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Tomaso Kemeny, Poesie da Boomerang (2017), Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa – La problematica dell’«Incontro con la Realtà»

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Sono sul marciapiede che marcisce prima del tramonto

 

Tomaso Kemeny (Budapest 1938), vive a Milano dal 1948. In qualità di anglista, professore cattedratico presso l’Università di Pavia, ha scritto libri, saggi e articoli sull’opera di Ch.Marlowe, S.T. Coleridge, P.B. Shelley, Lord Byron, Lewis Carroll, Dylan Thomas, James Joyce e Ezra Pound. Ha pubblicato undici libri di poesia tra cui Il guanto del sicario (1976), Il libro dell’Angelo (1991), La Transilvania liberata (2005), Poemetto gastronomico e altri nutrimenti (2012), 107 incontri con la prosa e la poesia (2014) e Boomerang (2017). Ha scritto libri di poetica come L’arte di non morire (2000) e Dialogo sulla poesia (con Fulvio Papi, 1997); un romanzo Don Giovanni innamorato (1993); un testo drammatico La conquista della scena e del mondo (1996).

Con Cesare Viviani ha organizzato i seminari sulla poesia degli anni ’70 presso il Club Turati di Milano (1978-79). Tra le sue curatele La dicibilità del sublime (con E.C. Ramusino, 1989), Le avventure della bellezza, 1988- 2008 (2008) . E’ tra i fondatori del movimento internazionale mitomodernista (1994) e del movimento “Poetry and Discovery”(2016) nonché della Casa della poesia di Milano (2006).

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Incontro con Dio

da Tomaso Kemeny, 107 incontri con la prosa e la poesia, Milano, edizioni del verri, 2014

Incontro con Dio

Sono sul marciapiede che marcisce prima del tramonto. Viscide vipere m’impediscono di sopravvivere ulteriormente. Dall’alto scende una carrozza d’oro-volante e mi trasporta in un campo di defunti in attesa di giudizio.
Dopo un’attesa di venti secoli, un angelo inquisitore mi stacca entrambe le braccia con una sega elettrica e nelle spalle m’inserisce ali candide perché io possa volare al di là del tempo.
Vertigine.
Entro nella luce divina.
Vorrei fermarmi a risplendere nell’armonia celeste. Ma mi sveglio al vecchio vento che mi trascina là dove c’è un altro futuro.

Incontro con Dio

Prima del tramonto affogo nel tempo
aperto a scandalose
introspezioni: mi sento Principe
dell’Ignoto, artificiere vano,
commediante ipnotizzato
dalle viscide vipere
annidate nelle profondità
per spuntare all’improvviso
in forma di parole
a dire che le cose non possono restare
così, con le porte chiuse per me
dal lieben Gott:
né mi sento destinato
alla deportazione
nel campo dei defunti
in attesa dle giudizio.
Nulla di più molesto e irritante
per me dell’Angelo Inquisitore che mi
interroga sul mio pormi
in testa ai condottieri
del piacere. La verità è
che ogni sorriso dell’Amata
m’inonda dello sfolgorio
di un Dio procreatore eterno
della bellezza certa in cielo e in terra.
Amen.

Incontro con una pagina bianca (la prima luce)

 

.

 

.

Incontro di Christian con la signorina Vodka

“La signorina cento chili
con la sua trippa molliccia sommerse
le mie cosucce
a prova di donna cannone:
fu il suo alito iper-alcoolico
misto a sperma
d’ignota provenienza
a contagiarmi le tonsille
infettandomi anche l’urina.
Ma prima, con immensa foia
l’inculai sul tavolo da cucina”.

 

Mitomodernismo Tomaso Kemeny in recita a Milano

Tomaso Kemeny in azione mitomodernistica a Milano, 2016

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

La problematica dell’«Incontro con la Realtà» di Tomaso Kemeny

«La Poesia è morta? Essa ha il suo sepolcro nell’opera», scrive Guglielmo Peralta. Oggi un’opera di poesia degna di questo nome non può parlare d’altro tema che della propria morte. «Senza resurrezione». «Il solenne cenotafio» di se stessa.
La Nuova Poesia? Il Nuovo Romanzo? La Nuova Critica? – L’elefante sta bene nel salotto, è buona educazione non nominarlo, fare finta che non ci sia, prendiamo il tè in punta di spillo, con i guanti bianchi. «Andiamo verso la catastrofe con un eccesso di parole?», beh, come gli indigeni dell’isola di Pasqua, faremo la fine che hanno fatto loro

Sono ormai cinquanta anni che un elefante si aggira nel salotto.
Con la sua proboscide ha fracassato il vasellame, sporcificato la tappezzeria,
rovistato nei cassettoni stile liberty e post-pop,
ha mandato in pezzi anche il lampadario di Murano e la cristalleria di Boemia…

 «La realtà giunge nuda e cruda, e con un brivido, poco prima dell’alba. È la Sig.ra Tohil a chinarsi su di me, a rimettere la mia testa al suo posto e a sussurrarmi: “Tutto si può dire, anche l’impensabile, il proibito, non c’è più da avere paura, ormai non c’è speranza. Il sonno non riposa. L’acqua non disseta. L’aria sta per diventare irrespirabile. Le pesti succedono alle piaghe e la morte è oggi l’unica affermazione di vita, mentre la corruzione ci ha portati ad accettare ogni forma di accecamento Il veleno della verità mantiene la nostra civiltà in perenne agonia, stiamo per giungere all’apoteosi dell’immortalità della decadenza”.

Mi sporgo oltre l’orlo di ciò che resta di un muro del mio studio e vedo gli inquilini riunirsi nel mio salotto: chi se l’è fatta addosso per la paura; chi ha perso i guanti; chi riacquista il colorito e perde la parola e chi riacquista la parola e perde il colore. Ciò che nessuno sa dirmi dove e quando è scomparsa la Sig.ra Tohil».

 «Il mondo è un insieme caotico di frammenti»; «il mondo mi appare come la ruota della fortuna spezzata in fondo a un uovo marcio in grado di assorbire l’universo intero»; «mi apro le vie di Milano intasate da imputati per furto, altri per incendio volontario, saccheggio, di omicidio, di evasione e persino di antropofagia», scrive Tomaso Kemeny nei 107 incontri.

Non c’è dubbio che in questi ultimi due libri Kemeny abbia percorso a velocità forsennata lo spazio che passa dal mitomodernismo degli anni ottanta/novanta all’attuale nullismo o nichilismo di questi ultimi anni. È nel frattempo avvenuto che l’«Incontro con la Realtà» è diventato molto più dispendioso, «la Realtà» si è dissolta sotto i nostri occhi, si è de-moltiplicata e frammentata, si è miniaturizzata ed è definitivamente scomparsa dall’orizzonte degli eventi. Quella scrittura che ancora nei primi anni novanta era pur sempre un contenitore delle tensioni stilistiche e linguistiche, oggi risulta del tutto inidonea a suturare stilisticamente e linguisticamente quelle tensioni. Kemeny si è scontrato con questa aporia: rappresentare linguisticamente in poesia oggi «la Realtà» è come voler rappresentare il «niente», la mente si avvicina a quella zona dove la rappresentazione classica fallisce, è questo il punto.

Ed ecco spiegato il non-stile del linguaggio cosmopolitico dei due ultimi libri di Tomaso Kemeny. È che non c’erano vie di mezzo o altre strade che potessero condurre ad una «nuova» rappresentazione della «Realtà», e così è caduta la stessa idea di una rappresentazione linguistica in poesia, la stessa possibilità di una rappresentazione purchessia. «L’incontro con la Realtà» si è dimostrato più problematico che mai, e Kemeny da poeta acuto ne ha presto atto e ne ha tratto le conseguenze giungendo ad un linguaggio-ircocervo, un meta linguaggio iperteatrale, impermeabile, revulsivo in grado di conglobare in sé le istanze e le pulsioni espressionistiche e quelle mimico-realistiche. Però, pur sempre entro le coordinate della ontologia del novecento. Finalmente, nella poesia italiana ha fatto ingresso, in maniera non ortodossa e in modo massiccio, la vera questione del nostro tempo: il nichilismo, il lutto, la perdita di valore delle forme poetiche tradizionali con i riflessi che questo fenomeno ha avuto sulle scritture letterarie e, in particolare, sulla forma-poesia. Ci voleva un poeta di origine ungarica come Kemeny, nato nel 1938, per dare questo strattone scossone alla poesia maggioritaria che tuttora si continua a fare e a stampare.

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«Chi non ha sperimentato su di sé l’enorme potenza del niente e non ne ha subìto la tentazione conosce ben poco la nostra epoca […]

Che cosa mai sarebbe servito dire ai Troiani mentre i palazzi di Ilio rovinavano, che Enea avrebbe fondato un nuovo regno?

La difficoltà di definire il nichilismo sta nel fatto che è impossibile per la mente giungere a una rappresentazione del niente. La mente si avvicina alla zona in cui dileguano sia l’intuizione sia la conoscenza, le due grandi risorse di cui essa dispone.

Del niente non ci si può formare né un’immagine né un concetto.

Perciò il nichilismo, per quanto possa inoltrarsi nelle zone circostanti, antistanti il niente, non entrerà mai in contatto con la potenza fondamentale stessa allo stesso modo si può avere esperienza del morire, non della morte». 1]

La difficoltà di definire il nichilismo sta nel fatto che è impossibile per la mente giungere a una rappresentazione del niente.

La mente si avvicina alla zona in cui dileguano sia l’intuizione sia la conoscenza, le due grandi risorse di cui essa dispone. Del niente non ci si può formare né un’immagine né un concetto.

 Perciò il nichilismo, per quanto possa inoltrarsi nelle zone circostanti, antistanti il niente, non entrerà mai in contatto con la potenza fondamentale stessa che provoca il «niente».

1] Ernst Jünger Martin Heidegger, Oltre la linea Adelphi, 1989 p.179 € 14

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Ecco un brano di un mio libro, Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea Società Editrice Fiorentina, Firenze, 2013. In anticipo (o in posticipo) sull’auspicabile discussione, a proposito della tesi di un ritardo storico della poesia italiana del Novecento a causa della sua «impalcatura piccolo-borghese» e della primogenitura della linea maggioritaria del minimalismo romano-milanese.

Il ritardo storico della poesia italiana. Gli Anni Dieci. Continua a leggere

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Annamaria De Pietro Quartine scelte – da Rettangoli in cerca di un pi greco (Marco Saya, Milano, 2017) – Con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

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L’oltre è un soffermarsi presso la linea:
visualizzarne in altro modo l’intorno.

Annamaria De Pietro è nata a Napoli. Vive a Milano. La sua prima pubblicazione in versi risale al 1997: Il nodo nell’inventario (Dominioni Editore, Como 1997). Sono seguiti Dubbi a Flora (Edizioni La Copia, Siena 2000), La madrevite (Manni, Lecce 2000), Venti fusioni a cera persa (Manni, Lecce 2002). Nel 2005 pubblica un libro in napoletano, Si vuo’ ‘o ciardino (Book Editore, 2005). Nel 2012 esce Magdeburgo in Ratisbona (Milanocosa Edizioni, Milano, 2012). Le ultime pubblicazioni sono Rettangoli in cerca di un pi greco. Il Primo Libro delle Quartine (Marco Saya Edizioni, Milano 2015) e Rettangoli in cerca di un pi greco. Il Secondo Libro delle Quartine (Marco Saya Edizioni, Milano 2017).

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

«Tra le cartografie della poesia italiana del Novecento, ve n’è una che gode di un prestigio particolare, perché è stata stilata da Gianfranco Contini. La caratteristica essenziale di questa mappa è di essere incentrata su Montale e sulla linea per così dire “elegiaca” che culmina nella sua poesia. Nel segno di questa “lunga fedeltà” all’amico, la mappa si articola attraverso silenzi ed esclusioni (valga per tutti, il silenzio su Penna e Caproni, significativamente assenti dallo Schedario del 1978), emarginazioni (esemplare la stroncatura di Campana e la riduzione “lombarda” di Rebora) e, infine, esplicite graduatorie, in cui la pietra di paragone è, ancora una volta, l’autore degli Ossi di seppia. Una di queste graduatorie riguarda appunto Zanzotto, che la prefazione a Galateo in bosco rubrica senza riserve come “il più importante poeta italiano dopo Montale” (…) Riprendendo un cenno di Montale, che, nella recensione a La Beltà, aveva parlato di “pre-espressione che precede la parola articolata”, di “sinonimi in filastrocca” e “parole che si raggruppano per sole affinità foniche”, la poesia di Zanzotto viene definita nello Schedario nei termini privativi e generici di “smarrimento dell’identità razionale” delle parole, di “balbuzie ed evocazione fonica pura”; quanto alla silhouette “affabile poeta ctonio”, che conclude la prefazione, essa è, nel migliore dei casi, una caricatura. (…)

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Stanotte cadono le stelle. Una
cada nel tuo bicchiere come ghiaccio

L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento,

che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini. Di questa paziente strategia, che si svolge coerentemente in una serie di saggi e articoli dal 1933 al 1985, l’esecuzione sommaria di Campana, il ridimensionamento “lombardo” di Rebora e l’ostinato silenzio su Caproni e Penna sono i corollari tattici. In questo implacabile esercizio di fedeltà, il critico non faceva che seguire e portare all’estremo un suggerimento dell’amico, che proprio in Riviere, la poesia che chiude gli Ossi, aveva compendiato nell’impossibilità di “cangiare in inno l’elegia” la lezione – e il limite – della sua poetica. Di qui la conseguenza tratta da Contini: se la poesia di Montale implicava la rinuncia dell’inno, bastava espungere dalla tradizione del Novecento ogni componente innica (o, comunque, antielegiaca) perché quella rinuncia non apparisse più come un limite, ma segnasse l’isoglossa al di là della quale la poesia scadeva in idioma marginale o estraneo vernacolo (…) Contro la riduzione strategica di Contini converrà riprendere l’opposizione proposta da Mengaldo, tra una linea “orfico-sapienziale” (che da Campana conduce a Luzi e a Zanzotto) e una linea cosiddetta “esistenziale”, nella polarità fra una tendenza innica e una tendenza elegiaca, salvo a verificare che esse non si danno mai in assoluta separazione.»

Sono parole di Giorgio Agamben (in Categorie italiane, 2011, Laterza p. 114). Tra gli stereotipi più persistenti che hanno afflitto i geografi (e i geologi) della poesia italiana del secondo Novecento, c’è quello della ricostruzione dell’asse centrale del secondo Novecento a far luogo dalla poesia di Andrea Zanzotto, già da Dietro il paesaggio (1951) fino a Fosfeni (1983). Di conseguenza, far ruotare la poesia del secondo Novecento attorno al «Signore dei significanti» come Montale ebbe a definire Zanzotto, dal punto di vista di fine secolo può considerarsi un errore di prospettiva. Ma se rovesciamo il punto di vista del secondo Novecento con cui si guarda alla geografia del primo, Campana appare come il poeta nella cui opera vengono a confluire i due momenti: quello innico e quello elegiaco…*

Oggi, per scrivere poesia veramente «moderna» bisognerebbe porsi in ascolto di ciò che noi siamo diventati dopo la fine del modernismo e la fine del Moderno. Annamaria De Pietro raddrizza l’endecasillabo, restaura la quartina rimata (ABBA – ABAB), e da lì parte per una scrittura elegantemente sillabico endecasillabica. In modo incredibile, qui c’è la gioia della rima, la gioia del solfeggio e del cantato e del cantabile. E non c’è dubbio che la De Pietro sia il poeta, tra quelli che io ho letto, che impiega l’endecasillabo in modo impareggiabile.  È il suo modo di rispondere alla crisi della poesia: la risposta a questa crisi la poesia la deve e la può dare con i mezzi della poesia, non ricorrendo a stentorei squilli di tromba o a percussioni da contrabbasso… l’epoca delle avanguardie è finita da cento anni almeno, e così l’epoca delle retroguardie. E Annamaria ne ha preso atto.

Oggi che il modernismo si è esaurito, è chiaro che non si può procedere oltre di esso senza avere chiaro il quadro di riferimento storico e ideologico che aveva costituito le basi del modernismo. Il modernismo, che è stato il prodotto poetico del mondo occidentale in disfacimento che aveva condotto alle tre guerre mondiali, oggi, paradossalmente, ha più che mai voce in capitolo dato che siamo entrati nella IV guerra mondiale in uno stato di belligeranza diffusa e di apparente normalità. Nelle città dell’Europa occidentale si vive in uno stato di apparente tranquillità, ma la minaccia è ovunque, è sufficiente una buona tromba di Eustachio e un buon paio di occhiali. La poesia della De Pietro assomiglia alla barchetta di carta che galleggia tra i flutti della materia equorea, «è un soffermarsi presso la linea», per dirla con Pier Aldo Rovatti.

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Poesie di Annamaria De Pietro

* Giorgio Linguaglossa Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000-2013), 2013 Società Editrice Fiorentina, pp. 148 € 14.

 

L’oltre è un soffermarsi presso la linea:
visualizzarne in altro modo l’intorno. Identificare,
costruire, attraverso l’uso che facciamo del linguaggio,
uno spazio di gioco, un’abitabilità.
Mettersi in ascolto non di un «canto» sepolto e originario,
bensì di un «groviglio» di significati…

(Pier Aldo Rovatti) Continua a leggere

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Alfredo de Palchi: Sfida in sintesi alla poesia italiana del novecento e contemporanea, con una missiva di Giorgio Linguaglossa

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Carissimo Alfredo,

il tuo «pezzo» è fortissimo, metà prosa e metà poesia (di ciò che resta della poesia). È una invettiva come non se ne fanno più in Italia da almeno 50 anni. Meno male che ci sei tu. In ogni caso io ribadisco che sei il più grande poeta italiano vivente. Vediamo che ne dicono in giro, voglio proprio vedere se qualcuno si permette di negare l’evidenza. Mi piace moltissimo poi quella messa in risalto di quel… poco-di-buono della poesia italiana: quel Franco Buffoni che ha fatto una «antologia» di 40 «poeti» italiani dicendo che il «criterio» da lui adottato è stato quello di evitare di pubblicare i «premorti», cioè di coloro che avevano più di 60 anni.

Quanto a quel personaggio che ti ha detto al telefono che io sarei un autore di «sottobosco», ho apprezzato la tua signorile reticenza nel  rifiutarti di dirmi chi è quel povero personaggio. Chi lui sia non ha per me alcuna importanza, e neanche mi interessa conoscere la sua identità, mi basta la consapevolezza che chi volesse ragguagliarsi intorno alla migliore poesia che oggi si fa in Italia dovrà leggere la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com e i poeti che ci pubblicano.

Che dio salvi l’Italia e ti mantenga in vita.

