò il liceo e si iscrisse alla facoltà di Legge. Nel frattempo, avendo cominciato a comporre poesie e manifestando il desiderio di pubblicarle, il padre le suggerì di ricorrere a uno pseudonimo letterario e la scelta cadde sul nome della bisnonna materna, Achmatova. La sua prima poesia è datata 1900, a undici anni, e la prima pubblicata apparve sulla rivista parigina “Sirus”, edita da Gumilëv, nel 1907.

Nel 1903 cominciò la storia sentimentale con il poeta Nikolàj Gumilëv, maggiore di tre anni rispetto a lei ed ex allievo di un insegnante ginnasiale di Anna. Anna era coinvolta (“Prego il raggio che dalla finestra / entra pallido, sottile, dritto. / Da stamattina non parlo, / il cuore spezzato in due”), ma appariva discontinua (“l’ho fatto ubriacare / di aspra malinconia”) e Gumilëv era innamorato a tal punto da tentare il suicidio per superare le sue resistenze (“Scherzavo. / È stato tutto uno scherzo. Se te ne vai, muoio”).

Si sposarono nel 1910 e il matrimonio durò fino al 1918 e nel 1912 nacque il figlio Lev Nikolaevič Gumilëv, che divenne geografo, antropologo e storico, e che fu arrestato ingiustamente per tre volte e visse ben diciotto anni in un campo di lavoro e solo dopo la morte di Stalin poté cominciare la sua carriera accademica (nel periodo della perestroika i suoi lavori raccolsero un ampio consenso, tanto che, dopo la sua morte, si decise di intitolare a lui l’Università statale a Astana, capitale del Kazakistan).

anna-achmatovaAnna faceva parte della corporazione “La Gilda dei poeti” (Cech poetov), nata nel 1911 e orbitante intorno alla rivista “Apollon” dalle cui pagine Gumilëv insieme con Sergej Mitrofanovič Gorodeckij teorizzavano i principi del così detto “acmeismo”. Il nome del movimento, che intendeva alludere al punto estremo della lucidità espressiva, si alternava con quello di “adamismo”, più propriamente voluto da Gumilëv, in opposizione al simbolismo, sviluppando una diversa tematica e un nuovo stile espressivo fondati sulla chiarezza rappresentativa, sulla concretezza dei contenuti ancorati alla “realtà” dei sensi e sullo studio dei valori formali del verso.

L’acmeismo, che non riusciva a tenere il passo con gli avvenimenti determinati dalla rivoluzione per l’inadeguatezza delle sue componenti ideologiche, superato nell’attenzione generale dal futurismo, rappresentava il momento drammatico di una generazione che cercava di adeguarsi all’accelerazione imposta dagli eventi della storia. Pur avendovi aderito due poeti di grande talento come l’Achmatova e Mandel’štam, il movimento ebbe vita breve, travolto poi dall’arresto del suo fondatore e dall’accusa di tradimento che lo portò alla condanna a morte.

Anna aveva composto la  sua prima opera, La sera, nel 1912, Nello stesso anno fece un viaggio a Parigi, dove conobbe tra gli altri Amedeo Modigliani, che la ritrasse in numerosi disegni (eseguiti a memoria, uno dei quali è conservato a San Pietroburgo). Venne in Italia, visitando numerose città: Venezia, Genova, Padova, Bologna, Pisa e Firenze. E dirà che la pittura e l’architettura italiana sono “simili a un sogno che poi ti ricordi per tutta la vita”.

La produzione poetica continuò fervida negli anni seguenti: al primo libro seguirono Rosario nel 1914, con cui ottenne una vastissima popolarità, e poi  Lo stormo bianco nel 1917, la sua terza raccolta di poesie, che ebbe con il favore dei lettori l’adesione di molti critici. L’anno seguente divorziò da Gumilëv, partito volontario per il fronte, e finì un rapporto importante che segnerà per sempre la vita e la produzione dell’Achmatova. Dopo il divorzio, Anna lavorò alla biblioteca dell’Istituto di Agronomia, e nel 1918 sposò il poeta e assirologo Vladimir Šilejko, uomo patologicamente geloso e possessivo. Anche questa unione terminò, nel 1921, l’anno in cui Gumilëv, che nel frattempo si era risposato, venne accusato di aver preso parte ad un complotto sovversivo monarchico e venne fucilato il 25 agosto.

anna achmatova

anna achmatova

Nel 1921 uscirono Piantaggine e, a breve distanza, Proprio sul mare e, nel 1922, Anno Domini MCMXXI: raccolte di versi ispirate da una forte nostalgia delle vicende passate, una sorta di elegia dolorante che spesso assumeva quasi la cadenza di una preghiera. Anno Domini fu l’ultima raccolta dell’Achmatova e nei quarantaquattro anni che seguirono nessun libro nuovo vide la luce (dal 1922 al 1966, anno della sua morte, non poté pubblicare un libro “veramente suo”). Negli anni del dopoguerra furono proposte solo due antologie selezionate e censurate dalla casa editrice di Stato, con testi della prima produzione e con le poesie di guerra, allo scopo di attestare al pubblico soprattutto straniero che l’autrice era viva e fedele al regime.

Nella Russia sovietica, l’Achmatova era vista con sospetto come ex-moglie di un poeta controrivoluzionario. Oltre tutto, negli anni tra il 1917 ed il 1921, non si era espressa in alcun modo riguardo ad una adesione personale alla Rivoluzione, pur scegliendo di non emigrare dal paese. Si ritrovava fondamentalmente sola, in una Russia che non la condannava ancora ufficialmente, ma che le era comunque palesemente ostile. Per sopravvivere, contava come l’amico Mandel’štam sull’appoggio di Boris Pasternak, svolgendo sporadicamente la professione di traduttrice e dedicandosi intanto allo studio dell’opera di Puskin. Ma i tragici sviluppi del regime stalinista le serbavano ulteriori e drammatiche sofferenze.

Nel 1925 nacque la nuova infelice relazione con Nikolàj Punin, critico e studioso d’arte e la poetessa si trasferì, a causa della crisi degli alloggi, nella casa della Fontanka a Leningrado, dove conviveva con lo studioso, la sua ex moglie e la figlia, e suo figlio Lev. La situazione familiare era, insomma, innegabilmente difficile e la vita nella Russia sovietica contraddistinta da una crescente politica del terrore (“ma noi abbiamo imparato, una volta per tutte / che sa di sangue, soltanto, il sangue…”).

Si determinò per l’Achmatova un’interruzione dell’attività poetica, che si protrasse fino alla fine degli anni trenta. È alla vigilia dell’apertura dei campi staliniani e delle deportazioni che Anna riprese a poetare, dopo la separazione da Punin, avvenuta nel 1938. Raccolse i versi in un’antologia di poesie scritte fra il 1924 e il 1941, Il salice, che nella realtà non uscì mai.

Il 13 marzo 1938 suo figlio venne arrestato e condannato a morte (condanna poi convertita in deportazione) a causa probabilmente del cognome del padre. Anna si recò, come molte madri russe, al carcere delle Croci per avere notizie di Lev. Ne nacque il poemetto Requiem, che le migliori amiche provvidero a imparare a memoria, sicure dell’intolleranza del governo. Era un canto straziato che, seppure non dato alle stampe, si guadagnò, anche solo in forma orale, una fama vastissima. Il ciclo di poesie era uno spietato atto di accusa contro la dittatura di Stalin.

Pubblicandolo vent’anni dopo, l’Achmatova scrisse nella prefazione: “Negli anni terribili della ežóvščina ho passato diciassette mesi in fila davanti alle carceri di Leningrado. Una volta qualcuno mi riconobbe. Allora una donna dalle labbra livide che stava dietro di me e che, sicuramente, non aveva mai sentito il mio nome, si riscosse dal torpore che era caratteristico di noi tutti e mi domandò in un orecchio (lì tutti parlavano sussurrando): Ma questo lei può descriverlo? E io dissi: Posso. Allora una sorta di sorriso scivolò lungo quello che un tempo era stato il suo volto” (Leningrado, primo aprile 1957).

Nel 1941 incontrò Marina Cvetaeva, in un intenso reciproco scambio di visioni e di umori. “Due poesie diverse, radicate nello stesso terreno sconvolto della Russia novecentesca, quella dell’Achmatova e quella della Cvetaeva: classica e apollinea la prima, trasgressiva e dionisiaca la seconda. E due vite diverse, anche se entrambe tempestose di amori e piagate di dolori”, come ebbe a dire Vittorio Strada.

Achmatova e Gumilev

Achmatova e Gumilev

Il poemetto Lungo tutta la Terra risaliva a quello stesso periodo. Nel 1941 la Germania aveva invaso la Russia e Stalin fece ricorso a tutti quei nomi che, da tempo in disgrazia, potevano tornare utili. L’Achmatova, con il prestigio e la fama che aveva sia pure per vie del tutto clandestine, parlò alla radio per favorire l’unità del popolo russo contro la minaccia hitleriana. Nel frattempo il nemico avanzava e Anna fu evacuata, insieme con altri intellettuali, da Leningrado a Taskènt. Qui scrisse Luna allo zenit, e il tema centrale della produzione poetica divenne la guerra, come anche nella serie Il vento della guerra.

Compose, negli anni 1942-43, le Elegie del Nord. Nel 1944 tornò a Leningrado, nella casa della Fontanka. Continuava intanto a lavorare al Poema senza eroe, iniziato nel 1942, al quale continuerà a dedicarsi per ondate fino al 1962. Nello stesso anno il figlio Lev venne liberato perché costretto ad arruolarsi nell’Armata Rossa e raggiunse poi la madre alla fine della guerra, ma venne arrestato di nuovo nel 1949.

Nello stesso periodo Anna riprese a pubblicare su diverse riviste. La risonanza di una breve relazione con il primo segretario dell’ambasciata inglese Isaiah Berlin (1945), resa pubblica dal giornalista Randolph Churchill (il figlio di Winston), insieme con l’arresto e l’esilio in Siberia di Punin, contribuì all’espulsione della poetessa dall’Unione degli scrittori sovietici nel 1946 con l’accusa di estetismo e di disimpegno politico, sulla scia delle critiche ždanoviane di pessimismo nevrotico, misticismo e culto per il passato (divenne famosa la definizione che Ždanov diede dell’Achmatova: “mezza suora e mezza puttana”). Circostanze, tutte, che provocarono in lei un periodo nero di isolamento, come appare evidente in Frantumi: “Appendetemi al gancio sanguinolento, / come una belva uccisa, / perché increduli e ridacchiando / gli stranieri mi girino attorno / e scrivano in fogli autorevoli / che si è spento il mio impareggiabile dono, / e che io ero poeta tra i poeti, / ma è scoccata / la mia tredicesima ora.”

Nel 1950, terrorizzata dal pensiero che il figlio potesse essere ucciso, scrisse su consiglio degli amici, quindici liriche dedicate a Stalin, il ciclo di poesie Slava Miru (Gloria alla Pace), in ossequio al “comunismo radioso”.  Lev fu infatti risparmiato molto probabilmente grazie a questo intervento e venne liberato tre anni dopo la morte del dittatore, quando per Anna l’incubo cessò definitivamente.

Anna Achmatova copAnche dopo la morte di Stalin nel 1953, l’Achmatova continuò ad essere sottoposta ad una severa censura in patria e fu parzialmente riabilitata dopo il Congresso del Pcus del 1956. Lei, del resto, in pubblico continuava a considerare negativamente il realismo socialista dominante in letteratura e a ritenere veramente decisiva solo la produzione degli scrittori dissidenti. Nel 1961, cinque anni prima di morire, in un breve componimento intitolato “Noi quattro”, insisteva a riconoscere, senza enfasi ma con piena consapevolezza, il valore letterario fondamentale dei pochi che non si erano piegati ai dettami del regime, accostando alla sua le voci di Osip Mandel’štam, Boris Pasternak e Marina Cvetaeva.

Pubblicò nel 1962 un’opera alla quale lavorava già dal 1942, il Poema senza eroe, un nostalgico ricordo del passato russo, rielaborato attraverso la drammaticità che la nuova visione della Storia imponeva. Sulla sua poetica continuavano ad esercitare influenza le opere della tradizione non solo russa, tra cui in particolare la Divina commedia di Dante, che Anna rileggeva di continuo direttamente in italiano. Come testimonia il filosofo Vladimir Kantor: «Quando chiesero ad Anna Achmatova, la matriarca della poesia russa, se aveva letto Dante, con il suo tono da grande regina della poesia rispose: “Non faccio altro che leggere Dante”».

Nel 1964 la poetessa ebbe il permesso di lasciare la Russia per ritirare, in Sicilia, il premio “Etna – Taormina”. L’anno seguente presso l’università di Oxford ricevette la laurea honoris causa. Le associazioni culturali russe la riabilitarono del tutto come una dei massimi poeti sovietici del secolo e nel 1965 uscì una nuova raccolta, La corsa del tempo, che contiene tra l’altro le liriche degli ultimi anni, i cicli “La rosa di macchia fiorisce” e “Ghirlanda per i morti”.

Anna Achmàtova, già sofferente di cuore, è morta di una crisi cardiaca a Domodedovo (Mosca) il 5 maggio 1966.

 (Paolo Ruffilli)

Amedeo-Modigliani-Reclining-Nude-with-Loose-Hair

Amedeo-Modigliani-Reclining-Nude-with-Loose-Hair

 

 

(da Anna Achmatova Il silenzio dell’amore. Poesie Biblioteca dei leoni 2014 pp. 122 € 14)

 

 

*

Ho stretto le mani sotto il velo scuro
“Perché sei pallida oggi?”
Perché l’ho fatto ubriacare
d’aspra malinconia.

Come potrò dimenticare? È uscito, barcollando,
con una smorfia penosa sulla faccia..
Sono scesa di corsa, senza sfiorare il corrimano,
l’ho raggiunto in un balzo, giù alla porta.

In affanno, ho gridato: “Scherzavo, dai.
È stato tutto uno scherzo. Muoio, se te ne vai.”
Con un sorriso freddo, mi ha risposto
tranquillo: “Non startene lì al vento”.

.
(1911)

*

La porta accostata,
il lieve ondeggio degli alberi di tiglio…
Sul tavolo, chissà dimenticati,
un frustino e un guanto.

L’alone giallo della lampada…
Sento un fruscio.
Perché sei andato via?
Io non capisco…

Domani sarà un mattino
di serenità.
La vita è splendida,
sii saggio, cuore.

Sei così stanco,
rallenta, batti piano…
Pensa, ho letto
che l’anima è immortale.

(1911)

mandel'stam e la achmatova

mandel’stam e la achmatova

 

 

 

 

 

 

 

 

Poesia dell’ultimo incontro

Il petto senza forza raggelava,
eppure leggeri erano i passi.
Ho infilato il guanto di sinistra
nel posto della destra.

Sembrava che i gradini fossero tanti,
ma io sapevo che erano soltanto tre!
Nell’autunnale sussurro degli aceri
mi ha chiesto: “Muori con me!