(Giorgio Linguaglossa)

*

alfredo de Palchi

Alfredo de Palchi

Alfredo de Palchi
Sfida in sintesi alla poesia italiana del
novecento e contemporanea

(New York, 8–9, luglio 2017)

1

la morte d’un poeta consola la mia fragilità… vent’anni prima lo incontro a  Manhattan con colleghi italiani… poi mai  più udito il suo sarcastico cinico umorismo… d’improvviso voci amichevoli del  defunto si scambiano mails che ricevo per conoscenza… fuori dal giro del poeta di quartiere non vive motivo  che io  ghiacciaio mi schianti… le voci si dichiarano costernate e tristi… dall’antica civiltà delle isole greche rinunciano alla rituale camera ardente…  la polverizzazione del poeta nel quartiere non scomoda lontane  amicizie né sconvolge il sangue a nessuno… nome  insignificante del poeta in mostra è “ch” ?… non hai notorietà… soltanto gente che si scalmana a sparlare degli assenti fino al litigio alla bara… la verità non ti sospetta più…

2

il  terracqueo porta inferi di qualsiasi poeta, giustifica l’inedita  verità sulla cronaca poetica italiana del Novecento… poeti d’ogni città e paese per principio di supremazia si definiscono  “sottobosco” a vicenda… lontano migliaia di miglia e per formazione mentale trovo normale che dal Nord al Sud l’Italia poeticamente provinciale si insulti… e  puerilmente si autonomini “migliore”… dagli anni 1940 di ogni collana di poesia si stabilisce  l’importanza dal nome degli editori: Vallecchi Mondadori Einaudi più che dal nome dei direttori di collana… iniziano con maestri già pubblicati altrove anni prima… raramente collaudano un libro vivo… il macero giustizia opere superiori e inferiori d’arte abbondantemente invendute… seguitando a produrre rischi simili a quelli sconsacrati… rare vedettes e dozzinali apparenze e non un grande… versi sfiatati mal stampati su carta pitocca a prezzi esagerati… ora due collane sussistono per inferiorità stilistica a quelle di piccola editoria… se  il commerciale negato alla poesia conteggia il direttore propone stracci invece di dimettersi…  la poesia anticomplessa e commerciale di marchio editoriale di terzo grado ha la gravità autentica del “sottobosco”. . .

3

inservienti spolveratori spolverano e qualificano di primo grado autori di secondo e terzo grado… antologie imbarazzano di spolverati inquilini… il primo quarto del Novecento invita i lettori a spianzottare con Corazzini e a ridere con i Futuristi… il secondo   quarto spalanca gli occhi su grandi autori di nuove opere di suprema poesia… il terzo quarto abbraccia un numero di poeti di primo grado  della generazione anni 1920 e di avanguardie impotenti… il quarto riusa rimasugli del recente trascorso fino al deterioramento… panorami di rari nomi strausati… in questo limite mi metto a lapidare “stop” sulla lapide del poeta defunto simbolo d’ogni altro  pateticamente sbalzato nel “neant”… termine cruciale quanto la vertebra color fiamma… cruciale per il correttore di canoni didattici imposti da secoli a schemi moderni… intimazione terminale ai cucitori di poetiche ripetenti sullo schematismo del poeta che scavare dal fondo… mai superando il maestro delle dolci fresche acque… il bruciante raggio di sorteggio imparzialmente giustifica il messaggio… quando si valutano i grandi emarginati da mestieranti…

4

ingaggia la smoderata energia di chi invidia con tremulo labbro invelenato… autori della generazione anni 1920 stupiscono con poesie magistrali più delle mie… inedito non confesso che la mia poetica è creativa originale  ostica e autentica sin dagli albori del 1947… mai mi sento inferiore perché gli  amici mi stimano come poeta senza deturparmi con l’ostracismo…  non si cancella niente andando per il mondo col mistero di fermarmi con la valigia di poeti… così ostica  cresce scrittura e scelta. . . fuori strada…  “stop”...  nessuna concessione di abbagli… imparzialmente i designati sfilano all’“Inferno terracqueo”… al “Purgatorio”… al “Paradisiaco neant”…

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Salvatore Martino (1940) AUTOANTOLOGIA DI POESIA E RACCONTO DEL PROPRIO PERCORSO DI POESIA DAGLI ANNI SESSANTA AD OGGI – POESIE SCELTE – Relazione tenuta al Laboratorio di poesia de L’Ombra delle Parole del 30 marzo 2017

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Laboratorio di poesia del 30 marzo 2017 Libreria L’Altracittà, Roma

 

Salvatore Martino è nato a Cammarata, nel cuore più segreto della Sicilia, il 16 gennaio del 1940. Attore e regista, vive in campagna nei pressi di Roma. Ha pubblicato: Attraverso l’Assiria (1969), La fondazione di Ninive (1977), Commemorazione dei vivi (1979), Avanzare di ritorno (1984), La tredicesima fatica (1987), Il guardiano dei cobra(1992), Le città possedute dalla luna (1998), Libro della cancellazione (2004), Nella prigione azzurra del sonetto (2009), La metamorfosi del buio (2012). Ha ottenuto i premi Ragusa, Pisa, Città di Arsita, Gaetano Salveti, Città di Adelfia, il premio della Giuria al Città di Penne e all’Alfonso Gatto, i premi Montale e Sikania per la poesia inedita. Nel 1980 gli è stato conferito il Davide di Michelangelo, nel 2000 il premio internazionale Ultimo Novecento- Pisa nel Mondo per la sezione Teatro e Poesia, nel 2005 il Premio della Presidenza del Consiglio. Nel 2014 esce con Progetto Cultura di Roma, in un unico libro, la sua produzione poetica, Cinquantanni di poesia. È direttore editoriale della rivista di Turismo e Cultura Belmondo. Dal 2002 al 2010  con la direzione di Sergio Campailla , insieme a Fabio Pierangeli ha tenuto un laboratorio di scrittura  creativa poetica presso l’Università Roma Tre, e nel 2008, un Master presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli.

Testata politticoSalvatore Martino

Eros e il Mito, i viaggi i labirinti

Quando alcuni giorni fa Linguaglossa mi ha raggiunto telefonicamente invitandomi a parlare nel Laboratorio di poesia de l’Ombra delle Parole intorno alla mia poesia sono stato preso da una sorta di smarrimento.
In quasi sessanta anni di dedizione al discorso poetico mai mi sono trovato a parlare in prima persona del mio mondo raccontato in versi.
Ma non ho avuto scampo ed eccomi qua a camminare con voi questo lungo viadotto, intriso di scorie e trabocchetti, abissi e cancellazioni a volte persino di felicità.
Sono nato nel cuore più segreto della Sicilia, la terra degli avi di mio padre, a mezza strada tra Palermo e Agrigento. Adolescente ho vissuto in Toscana la terra degli avi di mia madre, e credo che queste coordinate abbiano contribuito a plasmare il mio carattere,a dare una dimensione alla mia creatività. Due avvenimenti hanno avuto una influenza decisiva nella costruzione dell’edificio dove sono andato ad abitare: lo studio della medicina all’Università per cinque anni, e il suo abbandono letteralmente rapito dal teatro.
Nel 1963 a Palermo per il servizio militare di leva. E qui un’altra svolta importante. Avevo già prodotto un certo numero di testi poetici, ma in questo lembo del mio sud compresi e per sempre che una cosa è scrivere versi, altra cosa essere poeta, voler essere poeta, vivere da poeta.

Adolescente sono stato un lettore disperatamente onnivoro, sotto la guida di Luciano Bianciardi allora direttore della Biblioteca Chelliana ubicata al piano terra del mio liceo classico a Grosseto.
Più che i poeti erano i romanzieri ad affascinarmi: i grandi russi, gli inglesi Conrad e Wilde su tutti, i francesi dell”800 e Proust, e naturalmente gli adorati Melville e Poe. Buzzati, Gadda, Berto e Pavese fra gli italiani. Quando la poesia mi invase totalmente i miei innamoramenti andarono ai poeti di lingua spagnola, anche perché potevo leggerli nel testo originale, come del resto i francesi.
Jimenez e Machado, Lorca, Guillen, Aleixandre, Darìo, e naturalmente Baudelaire e Rimbaud, per citare solo quelli più volte visitati. Degli italiani del novecento non molto, qualche cosa di Ungaretti, il primo Montale, Cattafi, Dino Campana. Naturalmente i maestri dei maestri Cavalcanti, Dante, Petrarca, Leopardi.
Sono di quel periodo Venti pezzi facili e Ricordi da Palermo dove tentavo di trasfigurare in musica esperienze di vita, il colloquio con la mia terra, l’eros che avrebbe accompagnato tutta la stesura del viaggio poetico.

Nei primi anni sessanta feci parte dell’Avanguardia storica romana che in teatro tentava di dare un nuovo indirizzo alle vicende del palcoscenico. Fu Giordano Falzoni che mi fece conoscere i poeti del Gruppo 63. Devo confessare che non mi interessarono affatto, solo Sanguineti in qualche modo, al quale riconoscevo una straordinaria intelligenza, e una ricchezza linguistica assoluta.
In quegli anni conobbi Bianca Garufi, da poco tempo psicanalista junghiana. Era stata la donna di Cesare Pavese col quale aveva scritto a quattro mani il romanzo Fuoco Grande. Con lei mi addentrai nello studio della psicologia analitica, cardine fondamentale per la mia scrittura, e conobbi il grande Bernard, che mi iniziò ai misteri del profondo.
Nel 1966 conobbi Corrado Cagli che mi introdusse nel pantheon della scena romana: Afro, Mirko, Guttuso, De Chirico, Vespignani, ma anche letterati come Emilio Villa e Pier Paolo Pasolini. Frequentazioni intense di amicizia che segnarono spiritualmente e intellellualmente la mia formazione. E poi due grandi personaggi Giorgio Amendola e Antonello Trombadori, che rafforzarono la mia fede nel comunismo, e mi introdussero alla vita pratica del partito. Sul palcoscenico ho dato più volte il mio contributo nelle Feste dell’Unità. 
A metà degli anni sessanta come in un prezioso ritrovamento altri due incontri decisivi: Ezra Pound e T.S.Eliot. Cambiò totalmente il mio modo di fare poesia. Si materializzarono due poemi: Attraverso l’Assiria e La fondazione di Ninive. Il primo nasceva di getto in un’estate di delirio, nella quale non facevo che ascoltare ossessivamente Tristan und Isolde. Ninive ebbe invece una lunghissima gestazione, undici ani, dilatandosi ed essiccandosi alternativamente. Sottoponevo molto spesso i miei risultati di revisione a Ruggero Jacobbi e a Libero de Libero, ricevendone stroncature o incoraggiamenti. Lo stesso Jacobbi nella introduzione al volume avrebbe scritto: …..Martino ha percorso questo itinerario rischioso, talora spaventoso, per giungere a un riscatto che egli stesso ha propiziato in anni e anni di adulta e coscientissima ricerca di linguaggio, in modi di verso e di prosa che non somigliano a niente di oggi……

Laboratorio 30 marzo Rago Sagredo Martino

Laboratorio di poesia del 30 marzo 2017 Libreria L’Altracittà, Roma da sx Salvatore Martino, Antonio Sagredo e Gino Rago

.

Ispirazione e immaginazione sentimento e magma, filo rosso col mondo più sotterraneo, una scrittura talvolta quasi automatica alla aniera dei surrealisti, queste credo furono le vie che intrapresi. Al vers libre preferii la cadenza non ritmata. Cercavo sempre anche in un ipermetro una certa musica , che verificavo con la lettura ad alta voce. Devo ammettere che già allora non avevo interesse per la poesia che si andava materializzando in Italia. Leggevo, conoscevo, ma nella totale indifferenza. In questi due libri cominciarono a delinearsi le tematiche,che mi avrebbero accompagnato nell’arco di oltre cinquanta anni : il rapporto dell’Io con se stesso, la maschera (persona) , l’archetipo dello specchio, il colloquio con l’Altro, il viaggio reale e quello sognato, l’ambiguità dell’essere e delle parole, Eros nella sua duplice natura, principio di relazione proprio alla vita, o progenie della notte, fratello della morte, incapace di salvarci da essa, e i sogni (oneiroi), che sia Omero che la mitologia orfica collocano nel regno di Ade. Tutto sotto la freccia apollinea, l’ebbrezza dionisiaca, il fuoco della conoscenza, il freddo del bisturi nell’indagine razionale. 

E nel guscio più ripido il dissidio mai sanato di essere a un tempo viandante e cavaliere e contadino legato al mio segno di terra, dentro una sorta di misticismo non trascendente , che anela al superamento dell’effimero, della fragilità. Certamente mi hanno aiutato, forse condizionato le mie frequentazioni: Bianca garufi, Bernard, J. Hilmann, le letture appasionate di Jung e di Kerenji.
Ricordo una sera a casa di Bianca appunto…c’erano alcuni mebri dell’AIPA Aldo Carotenuto e Paola Donfrancesco tra gli altri, ospite d’eccezione James Hilmann. Si parlò ovviamente di anima, di sogni, di mito, ma soprattutto di arte e della sua importanza nella psicologia del profondo. A un certo punto Hilmann quasi concludendo apoditticamente : ma a che serve l’arte, la poesia se non dà emozione.

Fu a metà degli anni ’80 che incontrai più volte Ghiannis Ritsos nella sua casa al 39 di Michail Koraca ad Atene. Avevo portato sulla scena per la prima volta in Europa il suo Oreste, anni dopo avrei recitato all’Eliseo un testo da me composto sulle sue poesie: Uomini e paesaggi. Furono davvero incontri incancellabili, forse i più emozionanti della mia vita. Parlavamo di tutto, in francese, del suo confino e dei colonnelli, degli antichi eroi e filosofi, della sua poesia, che mai lo aveva abbandonato. Potrei restare qui a discorrere con voi in un tempo dilatato tanti erano gli avvenimenti, i pensieri che scorrevano nei lunghi pomeriggi e talvolta anche al mattino. Mi mostrò alcune foto che lo ritraevano a bordo di una automobile scoperta, mentre attraversava le strade di Atene in mezzo ad una folla entusiasta che cercava di toccarlo mentre passava: erano i festeggiamenti del suo settantacinquesimo compleanno.Nel nostro ultimo incontro salutandomi mi consegnò tre sassi levigati dal mare sopra ai quali egli stesso aveva disegnato con inchiostro di china facce di antichi dei ed eroi. Li ho conservati quasi religiose reliquie. Lasciandoci sull’uscio faticavo a trattenere le lacrime, e mi accorsi che anche lui piangeva, e ci trovammo stretti in un indimenticabile abbraccio.

Nel ventennio dall’80 alla fine del secolo scorso si delinea nella mia scrittura una pentalogia miticometafisica, come la definisce Donato di Stasi, la terza fase del mio cammino.

Commemorazione dei vivi- Avanzare di ritorno- La tredicesima fatica- Il guardiano dei cobra- Le città possedute dalla luna.
Qui il mito diventa decisamente più ctonio, infarcito di Ybris: Odisseo e i suoi viaggi nel mondo supero e in quello infero, Eracle e Deianira, Giobbe e ol suo confronto con Jahvé , Ermes e le sue molteplici facce, il Minotauro nel suo labirinto metropolitano, Edipo cieco ad Eleusi come nelle nostre città. Il reperto mitologico come modello del quotidiano , del dettato storico. A proposito della storia in questi cinque volumi compaiono personaggi che la storia stessa hanno segnato. E la vicenda personale tende, almeno nelle mie intenzioni, a divenire cammino anche per gli altri.
Così l’individuo mitico-metafisico sceglie il salto nel vuoto, il rischio esistenziale, il dèmone della poesia. Viaggi verso culture lontane alimentano non solo paesaggi sconvolgenti, ma anche il contatto con civiltà in apparenza lontane, chiamate a descrivere le loro mitologie, le loro vicende di lotta e di sopravvivenza.
Dopo i primi moduli espressionistici, dal delirio linguistico poundiano , iperletterario e
intellettualistico, dagli accenti epici e dagli erratici momenti in versi e in prosa, si entra nell’ultima fase del mio cammino poetico: la trilogia del Nichilismo Libro della cancellazione- Nella prigione azzurra del sonetto- La metamorfosi del buio. Non so quanto abbia influito la lettura di Nietzche, segnatamente Il crepuscolo degli idoli de Al di là del bene e del male.

In Libro della cancellazione l’incontro con Ade , colui che è presente ma non c’è perché polvere, diventa pressante. Fino ad allora avevo in qualche modo pensato che la memoria fosse il solo esercizio da seguire, qui invece diventa chiaro che l’unica operazione consentita è l’oblio.
Paradosssalmente, lo stile è sempre più scivolato verso la chiarezza, le azioni, le persone, i paesaggi, gli stessi sentimenti più limpidamente oscuri. C’è un ritorno più concreto verso l’autoritratto alla maniera dei pittori del quattro-cinquecento, e c’è a partire da questa stagione un coraggio abissale di guardare in faccia il Nulla con una violenta volontà iconoclastica, contro le strutture di una società, che mi appare estranea. La corporeità diventa protagonista in questi tre libri, volutamente narrativi, dove ho cercato di trasferire tutto il mio pathos, che in parte mi deriva dalla poiesis greca corale e monodica.

Avevo scritto alcuni sonetti alla fine del secolo scorso e successivamente in Cancellazione, e nei primi anni Duemila sono caduto in una folle impresa alla don Chisciotte, folle e apparentemente senza uscita. 122 sonetti rimati tutti alla stessa maniera ABBA ABBA CDE EDC. Declinavo all’inizio de La prigione azzurra i nomi dei maestri ai quali ero debitore : Cavalcanti e Petrarca, Shakespeare e Borges. Non so io stesso come mi sia avventurato in questo labirinto di perfetta geometria. Certo il labirinto è stata una costante nella mia scrittura, anche se spesso ho pensato che abbiamo smarrito filo e Arianna e vittime e spada, forse abbiamo smarrito il labirinto stesso. Lungo tutti gli anni di gestazione, soprattutto passeggiando col mio Totò nel locus amoenus dove ancora vivo, ho pensato, parlato a voce alta in endecasillabi rimati, come sorgessero già confezionati nel mio mondo infero, in un colloquio con quegli dei che conoscevo quasi che essi trasmettessero in forma non cifrata , messaggi al mio dàimon. Certo il labor limae poi era spietato, perché in una simile struttura chiusa si corre il rischio di usare terminologie desuete, o di cadere nel ciarpame passatistico. Fu come raccontare ad uno sconosciuto la mia vita in versi, ma anche una feroce scommessa contro tutto quello che viene prodotto in Italia, cercando di mostrare come si possa scrivere in una forma vecchia di sette secoli con parole di oggi, con tematiche di sempre, da una Meditatio mortis a una Meditatio erotiké.

Dopo la reclusione azzurra maturata nell’endecasillabo discesi ancora di più nell’abisso, condotto per mano dagli oscuri disegni delle malattie, che mi trascinarono lungo il filo che delimitava il baratro. Ma sono risalito anche da quelle voragini.
Forse il segno più vibrante de “ La metamorfosi del buio”si avvolge intorno alla solitudine, alla ricerca di custodirla e di sconfiggerla. Ma non volli risparmiare niente, tutti i movimenti tematici ritornano con una luce ancora più ctonia, perché la discesa agli inferi non è soltanto quella individuale, ma quella nell’inconsco collettivo. Ma forse dietro al suo scenario di solitudine, c’è qualcosa di più angosciante dell’angoscia stessa. Anche stilisticamente si passa da una forma liricheggiante, a quella epica, a quella narrativa, il viaggio e i viaggi hanno una connotazione più grigia, l’eros è soltanto ricordo ma non rimpianto, il pensiero filosofico si insinua nella disputa scacchistica tra il Nulla e il suo Doppio.