Mi ha ingannato infatti il triste,
incostante, crudele mio destino”.
Gli ho risposto: “Caro, caro!
Anche me ha ingannato. E morirò con te…”

Questo è il canto del nostro ultimo incontro.
Ho guardato la casa buia all’ultimo istante.
Solo nella camera ardevano candele,
di una luce gialla, indifferente.

(1911)

*

Bevi la mia anima con la cannuccia.
Conosco il suo sapore amaro d’alcol.
Ma non ti pregherò di smettere nella tortura.
Oh, io sono in pace da settimane ormai.

Avvertimi però quando hai finito. E
non importa se non avrò più l’anima.
Prenderò la via qui accanto,
guarderò i bambini che stanno lì giocando.

Fioriscono i cespugli di uva spina,
e qualcuno porta i mattoni nel recinto.
Chi sei: fratello o amante?
Non lo ricordo, e non serve d’altra parte ricordare.

Quanta luce qui, e come è inospitale.
Il corpo stanco intanto si riposa.
Ma, turbati, pensano i passanti: è vero sì,
è rimasta vedova ieri soltanto.

(1911)

*

Delle mie gambe non so più che fare,
in coda di pesce perciò siano mutate!
Che gioia e che freschezza nel nuotare,
e da lontano biancheggia pallido un ponte.

A che mi serve quest’anima paziente,
che vada pure in fumo
e in tenere volute azzurre si alzi in volo
dal lungofiume buio.

Guarda, mi tuffo giù e solo aggrappata
a un’alga scivolo via.
Non ripeto, no, parole d’altri
né mi imprigiona l’altrui nostalgia.

Ma possibile che tu, mio assente,
sia impallidito e la tristezza t’abbia reso muto?
Che cosa sento? Tre settimane intere,
non fai che bisbigliare: “Povera te, perché?”

anna achmatova

anna achmatova

 

*

Vivo come il cucù dell’orologio,
non invidio gli uccelli dei boschi tuttavia.
Mi danno carica e io faccio cucù.
Però, lo sai che a un nemico soltanto
un tale destino augurerei.

(1911)

 

 

 

Inganno

I
Il mattino è ubriaco di sole a primavera
e il terrazzo profuma denso di rose
il cielo, poi, splende più di una ceramica turchina.
Sul quaderno rivestito in cuoio morbido
leggo le stanze e le elegie
che ho scritto per mia nonna.

Vedo la strada fino al portone e le colonne
bianche sull’erba di smeraldo.
Oh, il mio cuore ama con dolcezza, cieco amore!
E mi rallegrano le aiuole colorate
l’alto grido del corvo nel cielo buio
perfino l’arco del sepolcro, in fondo al viale.

.
II
Soffia un vento afoso, di tempesta.
Il sole mi ha scottato sulle braccia,
sopra di me, la volta di questo cielo
è una vetrata di turchino,

i semprevivi profumano appena
nella treccia sfatta.
Sul tronco nodoso dell’abete
le formiche vanno in fila.

Lo stagno manda pigri bagliori argento,
la vita ha leggerezza tutta nuova…
Chi mi appare oggi in sogno,
sulla rete colorata dell’amaca?

.
III
Placida serata. Cala il vento piano piano,
una luce intensa mi richiama verso casa.
Provo a indovinare: “Tu chi sei?
Sei forse tu, il mio amato?”

Sul terrazzo c’è un profilo che conosco,
si ode appena un dialogo sommesso.
Non avevo finora mai provato
un tale incantevole languore.

A stormire inquieti i pioppi,
visitati da sogni di dolcezza.
Il cielo del colore dell’acciaio,
le stelle, scialbe, impallidite.

Porto un mazzetto di violaciocche bianche,
in loro brucia un fuoco indefinito
per lui che, ricevendole dalle mie mani timide,
ne sfiora il palmo intiepidito.

.
IV
Ho scritto parole che per tanto tempo
non ho osato pronunciare.
La testa mi fa un male sordo,
stranamente insensibile è il mio corpo.

Tace il corno da lontano,
gli stessi enigmi sempre dentro al cuore,
un leggero nevischio dell’autunno
è sceso a ricoprire il campo da croquet.

Stormire con le ultime foglie in sintonia!
Tormentarsi con gli ultimi pensieri.
Non volevo disturbarlo
abituato com’è lui a divertirsi.

Ho perdonato già alle labbra amate
il crudele loro scherzo.
Su, venite domani con la slitta.

Accenderanno le candele nel soggiorno,
brillano di giorno più soavi,
e porteranno un mazzo intero
di rose dalle serre.

(1910)

achmatova profilo a sinistra

achmatova profilo a sinistra

*

Mio marito mi picchiava,
con una cinghia doppia, arabescata.
Per te, rimango alla finestra
tutta la notte, con la lanterna accesa.

Albeggia. Si alza il fumo
sulla fucina.
Neppure questa volta sei rimasto
con me triste prigioniera.

Per te ho accolto un destino amaro,
un destino di tortura.
E tu, chissà, ami una bionda
o una bella rossa?

Potessi smetterla di piangere così!
Nel cuore ho un’ebbrezza soffocante,
ma i raggi del sole si stendono sottili
sopra il letto intatto.

(1911)

Canzoncina

Allo spuntar del sole
canto all’amore
in ginocchio nell’orto mentre
annaffio la grande bietola rossa.

Strappo il secco e lo getto,
che mi perdoni lei.
Vedo accanto alla siepe
una bambina che piange scalza.

Che spavento quelle grida
e la voce piena di strazio,
l’odore caldo, più intenso della bietola
che appassisce intanto.

Avrò pietre invece che pane
a crudele ricompensa.
Sopra di me soltanto il cielo,
la tua voce accanto a me.

(1911)

Nella notte bianca

Non ho chiuso la porta,
non ho acceso le candele,
non lo sai ma, per quanto fossi stanca,
non riuscivo ad andarmene più a letto.

Guardare, come si smarriscono i sentieri
dentro al bosco, all’imbrunire ormai del giorno,
ebbra del suono di una voce
che è simile alla tua.

E sapere che tutto è già perduto,
che la vita è un tremendo inferno.

Ero certa
che saresti ritornato.

(1911)

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Iosif Aleksandrovič Brodskij – Poesie, Dal Baltico a Venezia con estratti dai suoi saggi e uno stralcio dell’interrogatorio davanti al giudice inquirente sovietico, a cura di Giorgio Linguaglossa

iosif_brodskij 9cop Iosif Brodskij   «La poesia è una terribile scuola di insicurezza e incertezza. Non si sa mai se quanto si è fatto ha qualche valore, meno ancora se si sarà in grado di fare qualcosa di buono l’indomani. Se questo non ci distrugge, l’insicurezza e l’incertezza alla fine diventano nostre amiche intime, e quasi attribuiamo loro un’intelligenza autonoma».

«Si può indovinare parecchio di un uomo dalla scelta che fa di un aggettivo».

[Iosif Brodskij, In memoria di Stephen Spender, traduzione di Arturo Cattaneo, Milano, Adelphi 2003, p. 278]

«Data la natura solipsistica di ogni ricerca umana, questa sarebbe una reazione onesta come qualsiasi altra alla nozione di creatività. Vista dall’esterno, la creatività è oggetto di fascino o di invidia; vista dall’interno, è un esercizio continuo di incertezza e una scuola terribile di insicurezza. In entrambi i casi, un miagolio o qualche altro suono incoerente è la risposta più adeguata ogniqualvolta si invochi la nozione di creatività».

[Iosif Brodskij, Il miagolio di un gatto, traduzione di Arturo Cattaneo, Milano, Adelphi 2003, p. 250]

Il sole cala, ha chiuso il bar all’angolo.
Si accendono i lampioni, quasi un’attrice che per farsi bella
e mettere spavento si bordi gli occhi di violetto.

[Iosif Brodskij, Poesie italiane, a cura di Serena Vitale, Milano, Adelphi 2004 (2), p. 123]

“La noia è, per così dire, la nostra finestra sul tempo, su quelle proprietà del tempo che siamo inclini a ignorare, con possibili rischi per l’equilibrio mentale. In breve, è la vostra finestra sull’infinità del tempo, in altre parole, sulla vostra insignificanza all’interno di esso. È questo forse che spiega il terrore di serate solitarie e torpide, o il fascino che esercita talvolta su di noi un granello di polvere sospeso in un raggio di sole, mentre da qualche parte si sente il ticchettio di un orologio , e la giornata è calda, la volontà a zero.

iosif brodskij 8Una volta che questa finestra si è aperta, non cercate di richiuderla; anzi, spalancatela. Perché la noia parla il linguaggio del tempo, e vi insegnerà la lezione più preziosa della vostra vita – quella che non avete appreso qui, su questi verdi prati –, la lezione della vostra completa insignificanza. È importante per voi così come per quelli con cui vi troverete a contatto. «Tu sei finito,» vi dice il tempo con la voce della noia «e qualsiasi cosa tu faccia è, dal mio punto di vista, futile». Questa non sarà, ovviamente, musica per le vostre orecchie; eppure, il senso di futilità, la percezione del significato ristretto finanche delle vostre azioni migliori, più veementi, è meglio dell’illusione riguardo alle loro conseguenze e all’autostima che ne consegue”.

[Iosif Brodskij, Elogio della noia, traduzione di Arturo Cattaneo, Milano, Adelphi, 2003, pp. 102-103]

«Ogni nuova realtà estetica è la madre dell’etica. Giacché l’estetica è la madre dell’etica. Le categorie di “buono” e “cattivo” sono, in primo luogo e soprattutto, categorie estetiche che precedono le categorie del “bene” e del “male”. In etica non “tutto è permesso” proprio perché non “tutto è permesso” in estetica, perché il numero dei colori nello spettro solare è limitato».*

* da «Discorso in occasione del conferimento del premio Nobel 1987»

Descrizione di una fotografia del volto di Auden proposta nella prosa intitolata Per compiacere un’ombra:
«Ciò che mi fissava dalla pagina era l’equivalente facciale di un distico, di una verità che è meglio conoscere a memoria. I lineamenti erano regolari, perfino comuni. Non c’era niente di specificamente poetico in quella faccia, nulla di byroniano, demonico, ironico, grifagno, aquilino, romantico, ferito, eccetera. Piuttosto, era la faccia di un medico che s’interessa al tuo racconto pur sapendo che sei malato. Una faccia ben preparata a tutto, la somma totale di una faccia».

Iosif brodskij 6“Non bisogna dimenticare che, per Brodskij, il momento in cui Orfeo si volta è il momento decisivo del mito.
«Verso» significa «svolta», «versus», cioè «solco» fatto nella terra come quello dell’aratro che rivolta, passando sulla terra, le zolle. Soprattutto, «Non voltarti» era il comando divino. Riferito a Orfeo, ovvero, ciò significa: «Nel sottomondo non comportarti come un poeta».
O anche: come un verso. Orfeo si volta, però, giacché non può farne a meno, giacché il verso è la sua seconda natura – o forse la prima. Perciò si volta, e, bustrophedón o no, la sua mente e la sua vista tornano indietro, violando il divieto.
Il poeta si identifica con il verso, con il girarsi indietro per vedere, con l’a capo, con il tornare sui propri passi; solo il poeta può violare il tabù degli dèi, ed essere un «abitante del cielo», ovvero un «eresiarca», egli si volta perché là dietro, nel passato, nella memoria, c’è la felicità che lui solo può rievocare in vita, se pur una vita larvale”. (notizie a cura di Giorgio Linguaglossa attinte da“fonte: Wikipedia, l’enciclopedia libera” )

iosif Brodskij Discovery

Arrivederci, o magari addio

Non è necessario che tu mi ascolti,
non è importante che tu senta le mie parole,
no, non è importante, ma io ti scrivo lo stesso
(eppure sapessi com’è strano, per me, scriverti di nuovo,
com’è bizzarro rivivere un addio…)
Ciao, sono io che entro nel tuo silenzio.

Che vuoi che sia se non potrai vedere come qui ritorna primavera
mentre un uccello scuro ricomincia a frequentare questi rami,
proprio quando il vento riappare tra i lampioni,
sotto i quali passavi in solitudine.
Torna anche il giorno e con lui il silenzio del tuo amore.

Io sono qui, ancora a passare le ore in quel luogo chiaro che ti vide amare e soffrire…

Difendo in me il ricordo del tuo volto, così inquietamente vinto;
so bene quanto questo ti sia indifferente,
e non per cattiveria, bensì solo per la tenerezza
della tua solitudine, per la tua coriacea fermezza,
per il tuo imbarazzo, per quella tua silenziosa gioventù che non perdona.

Tutto quello che valichi e rimuovi
tutto quello che lambisci e poi nascondi,
tutto quello che è stato e ancora è, tutto quello che cancellerai in un colpo
di sera, di mattina, d’inverno, d’estate o a primavera
o sugli spenti prati autunnali – tutto resterà sempre con me.

Io accolgo il tuo regalo, il tuo mai spedito, leggero regalo,
un semplice peccato rimosso che permette però
alla mia vita di aprirsi in centinaia di varchi,
sull’amicizia che hai voluto concedermi
e che ti restituisco affinché tu non abbia a perderti.

Arrivederci, o magari addio.
Librati, impossessati del cielo con le ali del silenzio
oppure conquista, con il vascello dell’oblio, il vasto mare della dimenticanza.

Iosif brodskij 5Iosif Aleksandrovič Brodskij, Иосиф Александрович Бродский, noto anche come Joseph Brodsky, (Leningrado 1940 – New York 1996) è stato insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1987 e nel 1991 è stato nominato poeta laureato. Ha scritto principalmente in russo, fatta eccezione per i saggi, scritti in inglese.
Nasce a Leningrado nel 1940 in una famiglia ebrea. I primi anni della sua vita coincidono con quelli della Seconda guerra mondiale e con l’assedio di Stalingrado. Il padre, fotoreporter di guerra, è quasi totalmente assente durante l’infanzia di Brodskij. Terminato l’assedio, il giovane poeta e sua madre sono evacuati a Čerepovec per poi tornare a Leningrado nel 1944 in una nuova casa sul Litejnyj prospekt. Nel 1947 Brodskij comincia la formazione scolastica che non terminerà mai. Le idee estetiche di Brodskij si formano nella Leningrado di questi anni. L’architettura neoclassica , pur parzialmente distrutta dai bombardamenti, le infinite prospettive pietroburghesi, il suo carattere di città costruita sull’acqua e i relativi riflessi colorati sono tutte impressioni che ricorrono nelle opere del Brodskij più maturo. Ancora non sedicenne, abbandona gli studi per lavorare come apprendista tornitore nella fabbrica Arsenal di Pietroburgo. Brodskij nutriva già da qualche tempo, infatti, il desiderio di aiutare economicamente la famiglia. Compiuti i sedici anni vuole diventare medico e per un mese lavora in un obitorio dove fa pratica con il sezionamento dei cadaveri. L’esperienza lo segna profondamente e dopo poco tempo abbandona i suoi propositi in campo medico. Nei cinque anni successivi all’abbandono degli studi svolge i lavori più disparati: da tornitore a fuochista a guardiano di un faro fino a partecipare a spedizioni geologiche in Sacha-Jacuzia e Siberia. Nell’estate del 1961 abbandona anche questo lavoro a causa di una crisi nervosa ottenendo il permesso di tornare a Leningrado. Sono questi anni in cui Brodskij legge moltissimo, anche senza un’ordine preciso, in particolare letteratura religiosa, filosofica e poesia e inizia a studiare inglese e polacco.