Ai Maestri , ai compagni di teatro, agli amici ho dedicato l’ultimo mio libro edito: Incontri Ricordi Confessioni. Voci, volti, corpi, pensieri incontrati sul mio cammino e che hanno profondamente inciso nella mia vita.
Dopo la pubblicazione di Cinquantanni di poesia (2014) pensavo di aver esaurito il mio compito, di non dover scrivere più: il dàimon è stato di avviso diverso e mi ha imposto di continuare la mia avventura poetica.
Come work in progress sta vivendo tra le mie mani Manoscritto trovato nella sabbia un viaggio sempre più nell’Ade, nascosto nella sua invisibile pienezza, con Eros e Thanatos, al mio fianco, sulla barca del fiume azzurro che avanza verso Anubi.

Salvatore Martino

Autoantologia

Da La fondazione di Ninive 1965-1976

Questa notte mi hanno visitato le formiche
Hanno preso le mani
imbavagliati i piedi
stretto d’assedio il letto
Che sia solo la stanza a respirare?
Il resto giace Inerte
tenuto insieme da robusti negri
il lago infame e la memoria
Estraneo alla vicenda
il viaggiatore ride
acquattato nell’angolo
E aspetta
Che tutto si cancelli?!
Divorato nel sangue
Una brezza invadente increspa l’aria
Ci sono stati morbidi passi nella scala
parole sussurrate incantamenti e riti
una musica dolce sulla soglia
Il viaggiatore infìdo arriva dritto dall’Ade
Ma non ci paralizza l’ignoto grido
o l’avvicinarsi del branco
né il richiamo ingannevole col nome
L’occhio dentro l’occhio
avvitato dalla morsa che sai e non conosci
e decifri il mandante l’involucro lo scopo
Mi hanno visitato questa notte
gente partita da lontano emersa in superficie
attraverso i rigori dell’inverno
e navigando cristalline montagne
prati innevati e case crocefissi e paludi
adesso è qui
Olio sopra la fronte l’orecchio e il labbro

Da Il guardiano dei Cobra 1986-1992

Mi trovavo nel sogno in una barca con il mio fratello
e Guardiano C’erano anche dei compagni e un marinaio
Doveva essere un braccio di mare grigio e calmissimo del
nord simile a un lago senza sponde Io chiedevo notizie
sulla rotta ai compagni e al giovane nocchiero e il motivo
della fuga perché di fuga si trattava Ma non ottenevo
risposta Erano tutti morti E non provavo angoscia né
dolore solo un acuto senso di vertigine e vergogna per
loro che non avevano avuto la disperazione di resistere
Il mare cominciava a farsi denso Al posto dell’acqua mi
sembrava ci fosse un liquido vischioso una specie di olio
In preda a una violenta eccitazione presi a scuotere il
Guardiano sdraiato al mio fianco perché temevo che
quest’altro incidente potesse rallentare il precario avanzare
della barca Una caligine lattescente era caduta senza
bussola sarebbe stato impossibile orientarsi Ma quello
non rispose girò mostruosamente sul fianco rotolandomi
addosso all’infinito La sua faccia penentrava la mia
le braccia le cosce il suo sorriso m’invadevano il corpo in
una indescrivibile euforia e incominciai a cantare a voce
altissima a ridere a sognare e non ci fu più fuga né barca
né compagni soltanto e sconfinata una distesa bianca

Da Le città possedute dalla luna 1992-1998

El mundo perdido La foresta le pietre
nell’orizzonte fermo di Tikál

I
La morte interamente ti possiede
incantata dalle tue parole
dal fiore bianchissimo dei corpi
Si sono rintanati nella selva i miei serpenti
indistinto brusio la loro voce
le scimmie urlatrici invocano la pioggia
a lavare la febbre i desideri
Nel perimetro verde
in dolce precipizio a primavera
nel dominio uniforme delle piante
e per timone una barra di velluto
un colloquio strisciante di formiche
per vela un sentiero diroccato
un possibile agguato
da te dagli altri teso
dai minuscoli eventi che c’illudono
e inseguire dovunque
l’introvabile volo del quetzάl
l’uccello incredibile di piume
promesse ai sacerdoti
e accetta la morte non la cattività

II
Orfani senza voce
messaggeri del verbo
che lacera la morte
indagatori traditi dell’Oscuro
sopra la piattaforma
del Gran Tempio Piramide
di nuvole forse diviniamo
del domestico rito
costruzione perfetta dell’inutile
Guidarono i Poeti questa terra
testimoniando gli inferi e la luce
la freccia scoccata nel delirio
verso l’addome e il cuore
centro del movimento verso il labbro
perché immortali fossero i responsi
iniziatico dono nella veglia
Verde ancora la selva
gli alberi spalancano le braccia
tessono fili di saliva dove gli insetti
annegano e i rettili possono tremare
Un sacro terrore
su queste grigie pietre si respira
tracce visibili
quegli uomini stamparono
un ispirato codice di astri
I poeti osservano la morte
ne contano i sussurri gli abbandoni
i rami incoerenti della vita
le vertebre corrose dal nemico
testardo passeggero
antico testimone di battaglie
che ci dorme accanto
vigilando nel cavo del torace
lo sgomento la pena
I corpi bruceranno
interamente i fiati nell’attesa
tutte le formiche della terra
diventeranno un vuoto agglomerato
l’equilibrio invocato
tra il Nonessere e il Tempo
coinvolgerà fuggitivi e soldati
saremo
tutti
sacerdoti votati allo sterminio
Avranno occhi perforati
il coyote e l’iguana
gli uccelli tutti e sono migratori
e invadono gli stagni
prima di soggiacere all’acqua
lasceranno un sospetto
del loro transitare?
Avremo occhi perforati
un ghigno per sorriso
costretti ad inseguire
come insonne Giaguaro la sua preda
scivolato Serpente tra le dita
lasceremo un sospetto
del nostro transitare?
Presagi ingannevoli
in questo autunno della vita
si concretizza limpido il bersaglio
fiore bianchissimo sul corpo
invocata carezza
interamente tutti ci possiede

Da Libro della cancellazione 1996-2004

Il giardino dei sentieri che si biforcano

Mi ritirai nel giardino
a scrivere poesia
per consegnare agli altri un labirinto
una mappa divorata dal tempo
che conducesse in un secondo altrove
Un giardino pensato all’italiana
un gioco di armonia
immagine speculare della vita
Mi ritirai a scrivere a poesia
ritornando bambino
in un sogno da un altro già sognato
Perché la fine del viaggio è ritornare
al punto esatto da dove sei partito
e saranno le rughe del tuo volto
la carta del disegno iniziale
a segnalare il punto dell’arrivo
la fanciulla che attende sulla porta

E tu sai come incidere la sabbia

Tornato da una riva
più desolata di un colloquio
che a nulla rassomiglia
non al sesso spietato
né all’amore
una felicità c’invade
dolente come il mare
quell’abissale liquido materno
dove tutti invochiamo di restare

La memoria e l’oblio

Aveva sempre pensato
che fosse la memoria
il solo esercizio da seguire
ma svegliandosi una mattina
quasi prima dell’alba
comprese
e per sempre
che l’unico esercizio consentito
era l’oblio

Inno a Hermes

Non si apriranno strade
non correremo verso la paura
non ci saranno vele per l’approdo
Incontreremo Hermes
aggrappato ad una finta stele
nella mano una coppa avvelenata
per transitare il fiume
Signore degli inganni
ladro al banchetto degli dei
fanciullo tessitore di astuti giochi
infantili nequizie
reggitore di fiaccole
che accendono il cammino
delle anime in fuga
spiana le rughe dalla fronte
scendi ad evocare
la gioia mai dimenticata
pronuncialo il nome
che non mi corrisponde
aiutami ad accettare la mia sorte
in attesa di averti come guida
nel viaggio che faremo
quello senza ritorno
ma non per questo freddo
ostile
forse più temuto

Le candele della notte si sono consumate

Sopra le balze di tufo
Machu Picchu domestico
che forse mi appartiene
il verde dilaga a primavera
il raffinato canto degli uccelli
Qui persino il vento
assume un andamento circolare
In questo paradiso ricercato
come un lontano appuntamento
dovrebbe sorridermi la vita
l’ansia distendersi sul volto
Incubi invece i miei pensieri
s’insinuano tra i muri
come morti giganti
Si fermano talvolta sulle soglie
sugli stipiti sbattono la fronte
agitando le chiavi
Dormono al mio fianco
affondano la testa sui cuscini
respirando a bocca spalancata
Usano il bagno schiuma
le mie saponette profumate
si radono la barba nello specchio
sussurrano parole
alitano vendette sulle spalle
s’infilano persino le mie scarpe
Attraccati alla sedia
guardano con sospetto
la macchina da scrivere
e questa d’improvviso
incomincia a battere da sola
Frugano la dispensa
negli armadi
senza testa né piedi
i vestiti passeggiano da soli
come svuotati di pensieri
Invece sono là questi nemici
spiaccicati negli angoli
aspettano pazienti
un passo falso
un alibi una resa
come tentacoli di seta
protendono le braccia
e la domanda accesa
dentro l’occhio cavo
mi arriva dentro l’occhio
sempre la stessa
e non avrà risposta
Sono divenuti familiari
complici di scalate nell’abisso
L’orologio commenta questo imbuto
dove qualche volta c’infiliamo
per addestrarci a non sentire
il rumore ostinato del silenzio
Li vedo sparire nella doccia
ma l’acqua non bagna i loro corpi
non raggiunge la bocca
non diviene fontana
sembra che trascini i loro piedi
come un fiume infernale senza uscita
simile a quelli nella piana di Olimpia
un’estate lontana
nel clamore di un’assurda vittoria
purificammo il corpo nell’Alfeo
prima di naufragare nel profondo

Libro della cancellazione

Mi chiedo a volte
quando dal fiume salgono i vapori
e il paesaggio assume
i colori tonali del risveglio
mi chiedo a volte
dove si disperde il sentiero fissato
se il carcere ossessivo
del piacere dell’armonia del bello
possa esorcizzare
quest’aggrumo di segni
quest’abitare dentro la ferita
Chi siamo mi domando?
Quale fato ci guida?
Diventano risposte le domande
senza mai esserlo
che importa?
Forse siamo quel fuoco immaginario
la montagna coperta di ghiacciai
la scala dimenticata contro l’albero
la tormenta e la luna
Siamo i depositari dell’assurdo
il viandante emerso dalle crete
il vuoto di un addio
la sabbia che purifica i peccati
il faro intravisto di lontano
Siamo l’acqua del fiume dei dannati
la cronaca infinita delle lotte
l’arbitrio e la dimenticanza
siamo l’isola ormai disabitata
siamo la strada alata
la cancellazione

Da Nella prigione azzurra del sonetto (2002-2009)

VI
Scivola inerte il piombo nella sera
sopra la carta incisa dalla voce
se la sentenza è solamente atroce
il colloquio di un uomo che dispera
se sfuggire non è che una chimera
la condanna diventa più feroce
l’inganno fu scoperta assai precoce
apparsa sullo schermo veritiera
Quest’inverno incantato che declina
e una scala sull’albero appoggiata
un tradimento intriso di carezze
vanamente una strada d’incertezze
è corenice dal tempo scardinata
nel mare di papaveri in rovina

LIV
Un gabbiano trovai sopra il suo mare
poche miglia distante dalla riva
un ferro l’incagliava e lui soffriva
a un pontile per farsi medicare
I marinai lo sentono tremare
dalla sua bocca il sangue fuoriusciva
nella febbre violenta che saliva
sulla pietra si lascia abbandonare
Ma tornò d’improvviso nel suo cielo
l’oceano era approdo senza fine
nell’illusione d’essere immortale
Non sa che niente al mondo può restare
soltano l’acqua è terra al suo confine
che tramontiamo liberi davvero

XCI
Il tempo che a noi due fu destinato
di viverla morendo una passione
è stato solamente una finzione
un attimo di pietra immortalato
Incontro al tuo delirio ho respirato
ricercando nel nome un’iscrizione
che fermasse un istante l’emozione
la musica fuggita dal tuo fiato
E’ stato così lieve il nostro andare
e così atroce la dimenticanza
la stagione crudele del ricordo
Nella musica suona un solo accordo
l’incanto ha demolito la speranza
nel letto che ha paura di tremare

Da La metamorfosi del buio 2006-2012

L’ospedale non chiude a mezzanotte

Se arrivo a dominare il mio pensiero
da questo letto di monitor e di tubi
mentre numeri verdi segnalano
la pressione arteriosa i battiti del cuore
Dal braccio e dalla mano
ti nutrono e dissanguano
il pentagramma delle medicine
normalizza il ritmo impazzito
fibrillazione atriale coronarie ostruite
Percorreva stanotte l’ambulanza
il Grande Raccordo che assedia la città
la sirena barattava la corsa per un arrivo
quasi era l’alba sopra l’ospedale
circondato dal vuoto
e dalla invincibile speranza
nel criminale giogo dell’attesa
Le macchine indagano
la tua sopravvivenza
stillano responsi
che non puoi contraddire
pronunciano sentenze
la rivincita dell’inorganico
e azzurra e accecante
non abbandona la stanza
persino nella notte
sorveglia il sonno che non viene
a trascinare il corpo dentro i sogni
Ti affascina il contagio col margine
da dove contemplare l’abisso
e ti vedi aggrappato
e dita e braccia e piedi e cervello
a chiodi e rampini fissati alle pareti
magari nel ghiaccio piuttosto che la pietra
È un descensus oppure una scalata?
E disperi sia un liquido
un vortice che affascina e sconvolge
Voce del mio dominio disegnami
nel famelico antro della porta
il casale in collina di querce e di roseti
e gli olmi che s’attardano di uccelli
e il giallo e il rosso il bianco
il violetto dei fiori
e da questo balcone circolare
l’occhio si contamina dei colori del bosco
e in cerchio descrive l’orizzonte
Voce del mio dominio lasciami
volver a mi perro a mi casa a mi jardin
al ragazzo di Tangeri che aspetta
quasi tu potessi più facilmente
decifrare la mia preghiera
nell’idioma spagnolo
che a volte più mi corrisponde

Notturno dell’inquietudine

Questa sera
che l’abbandono corrisponde al tempo
si consultano i segni di un cammino
bruciato tra sospetti e finzione
questa sera
disceso al ventre dell’inutile
nel giogo effimero della rinuncia
in questo sogno di nonesistenza
un’ambigua follia
affascina il giardino
intonano gli uccelli
un mistico richiamo
le creature del giorno
hanno ceduto al soffio della notte
agli artigli dell’oscurità
Perché non divulgare le tenebre
e cancellare dalla mente il sole?
………………………… e la vita?

Nella lucidità intollerabile dell’insonnia

Il grido inconsolabile di un uccello
lo riportò nel fango dell’irrealtà
era un’alba livida e sorridente
in quella sospensione che precede la luce
Comprese di essersi addormentato
in un cerchio senza rispondenze
un labirinto ottagonale
di sabbia e di parole
una metafora della coscienza
comprese e per la prima volta
che sarebbe stato uno dei tanti
segnalato da un numero
accecato dall’indifferenza
e il sogno non avrebbe avuto fine
Fu allora che in un accesso d’ansia
decise di porre fine a questo sogno
perché non ci fosse alcuno
che potesse sognarlo
perché non restasse traccia
d’ogni suo sguardo d’ogni sua paura
sicuro di essere non soltanto per gli altri
un simulacro
uno spietato ossimoro del nulla
Credo che tutto questo accadde
nella intollerabile lucidità dell’insonnia

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Giovanni Boine (1887-1917) POESIE SCELTE La punta dell’iceberg a cura di Chiara Catapano

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Mi viene in mente un’eccellente antologia poetica (Poeti italiani del Novecento, Mondadori, 1978) a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, in cui chi volesse farsi un’idea del panorama poetico italiano durante tutto il Secolo breve, troverebbe grande soddisfazione. Qui davvero è distillato il succo del nostro ‘900, qui davvero si attraversano città e paesi d’Italia e la poesia ti si mostra con cristallina chiarezza. Qui anche Giovanni Boine ha un suo posticino: pagine 415-419. E non è poco, se teniamo presente che nella maggior parte delle antologie scolastiche e non di Giovanni Boine non v’è traccia alcuna. Mengaldo nella sua nota all’autore ci ricorda che “si avrebbe torto a concentrare” sulla produzione poetica dei Frantumi “l’interesse critico, come si è pure fatto di recente: altrettanto e più rappresentative del loro autore, e delle sue spesso irrisolte tensioni, sono infatti la prosa morale, ad esempio, di Esperienza religiosa, quella convulsamente psicologica del romanzo Il peccato, o la critica intensa e così spesso acuta di Plausi e botte”. Mengaldo in questa sua introduzione rende un gran servizio e al Boine, e ai lettori: riabilita dopo decenni d’ingiusto oblio gli scritti boiniani nel panorama della più alta tradizione letteraria italiana. Carlo Bo farà passare ancora un ventennio per giungere alle stesse conclusioni. Mengaldo ci avverte che quanto stiamo per leggere è solo la punta dell’iceberg.

Chi partisse a conoscere Boine dalla produzione poetica dei Frantumi, com’è capitato anche a me, si troverebbe in grande imbarazzo, piuttosto sconcertato e certo confuso, perché vedrebbe aperta davanti a sé una strada che – contestualizzata agli anni in cui apparve – risulta chiaramente non ancora battuta. Un sentiero vergine e ricco di nuove specie, che vorremmo sapere dove porta senonché ecco! termina bruscamente e in mezzo ad intricatissima vegetazione, con la morte dell’autore. Mappe per uscirne Boine, per quanto incomplete, ce le ha lasciate: tutta quella produzione sommersa fino a pochi anni fa, fatta di lettere, saggi, articoli e diari.