cop iosif brodskj dolore e ragioneNel 1959 è già stato introdotto nell’ambiente letterario. L’anno successivo partecipa alla sua prima grande esibizione pubblica, il Torneo dei poeti nel Palazzo della Cultura Gorkij a Leningrado esibendosi con la lettura della sua poesia Cimitero ebreo che provoca uno scandalo.
Durante il viaggio a Samarcanda nel dicembre del 1960, Brodskij e il suo amico Oleg Šachmatov (ex pilota dell’aviazione) progettano di dirottare un aereo per fuggire all’estero. Tuttavia non hanno il coraggio di portare a termine l’idea. Più tardi Šachmatov sarà arrestato dal KGB per possesso illegale di armi e confesserà anche questo piano, oltre al progetto di uno scritto antisovietico di Umanskij che Brodskij e il pilota volevano consegnare a un americano incontrato per caso. Il 29 gennaio 1961 Brodskij è arrestato dal KGB ma liberato due giorni dopo.
Nell’agosto 1961 a Komarovo conosce, grazie alla mediazione di E. Rein, la poetessa l’Achmatova, nel 1962 Nadezda Jakovlevna Mandel’stam e poco dopo, a casa dell’Achmatova, Lidia Korneevna Cukovskaja. Dopo la morte dell’Achmatova nel 1966 Brodskij e gli altri letterati a lei vicini, vengono definiti Gli orfani dell’Achmatova. Nello stesso periodo conosce la giovane pittrice Marianna Pavlovna Basmanova. Da questo momento a lei, celata sotto le iniziali “M.B.”, Brodskij dedica molte poesie. Marianna Basmanova diventerà sua moglie e nel 1967 avranno un figlio: Andrej.

iosif brodskij giovaneStando allo stesso Brodskij, comincia a scrivere poesie a 18 anni. Tuttavia esistono alcune poesie datate 1956-1957. Uno dei maggiori ispiratori della poesia di Brodskij è stato, almeno all’inizio, Boris Sluckij. Le poesie più celebri di questo primo periodo sono sicuramente Piligrimy (in russo: I pellegrini), Pamjatnik Puškinu (Monumento a Puškin) e Roždestvenskij romans (Romanza di Natale), caratterizzate da un’accentuata musicalità, a volte addirittura tendente all’improvvisazione jazz. Sempre secondo Brodskij, prima Marina Cvetaeva e poi Osip Mandel’stam insieme a Evgenij Baratynskij sono stati decisivi per la sua evoluzione poetica. Tra i contemporanei lo influenzarono maggiormente Rein, Ufland e Stanislav Krasovicic. Più tardi Brodskij considererà poeti sommi la Achmatova, la Cvetaeva e Auden, a seguire Konstantinos Kavafis e Robert Frost. Il canone dei massimi poeti era concluso da Rainer Maria Rilke e Boris Pasternak. La prima poesia pubblicata da Brodskij è Ballad o malen’kom buksire (in russo: Ballata del piccolo traino) apparsa nel 1962 su un giornale per bambini, il Kostёr.

Non passa molto dall’inizio della carriera poetica di Brodskij che iniziano anche i problemi con la censura sovietica. Le prime avvisaglie della persecuzione si manifestano con la pubblicazione di un articolo datato 29 novembre 1963 sul Večernij Leningrad nel quale si bollava Brodskij di parassitismo, adducendo come prova citazioni dalle sue poesie, stravolte ed estrapolate dal loro contesto. Brodskij si accorge delle calunnie ma è più concentrato su problemi personali e in particolare sulla separazione dalla moglie M. Basmanova. A questo periodo risale anche il tentato suicidio. L’8 novembre del 1964 viene pubblicata una raccolta delle lettere alla redazione del Večernij Leningrad, in cui i lettori esigono una punizione per Brodskij e il 13 gennaio viene arrestato. Il mese successivo ha il suo primo attacco di cuore e soffrirà per tutta la vita di angina che in seguito gli ricorderà sempre l’incombere della morte, sensazione percepibile in molte delle sue poesie.

Nel 1964 viene arrestato. Durante il breve interrogatorio di Brodskij in udienza divenne famoso grazie agli appunti della Vigdorova, i quali insieme all’interrogatorio della seconda udienza (finché il giudice non le ordinò categoricamente di smettere di prendere appunti) furono esportati di contrabbando e stampati su parecchi giornali in Occidente: in tal modo il processo di Brodskij diventò una internazionale cause célèbre. Se ne cita qui un passo:

GIUDICE: Di che cosa si occupa?
BRODSKIJ: Scrivo poesia. Traduco. Suppongo…
GIUDICE: Niente “suppongo”. Si alzi dritto in piedi! Non si appoggi alla parete! Guardi la corte! Risponda alla corte correttamente! (A me): La smetta di prendere appunti immediatamente, o la dovrò espellere dalla sala! (A Brodskij): Ha un lavoro fisso?
BRODSKIJ: Pensavo che fosse un lavoro fisso.
GIUDICE: Risponda precisamente!
BRODSKIJ: Scrivevo poesia. E pensavo che fosse stata stampata. Suppongo…
GIUDICE: Non siamo interessati in quello che “suppone”. Risponda per quale ragione non ha lavorato.
BRODSKIJ: Ho lavorato. Ho scritto poesia.
[…]
GIUDICE: Per quanto tempo ha lavorato?
BRODSKIJ: Approssimativamente…
GIUDICE: Non siamo interessati all’approssimativamente!”
BRODSKIJ: Cinque anni.
GIUDICE: Dove ha lavorato?
BRODSKIJ: In una fabbrica. Con un gruppo geologico…
GIUDICE: Quanto tempo ha lavorato nella fabbrica?
BRODSKIJ :Un anno.
GIUDICE: Facendo che cosa?
BRODSKIJ: Ero fresatore.
[…]
GIUDICE: Ma in genere quale è la sua specialità?
BRODSKIJ: Sono un poeta, un poeta-traduttore.
GIUDICE: E chi le ha detto che lei è un poeta? Chi l’ha incluso nell’ordine dei poeti?
BRODSKIJ: Nessuno. (Non sollecitato) E chi mi ha incluso nell’ordine della razza umana?
GIUDICE: Lo ha studiato?
BRODSKIJ: Che cosa?
GIUDICE: Essere un poeta? Non ha finito la scuola dove preparano… dove insegnano…
BRODSKIJ: Penso che non si può ottenere dalla scuola.
GIUDICE: Come allora?
BRODSKIJ: Penso che… (disorientato) venga da Dio…
GIUDICE: Аvete richieste?
BRODSKIJ: Vorrei sapere perché mi hanno arrestato
GIUDICE: Questa è una domanda non una richiesta
BRODSKIJ: Allora non ho richieste

iosif brodskij 10Il tribunale deliberò che Brodskij fosse sottoposto ad un esame giudiziario psichiatrico per determinare se soffrisse di qualche malattia psicologica e se questa malattia non permettesse di mandarlo in esilio ai lavori forzati. Fu invece rifiutata la richiesta del difensore di scarcerare Brodskij fino alla ripresa del processo.
Brodskij trascorse tre settimane nell’ospedale psichiatrico di Leningrado. A questo periodo si deve probabilmente la composizione di una delle più belle opere di Brodskij: il poema Горбунов и Горчаков (Gorbunov e Gorčakov, 1965 – 68). Brodskij ricorda quei giorni come il momento più duro in Unione Sovietica:

“Mi facevano punture calmanti terribili. Mi svegliavano in piena notte, mi facevano un bagno gelato, mi stringevano dentro un asciugamano umido e mi mettevano accanto al calorifero. Il calore seccava l’asciugamano e mi tagliava la carne”.
Dalle stenografie risulta che tutti i testimoni dell’accusa cominciassero i propri interventi con le parole: Io personalmente non conosco Brodskij…, frase che ricorda il famoso Io, il romanzo di Pasternak non l’ho letto, ma lo disapprovo, pronunciata durante la persecuzione di Pasternak da parte della censura. Il 13 marzo 1964 Brodskij è condannato al massimo della pena prevista per il reato di parassitismo: 5 anni di lavori forzati in esilio nel distretto di Konosa. Tuttavia in un’intervista Brodskij parla del periodo dell’esilio come del più felice della sua vita. In esilio si dedica allo studio della poesia inglese, in maniera particolare delle opere di Auden. Oltre alle numerose pubblicazioni poetiche per la case editrici dell’emigrazione russa all’estero (Vozdušnye puti, Novoe russkoe slovo e altre), tra agosto e settembre del 1965 vedono la luce due suoi componimenti su Prizyv, (in russo: il richiamo) rivista locale del distretto di Konosa. Il processo al poeta da l’impulso alla nascita del Movimento in difesa dei diritti umani in URSS e attira l’attenzione dell’Occidente sulle violazioni dei diritti umani in Unione Sovietica. La stenografia del processo ad opera di Frida Vigdorova viene diffusa sulle più importanti testate estere come il New leader, Le Figaro, Encounter e addirittura letta dalla BBC. Con la partecipazione attiva dell’Achmatova fu condotta una campagna pubblica in difesa di Brodskij. Figure di spicco di questa campagna compaiono la stenografa Frida Vigdorova e Lidija Čukovskaja. Per ben un anno e mezzo queste scrivono lettere e appelli in favore di Brodskij a tutti gli organi giuridici e di partito e cercano di coinvolgere nella campagna tutte le persone più influenti del sistema sovietico. Successivamente, sotto la pressione dell’opinione pubblica sovietica e mondiale (soprattutto dopo il discorso al governo sovietico di Sartre e di altri intellettuali di fama mondiale) la durata della pena viene ridotta restringendola al periodo già scontato, consentendo così a Brodskij di tornare a Leningrado.

Nell’ottobre del 1965 su raccomandazione di Boris Bachtin e Čukovskij entra nella sezione dei traduttori dell’Unione degli scrittori dell’URSS, il che gli evita ulteriori accuse di parassitismo. Nelle sue interviste Brodskij si è sempre dichiarato contrario all’immagine di oppositore al potere sovietico spesso attribuitogli dai mass media occidentali.
Dopo il ritorno a Leningrado Brodskij rimane in Russia ancora sette anni. Intanto nel marzo del 1966 era morta l’Achmatova. Ancora prima aveva cominciato a disgregarsi il coro magico (in russo :волшебный хор) di giovani poeti che la circondava. Alla fine del 1965 Brodskij consegna all’Unione degli scrittori il suo primo manoscritto: Zimnjaja počta (in russo: La posta invernale).Dopo una sofferenza durata mesi e nonostante la moltitudine di recensioni positive interne all’Unione degli scrittori, il manoscritto è restituito all’autore. Nel 1966-1967 escono quattro componimenti del poeta (Ja obnjal eti pleči i vzgljanul, Oboz, Pamjati Eliota e V derevne Bog živët ne po uglam) oltre alle pubblicazioni presso giornali per bambini. Segue il periodo del silenzio pubblico. Ai lettori di Brodskij non rimasero che le sue traduzioni.

iosif brodskij sulla scrivaniaAnche se non pubblica quasi nulla, questi sono anni di intensa creatività poetica, che culminano nei versi inclusi più tardi nei libri editi negli USA: Ostanovka v pustyne (Fermata nel deserto), Konec prekrasnoj epohi, (Fine della Belle Époque) Novye stansy k Avguste (Nuove stanze per Augusta). Nel 1965-1968 lavora al poema Gorbunov i Gorčakov, al quale attribuirà una grande importanza. Oltre ai rari interventi pubblici e alle letture a casa di amici, i suoi testi erano largamente diffusi in samizdat e in magnitizdat (metodo di diffusione clandestina di musica), grazie alla trasposizione musicale di alcuni suoi componimenti ad opera di Aleksandr Mirzajan e Evgenij Kljackin.

Brodskij è in questi anni sempre più celebre, comincia ad essere invitato nelle università occidentali, gli si chiedono interviste e diventa popolare anche tra gli studiosi slavisti pur non riuscendo ad ottenere dalle autorità nessun permesso di lasciare il paese. Il KGB, dal canto suo, continua a tenerlo sotto controllo pur non disturbando l’apparente tranquillità di questo periodo della sua vita. Oltre alle traduzioni, i mezzi a disposizione di un letterato escluso dal sistema non erano molti: qualche recensione da esterno per un giornale o qualche lavoro occasionale negli studi cinematografici. In quest’ultimo settore recita la parte di un segretario della sezione cittadina del Partito nel film Poezd v dalëkij avgust. Per ordine del Comitato per il cinema le immagini in cui compare Brodskij sono state successivamente distrutte.
Fuori dai confini dell’Unione Sovietica Brodskij è sempre più letto, sia in russo che in traduzione, soprattutto in inglese, polacco e italiano. Nel 1967 in Inghilterra viene pubblicata una raccolta di traduzioni non autorizzata dall’autore, dal titolo Joseph Brodsky. Elegy to John Donne and other Poems tradotti da Nicholas Bethell. Nel 1970 a New York esce Fermata nel deserto, il primo libro di Brodskij pubblicato con il suo consenso. I testi delle poesie e le bozze erano stati consegnati segretamente agli editori americani o, come nel caso del poema Gorbunov e Gorčakov, spediti per posta diplomatica.

Nel maggio 1972 Brodskij fu chiamato dall’ОVIR, il dipartimento per i visti e gli stranieri dell’Unione Sovietica. Lì viene posto davanti alla scelta: emigrazione immediata oppure prepararsi a subire quotidiani interrogatori, carcerazioni e reclusioni in ospedali psichiatrici. Già nel 1964 era stato ricoverato negli ospedali psichiatrici. Brodskij lascia l’Unione Sovietica. Prima della partenza Vladimir Rafailovic Maramzin propone all’autore di raccogliere tutti i manoscritti delle opere per poterle poi pubblicare clandestinamente in samizdat in Russia una volta espatriato l’autore. Risultato di questa proposta fu la prima, e fino al 1992 l’unica, raccolta delle opere di Brodskij in Russia.