Giovanni Boine nasce a Finale Marina, in Liguria, nel 1887. Vive l’ambiante della provincia e, spesso in polemica con gli amici della rivista fiorentina la Voce, rivendica la sua appartenenza a un ambiente culturale marginale ma vivo, spesso più lucido nei giudizi e nelle intenzioni, come vuole dimostrare partecipando attivamente alla rivista di Mario Novaro, la Riviera ligure. Rivista questa senza programmi, e stiamo già registrando la prima bizzarria, nell’epoca dell’impegno e degli “–ismi” serpeggianti tra gli intellettuali italiani all’alba della I Guerra Mondiale. Ma proprio questo piace a Boine: libertà di dire, disomogeneità dei testi, ampio respiro di contro al cappio dell’asservimento a qualsivoglia programma. Partecipò anche alla Voce di Prezzolini, ma sempre in polemica e pronto all’affondo dinnanzi alle virate alla dove va il vento, eccessivamente utilitaristiche della compagine fiorentina (“Chi è d’accordo mandi formale adesione per lettera, chi no buona notte”). Ma certo è alla Riviera ligure che Boine affidò i suoi testi senza mai doversi preoccupare di epurazioni e scontri ideologici. Nella rivista di Novaro, Boine prenderà in mano la rubrica Plausi e botte: pagina di recensioni “con gli umori” dei libri contemporanei in uscita. Claudio Magris ha sottolineato a tal proposito lo spessore di questa sua produzione, indicando in essa più un libro di letteratura che sulla letteratura. Le recensioni sono 87, e Boine dà giù più di botte che di plausi, senza peli sulla lingua e senza risparmiare stoccate anche agli amici (e soprattutto a loro, poiché a loro teneva e non sopportava i rammollimenti letterari di chi si sentiva già in cattedra) come Soffici e Papini, quando percepiva in loro una piega al ribasso, un intorpidimento che non ammetteva negli uomini d’ingegno. Apertamente divertenti le critiche a libri che non meritavano molta attenzione; oppure volutamente polemiche per “buttarla un po’ in caciara” altre. Ma non vanno dimenticati gli articoli, ampi, di lucida presenza e coscienza letteraria, dedicati a poeti allora sconosciuti che Boine veicolò (per primo scoprì, mi vien da dire) come Clemente Rebora, Camillo Sbarbaro, Dino Campana, Vincenzo Cardarelli.

giovanni-boineC’è pure nella sua produzione il romanzo. Anzi, si può affermare che Giovanni Boine fu l’antesignano del romanzo novecentesco, anticipando Italo Svevo e il suo Zeno. Giancarlo Vigorelli ci ricorda che James Joyce, mentre a Trieste scriveva l’Ulisse, teneva sul comodino Il peccato. Non è un particolare irrilevante, e va collegato all’aspra polemica con Benedetto Croce, alle cui teorie Boine opponeva la propria “estetica della simultaneità”. Scrive Boine a proposito del suo romanzo Il peccato: “L’intenzione generale era di rappresentare quel lirico intrecciarsi di molto pensiero sulla scarsezza di pochi fatti: quel continuo sconfinare della poca cronistoria esteriore nella contraddittoria, nella dolorosa, angosciata complessità del pensare che è la vita di molti e la mia”. La vita, questa la chiave in fondo di ogni sua pagina: la vita e la regola, la vita e il canone, la vita e la tradizione. La vita e la storia. E l’intreccio tra l’una e le altre, il groviglio doloroso la cui soluzione per alcuni è la fede, per altri la legge. Ma Boine, che non riesce ad esaurirsi in nessuna delle due dimensioni, sentirà per tutta le sua breve esistenza la tensione tra i due poli, separati ma non distinti. E non sappiamo quale soluzione avrebbe potuto tentare, se una ne avesse infine tentata; siamo al punto di partenza, nello sconcerto e persi in un sentiero d’intricatissima vegetazione.

Giovanissimo, intesse un breve ma intenso scambio epistolare con Unamuno  (dicembre 1906 – marzo 1908) del quale tradusse il saggio “Inteligencia y bondad” e recensì “Vida de Don Quijote y Sancho”, “Soledad” e “Plenidud de Plenitudes”. Era quello il periodo modernista di Boine, della rivista “Rinnovamento”, della lettura di Tyrell e von Hügel, dell’enciclica “Pascendi dominici gregis” (8 settembre 1907) e delle scomuniche, della ricerca attiva e partecipata al rinnovamento spirituale inteso nella sua dimensione comunitaria, prima del ripiegamento verso una dimensione intima e soggettiva della fede, come la descriverà nel suo saggio “Esperienza religiosa”.

Giovanni Boine non si lascia afferrare da poche righe, benché, se vogliamo, il suo pensiero di fondo, meglio il suo rovello, è sempre presente e dichiarato. È scrittore che non si esaurisce, l’opaca patina del tempo non ne offusca la lingua e lo stile. C’è da dire che quanto scrisse fu sempre vissuto, e se esercizio letterario vi fu (sappiamo per certo che le sue liriche non furono, come a volte afferma, scritte di getto, ma subirono il cesello di accurate revisioni perché rientrassero in una forma musicale perfetta) fu esercizio di muscoli interiori: esercizio, si può dire, di fede. Boine richiede a tutti uno sforzo superiore, pretende nel lettore la scintilla dell’intelligenza, che significa approfondimento ma pure capacità di illuminare le cose attraverso l’ironia. Richiede tempo, non lo si consuma in pochi attimi. Non è lettura-fast food.

Per questo, a mio avviso, ancora più importante riscoprirlo ora, in un’epoca di estremo spaesamento, crisi dei costumi, imbarbarimento con un portone aperto verso possibili futuri che richiedono capacità di ragionamento, approfondimento, inventiva e profondissima umanità.

Giovanni Boine si ammalò di tisi negli anni del liceo, a Milano, e non vide il chiudersi della guerra; la malattia lo costrinse all’inoperosità, all’indigenza e ad una morte precoce. Morì il 16 maggio 1917 a Porto Maurizio.

A breve uscirà per la Fondazione del Museo della Storia di Trento, a cura del prof. Andrea Aveto, della sottoscritta e dello scrittore Claudio Di Scalzo, la riedizione dei suoi “Discorsi militari”, dalla prima edizione come approvata e voluta dallo scrittore.

A chi desiderasse conoscere l’autore e le sue opere mi sento di consigliare un inizio dal ricchissimo epistolario (G. Boine, Carteggio, 5 volumi, a cura di Margherita Marchione e S. Eugene Scalia, Roma, Edizioni di Storia della Letteratura) arricchito di recente dal prof. Andrea Aveto (Giovanni Boine – Adelaide Coari, Carteggio 1915 – 1917, Città del Silenzio, 2014), attraverso il quale è possibile ricostruire l’uomo e il suo tempo, quasi respirarlo e viverlo. Ed anzi di cuore io mi auguro che presto il piccolo cimitero di Porto Maurizio possa conoscere nuovi amici che, senza enfasi retoriche, desiderino posare un fiore sulla sua lapide.

Quanto segue è solo un breve assaggio della ricca produzione di prosa poetica boininana, raccolta sotto il titolo di Frantumi, qui assieme a due estratti (uno commosso, l’altro polemico-umoristico) da Plausi e botte. Ancora per certi tratti controversa è, in alcuni punti, la scelta editoriale della produzione poetica: Boine morì lasciando incomplete le sue carte e il suo primo curatore, l’amico Mario Novaro, scelse spesso con molta libertà tra i quaderni e diari dello scrittore cosa dare alla stampa. Sappiamo che lo stesso titolo Frantumi è una scelta postuma, e che Boine mai progettò un libro in tal senso.

Ciò nulla toglie all’estrema novità e forza di questa voce che continua a levarsi netta e distinta, benché spesso ignorata, di un autore che usa la carta come pentagramma e affila le parole sulla propria esperienza interiore, perché, per dirla alla Boine, di cos’altro si può parlare se non di se stessi.

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BISBIGLIO E VESPERO

– E che vuoi dire? È tutto detto ormai. – Andiamo accanto per la sera queti, zitti, come in una culla di bontà.

– Però questo non dire mai, fa groppo, amico! C’è non so che intoppo, dentro, che non lascia dire.

– Perché, se dici, è un po’ un ubriacamento. Uno si spende con facilità; ma poi nel vuoto ripunge il tormento.

– Oh se lo so! Si soffre allora di profanazione… Le cose fonde non si posson dire. Non c’è che dire le inutilità.

– E già: non si può dire la disperazione! Si dice, si ride infine si fa ciò che agli altri più cale: gai si gira attorno all’essenziale buio.

– Oh amico! e questo è il male atroce della solitudine in mezzo agli uomini. – Che insopportabile soffrire essere sempre come agli altri cale, ma non poter scordare, non poter mai dire!

– E dunque ormai che vuoi tu dire? È detto tutto. – Andiamo queti per la sera accanto, in questa zitta culla di bontà.

***

I CESPUGLI È BIZZARRO

– I cespugli è bizzarro come crescono di nero a l’ora bigia degli ottobri! Il mare tetro fiotta nel crepuscolo come una fantasima… Allora nel cavo degli scogli gorgoglia a riva un pauroso ventriloquio di silenzio.

– Va con piedi di feltro e voci di secreto la frotta dei tornanti: tutta d’ombra. Escono dai cavi, quatte l’ombre: i sogni delle cose, piano, fumano e pigliano statura. Allora finalmente stano l’anima di dentro, e “guardare” è tollerabile.

– Apro gli occhi di macerazione a questo mattino-di-sera, a questo mattino notturno, che finalmente il mondo disgela e tutto si popola d’anima: è muto e cieco, ma d’indecifrabili mitologie.

– Strisciano dal gorgo del lucido buiore ecco i pesantidraghi, goccianti come coccodrilli, dove il ponte è capovolto.

– Torme pronte di mistero subito al limite dei boschi fanno ressa, fan marezzo come i mostri dietro i vetri dei marini acquari.

– Dico fiat: l’aria viscida si manipola di febbre, ma con che? è con fughe, con spaurite d’ali. Verso dove? È con echi di spettrali lontananze.

– Si sformano le forme dell’opacità, i lieviti s’esaltano degl’impossibili; e per esempio! quel dorso idillico della consuetudine oh oh come getta i getti enormi dell’apocalittica verzura! salgono a prova per zampilli sovrapposti, salgono, s’incurvano con zitti scrosci. Eruttamenti sono di vulcanico fogliame nero, eufrati di radure come lave verdi che dilagano.

– Ed ora, dentro dentro, ora dentro, il denso è impenetrabile! Nessuno mai saprà (nessuno!) che mostro vi si celi né in che antro. Il fiato di caverna, respiro muto, esala; farà d’intorno un abbandono secolare. Il volo cauto degli uccelli passerà lontano ratto, come dall’albero tropicale dei veleni: – lo starnazzo triangolare degli spettrali gru, le frecce nere-stridule delle fughe dei rondoni, come il sonnifero ronzio delle mille api quando a cerca fanno l’estate elementare. Che deserto, e che deserto! Non si vedrà un vivente, né un insetto per trecento miglia di disperazione! la terra intorno vi sarà gelida e sassosa. Ma ritta la babele verzicante con le danze delle liane medusine, le cascate delle cupe edere e i pitoni attorcigliati degli immani tronchi per le altezze, lo sperduto leone con fulva posa di pavido stupore, con occhi di sgomento, un attimo voltandosi fino ai cieli la vedrà, fino ai cieli dell’immobile diamante, mareggiare buia, senza scroscio senza vento, senza fruscio nell’estatica aspettanza, sotterraneo celando il freddo di un incomprensibile segreto.

– Tutto il mondo si disgela in addobbo primigenio: piano, lente si disgroppan le potenze dell’oscurità. Allora l’anima svolazza pel suo caos con volo ambiguo di stregoneria, come il ribrezzo flaccido dei vipistrelli. Libidinosamente, allora l’anima diguazza i nenufari dei pantani favolosi, ittiosauro senza morte di prima d’ogni tempo. – Fuori d’ogni tempo “guardare” è tollerabile un più fedele specchio di questa oltreumana cecità.

– Però, però, lenti, non basta per le sere andare? Subito le chiuse della valle son sprofondi gonfi di tenebrore. Come si sfa nei biechi fiumi l’insostenibile solennità!

– A l’ora fonda delle confessioni questi passanti radi sono larve. Dove dove sono le baldanze delle luci? La valle di delizie, come furtiva geme nell’opacità! Come come sottovoce geme a l’ora fonda della verità!

– Quanto alla via e dov’è la via? è un biancore appena, oramai non porta a nulla. Di qua o di là? Ormai la meta è il nulla.

– Sono i paesi di fosforescenza, non hanno solidità. Ma dentro all’acqua quel fanale verde che si spande, giù dilaga fino a me, fa una scia di sogno per le fluidità.- E questa mi sia la via nell’ora fonda della verità.

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A TAGLIARE GLI ORMEGGI

A tagliare gli ormeggi il vento via ti soffia. Però non si sa dove.
E sia per dove sia! il vento mi strappi via, della disperazione.
Però a scrutarmi nell’oscurità, che gemere, che smarrimento!
Però a cercarmi nella mia pietà stringo le mani in contorcimento non so che Iddio scongiuri per esaudimento nella improvvisa ingenuità.
Non v’è luce nell’opacità! Limai le sbarre di questa prigione: verso la liberazione l’anima ruppe con voracità. Ma porto fu il nulla.
Ormai non ho più nulla da via buttare son nudo fino all’anima non sono che un’anima tutto son fatto di tristezze amare e di sgomento. Senza meta e per disperazione reggo contro me in ribellione ma il nulla fa spavento.
Signore questo rotto corpo, non mi porta ormai non mi conforta pei chiari occhi la sanità del mondo. Qui giaccio qui lento mi disfaccio gemebondo. Oltre al corpo cercai Signore, ansioso le tue porte; sprofondo ora spento nel disfacimento della morte.
Non c’era vero nella verità!
Squamai le fedi ad una ad una con tenacità in cerca della mia, scavai la via pesta della consuetudine. Giunsi all’amaritudine bieca di questa solitudine. E sosta mi fu il nulla oh amici! A tagliare gli ormeggi il vento via ci soffia. Però non si sa dove.

Con nocche di sangue in cima alla scalea scuoto in angoscia la porta di bronzo: sono un perduto nell’eternità.
M’abbranco naufrago alla disperazione; tutto son teso nell’invocazione; – di qui qui qui all’eternità! –

***

PROSETTE QUASI SERENE

Pignolo al mio lucarino

– Il lucarino che ora gli parlo nella sua gabbiuzza appesa, e spia coll’occhio di spillo così malizioso se ho fra dita il pignolo, quando dentro lo chiusi che fu un ottobre al tempo del passo e lo comprai da quell’uomo che lo fa di mestiere: li porta giù la mattina a dozzine in uno scatolone di tela;

– tu dicevi che ci sta bene colla sua scagliola da un canto, e dall’altro, proprio adatto a per lui, il coppettino bianco dell’acqua. Ma gonfiò a pallottola le piume arruffate sullo stecchino ritto della sua zampina, e stette per molto così… come assonnato sulla cannuzza a mezz’aria. Pareva ci facesse il broncio o si dovesse morire. Così tu non ci badavi più e te lo eri scordato.

– … Ma la mattina che poi si destò: su giù, su giù, il becco tra ferro e ferro a tutti i ferri lo ficcava un attimo! Innanzi indietro, a passi a voli, in ansia di febbre… parevano sbarre di galera.

– L’occhio fisso era grande come l’occhio umano; tutto cupo il corpo: su giù (cinque passi ha una cella, non di più!) non diceva nulla, cercava un varco.

– Era così chiuso, così nero il suo sonno la sera, monco-ravvolto! Pigliava forza, duro, per il suo cammino. Il domani non diceva nulla: su giù su giù, su giù… Quando immobile come in corruccio si rincantucciava, quel vagabondo così disperato, d’improvviso bocconi lungo la via, mi tornava la sua macchia sparsa, un braccio innanzi teso, e lo sgomento…

– Tu ogni giorno, perché non cantava mai, dicevi: “apriamogli!” Però io, non potevo più: – zitto gli davo lattughe, senza spiegarti. – Piano piano, allora cercò la verdura tenera che geme, e poi la lucertola del suo capino la tuffava ciuff! nell’acqua lustra: tutt’intorno se ne fa rugiada. Cominciò, anche, fra sé quei gorgheggi sotto voce e lunghi che parevano discorsi a qualcuno … e s’acquietò.

– Tutto il giorno lo passa ora sulla scagliola d’oro, e, la pula, stringe l’occhietto e la scartoccia svelto. La cannuzza liscia a mezzaria è come una frasca alta di olmo; lo spazio quadro, un cielo. Sta lì… salta là, frulla qui; che deve fare? i suoi ciccì ci gargarizza, tristi o lieti e guarda il vuoto.

– Quando improvviso batte l’ali in vertigine e si giù, su giù ricomincia, e su giù su giù ci s’affanna come se ricordasse, tu allora dici: “ma che ha? par pazzo!” Io gli sto attento, con non so che ansia… – Ma il suo piacere anche lì ce l’ha: cerca il pignolo che a volte gli mostro; mi chiama mi fa festa, corre incontro ansioso. E quando gli incastri tra i ferruzzi dritti la ciliegia gonfia, allora ci si affonda pronto con occhi di ghiotte risa.

***

VEGGO AL DI LA’

– Quando la febbre degli orizzonti m’ossessiona giù alle pronte partenze dei porti, dove sbandierano addii le laceranti sirene e grugniscono al levarsi, le ancore, di felicità.

– Gonfia rigonfia il desiderio come la incandescente calura nei delirii d’estate.

– Allora improvviso lo sgomento delle squallide consuetudini, dietro a me con ansimo scava il pantanoso vallo della repugnanza;

– in scatenato fremito, balzo nell’ondulante scafo, sciolgo la gòmena, armo i due remi e ritto vogo l’impeto della vastità.

– Oh va! Oh va! rompe la prora il blu, scavalco sull’immensità, ciò che già fu, si fu, il mare non è più, s’avanza una città.

– Sciacquo alle falde degli altissimi cumoli; a picco si spaccano i bianchissimi monti e veggo per lustro smeraldo, allora, al di là.

– Veggo al di là, veggo al di là la strana città, ch’è tutta d’oriente e di selve, tutta di ricco abbandono, calda e beata di nudità.

– Oh va, oh va! molle-distesa serenità, occhi languenti di voluttà, fiumi fluenti di felicità, brezze tepenti di tranquillità…

– Rompe la prora pel blu, ciò che già fu si fu e niente non è più. Oh va oh va oh va!

***

FRAMMENTI

1
Talvolta quando al tramonto passeggio stanco pel Corso (ch’è vuoto), uno che incontro dice, forte, il mio nome e fa: “Buonasera!”
Allora d’un tratto, lì sul Corso ch’è vuoto, m’imbatto stupito alle cose d’ieri e sono pur io una cosa col nome.

2
Quando ti stringo la mano e tu ripigli sicuro il discorso d’ieri, non so qual riverbero giallo di ambigua impostura colori di dentro l’atto di me che t’ascolto. Fingo d’esser con te e non ho cuore a dirti d’un tratto: “Non so chi tu sia!” Amico, in verità, non so chi tu sia…

3
Mi fermi per via chiamandomi per nome, col mio nome d’ieri.
Ora cos’è questo spettro che torna (l’ieri nell’oggi) e questa immobile tomba del nome?

4
Tepido letto del nome, sicura casa d’ieri! Soffice lana dei sofferti dolori, sosta ombrosa delle lontane gioie: nave sul mare, zattera di naufraghi.
Ma l’oggi è, via, com’una cateratta aperta. Nubi cangianti nell’abissale cavo del cielo.

5
Tu resti saldo-piantato nell’ieri, specula alta dell’oggi, ed attento vi spii tutte le cose, ciascuna secondo il suo nome.
Che nessuna ti sfugga ecco il tuo ufficio, e che tutte si seguano secondo l’ordine giusto. Che tutte s’incastrino e facciano insieme un regolato disegno. Che nessuna ti sfugga, né vi sia salto.