Nel giugno del 1972 Brodskij lascia Leningrado, già privato della cittadinanza sovietica, alla volta di Vienna. A Vienna conosce personalmente il poeta inglese che più di tutti l’aveva ispirato negli anni dell’esilio, Wystan Auden che al momento residente a Vienna. Il poeta inglese dimostra grande solidarietà nei confronti di Brodskij introducendolo negli ambienti letterari di Vienna, come lo stesso Brodskij riporta in un’intervista. Assieme a Auden, nel giugno dello stesso anno, partecipa al Poetry International, un’incontro internazionale di poeti che si tenne a Londra. A Londra stringe amicizie importanti, come quella con Isaiah Berlin, Seamus Heaney e Robert Lowell. Poco tempo dopo ottiene un posto come professore presso l’Università del Michigan dove Brodskij insegnò dal 1972 al 1980.

Nel luglio 1972 Brodskij parte per gli Stati Uniti e si stabilisce nella città di Ann Arbor, per insegnare fino al 1980 all’Università del Michigan. Per i successivi 24 anni terrà lezioni in molte università inglesi. Insegna storia della letteratura russa, teoria del verso, legge pubblicamente i propri versi ai forum e ai festival internazionali di poesia in svariati stati: USA, Canada, Inghilterra, Irlanda, Francia, Svezia e Italia. Mentre Brodskij è in America, i suoi genitori per ben dodici volte fanno richiesta di poter far visita al figlio, senza mai ottenerne il permesso. Allo stesso poeta verrà negato di presenziare al funerale dei genitori.

Già prima di emigrare in Occidente, Brodskij era largamente conosciuto, soprattutto a partire dal 1964 quando furono rese note le registrazioni e le stenografie del processo a carico del poeta. La sua vita all’estero mutò sensibilmente rispetto alle restrizioni a cui era costretto in URSS. Brodskij pubblica regolarmente sulle pagine di giornali e riviste americane e inglesi e in particolar modo su quelle dedicate all’emigrazione russa tra cui il Vestnik russkogo christianskogo dviženija, l’ Echo e Kontinent. In Russia non riesce a far stampare ufficialmente quasi nulla a causa della censura, (come si è già detto la prima raccolta in russo è quella in samizdat del 1977) e perciò per qualche anno non compare nessuna pubblicazione di poesie di Brodskij che all’epoca scriveva solo in russo. È stato ironicamente notato che “Si ha l’impressione che a Iosif Brodskij russo sia succeduto un Joseph Brodsky statunitense e i due abbiano felicemente convissuto per un quarto di secolo, dividendosi i compiti: a Brodskij la poesia e a Brodsky i saggi e la critica” Le opere di questo periodo appariranno più tardi divise in due raccolte: una comprende i componimenti dal 1964 al 1971 (Fine della Belle Époque) e l’altra dal 1971 al 1972 (Parte del discorso). Motivo di questa divisione non furono tanto ragioni autobiografiche (l’emigrazione, peraltro sminuita nella sua importanza da Brodskij) ma l’evoluzione della sua linea poetica visibilmente mutata nei temi e nello stile. Alle raccolte appena menzionate appartengono i testi Natjurmort (Natura Morta), Odnomu tiranu (A un tiranno), Pesnja Nevinnosti (Canzone dell’innocenza) Odissej Telemaku (Odisseo a Telemaco), Pis’ma rimskomu drugu (lettera a un amico romano), e Pochorony Bobo (il funerale di Bobo). La poetica di questo periodo è ben riassumibile con l’affermazione di Brodskij espressa durante il discorso al conferimento del Nobel:

In tutta le raccolte pubblicate dopo il 1971 Brodskij non include mai poesie già pubblicate in precedenza, fatta eccezione per Novye stansy k Avguste (Nuove stanze per Augusta) dove ci sono poesie dedicate alla sua prima moglie (Marina Basmanova), un capitolo separato di tutta la produzione brodskjana stando a quanto ha affermato lui stesso: “Questa è l’opera più bella e importante della mia vita e andrebbe letta a parte. Purtroppo non ho scritto la Divina Commedia, né mai d’altronde riuscirò a scriverla, ma in qualche modo, con Novye stansy k Avguste, è nato un libricino poetico con un proprio soggetto”. A testimoniare l’importanza di questo libricino si potrebbe addurre il fatto che questo è stato il suo unico libro di poesie, tra quelli stampati in Russia, ad essere curato direttamente da Brodskij.
Dal 1972 iniziа a scrivere anche saggi, attività che non abbandonerà più fino alla sua morte. Caratteristica principale di questo genere in Brodskij è la scelta della lingua: non più il russo come era avvenuto e avverrà per le poesie, bensì l’inglese. Negli USA vengono pubblicati tre libri di saggistica: Less then one, Watermark e On Grief and Reason. La saggistica non fu una parte di minor rilievo nella sua produzione e anzi contribuì in maniera cospicua alla fama di Brodskij oltre i confini dell’Unione Sovietica oltre a fornire una preziosa chiave di lettura della sua poetica, senza contare i riconoscimenti ufficiali che questi saggi ottennero. Nel 1987 contemporaneamente alla pubblicazione di Uranija riceve il Premio Nobel per la letteratura.

(le traduzioni sono tratte dai libri pubblicati da Adelphi)

*

Addio,
dimentica
e perdona.
E brucia le lettere,
come un ponte.
E che sia il tuo viaggio
coraggioso,
che sia dritto
e semplice.
E che ci sia nell’oscurità
a brillare per te
un filo di stelle argentato,
che ci sia la speranza
di scaldare le mani
vicino al tuo fuoco.
Che ci siano tormente,
nevi, piogge
e lo scoppiettio furioso della fiamma,
e che tu abbia in futuro
più fortuna di me.
E che possa esserci una possente e splendida
battaglia
che risuona nel tuo petto.
Sono felice
per quelli che forse
sono
in viaggio con te.

1957

cop iosif brodskij dall'esilio

UNO SPICCHIO DI LUNA DI MIELE a M.B.

Non dimenticare mai
come sgorga l’acqua nella banchina,
e come è elastica l’aria
(come un salvagente).
Accanto i gabbiani gridano,
e i panfili guardano nel cielo,
e le nubi volano in alto,
come uno stormo di anatre.
Possa nel tuo cuore
dibattersi vivo e tremare
come un pesce un frammento
della nostra vita a due.
Possa sentirsi il fruscio delle ostriche,
e restare in piedi un cespuglio.
E possa la passione
che affiora fino alle labbra
aiutarti a capire – senza l’aiuto di parole –
come la schiuma delle onde del mare,
per arrivare alla terra,
generi alte onde.

1963
*

Serie d’osservazioni. Angolo caldo.
Lo sguardo lascia una scia sulle cose.
L’acqua si ripropone come vetro.
L’uomo è mostruoso più del proprio scheletro.

Una sera d’inverno col vino in nessun posto.
Una veranda assalita dai salici.
Appoggiandosi al gomito riposa il corpo
come morena fuori del ghiacciaio.