(…)

9
Il mio nome è Giovanni e se mi chiami, pronto rispondo. Adesso e nell’ora della mia morte. Appena il mattino su, faticoso, mi issa dalla nube varia del sogno, mia madre dice piano: “Giovanni!” alla porta socchiusa; e, quasi, io sono di nuovo.

10
Non mi torrete il mio nome; lo imbraccio come uno scudo. – Tra lo sbigottimento dell’oggi e l’ieri vissuto ho messo a ponte il mio nome.

(…)

25
Il mio nome è Oggi e la mia via si chiama Smarrita. Non ci sono insegne ai bivi dell’andare mio, e non so s’io abbia imboccato a man dritta.

(…)

30
S’io godo della mia gioia e dico “così ogni mia ora!” ecco d’un tratto mi si leva dentro l’amarezza del pianto come una nebbia da una nera palude.

31
E vuoi ch’io prometta se non so del domani? Non intendo che cosa sia “promessa”.

32
Tra dieci anni ci rivedremo? Ma chi tu vedrai fra un’ora? Ahi, che bastò il giro d’un giorno!

da PLAUSI E BOTTE

  1. [Clemente Rebora, Frammenti lirici, ed. Libreria della Voce, 1913]

(…)

E poiché ho accennato di canzoni dantesche, dirò ch’io respiro in questa nuova poesia non so che di vigorosamente antico nel sentire e nel ritmo, nello strappo, nel piglio meravigliosamente robusto della frase, nell’interiore leoninità della mossa; (in questo suo vittorioso tormento fra la tremenda vastità del cosmo ed il dolore dell’effimera umanità,) dirò ch’io vi respiro qualcosa di nostro, di tradizionalmente, di virilmente e complessamente italiano, com’è italiana la lirica di Dante, di Michelangelo, di Campanella e di Bruno, (com’è italiano Leopardi.) E ch’io, anche qui, non oserò mai come i dominiddio della critica si permetton di fare, o chiudere o aprire l’avvenire a nessuno, perché l’intimo degli uomini si strafotte delle previsioni dei critici e vivaddio di ogni previsione. (Perché io dico con certezza: qui ciclopicamente vive, qui si dibatte, come un maglio, come un rosso ferro che strida e che suoni – che si lamenti tinnulo – in una fucina, un cuore, e non so affatto, non voglio sapere qual forma qual iridata incandescenza nuova sarà per pigliare all’ansito nuovo del nascosto mantice, quale ispirazione ispirerà il suo futuro canto); ma segno qui, mi vien voglia di segnar qui per parecchia di codesta poesia un anno durante inosservata, (per ciò che è e dentro quasi per echi vi posso auscultare, traudire, intuire,) mi vien voglia di segnar commosso qui la parola GRANDE.

  1. (…)

“Egregio Signore,

Le invio con questa un plico di stampe (raccomandato); il mio nome è già comparso sulla “Riviera” una volta quale dedica a una delle liriche di Giannotto Bastianelli ecc. vedi R. L. 1 Novembre 1915. Con la speranza d’averla accontentata aspetto una risposta relativa all’eventuale pubblicazione della lirica speditale. Con ossequio Piazza Pitti 10 ecc. P. S. Del mio libro àn già benevolmente parlato in giornali e riviste, Paolo Buzzi, Titta Rosa, Emilio Settimelli, Remo Chiti, F. Meriano, Enrico Pessina, L’Iniziativa, ecc.”

Ah Signor Franchi (Raffaello Piazza Pitti 10) davvero lei ci ha messi in un bell’impiccio! E come diamine si fa ora, con tutti codesti nomi? Perché a noi viceversa queste sue faccende qua e là seminate per sti fogli così autorevoli d’ogni parte d’Italia, ci ricordan niente più di quelle caccarelle tonde e secche, di capra e pecora, su pei sentieri qui dietro in campagna, che stan lì tra’ sassi una qui due là quasi nere come una sementa spersa. I bimbi cittadini talvolta quando salgono si riempiono le tasche od anche le provano un po’ in bocca, come se fossero gustose bacche; e, giusto, lì accanto ci trovi spesso quei buffi maggiolini stercorari che contro puntateci le uncinose gambettine dal di dietro, su su faticano, spingono a ritroso, gamberi di terra ferma, così curiosamente! Ma bacche puah! non sono e subito si sputano; e sementa manco. Germogliare non germogliano, o se germoglian che mai si posson germogliare? sempre e sempre, nient’altro mai che aride caccarelluzze di capra.

Concludendo: onorati siamo che si riterrebbe, di alla Riviera collaborare onorato, e ci piace che la segua e proprio, infine le piaccia. Certo Pickwick, Forca, Fuoco, Iniziativa ecc. fan tutti insieme davvero una lodevole e nobile Eco della più propriamente italiana coltura e consideriamo dunque lei che dentro così rispettosamente v’è accolta quasi diremmo uno specimen ovverosia campione di essa medesima. Ci duole il cuore sa, Signor Franchi Raffaello! (…)

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Chiara Catapano nasce a Trieste nel 1975. Studia filologia bizantina con il prof. Paolo Odorico e si trasferisce per alcuni anni ad Atene e Creta, dove approfondisce i suoi studi su cultura e lingua neogreca. Collabora con il Museo storico del Trentino per il quale sta curando la riedizione dei Discorsi militari di Giovanni Boine. Suoi articoli e testi creativi sono apparsi su riviste cartacee e online italiane ed estere. Dirige assieme a Claudio Di Scalzo la rivista transmoderna Olandese Volante (www.olandesevolante.com). Traduce dal greco moderno (Ioulìta Iliopoulou, Agathì Dimitrouka). A luglio 2014 ha presentato al festival Stazione di Topolò la raccolta di poesie La graziosa vita, edita da Thauma edizioni sotto l’eteronimo di Rina Retis.

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“Genova” di Dino Campana: l’effimero «traguardo» dei “Canti Orfici” (1914). Lettura critica di Marco Onofrio

genova al tramonto

Genova al tramonto

“Genova” è la composizione che chiude i Canti Orfici e – per intensità e potenza evocativa – costituisce il “messaggio” definitivo dell’intero libro, il presumibile traguardo dell’intenso e faticoso viaggio (la «tragedia dell’ultimo germano in Italia») posto in essere da Dino Campana attraverso il mistero del mondo. Il poeta, giunto a questo stadio del percorso, è ormai pienamente immerso nel Mito. Un indizio esemplare: la nube si ferma nel cielo, cioè il tempo si blocca, tutto si immobilizza nella pienezza di una condizione eterna ed essenziale, non soggetta alla caducità. Attenzione, non è un altro mondo: è bensì lo stesso che noi conosciamo, libero dalla prigione del limite che sempre ce lo sottrae ad una piena comprensione e «arcanamente illustrato», capace cioè di sciogliere il suo nodo, rendendo manifesto già nelle apparenze l’arcano senso delle cose. Il poeta ascolta «voce di poeti», esce dal labirinto dei vichi genovesi e colloca il suo sguardo ormai acutissimo di voyant nella vastità indefinita del panorama marino: visione forte di luce, solare di freschezza, misteriosa di sogno e d’incanto.

E udìi canto udìi voce di poeti
Ne le fonti e le sfingi sui frontoni
Benigne un primo oblio parvero ai proni
Umani ancor largire: dai segreti
Dedali uscìi: sorgeva un torreggiare
Bianco nell’aria: innumeri dal mare
Parvero i bianchi sogni dei mattini
Lontano dileguando incatenare
Come un ignoto turbine di suono.
Tra le vele di spuma udivo il suono.
Pieno era il sole di maggio.

La descrizione è potente, numinosa, irrevocabile: si sente che l’Evento è ormai maturo, prossimo a compiersi. A differenza dei «proni umani», che si contentano di un «primo oblio», il poeta “sa”: è un’«anima partita» prima di tornare, che raggiungerà l’Oblio perfetto dell’eterno per sforzo di ricerca e virtù di conoscenza, trionfante di una luce (il cordone di luce reciso con l’atto violento del nascere ad un corpo) conquistata attraversando le tenebre, a prezzo del “male di vivere”. Egli dunque è ad un passo dal riabbracciare la condizione prenatale, quel «più lungo giorno» da cui poter cogliere in vita la rivelazione suprema dell’universo. L’attesa orfica della prima strofe (dalle forme verbali al passato) viene momentaneamente disattesa dalla seconda e dalla terza strofe, che la stemperano in digressione descrittiva giocata ancora sul tema della Forza: la «febbre de la vita» che senza posa accende la brulicante e sonora animazione della città marinara (ma si noti il dettaglio “mitico” delle «venditrici uguali a statue porgenti / frutti di mare con rauche grida cadenti / su la bilancia immota»). I tempi verbali al presente di questa digressione (tranne il «così ti ricordo ancora e ti rivedo», che invece coincide con l’atto dello scrivere) hanno chiaramente un valore durativo. Il contenuto del ricordo riempie anche la quarta strofe, ed è un fatto piuttosto strano (ma per questo ancor più notevole), giacché proprio qui avviene la tanto attesa rivelazione. La rivelazione declinata al passato come ricordo implica un porsi al di là di essa: il poeta ce ne parla ad Evento compiuto (ma il suo stesso poterne parlare, utilizzando parole umane, significa che la conquista dell’Eterno è stata effimera, un attimo fuggente che nulla ha portato di definitivo: l’ennesimo scacco). Come già in Pampa, basta la visione del cielo stellato per innescare il flusso della voyance. Il poeta camminava da solo tra i palazzi di Genova nell’ombra della sera quando vide i «mille e mille occhi benevoli / delle Chimere nei cieli» (una sorta di assenso alla rivelazione)… ed ecco che le stelle-Chimere (simboli metafisici dell’eterno) attrassero la «visione di Grazia», finta dal vento salmastro del mare, che spontaneamente si liberò e ascese in un movimento che Campana cerca disperatamente di assecondare e riprodurre, obbligando la poesia ad acrobazie sintattiche che finiscono quasi per vanificarne il senso.

Quando,
Melodiosamente
D’alto sale, il vento come bianca finse una visione di Grazia
Come dalla vicenda infaticabile
De le nuvole e de le stelle dentro del cielo serale
Dentro il vico ché rosse in alto sale,…
Marino l’ali rosse dei fanali
Rabescavano l’ombra illanguidita,…
Che nel vico marino, in alto sale
Che bianca e lieve e querula salì!

L’ambiguità di questi versi è celebre, basti pensare ad esempio al sintagma «d’alto sale» del v. 54: “sale” è sostantivo oppure terza persona singolare del verbo “salire”? La prima interpretazione verrebbe forse comprovata dal possibile enjambement «sale / marino» (sempre che “marino” non si leghi a “vico”, riprendendo il sintagma «vico marino» del v. 57) e proverebbe l’ennesima eco dantesca (Paradiso II, 13) nei Canti Orfici; con la seconda interpretazione avremmo per un istante la mimesis dell’Evento in fieri (ma “sale” andrebbe subito a contendere con l’esito ineluttabile del “salì”– che alla fine prevale: lo scacco non sarebbe comunque scongiurato). Ma perché, ad ogni modo, «d’alto sale» e non «in alto sale» come troviamo ai vv. 57, 58 e 61? L’unico possibile trionfo dell’attesa orfica che illuminava la prima strofe, l’unica conquista definitiva (ma sempre a condizione di astrarre dal seguito di “Genova”), si cela dietro quel “sale”, la cui ambiguità sintattica lascia il varco aperto ad una solo probabilistica interpretazione verbale. Campana cerca in tutti i modi di fermare sulla carta la melodia dell’universo, di rendere con i mezzi stessi della poesia il movimento della sua incarnazione visionaria. Riprende di continuo il discorso, dilatandolo e variandolo con effetti di eco circolare, perché è consapevole di ciò che volta a volta sta perdendo nell’affidare a parole umane la suprema alterità dell’inesprimibile.

«Come nell’ali rosse dei fanali
Bianca e rossa nell’ombra del fanale
Che bianca e lieve e tremula salì:…» –
Ora di già nel rosso del fanale
Era già l’ombra faticosamente
Bianca…
Bianca quando nel rosso del fanale
Bianca lontana faticosamente
L’eco attonita rise un irreale
Riso: e che l’eco faticosamente
E bianca e lieve e attonita salì…

La scansione temporale della scrittura oscilla inquietamente fra le prospettive dell’«ora di già» e dell’«era già», per cui davvero, come scrive Giovanni Boine, «la cosa da dire è la cosa ormai detta». Emerge il disagio di una “traduzione” inevitabilmente seconda rispetto a ciò che solo la musica, forse, sarebbe in grado di esprimere (oppure una poesia di una parola sola che significasse insieme tutte le parole – e le poesie possibili – del mondo). Il poeta sente che non basta un unico approccio a “consumare” la visione, e allora la attacca da più punti, in tentativi ripetuti (ma sempre insufficienti). Tuttavia, oltrepassando lo stereotipo dell’artista in lotta titanica con la forza annichilente della propria “possessione”, si può forse ipotizzare che la destrutturazione sintattica della quarta strofe sia dovuta al tentativo consapevole di riprodurre in musica la qualità dinamica della visione (che a sua volta traduce all’occhio il «melodiosamente» con cui viene annunciata)? La musica, dunque, si transcodifica in pittura (la visione), e la pittura viene messa in moto e “cinematografata” in sequenze ripetute degli stessi fotogrammi (si veda ad esempio il “ralenti” dei vv. 63-65, che Campana cifra tra virgolette), per rendere con i mezzi della poesia, seppur «faticosamente», l’«eco attonita» che chiude la sarabanda dei suoni, e che incontriamo “detta” solo nei vv. 71 e 72.

canti orfici

Taciuta anche l’ultima eco della «visione di Grazia», lo sguardo del poeta torna come abbagliato, incapace di distinguere dettagli, al fervore lucente della sera genovese. La quinta strofe recupera in presa diretta lo scenario del porto: il battello approda e poi si scarica cigolando, mentre già i passeggeri sciamano per le vie della «città tonante». Il poeta riposa vigile nell’abbraccio finalmente benigno di tutte le cose, nel tepore della nuova condizione che lo riavvicina con doloroso amore allo spettacolo del mondo (e al destino dei suoi simili): il crepuscolo “brilla”, gli alberi dei battelli sono «quieti di frutti di luce», il paesaggio è “mitico”, la sera è «calida di felicità», c’è un «grande velario / di diamanti disteso sul crepuscolo», sul molo «corrono i fanciulli e gridano / con gridi di felicità» … E ancora: la luce del tramonto «s’è fusa in pietra di cenere » (cioè si è come materializzata, catturata per sempre dall’ardesia dei palazzi), dai vichi si ode «fragore di vita» e il cielo è un «velario d’oro di felicità», come un guardaroba dove «il sole ricchissimo / lasciò le sue spoglie preziose», i suoi «resti magnificenti», prima di tuffarsi nel mare… È una dolcezza antica che torna a baciare ogni fenomeno dell’Essere, il languido struggimento che prova l’esule quando pensa al focolare domestico: il poeta guarda il mondo con occhi intrisi di questa stessa luce, estende all’universo il suo cuore di gioia e arriva a farne il proprio dominio, il proprio focolare. L’iniziazione orfica ha dunque prodotto un risultato tangibile, il viaggio dell’«anima partita» ha raggiunto infine l’evidenza di un traguardo: la pace serena e consapevole della nuova armonia grazie a cui il poeta può finalmente “abitare” il mondo. Ma si tratta di un dominio ben altro che durevole, una gioia cosmica “intensa”, sì, ma “fugace”, sottratta in breve al dominio del Mito e tuffata nel gorgo annichilente del divenire, quel divenire che riprende il sopravvento e cancella (come l’onda del mare i castelli di sabbia) la tanto faticosamente conquisa prospettiva di accordo fra Io e mondo. Ed ecco allora che il sole «intesse un sudario d’oblio», che pure ancora vien detto «divino per gli uomini stanchi» (ma è impossibile ignorare il richiamo a distanza fra «velario» e «sudario», e il salto qualitativo che si produce fra la gloriosa fecondità del primo e la spettrale sacralità di morte e sacrificio del secondo); ed ecco anche i viaggiatori che poco prima si avventuravano fiduciosi per le piazze e le vie di Genova, tra schiamazzi di fanciulli (simbolo positivo di gioia, di innocenza ritrovata), ecco che i viaggiatori si trasformano in “ombre” e camminano «terribili e grotteschi come i ciechi» … Il Mito, insomma, si è spento con gli ultimi bagliori del crepuscolo e il poeta è ripiombato nel carcere del tempo. Ce lo conferma la sesta strofe, che è un “notturno” oppresso dalla «tristezza / inconscia de le cose che saranno» (il presente che “culla” il futuro, la notte che prepara i destini del giorno che verrà) e dal «vomito silente» della ciminiera (è ormai esaurita la potenza trasfiguratrice che permetteva di redimere e di accordare al mondo i segni alienanti della modernità), anche se parzialmente addolcito dalla percezione della Forza che si addormenta nel silenzio inoperoso del porto (che «oscilla dentro un ritmo / affaticato» e riposa a sua volta nel «dolce scricchiolio / dei cordami»). L’ultima strofe recupera l’atmosfera degli ultimi paragrafi de La Notte nel ricordo della prostituta “mitica”, che qui è detta «Siciliana proterva opulente matrona» e «Piovra de le notti mediterranee» (si noti l’eco delle «canzoni di cuori in catene» e della «melodia invisibile» nei canti «lenti ed ambigui ne le vene de la città mediterranea», oppure de «la sua finestra scintillava in attesa finché dolcemente gli scuri si chiudessero» in «tu / la finestra avevi spenta»). Con la finestra si spegne anche l’ultimo fotogramma dell’“apparente”: resta solo la sterminata “devastazione” cosmica (l’eterno del cielo stellato) nella quale annega l’obiettivo cinematografico del poeta e si perde, dissolvendosi ad infinitum, la sua visione. Complessivamente, resta impossibile una liberazione orfica: non solo, ma la forza della Storia impone sempre un destino di sangue al “boy” che si cimenta comunque nel tentativo (ed ecco il colophon finale da W. Whitman):

They were all torn
And cover’d with
The boy’s
Blood.

Marco Onofrio

campana_costetti

Giovanni Costetti, ritratto di Dino Campana

 

GENOVA

Poi che la nube si fermò nei cieli
Lontano sulla tacita infinita
Marina chiusa nei lontani veli,
E ritornava l’anima partita
Che tutto a lei d’intorno era già arcana-
mente illustrato del giardino il verde
Sogno nell’apparenza sovrumana
De le corrusche sue statue superbe:
E udìi canto udìi voce di poeti
Ne le fonti e le sfingi sui frontoni
Benigne un primo oblìo parvero ai proni
Umani ancor largire: dai segreti
Dedali uscìi: sorgeva un torreggiare
Bianco nell’aria: innumeri dal mare
Parvero i bianchi sogni dei mattini
Lontano dileguando incatenare
Come un ignoto turbine di suono.
Tra le vele di spuma udivo il suono.
Pieno era il sole di Maggio.

*

Sotto la torre orientale, ne le terrazze verdi ne la lavagna
cinerea
Dilaga la piazza al mare che addensa le navi inesausto
Ride l’arcato palazzo rosso dal portico grande:
Come le cateratte del Niagara
Canta, ride, svaria ferrea la sinfonia feconda urgente al
mare:
Genova canta il tuo canto!

*
Entro una grotta di porcellana
Sorbendo caffè
Guardavo dall’invetriata la folla salire veloce
Tra le venditrici uguali a statue, porgenti
Frutti di mare con rauche grida cadenti
Su la bilancia immota:
Così ti ricordo ancora e ti rivedo imperiale
Su per l’erta tumultuante
Verso la porta disserrata
Contro l’azzurro serale,
Fantastica di trofei
Mitici tra torri nude al sereno,
A te aggrappata d’intorno
La febbre de la vita
Pristina: e per i vichi lubrici di fanali il canto
Instornellato de le prostitute
E dal fondo il vento del mar senza posa.

*

Per i vichi marini nell’ambigua
Sera cacciava il vento tra i fanali
Preludii dal groviglio delle navi:
I palazzi marini avevan bianchi
Arabeschi nell’ombra illanguidita
Ed andavamo io e la sera ambigua:
Ed io gli occhi alzavo su ai mille
E mille e mille occhi benevoli
Delle Chimere nei cieli:. . . . . .
Quando,
Melodiosamente
D’alto sale, il vento come bianca finse una visione di
Grazia
Come dalla vicenda infaticabile
De le nuvole e de le stelle dentro del cielo serale
Dentro il vico marino in alto sale,. . . . . .
Dentro il vico chè rosse in alto sale
Marino l’ali rosse dei fanali
Rabescavano l’ombra illanguidita,. . . . . .
Che nel vico marino, in alto sale
Che bianca e lieve e querula salì!
«Come nell’ali rosse dei fanali
Bianca e rossa nell’ombra del fanale
Che bianca e lieve e tremula salì: …..»
Ora di già nel rosso del fanale
Era già l’ombra faticosamente
Bianca. . . . . . . .
Bianca quando nel rosso del fanale
Bianca lontana faticosamente
L’eco attonita rise un irreale
Riso: e che l’eco faticosamente
E bianca e lieve e attonita salì. . . . .
Di già tutto d’intorno
Lucea la sera ambigua:
Battevano i fanali
Il palpito nell’ombra.
Rumori lontano franavano
Dentro silenzii solenni
Chiedendo: se dal mare
Il riso non saliva. . .
Chiedendo se l’udiva
Infaticabilmente
La sera: a la vicenda
Di nuvole là in alto
Dentro del cielo stellare.

*

Al porto il battello si posa
Nel crepuscolo che brilla
Negli alberi quieti di frutti di luce,
Nel paesaggio mitico
Di navi nel seno dell’infinito
Ne la sera
Calida di felicità, lucente
In un grande in un grande velario
Di diamanti disteso sul crepuscolo,
In mille e mille diamanti in un grande velario vivente
Il battello si scarica
Ininterrottamente cigolante,
Instancabilmente introna
E la bandiera è calata e il mare e il cielo è d’oro e sul molo
Corrono i fanciulli e gridano
Con gridi di felicità.
Già a frotte s’avventurano
I viaggiatori alla città tonante
Che stende le sue piazze e le sue vie:
La grande luce mediterranea
S’è fusa in pietra di cenere:
Pei vichi antichi e profondi
Fragore di vita, gioia intensa e fugace:
Velario d’oro di felicità
È il cielo ove il sole ricchissimo
Lasciò le sue spoglie preziose
E la Città comprende
E s’accende
E la fiamma titilla ed assorbe
I resti magnificenti del sole,
E intesse un sudario d’oblio
Divino per gli uomini stanchi.
Perdute nel crepuscolo tonante
Ombre di viaggiatori
Vanno per la Superba
Terribili e grotteschi come i ciechi.
Vasto, dentro un odor tenue vanito
Di catrame, vegliato da le lune
Elettriche, sul mare appena vivo
Il vasto porto si addorme.
S’alza la nube delle ciminiere
Mentre il porto in un dolce scricchiolìo
Dei cordami s’addorme: e che la forza
Dorme, dorme che culla la tristezza
Inconscia de le cose che saranno
E il vasto porto oscilla dentro un ritmo
Affaticato e si sente
La nube che si forma dal vomito silente.

*

O Siciliana proterva opulente matrona
A le finestre ventose del vico marinaro
Nel seno della città percossa di suoni di navi e di carri
Classica mediterranea femina dei porti:
Pei grigi rosei della città di ardesia
Sonavano i clamori vespertini
E poi più quieti i rumori dentro la notte serena:
Vedevo alle finestre lucenti come le stelle
Passare le ombre de le famiglie marine: e canti
Udivo lenti ed ambigui ne le vene de la città mediterranea:
Ch’era la notte fonda.
Mentre tu siciliana, dai cavi
Vetri in un torto giuoco
L’ombra cava e la luce vacillante
O siciliana, ai capezzoli
L’ombra rinchiusa tu eri
La Piovra de le notti mediterranee.
Cigolava cigolava cigolava di catene
La grù sul porto nel cavo de la notte serena:
E dentro il cavo de la notte serena
E nelle braccia di ferro
Il debole cuore batteva un più alto palpito: tu
La finestra avevi spenta:
Nuda mistica in alto cava
Infinitamente occhiuta devastazione era la notte tirrena.

stelle-cadenti

Marco Onofrio. Nato a Roma nel 1971, scrive poesia, narrativa, saggistica e critica letteraria. Per la poesia ha pubblicato 10 volumi – sui 23 totali – tra cui D’istruzioni (2006), Emporium. Poemetto di civile indignazione (2008), La presenza di Giano (2010), Disfunzioni (2011), Ora è altrove (2013), Ai bordi di un quadrato senza lati (2015). Ha pubblicato inoltre, tra i volumi di critica, monografie su Dino Campana, Giuseppe Ungaretti, Giorgio Caproni. Il volume su Campana è uscito nel 2010 e si intitola Dentro del cielo stellare. La poesia orfica di Dino Campana (pp. 688, Euro 16). Web Site: www.marco-onofrio.it

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PASSIONE TANGO – una parodia di F. T. Marinetti e cinque poesie italiane sul “pensiero triste che si balla”

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«Il segreto del tango sta in quell’istante di improvvisazione che si crea tra passo e passo. Rendere l’impossibile una cosa possibile: ballare il silenzio». Carlos Gavito

«[il tango è] un grande abbraccio magico dal quale è difficile liberarsi. Perché in esso c’è qualcosa di provocante, qualcosa di sensuale e, allo stesso tempo, di tremendamente emotivo. Il tango è un linguaggio in cui convivono tragedia, malinconia, ironia, amore, gelosia, ricordi, il barrio amato, la madre, pene e allegrie, odori di bordelli e di attaccabrighe». J. L. Borges

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ABBASSO IL TANGO! di Filippo Tommaso Marinetti (11/1/1914)

Un anno fa, io rispondevo ad una inchiesta del “Gil Blas” denunciando i veleni rammollenti del tango. Questo dondolio epidermico si diffonde a poco a poco nel mondo intero, e minaccia di imputridire tutte le razze, gelatinizzandole. Monotonia di anche romantiche, fra il lampeggìo delle occhiate e dei pugnali spagnuoli di De Musset, Hugo e Gautier.
Ultimi sforzi maniaci di un romanticismo sentimentale decadente e paralitico verso la Donna Fatale di cartapesta.
Goffagine dei tango inglesi e tedeschi, desiderii e spasimi meccanizzati da ossa e da fracs che non possono esternare la loro sensibilità. Plagio dei tango parigini, e italiani, coppie-molluschi, felinità selvaggia della razza argentina, stupidamente addomesticata, morfinizzata, e incipriata.
Possedere una donna, non è strofinarsi contro di essa, ma penetrarla.
– Barbaro!
Un ginocchio fra le cosce? Eh via! Ce ne vogliono due!
– Barbaro!
Ebbene sì, siamo barbari! Abbasso il tango e i suoi cadenzati deliqui. Vi pare dunque molto divertente guardarvi l’un l’altro nella bocca e curarvi i denti estaticamente l’un l’altro, come due dentisti allucinati? Strappare? … Piombare? … Vi pare dunque molto divertente inarcarvi disperatamente l’uno sull’altro per sbottigliarvi a vicenda lo spasimo, senza mai riuscirvi? … o fissarvi la punta delle vostre scarpe, come calzolai ipnotizzati? … Anima mia, porti proprio il numero 35? … Come sei ben calzata, mio sogno! … Anche tuuuu! …
Contagocce dell’amore. Miniatura delle angosce sessuali. Zucchero filato del desiderio. Lussuria all’aria aperta. Delirium tremens. Mani e piedi d’alcolizzati. Mimica del coito per cinematografo. Valzer masturbato!
Tango, rullio e beccheggio di velieri che hanno gettata l’ancora negli altifondi del cretinismo. Tango, rullio e beccheggio di velieri inzuppati di tenerezza e di stupidità lunare. Tango, tango, beccheggio da far vomitare. Tango, lenti e pazienti funerali del sesso morto! Oh! Non si tratta certo di religione, di morale, né di pudore! Queste tre parole non hanno senso, per noi!
Noi gridiamo Abbasso il tango! in nome della Salute, della Forza, della Volontà e della Virilità.

tango2

FANTASIA SU UN QUADRO D’ARDENGO SOFFICI di Dino Campana

Faccia, zig zag anatomico che oscura
la passione torva di una vecchia luna
che guarda sospesa al soffitto
in una taverna café chantant
d’America: la rossa velocità
di luci funambola che tanga
spagnola cinerina
isterica in tango di luci si disfà:
che guarda nel café chantant
d’America:
sul piano martellato tre
fiammelle rosse si sono accese da sé.

tango3

TANGO di Cesare Pavese

Mi son visto una notte in una sala chiusa
e l’abbraccio dei corpi che danzavano,
sollevati e schiantati dalla musica,
sotto la luce livida che filtrava nei muri,
di lontano, mi soffocava il cuore
come in fondo a un abisso, sotto il buio.
Tra bagliore e bagliore,
giungono spaventose
scosse di una tempesta,
che impazzisce là in alto,
sopra il mare.
Mi giungevano a tratti,
pallide e stanche,
le ombre dei danzatori,
vibrazioni di un mare moribondo.
E vedevo i colori,
delle donne abbraccianti
illividirsi anch’essi,
e tutto rilassarsi
di spossatezza oscena,
e i corpi ripiegarsi,
strisciando sulla musica.
Solo ancora splendeva
su quella febbre stanca
il corpo di colei
che fiorisce in un volto
tanto giovane e chiaro
da fare male all’anima.
Ma era solo il ricordo.
Io la guardavo immobile
e la vedevo, dolorosamente,
nella luce del sogno.
Ma passava strisciando,
senza scatti più, languida,
con un respiro lento
e mi pareva un gemito d’amore,
ma l’uomo a cui s’abbandonava nuda
forse non la sentiva.
E un’ubbriachezza pallida
le pesava sul volto,
sul volto tanto giovane e stupendo
da fare male all’anima.
Tutti tutti tacevano di ebbrezza,
travolti dentro il gorgo
di quella luce livida,
posseduti di musica,
nelle carezze ritmiche di carne,
e stanchi tanto stanchi.
Io solo non potevo abbandonarmi:
cogli arsi occhi sbarrati,
mi fissavo smarrito
su quel corpo strisciante.

(23-26 giugno 1928)

tango4

TANGO di Mario Luzi

Poi sulla pista ardente
lontanamente emerse
la donna spagnola,
era un’ombra intangibile in un soffio
di musiche viola il suo sorriso.

Percepiva l’accento
della notte col senso melodioso
del suo passo e quel ciclo
di libertà infinita era l’evento
triste della sua vita senza scampo.

ARGENTINA-TANGO-STAGE

IL TANGO DELLE INCUDINI di Aldo Onorati

Eri triste una volta. Ora hai compreso
che l’ombra è delle nuvole, che il sole
è sempre quello.
Ma la fuga dei giorni e le speranze
schiacciate dal tacco che danza
(nascemmo incudine!)
la danza e le balere (strisciante speranza
battuta serpe a primavera
finzioni a paralume dei tabù, serrato il monte
di Venere fra quelle due colonne
al mio sangue proibite).

Spegni la radio! Il mangiadischi
coperto dal motore
le ginocchia rotonde
avvicina la veste
serpi schiacciate da tacchi a spillo
da tacchi larghi
(chi balla sopra di noi? Attorcìgliati
a qualche gamba, presto! Mordi o sarai schiacciata!)
Il tuo profilo fra i vetri e le insegne. Ginestre
sopra il grembo e sul cuore. Un giorno
ormai sepolto nella memoria
(il momento supremo, i rantoli, le unghie
a sguainare la schiena, i morsi e tante
generose bugie…)
un giorno
stretti e lontani, sul pavimento, disfatti
(inaciditi i sudori, i battiti
convulsi)
un giorno ti gridai:
«Negli spruzzi del fango son racchiusi
tutti i frantumi della nostra vita».

EPSON DSC picture

TANGO PERPENDICULAR di Stefano Benni

È nel pavimento lavato dove brillano
I pesci d’oro delle scarpe nuove
È nel sudore sulla fronte del violinista
È nel Cupido dal dente cariato
che fa sedere le coppie, aspettando la mancia
È nel bicchiere di Tempranillo
dove lui desidera lei, attraverso un rosso inferno
È nella segatura ben sparsa,
perché nessuna lacrima vada persa
È nel primo sopraggiungere del tango
È nella notte curiosa dietro la porta chiusa
Ma se non ti tengo tra le braccia
Tutto questo è una cartolina odorosa
Per un barbiere che dorme
Per un barbiere che sogna

È nella dama piccola che si appoggia
Al cavaliere come a un parapetto di balcone
E guarda ombre di passi passare
In un fiume di neon e di fumo
nel suo grande music-hall personale
È nel sorriso dello scemo che non può ballare
ma dentro di sé conquista e seduce
La bionda triste, con l’uomo al fianco
che parla di sacchi di caffè, e non ama il tango
È nel gesto di Carlos che spalanca
Il bandoneon, come Mosè che apre il mare
È nel frusciare di una gonna, in un attimo di silenzio
È nell’odore di rosa, calzini ed assenzio
Ma se non ti bacio come si baciano i ragazzi
Tutto questo è nostalgia, per un mare dipinto
Per un marinaio senza più nave
Per un marinaio senza più vento

È nella tosse roca del ballerino migliore
Che indossa la morte, come un abito ben fatto
E nella vecchia coppia che danza
“Enganadora” per la millesima volta
È nella vecchia ferita da coltello
il giorno che qualcuno difese qualcuna
Nelle risate troppo forti e smargiasse
Nelle farfalle che si uccidono sulle lampade rosse
È nella grazia e nell’arroganza
Di questo contrappunto, che ci trascina
nei campi di luna, oltre la porta
Ma se non mi sei vicina, amore
Tutto questo è uno spartito vecchio
Dentro una vecchia valigia di carta
Dentro una vecchia valigia sporca.

 

 

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“Delta del tuo fiume” di Gëzim Hajdari. “La poesia epica dell’esilio” Lettura di Marco Onofrio

Gezim Hajdari delta-del-tuo-fiume copDelta del tuo fiume (Ensemble, 2015, pp. 172, Euro 15) di Gëzim Hajdari è un libro di rara intensità poetica, uno dei più potenti e impressionanti che io abbia letto negli ultimi anni. È un libro che, come un arco teso, permette alla poesia di slanciarsi oltre i propri limiti, superare i confini della parola, significare ben al di là di ciò che dice. Malgrado Hajdari affermi di «pisciare sulle poetiche», conclude Delta del tuo fiume con una lunga poesia-manifesto, “Contadino della poesia”, che funge da specchio di autoconsapevolezza e chiave di accesso al libro. Hajdari coltiva un’idea di poesia come “bestemmia” – cioè preghiera laica rivolta al sacro elementare – che lacera il velo cosiddetto “civile” delle ipocrisie deputate a coprire la verità oscena dei rapporti sociali, l’inferno della convivenza, l’orrore eterno della Storia. La poesia è denuncia, atto inconciliabile d’accusa. La parola non conferma i patti disonesti, non regge il sacco ai ladri nel tempio profanato, ma è eversione che articola il dissenso e osa pronunciarlo con la massima sincerità possibile, costi quel che costi. È eresia, è “besa”, cioè promessa, parola data, confidente appartenenza al fondamento etico. È impegno di autenticità. È dignità che mette in gioco il valore della vita.

Essere “contadino della poesia” significa

tornare all’Essere
riscoprire le radici
bere alla fonte
parlare con i sassi
ascoltare la terra
rileggere il cielo e la terra
(…)
sapere chinarsi a raccogliere
chiamare le cose per nome (…)
lavarsi con la terra (…)
ridare la dignità perduta al Verbo, cioè
la dignità perduta all’uomo,

Gezim Hajdari cop inglesee dunque recuperare il «senso epico, musicale e civile della parola», ricostruire il «tempio della parola» distrutto dagli «eunuchi del minimalismo sterile». Questo significa scrivere in modo semplice ed essere profondi al tempo stesso. La poesia di Hajdari, infatti, è colta e insieme popolare – così come è, sempre, la poesia autentica. Una poesia umana e antropologica a 360°, aperta al dialogo con le realtà del mondo, al di là delle infinite gabbie di rappresentazione.

Scrive Neruda: «La poesia ha perso il suo legame con il lontano lettore … Deve recuperarlo … Deve camminare nell’oscurità e incontrarsi con il cuore dell’uomo, con gli occhi della donna, con gli sconosciuti della strada, quelli che a una certa ora del crepuscolo, o in piena notte stellata, hanno bisogno magari di un solo verso».

gezim hajdari copertinaA patto però – aggiunge idealmente Hajdari – di «essere poeta, non scrittore di poesia». Il preziosismo “laureato” del modello petrarchesco distolse la poesia dal suo cammino: emersero le vanità, le pose artificiali, i conti di ragioneria. Ancora Neruda: «la fonte della grandezza cominciò a estinguersi. Quest’antica sorgente aveva a che vedere con l’uomo intero, con la sua apertura, la sua abbondanza traboccante».

Hajdari scrive poesia con l’occhio che, penetrando le paludi della crisi, traguarda l’unità cosmica dell’uomo “come se” fosse ancora possibile. Occorre «sentirsi parte della totalità», cioè «vivere al confine / ubriaco di mondi»: «vivere negli altri», «attraversare la vita», «recuperare il legame tra parola e verità, tra poesia e vita»: «diventare carne e sangue delle proprie parole».