Fra un millennio un fossile bivalve estrarranno
da questa tenda, e rivelerà fra le nappe
l’impronta di due labbra che non hanno
nessuno a cui augurare “Buona notte”.

cop iosif brodskij il profilo di clio
Il tacco lascia tracce, quindi è inverno.
Nei campi fra cose di legno intirizzendo,
le case dei passanti riconoscono se stesse.
Che dite a sera del futuro, se
il corpo, nel silenzio della notte,
sulla parete via dall’anima proietta,
mentre dormi, il ricordo delle tue calde – omissis – ,
come di sera l’ombra dalla sedia
sulla parete proietta la candela, e se,
sotto il cielo sul bosco steso come tovaglia,
sulla torre del silos, dove spazza l’ala
del corvo, con la neve non sai imbiancare l’aria.
*

Sono nato…

Sono nato e cresciuto nelle paludi baltiche, dove
onde grigie di zinco vengono a due a due;
di qui tutte le rime, di qui la voce pallida
che fra queste si arriccia, come un capello umido;
se mai s’arriccia. Anche puntando il gomito, la conchiglia
dell’orecchio non distingue in esse nessun ruglio,
ma sbattere di tele, di persiane, di mani,
bollitori su fornelli, al massimo strida di gabbiani.
In questi piatti paesi quello che difende
dal falso il cuore è che in nessun luogo ci si può celare e si vede
più lontano. Soltanto per il suono lo spazio è ostacolo:
l’occhio non si lamenta per l’assenza di eco.

cop fondamenta degli incurabili

*

Quanto alle stelle, ci sono sempre. Quando
ne spunta una, un’altra ne verrà.
Solo così di là si guarda qua:
dopo le otto di sera, ammiccando.
Il cielo è meglio sgombro. Anche se
la conquista del cosmo è più opportuna
con le stelle. Ma proprio senza andarsene
da dove si è, in veranda, in poltrona.
Come disse un pilota di quegli aggeggi, al buio
nascondendo metà della faccia, non esiste la
vita, con ogni evidenza, in nessun luogo, e non puoi
fissar lo sguardo su nessuna stella.
*
I giorni disfano l’abitino che Tu hai tessuto.
Si stringe a vista d’occhio, sotto la mano. Il filo verde
dopo l’azzurro si fa grigio, bruno,
e perde ogni colore, e si intravede
qualcosa ormai, l’orlo della batista.
Nessun paesaggista la fine del viale
potrà dipingere. Si ritira presto
l’abito della promessa sposa, lavandolo,
e il corpo non diventa mai più bianco.
Si è seccato il formaggio o il fiato manca.
Ossia: l’uccello, se di profilo è un corvo, di cuore
è canarino. Ma la volpe, quando addenta
la gola, non distingue il sangue dal tenore.

.
Iosif Brodskij, Poesie, Adelphi, Milano 1986 (traduzione di Giovanni Buttafava)

Disfano, i giorni, il cencio da Te fatto:
Si stringe a vista d’occhio, sotto mano.
La verde trama e’ presto diventata
Celeste, grigia, e poi marrone, stinta.
E ai bordi e’ lisa, come di batista.
Mai i pittori descrivono la fine
Del viale. A quanto pare si ritira,
A lavarlo, il vestito della sposa,
E anche il corpo non si fa più bianco.
Sia che secchi il formaggio, o manchi il fiato.
Ossia: l’uccello e’ un corvo, di profilo,
Ma in cuore e’ un canarino. E’ che la volpe,
Quando l’azzanna, semplice, alla gola,
Non sta a badare se e’ sangue o tenore.
Nella parte settentrionale del mondo ho trovato un rifugio
nella parte ventosa, dove gli uccelli, volando giù
dalle rocce, si riflettono nei pesci e scendono a dar di becco
fra i gridi su una superficie di screziati specchi.

Qui non trovi te stesso, anche chiuso a doppia mandata.
In casa non c’è un cane e freddo nero è in branda.
La finestra al mattino ha una tenda di cenci di nuvole.
Poca terra, e non si vedono uomini.

In queste ampiezze signora è l’acqua. Nessuno il dito
punta nello spazio e “via di qui” strilla.
L’orizzonte si rivolta come un cappotto,
aiutandosi con queste ondate mobili.

E non riesci a distinguerti dai pantaloni tolti, dalla maglia
appesa – evidentemente, i tuoi sensi sono corti
o la lampada ti oscura-. Tocchi il loro gancio
per dire, ritirando la mano: “sei risorto”.

.
(da “Ninnananna da Cape Cod“)

Io ero solamente ciò

Io ero solamente ciò
che tu toccavi, quello
su cui – notte fonda, corvina –
la fronte reclinavi tu.

Io ero solamente ciò
che tu là in basso distinguevi:
sembiante vago, prima, e poi
molto più tardi, tratti.

Sei tu ardente, che
sussurrando hai creato
la conchiglia dell’udito
a destra, a manca, là, qui.

Tu che nell’umida cavità,
tirando quella tenda,
hai messo voce, perché
potesse te chiamare.

Cieco ero, nulla più.
Tu, sorgendo, celandoti,
hai dato a me la facoltà
di vedere. Si lasciano scie

così, e si creano così
mondi. Spesso, creati,
si lasciano ruotare così,
elargendo regali.

E, gettata così,
in caldo, in freddo, in ombra, in luce,
persa nell’universo,
ruota la sfera e va.
Metti in serbo per le stagioni fredde
queste parole, per le stagioni dell’ansia!
Come il pesce sulla sabbia, l’uomo sopravvive:
se si strascina agli arbusti e s’alza
su gambe incerte e storte e va, come un rigo dalla penna,
nelle viscere stesse della terra.

cop Il canto del pendoloEsistono leoni alati, sfingi col seno
di donna, angeli in bianco e ninfe del mare:
a colui che sostiene sulle sue spalle il peso
di buio, caldo e – oso dirlo – dolore,
sono più cari degli zeri concentrici nati
da parole gettate.

Chinati, ti devo sussurrare all’orecchio qualcosa:
per tutto io sono grato, per un osso
di pollo come per lo stridio delle forbici che già un vuoto
ritagliano per me, perché quel vuoto è Tuo.
Non importa se è nero. E non importa
se in esso non c’è mano, e non c’è viso, né il suo ovale.
La cosa quanto più è invisibile, tanto più è certo
che sulla terra è esistita una volta,
e quindi tanto più essa è dovunque.
Sei stato il primo a cui è accaduto, vero?
E può tenersi a un chiodo solamente
ciò che in due parti uguali non si può dividere.
Io sono stato a Roma. Inondato di luce. Come
può soltanto sognare un frammento! Una dracma
d’oro è rimasta sopra la mia retina.
Basta per tutta la lunghezza della tenebra.

(da “Poesie Italiane/Elegie romane“)

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 Marina Ivanovna Cvetaeva (1892-1941) POESIE SCELTE traduzione di Pietro Zveteremich e presentazione di Giorgio Linguaglossa

Marina Cvetaeva, 1914

Marina Cvetaeva, 1914

 Marina Ivanovna Cvetaeva: Мари́на Ива́новна Цвета́ева, (Mosca, 8 ottobre 1892 – Elabuga, 31 agosto 1941), nasce a Mosca l’8 ottobre 1892, da Ivan Vladimirovic Cvetaev (1847-1913, filologo e storico dell’arte, creatore e direttore del Museo Rumjancev, oggi Museo Pushkin) e della sua seconda moglie, Marija Mejn, pianista di talento, polacca per parte di madre. Marina trascorre l’infanzia, insieme alla sorella minore Anastasija (detta Asja) e ai fratellastri Valerija e Andrej, figli del primo matrimonio del padre, in un ambiente ricco di sollecitazioni culturali. A soli sei anni cominciò a scrivere poesie. Marina ebbe dapprima una istitutrice, poi fu iscritta al ginnasio, quindi, quando la tubercolosi della madre costrinse la famiglia a frequenti e lunghi viaggi all’estero, frequentò degli istituti privati in Svizzera e Germania (1903-1905) per tornare, infine, dopo il 1906, in un ginnasio moscovita. Ancora adolescente la Cvetaeva rivelò un carattere autonomo e ribelle; agli studi preferiva intense e appassionate lettureprivate: Push,kin, Goethe, Heine, Holderlin  Hauff, Dumas padre, Rostand,  la Baskirceva, ecc. Nel 1909 si trasferì da sola a Parigi Continua a leggere

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