L’operazione poetica consegue alla discesa nel proprio «io centrale»: con la stessa inesorabile naturalità del fiume verso il proprio delta marino, o del maschio verso il nido caldo della donna che lo invita al ricongiungimento. L’«io centrale» è il nucleo dove convergono e partono i raggi del mondo: c’è un cosmo di vasi comunicanti sotto la superficie impediente, dove i dualismi apparenti si sciolgono in rapporti complementari, poiché “tout se tient”. È una via antitetica ad ogni operazione narcisistica: Narciso si specchia nel mondo e ovunque vede se stesso; Hajdari specchia il mondo nel proprio «io centrale», che coincide con la visione aperta, cosmica, globale di tutto l’esistente. La condizione che lo porta ad avere questo sguardo è quella dolorosa dell’«esule esiliato nell’esilio», che già strappò a Dante Alighieri versi immortali. Hajdari è in esilio come «traditore e nemico della patria» (la nativa Albania) per aver denunciato crimini e abusi della dittatura di Enver Hoxha. Hajdari ha accettato il prezzo della libertà, la solitudine terribile del lupo senza collare, la povertà, la fame, l’esilio. Solo così ha potuto «coniare la moneta del proprio Verbo» ed essere Poeta. Creativo perché libero, e libero perché creativo.

Gezim  Hajdari con la sua testa in ceramica, opera dell'artista Marica Bisacchi

Gezim Hajdari con la sua testa in ceramica, opera dell’artista Marica Bisacchi

Fiero, irriducibile, allergico al potere e ai suoi mille compromessi, estraneo alle gerarchie letterarie “ufficiali”, Hajdari affida anzitutto al valore della pagina la rivendicazione del suo mandato poetico e la traccia della sua presenza di poeta-profeta e guerriero. E lo è anche nel raccontare «la ferita mortale dell’uomo svuotato dalla dittatura del denaro», gli infiniti tradimenti perpetrati dagli uomini all’Uomo, e al pianeta – l’unico che abbiamo – cui appartiene anche chi stoltamente ne provoca la distruzione. Il mondo è da sempre dominato da dinamiche di invidia cattiveria egoismo violenza prevaricazione malversazione ingiustizia ignoranza maleducazione… la jungla umana è più sottilmente feroce di quella animale. L’Amore è un autentico miracolo. Scrive Cesare Pavese: «Tu sarai amato quando potrai mostrare la tua debolezza senza che l’altro ne approfitti per affermare la propria forza». La poesia, infatti, è una Cassandra dal canto inascoltato: il mondo va, decisamente, da un’altra parte.

Scrive Hajdari:

Le nenie delle donne
non riescono ad asciugare il sangue degli uomini
versato lungo il confine nemico.

Eppure crede ancora nel «potere della poesia»; come in Congo, dove recitano i versi del poeta senegalese Senghòr – vate e ideologo della “négritude” – «al posto delle preghiere quotidiane». La poesia autentica propone allo sguardo una visione cosmica. Come quando, dall’aereo in volo, i confini geopolitici convenzionali, coi vari recinti di filo spinato, scompaiono magicamente: lo spazio vitale è tutt’uno, il mondo è uno, l’Uomo è lo stesso ovunque – oltre le infinite diversità – è il cielo è l’unica bandiera.

Gezim Hajdari a Venezia

Gezim Hajdari a Venezia

La scrittura, in Delta del tuo fiume, articola una poesia “in fuga” che nasce dalla condizione di esilio permanente del poeta: e sgorga non a caso da Roma, che Hajdari definisce «patria degli esuli», «città in fuga verso la leggenda e l’oblio del destino». Delta del tuo fiume è uno straordinario viaggio poetico, che parte dalla Roma eterna («nata dall’esilio» di Enea) e a Roma infine riconduce, la Roma storica di oggi (città degli scandali, da «scomunicare», secondo Hajdari, come capitale d’Italia: città delle banalità letterarie «osannate e glorificate dalla mafia politica e culturale» che determina la Curia dei “poeti ufficiali” in un gioco di corruzione, scambi di favori e ruberie – come nella vecchia gestione del Centro “Montale”, denunciata da Hajdari e Luigi Manzi nel 2003). Un viaggio da Roma a Roma: e nel frattempo si percorre il mondo. La poesia come Viaggio nel continente-Uomo: discorso che si produce “in movimento”, dall’incrocio paradigmatico dell’asse spaziale con quello temporale. Il poeta, attraverso lo spazio, raggiunge una dimensione storica pancrona, diventa contemporaneo di ogni epoca, dialoga con uomini che non potrebbe mai incontrare di persona. Ad esempio, va a trovare Rabindranàth Tagore in India; oppure giunge al Cairo e sprofonda nel tempo, per ricevere il benvenuto, al porto di Alessandria d’Egitto, da Alì Pascià – che visse tra il 1700 e il 1800 – per poi finire «nel letto di Cesare, tra balsami e incensi» dove lo guida «l’infedele Cleopatra»; oppure è ospite in Cina del poeta Li Po (che morì nel 762 d. C.) con cui si intrattiene a bere vino e a recitare versi.

La “condicio sine qua non” del Viaggio è la rottura con le menzogne della “civiltà” occidentale, i suoi «falsi altari impietriti», come già Rimbaud, Gauguin, Dino Campana et alii. «Vado via Europa, vecchia puttana viziata», scrive Hajdari. «I tuoi ruderi non mi incantano più». E quindi, «domani, di buon’ora / partirò con la prima nave del Tirreno, / dal porto del Circeo (…) / verso la Croce del Sud / senza voltarmi indietro». «Addio Europa del sangue versato in nome dei confini assassini / e delle bandiere insanguinate». Che è un modo anche per negare in blocco il “Sonderweg” dell’Europa, cioè il suo cammino speciale nella storia del mondo, apportatore di grandi conquiste civili e insieme di orrori indicibili; e inoltre un modo per chiamare la lingua a bruciare, a rinnovarsi dalle proprie ceneri, trasformando lo sguardo e il rapporto stesso con le cose: «Incendierò le vecchie lingue arrugginite, / mi scrollerò di dosso identità, cittadinanze e patrie matrigne».

Gezim Hajdari

Gezim Hajdari

Andar via dall’Europa significa anzitutto uscire dai vincoli della Forma: aprirsi all’incontro libero e diretto con la Vita, la carne calda, le labbra tumide, i seni dorati, le sabbie lunari dei deserti, i cieli stellati, i venti oceanici, il sale dei mari del Sud, gli spiriti delle cose, l’ombra delle parole, i richiami antichi, le lingue tribali sconosciute, i tuareg, i griot, gli sciamani. Emerge naturalmente la potenza ancestrale della Donna-femmina-terra-pube-origine, delta del fiume cosmico. Hajdari scrive, sul corpo della donna, versi erotici di accesa sensualità e di infinite risonanze universali:

Sei una dea negra imbevuta di astri di savana,
giunta dall’oblio dell’arco del tempo.
(…) I tuoi occhi di antilope – origine delle notti oceaniche,
la tua pelle di seta – profumo di mango (…).
Nei tuoi occhi verdeazzurro ho ascoltato il canto delle balene,
il richiamo dei felini in agonia,
e ho visto tramontare l’occhio inverdito del giorno (…).
I tuoi occhi tinti d’Africa, come l’oceano Indiano all’alba;
i tuoi seni pieni all’insù, come due colline nere e solitarie (…)
il tuo pube in fiamme, tra le cosce alte da gazzella,
come una conchiglia dorata.

E la splendida poesia “Custode della mia uva”, dove la donna stessa gli parla, invitandolo a celebrare insieme la vita:

mordi i miei capezzoli come mordevi i chicchi rossi
(…) bevi il mio collo di cerbiatta,
stringi tra le tue mani da profeta le mie grazie
(…). Uomo toro che profumi di eros,
appena mi guardi, mi inumidisco,
appena mi sfiori, mi sento donna,
(…) quando tu mi tocchi fino in fondo, io grido,
(…) quando tu muori in me, io rinasco in te.

Gezim Hajdari_1Ed ecco l’Africa, «Madre nostra», «donna stuprata» dai colonizzatori bianchi: «nei tuoi occhi di bambina grida il Verbo della grande solitudine, / si rinnova la stirpe umana». Ecco l’incontro spazio-temporale con la Tanzania, il Congo, il Niger, il Golfo Persico, il Marocco, il Sahara, il Mali, l’Etiopia, l’Eritrea, l’Uganda. I cronotopi si aprono “in fieri”, nel divenire avventuroso del viaggio, svelando l’anima dei luoghi. Un viaggio che discende nelle profondità ancestrali, e ovviamente non esclude gli incroci storici con l’Africa insanguinata dalle guerre, dove uomini con gli occhi sbarrati dal terrore «fuggono lungo il confine / insieme alle bestie impazzite». L’Africa ha stregato il poeta, lo ha messo in crisi, lo ha cambiato per sempre.

Tu, Africa, hai Scomunicato il mio Verbo.
Dal giorno che attraversai le curve negre dei tuoi giorni,
non sono più io.

L’Africa è «infinita nudità» che toglie le sovrastrutture, brucia le maschere, fa cadere tutti gli artifici. È la terra dove perdersi per ritrovarsi, dove dimenticare tutto per ricordare:

non ho più memoria (…)
ho perso il mio nome.

A forza del tuo amore, sono diventato Africa.

E ancora: «Ho affidato alla sabbia la mia memoria». La sabbia del deserto: quanto di più mutevole e impermanente!

Gezim Hajdari Siena 2000

Gezim Hajdari Siena 2000

Non solo l’Africa, ma anche l’est asiatico: la Cina, il Vietnam, le Filippine. Manila e il fetore insopportabile della “smokey mountain” del quartiere Tondo – montagna di immondizie di cui si cibano migliaia di miserabili, tra cui opera il missionario Giovanni Gentilin. Andare lontano, sempre più lontano: «mai così lontano dalla patria e dai miei sassi cannibali». Sentirsi sperduto nel mondo. Sdraiato sull’erba, bere la luce degli astri. Parlare con gli altri senza conoscere una parola delle rispettive lingue: intendersi su un piano umano universale. Arrivare all’essenza. Eppure, malgrado i tentativi di dimenticarsi e confondersi nel mondo, non riesce a mitigare la profonda insoddisfazione:

Quando finirà questo esilio?
Albania sono ancora vivo (…)
Tace la tua ombra assassina (…)
La mia ombra non trova pace,
erra impazzita tra le dune della fuga.

Sullo sfondo di ogni luogo si sovrappone l’immagine straziante dell’Albania, patria e infanzia lacerata, che nelle vene del poeta ha seminato «solo panico e terrore», perché è un Paese – scrive Hajdari – che «nutre per uccidere», è terra matrigna che divora i propri figli. Anche nel «sonno nero» dell’Africa, sente la voce di sua madre:

“Gezim, copriti bene,
il freddo dei Balcani punge”.

Egli non può dimenticare la sua terra, nel bene e nel male. E la ritrova nei luoghi più impensati: a Calcutta, per esempio, incontra Madre Teresa, che è di origine albanese. L’Albania dialoga anche con l’origine mitica di Roma: Enea fa tappa a Butrint (luogo antico dell’Albania) prima di giungere sulle sponde del Tevere. Sono proprio gli albanesi ad accompagnarlo in Italia con le loro navi. Segnato per sempre dal regime di Enver Hoxha, Hajdari cerca ad ogni latitudine le radici eterne dell’odio e del terrore, che la Storia usa per limitare o estinguere la libertà dell’uomo, mortificando la bellezza delle sue energie creative. La Storia è piena di despoti che hanno riempito il mondo di crimini e sventolato governi-fantoccio a servizio dei poteri imperialistici. Il processo di “civilizzazione”, con le sue menzogne, ha santificato cose vergognose (come le guerre) e ricoperto di vergogna cose sacre (come il sesso).

Ma la poesia è dalla parte della vita, delle sue ragioni, delle sue verità. La poesia non si lascia ingannare, anzi: lotta perché l’uomo non venga più ingannato, perché apra gli occhi, si liberi di tutte le catene e sia finalmente felice. La poesia di Gëzim Hajdari è profondamente etica nella sua stessa vocazione ontologica, che la rende centrata sull’“essere parola” di ogni cosa, e dunque potenzialmente atta ad incarnare un’opzione di coscienza condivisa, a livello di trasformazione profonda, di cammino collettivo degli individui (ciascuno con il suo percorso). Il canto di Hajdari nasce dalla natura, come il vino dai raspi della vigna, e raccoglie tutta la cultura che conosciamo (cioè il senso di ciò che siamo e di ciò che potremmo essere, al di là di tutti gli impedimenti) per riconsegnarla infine alla natura, su un piano evolutivo superiore. Una poesia di cui c’è assoluta urgenza storica: proprio in quanto nuovamente, eternamente ancora umana, piena di luce cosciente e lontanissima dal grigiore di tante sterili lallazioni contemporanee.

Marco Onofrio legge emporium

Marco Onofrio legge emporium

Marco Onofrio (Roma, 11 febbraio 1971), poeta e saggista, è nato a Roma l’11 febbraio 1971. Ha pubblicato 21 volumi. Per la poesia ha pubblicato: Squarci d’eliso (Sovera, 2002), Autologia (Sovera, 2005), D’istruzioni (Sovera, 2006), Antebe. Romanzo d’amore in versi (Perrone, 2007), È giorno (EdiLet, 2007), Emporium. Poemetto di civile indignazione (EdiLet, 2008), La presenza di Giano (in collaborazione con R. Utzeri, EdiLet 2010), Disfunzioni (Edizioni della Sera, 2011), Ora è altrove (Lepisma, 2013). La sua produzione letteraria è stata oggetto di presentazioni pubbliche presso librerie, caffè letterari, associazioni culturali, teatri, fiere del libro, scuole, sale istituzionali. Alle composizioni poetiche di D’istruzioni Aldo Forbice ha dedicato una puntata di Zapping (Rai Radio1) il 9 aprile 2007. Ha conseguito riconoscimenti letterari, tra cui il Montale (1996) il Carver (2009) il Farina (2011) e il Viareggio Carnevale (2013). Nel 1995 si è laureato, con lode, in Lettere moderne all’Università “La Sapienza” di Roma, discutendo una tesi sugli aspetti orfici della poesia di Dino Campana. Ha insegnato materie letterarie presso Licei e Istituti di pubblica istruzione. Ha tenuto corsi di italiano per stranieri. Ha partecipato come ospite a trasmissioni radiofoniche di carattere culturale presso Radio Rai, emittenti private e web radio. Ha pubblicato articoli e interventi critici presso varie testate, tra cui “Il Messaggero”, “Il Tempo”, “Lazio ieri e oggi”, “Studium”, “La Voce romana”, “Polimnia”, “Poeti e Poesia”, “Orlando” e “Le Città”. Ha fondato, insieme a Giorgio Linguaglossa, il blog lombradelleparole.wordpress.com

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BAROCCO E NOVECENTO – analogie e affinità a cura di Marco Onofrio

barocco Leone ibrido con volto umano

barocco Leone ibrido con volto umano

 Per rapportare Barocco e Novecento occorre anzitutto rifarsi all’eone barocco formulato da Eugenio d’Ors (nel suo Lo Barroco, Madrid 1933) come categoria metastorica estraibile dai suoi termini cronologici e riconducibile all’eterna antitesi tra “vita” e “ragione”, per cui «certi aspetti dell’arte arcaica, greca, buddista, gotica, romanticismo e impressionismo ecc. non sono altro che specie del genere barocco, che riappare nei secoli, e si intreccia col genere opposto, quello classico (sinonimo di razionale) spesso nello stesso stile e nello stesso artista» (Guido Piovene, Significato del Barocco, 1945). Secondo il filosofo spagnolo si è in presenza dell’eone barocco ogni volta che l’artista mostra una disposizione di apertura e obbedienza verso il flusso della vita, il che determina nelle opere caratteristiche di panteismo (smarrimento nella natura e nel paesaggio), dinamismo (catturare l’ininterrotto movimento dei fenomeni) e multipolarità  (la stessa cosa rappresentata da più punti di vista). “Circe e il pavone” chiosa, con efficace formula, Jean Rousset. L’artista barocco aspira alla metamorfosi perenne, alla fluidità originaria dell’indeterminazione, e quindi prova ripugnanza a de-finirsi in una forma compiuta, chiusa, irrevocabile. Di conseguenza «l’arte – tutte le arti – per la prima volta aspirano alla condizione “infinita” della musica» (Anceschi, Del Barocco e altre prove, 1953).

guido piovene

guido piovene

Vi sono studiosi che, come Wölfflin e Focillon, interpretano il Barocco non come categoria dello spirito ma come categoria della forma: una costante formale per cui ogni fenomeno artistico sarebbe barocco o, viceversa e in alternanza dialettica, classico. Secondo Wölfflin in particolare (Kunstgeschichtliche Grundbegriffe, “Concetti fondamentali della storia dell’arte”, 1915), lo svolgimento dal classico al barocco procede come evoluzione dal “lineare” al “pittorico”, dalla “visione di superficie” alla “visione di profondità”, dalla “forma chiusa” alla “forma aperta”. Secondo Focillon (La vie des formes, 1934) il barocco rappresenta lo sviluppo ultimo del perfetto equilibro costituito dal classico, che a sua volta è l’apogeo di ogni sistema culturale storicamente determinato. Qualunque stile, cioè, attraversa quattro stadi evolutivi nella propria trasformazione morfologica: età sperimentale, età classica, età del raffinamento, età barocca.

esempio di balcone barocco

esempio di balcone barocco

L’alternanza dialettica Barocco-Classico corrisponde, per certi versi, a quella nicciana dionisiaco-apollineo. La rivalutazione europea del Barocco come oggetto autonomo di studi, dotato di specificità stilistica, sia in chiave storica sia metastorica (laddove in Italia Benedetto Croce parla ancora di “brutto artistico”), discende dalla Stimmung che caratterizza gli ultimi decenni dell’Ottocento: un crogiolo di energie e istanze in cui, come osserva Giovanni Getto, «si incrociano e si fondono correnti di gusto e suggestioni di cultura diverse, particolarmente propizie e determinanti per il formarsi di una simpatia e di una propensione per il barocco: da Nietzsche e la sua intuizione del principio dionisiaco, dell’ebbrezza e della tensione, regolatore dello sviluppo dell’arte accanto al principio apollineo, della serenità e dell’armonia, alla musica di Wagner, pervasa da un senso di sfrenata esuberanza e scossa da una forza primordiale di passione, all’irrazionalismo e al relativismo filosofico, alla filosofia dell’inconscio di un Hartmann, in cui rispuntano i motivi più romantici di Schelling, Hegel e Schopenhauer, per comporsi in una costruzione dalle linee fantasiose, che è stata definita come “un vero e proprio romanzo metafisico” (e i rapporti Schopenhauer, Wagner, Nietzsche e, attraverso Burckardt, Wölfflin, sono ben noti)».

Dolce & Gabbana 2013 sfila il barocco siciliano

Dolce & Gabbana 2013 sfila il barocco siciliano

 Anche l’Impressionismo, mobile e vitale, sembra il coronamento finale dell’epopea barocca. E il Liberty, con i suoi capricci fantasiosi e floreali. E il Simbolismo, con la sua irrequietezza sensuale dalle infinite possibilità ermetiche e analogiche. Ma il Decadentismo tutto avverte affinità con il Barocco: non a caso si riscoprono poeti come i grotesques francesi, o John Donne, o Luis de Gongora. Dopo gli studi documentatissimi di Getto, Anceschi, Calcaterra e Mario Costanzo (del quale si ricorda La critica del Novecento e le poetiche del barocco, 1976), ancora nel 1987 Omar Calabrese, parlando del Postmoderno come di un’età “neobarocca”, osserva come «molti importanti fenomeni di cultura del nostro tempo siano contrassegnati da una “forma” interna specifica che può richiamare alla mente il barocco». Il Novecento guarda con simpatia al Barocco perché esso – dopo la crisi che si spalancò nella percezione del mondo in seguito alle scoperte scientifiche e geografiche, da cui il Mediterraneo venne bruscamente relegato a un ruolo economico marginale – dovette escogitare la “nuova architettura dell’anima” cercandola in un fragile punto di equilibrio dinamico tra senso e intelletto, immaginazione e logica, istinto e ragione, vita e forma.

Dolce & Gabbana modelli inverno 2013

Dolce & Gabbana modelli inverno 2013

Il Novecento ha bisogno di risolvere lo stesso problema, laddove l’uomo rotola “dal centro verso la x”, spinto oltre il bordo dell’abisso dalla demolizione delle Grandi Narrazioni sotto i colpi spietati di Marx, Freud, Nietzsche, Planck, Bohr, Heisenberg, Einstein. La carneficina delle due guerre mondiali apre il sipario sulla “terra desolata” dove l’uomo soffre fino in fondo, senza più conforti strumentali, l’angoscia del suo “male di vivere”. La letteratura e l’arte del Novecento riflettono questa condizione precaria («Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie», Ungaretti 1918) che nasce anche dalla delusione per il fallimento degli Ideali ottocenteschi (come il positivismo e lo scientismo, con il loro ordine di determinazioni oggettive calate, a mo’ di nascondimento illusorio, sulla “negatività” esistenziale dell’individuo) tragicamente naufragati, coi milioni di morti, nella catastrofe bellica: «La guerra, l’odio, la distruzione, il tradimento, la sconfitta, l’amara vittoria, facevano emergere gli scogli perennemente frapposti tra il mare dell’esistere e il porto dell’assoluto» (Chiodi).

Martin Heidegger in campagna

Martin Heidegger in campagna

Ed ecco i temi tipici dell’Esistenzialismo novecentesco («la morte, l’errore, la colpa, il nulla, l’impotenza, il tempo») che nascono dal confronto scoperto con il problema dell’uomo e del suo rapporto con il vuoto e con l’assurdo. C’è un retroterra di consonanza con i temi già sviluppati dal Barocco, nel pensiero e nelle opere di Miguel De Unamuno (Del sentimiento tràgico de la vida, 1913), Martin Heidegger (Sein und Zeit, “Essere e tempo”, 1927), Jean-Paul Sartre (L’être et le néant, 1943) e Albert Camus (Le Mythe de Sisyphe, 1943), continuatori – ognuno a suo modo – della strada già tracciata da Kierkegaard nella prima metà dell’Ottocento. Senza contare scrittori di enorme problematicità come Dostoevskij e Kafka, che non inventano da zero la suggestione e l’efficacia storica dei loro “simboli”. Allo stesso modo, il linguaggio cangiante e metamorfico della letteratura barocca non è solo bizzarria ingiustificata di argutezze (con il fin della meraviglia) ma un modo di rispondere al trauma della coscienza, e dunque opporre un nuovo sguardo, ovvero nuovi metodi di conoscenza e “rappresentazione”, con cui tentare di adattarsi a una realtà profondamente cambiata, sempre più complessa e inafferrabile:

«La fantasmagoria speciosa delle metafore e delle antitesi è dovuta nel Seicento al duplice, triplice, molteplice aspetto che la realtà prende nell’anima, la quale, di là dell’empiria sensoria, non è più certa del vero creduto per convenzione. La poetica del mirabile è lo sforzo dell’ingegno, che con ampie volute, curve serpeggianti, richiami antitetici, trasposizioni immaginose tenta di superare tutte le contraddizioni conoscitive e ideali» (Calcaterra, Il Parnaso in rivolta, 1940). L’uomo barocco e quello novecentesco sono creature nude, scorticate, fragili, sbandate dal decentramento antropico che la riscoperta – scientifica e filosofica – dell’Infinito procura nelle loro coscienze.

abito moderno chic ispirato al barocco

abito moderno chic ispirato al barocco

Barocco e Novecento rispondono anzitutto alla crisi indotta dal cambiamento della posizione dell’uomo nel mondo. Nota Giovanni Getto: «L’uomo non è più il centro dell’universo, ma è nell’universo, in un universo che Keplero, Galileo, Newton scoprivano» [e che i loro colleghi novecenteschi approfondiranno, dagli spazi interstellari alle strutture subatomiche della materia] «togliendo alla terra la sua posizione privilegiata, centrale. L’uomo barocco a contatto del cosmo prova come uno spavento». Ecco l’horror vacui, la vertigine di inseguire la mostruosità del cosmo inconcepibile, fino a perderci il pensiero. Si legga questo passo illuminante di Arnold Hauser:

«La nuova visione scientifica prese l’avvio dalla scoperta di Copernico. La teoria della terra che gira intorno al sole, sostituendo quella per cui finora l’universo girava intorno alla terra, mutò definitivamente l’antica posizione assegnata all’uomo dalla Provvidenza. Infatti, appena la terra non poté più considerarsi il centro dell’universo, anche l’uomo cessò di essere il fine ultimo della creazione. Ma con la teoria copernicana non soltanto il cosmo cessò di volgersi intorno alla terra e all’uomo, ma fu privo di centro, riducendosi a una somma di parti simili e di ugual valore (…). L’uomo divenne un fattore piccolo e insignificante in quel mondo ormai disincantato (…), alla precedente visione antropocentrica si venne sostituendo la coscienza cosmica, cioè l’idea di un complesso infinito di attività includente l’uomo e la ragione ultima della sua esistenza. (…) Al termine di questa evoluzione il terrore del giudice universale cede al “brivido metafisico”, all’angoscia di Pascal davanti al silence éternel des espaces infinis, allo stupore per il lungo, ininterrotto respiro dell’universo. Questo brivido, l’eco degli spazi infiniti, l’intima unità dell’essere pervadono tutta l’arte barocca. E simbolo dell’universo diventa l’opera d’arte nella sua totalità, in quanto organismo coerente, vivo in ogni sua parte».

arredamento moderno ispirato al barocco

arredamento moderno ispirato al barocco

Così in arte «le repentine diagonali, gli improvvisi scorci prospettici, gli effetti di luce accentuati, tutto esprime una possente, insaziabile brama d’infinito. Ogni linea conduce l’occhio lontano, ogni forma in movimento pare che voglia sorpassare se stessa, ogni motivo rivela una tensione, uno sforzo, come se l’artista non fosse mai del tutto sicuro di riuscire veramente a esprimere l’infinito» (Sozialgeschichte der Kunst und Literatur, “Storia sociale dell’arte”, 1956).

A proposito di infinito, scrive Pascal in una celebre pagina dei suoi Pensieri:

«Tutto questo mondo visibile non è che un tratto impercettibile nel vasto seno della natura. Nessuna idea vi si avvicina. Abbiamo un bel gonfiare i nostri concetti, oltre agli spazi immaginabili, non generiamo che atomi, rispetto alla realtà delle cose. È una sfera il cui centro è dovunque, la circonferenza in nessun luogo. Infine il carattere più sensibile dell’onnipotenza di Dio, è che la nostra immaginazione si perde in questo pensiero. L’uomo, tornato a se stesso, consideri ciò che è, in confronto a quanto esiste; si consideri smarrito in questo remoto angolo del mondo; e da questa piccola prigione dove si trova, intendo dire l’universo, apprenda a valutare la terra, i regni, le città, e se stesso, nel giusto valore. Che cosa è un uomo nell’infinito?» Continua a leggere

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Dino Campana UNA POESIA “Viaggio a Montevideo”- Commento di Marco Onofrio

campana in cravatta

La notte

La notte

campana lettera a Papini nella quale lo minaccia di morte

campana lettera a Papini nella quale lo minaccia di morte

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Io vidi dal ponte della nave
I colli di Spagna
Svanire, nel verde
Dentro il crepuscolo d’oro la bruna terra celando
Come una melodia:
D’ignota scena fanciulla sola
Come una melodia
Blu, su la riva dei colli ancora tremare una viola…
Illanguidiva la sera celeste sul mare:
Pure i dorati silenzii ad ora ad ora dell’ale
Varcaron lentamente in un azzurreggiare:…
Lontani tinti dei varii colori
Dai più lontani silenzii
Ne la celeste sera varcaron gli uccelli d’oro: la nave
Già cieca varcando battendo la tenebra
Coi nostri naufraghi cuori
Battendo la tenebra l’ale celeste sul mare.
Ma un giorno
Salirono sopra la nave le gravi matrone di Spagna
Da gli occhi torbidi e angelici
Dai seni gravidi di vertigine. Quando
In una baia profonda di un’isola equatoriale
In una baia tranquilla e profonda assai più del cielo notturno
Noi vedemmo sorgere nella luce incantata
Una bianca città addormentata
Ai piedi dei picchi altissimi dei vulcani spenti
Nel soffio torbido dell’equatore: finché
Dopo molte grida e molte ombre di un paese ignoto,
Dopo molto cigolìo di catene e molto acceso fervore
Noi lasciammo la città equatoriale
Verso l’inquieto mare notturno.
Andavamo andavamo, per giorni e per giorni: le navi
Gravi di vele molli di caldi soffi incontro passavano lente:
Sì presso di sul cassero a noi ne appariva bronzina
Una fanciulla della razza nuova,
Occhi lucenti e le vesti al vento! ed ecco: selvaggia a la fine
di un giorno che apparve
La riva selvaggia là giù sopra la sconfinata marina:
E vidi come cavalle
Vertiginose che si scioglievano le dune
Verso la prateria senza fine
Deserta senza le case umane
E noi volgemmo fuggendo le dune che apparve
Su un mare giallo de la portentosa dovizia del fiume,
Del continente nuovo la capitale marina.
Limpido fresco ed elettrico era il lume
Della sera e là le alte case parevan deserte
Laggiù sul mar del pirata
De la città abbandonata
Tra il mare giallo e le dune…

campana copertina Onofrio

 campana canti orficiI Canti Orfici, secondo l’auto-definizione apposta dall’autore a sottotitolo, rappresentano Die Tragödie des lezten Germanen in Italien, ovvero la ‘tragedia dell’ultimo Germano in Italia’. Spiega Campana: «Il germano preso come rappresentante del tipo morale superiore (Dante Leopardi Segantini)» che in un Paese degenerato come il nostro – rovinato dalla “barbarie civile” (ovvero dalla «brutalità secolare clericale e popolare») – è destinato all’estinzione, e comunque alla sconfitta. Campana, insomma, cerca idealmente una patria non avendone: si protende «verso il paese nuovo (non putrida patria)» dove assistere alla nascita dell’uomo nuovo, libero, felice, trasfigurato. E così, nell’ottobre 1907, il poeta di Marradi tenta di rompere per sempre con l’Italia, che lo ha deluso, e parte per l’Argentina imbarcandosi a Genova. Il soggiorno sudamericano sarà breve (meno di un anno) ma basterà a fargli respirare un’aria diversa, a nutrire il suo sguardo di spazi sconfinati, di natura vergine, di civiltà elementare. Campana si spoglia delle scorie e abbraccia – malgrado gli stenti quotidiani (per sopravvivere fa un po’ tutti i mestieri: da mozzo in mare a peon de via) – la verità rigenerante delle origini. Ne recano traccia diversi testi, inclusi e non nella stesura dei Canti Orfici: “La Notte”, “Dualismo”, “Buenos Aires”, “Nella pampa giallastra il treno ardente”, “Pampa”, “Fantasia su un quadro d’Ardengo Soffici”, “Passeggiata in tram in America e ritorno”, “Viaggio a Montevideo”. Continua a leggere

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Luigi Manzi – UN INIMITABILE ITINERARIO POETICO (1981 – 2014) con uno scritto di Gezim Hajdari e un Commento di Giorgio Linguaglossa

Luigi Manzi con Seamus Heaneay (1981)

Luigi Manzi con Seamus Heaneay (1981)

Presentazione di Gezim Hajdari

La voce alta e drammatica, quasi oracolare, che si esprime nei suoi versi sovrasta le rovine di un mondo arcaico e rurale, divenuto memoria di se stesso. Un mondo che sta scomparendo per lasciare posto all’inesorabile avanzata dell’alienazione

Helene_Paris_J.L. David.

urbana, specchio opaco di una globalizzazione disumanizzante. Il disagio e il male di vivere che vengono generati dal conflitto perenne fra queste due realtà e modi di essere segnano una profonda, terribile lacerazione del tempo vissuto; come pure la sensazione che la parola poetica sia incapace di rimarginare le ferite. Fuorivia, scritto in uno stato di elevata percezione, è in fondo un esilio dentro gli inferi dell’io centrale del poeta, laddove i conflitti risorgono in forme e figure inquietanti. Il libro è insieme testimonianza e presagio. Tanto da fare di Manzi l’unica voce, nel panorama della poesia contemporanea italiana, capace di rinnovare la tradizione visionaria.
Da sempre al di fuori delle gerarchie ufficiali, Manzi appartiene all’ultima generazione dei classici italiani che fanno grande la poesia di questo Paese, ormai costretto dagli spasmi di una grave crisi sociale e morale a ripensare i limiti e l’orizzonte della modernità.
(Gëzim Hajdari)

 

Dario Bellezza scriveva nella prefazione a La luna suburbana (1981) che “la tradizione in cui si ascrive Luigi Manzi è difficile da individuare; il visionarismo panico non non è mai stato proprio della poesia italiana, se si eccettua forse certo d’Annunzio e Campana; la tradizione ermetica, quella neorealistica fino al trionfo metalinguistico della neovanguardia hanno minato la possibilità del poeta italiano di procedere per illuminazioni invece che per ragionamenti e glosse illeggibili; così Manzi è in una via di mezzo: da una parte vorrebbe tener testa alla sua capacità di visione, dall’altra vorrebbe addormentarla in nome di uno sperimentalismo che è proprio della stagione piena di fermenti che va a cavallo degli anni Sessanta e Settanta. Può, Manzi, non scegliere per virtù di poeta ricco e sanguigno che le mode non possono guastare; pure non si può negare che, figlio del suo tempo, il poeta abbia subito il fascino non solo della poesia classica, ma anche dell’esistenzialismo ideologico di quegli anni”. Se c’è un poeta che che contraddice l’impostazione binomiale (sperimentalismo e linea lombarda) della poesia del tardo Novecento, è proprio Luigi Manzi. L’occasione per una rilettura della poesia di Manzi ci è fornita dalle due recenti antologie: Il muschio e la pietra – Guri dhe myshku (trad. in albanese di Gezim Hajdari, Nardò, Besa, 2004) e Rosa corrosa (2003), che includono una vasta selezione di testi che vanno da La luna suburbana 1967 – 1981 (1981), Cuore di lepre (1987), Amaro essenziale (1987), Malusanza (1989), Aloe (1993), Capo d’inverno (1997), oltre un gruppo di poesie inedite.

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

Commento di Giorgio Linguaglossa

La prima riflessione che viene in mente è la straordinaria coerenza del percorso poetico del poeta romano, che ha attraversato e bucato la rivoluzione mediatica degli anni Sessanta in giù. Un lessico spoglio, inattuale, tutto concentrato e rastremato ed un fraseggio prosodicamente attrezzato sul pedale basso della desublimazione e podisticamente calibrato sul verso libero. Se confrontiamo l’incipit dei una delle poesie degli anni Sessanta (“Che si può dire in generale di questi uccelli veloci / che al fioco rumore della lanterna dei miei passi / volano via a grappoli dal cespuglio di fichi”), con una delle ultime poesie inedite, troviamo lo stesso lessico basso e spoglio, stringato, lo stesso timbro, il medesimo cromatismo delle immagini antimodernistiche (” Brilla il falcetto del cantoniere / che, alto sopra la parete, / si tiene a un mazzo / di capelvenere “). Poesia fatta a sbalzo, con lo scalpello su di un marmo poroso e grezzo, figuralità premoderna, di ciò che è scomparso ( il cantoniere, la lanterna, il pescatore ); gli “uccelli” sono spesso designati nella sostantivazione astratta, ipostasi metafisiche che rimandano e riecheggiano la poesia di matrice simbolistica, oppure sono merli, cucù, c’è il tordo; il tempo è sempre un tempo di confine, di transizione, di latenza, preferibilmente l’autunno; i paesaggi sono sempre tutti rigorosamente appartenenti alla figuralità della civiltà preindustriale. C’è qualcosa di scabroso ove balugina, qua e là, un dualismo antinomico personificato dalla “lepre” e dalla “volpe”, trapela una atmosfera di “violenza e lussuria”. Il repertorio tematico e iconografico del simbolismo viene sottoposto ad severo processo di revisone critica: la superficie compatta di questa poesia indica come la figuralità arcaica depone a favore di un messaggio poetico ostile alla ratio della comunicazione mediatica.

Stilisticamente convivono un classicismo post-liberty e post-decorativo che si riallacciano all’unico grande poeta metafisico del primo Novecento: Dino Campana. Nella poesia di Manzi i segni dello “sfacelo” sono sottintesi ed intesi oggettivamente quale repertorio figurale. Con le parole di Adorno: ” i segni dello sfacelo sono il sigillo di autenticità dell’arte moderna, ciò mediante cui essa nega disperatamente la compattezza del sempre uguale”. Poesia che si rivela disperatamente “moderna” nella misura in cui allontana da sé ogni repertorio della modernità, resistenza spasmodica condotta con tutti i mezzi e con tutta la combustione di cui questa poesia è capace avverso la forma di merce dell’arte e i simulacri della “bellezza”:

*

Me ne vado per le fiere
a cantare, bere, bere.
Quanti bimbi scarmigliati. Quanti uccelli nella luce.
Io ho invece la mia croce. Porto vino per le fiere.
Lo distillo dal furore.
Poi lo spillo,
bere, bere.
Com’è scuro, scuro, scuro.
Come schiocca nelle vene
nere, nere.
Vien dal succo del penare,
vien da piaghe di catene.
Cola cupo
nel boccale .

* da La nuova poesia modernista italiana, Giorgio Linguaglossa, Edilet, Roma, marzo 2010

*

 

L’eco

Raggiungimi, dunque. Qui si tocca il cielo stellato
e il richiamo della ghiandaia pulsa ininterrotto.
A notte alta viene l’eco del cane forestiero
che al fondo delle valli insiste
e s’arrovella.
Forse sei in cammino. Ascolto il suono dei tuoi passi sul selciato
rimandati dall’andito.
Resto in attesa. Nel buio gelido risuona
il canto liquefatto del viandante che si ferma all’angolo
e al tuo somiglia; eppure tu sei altrove
e lui, per darmi ristoro,
a poco a poco s’addormenta, lascia che la melodia
si stemperi sulle labbra
e lenta
si disperda.

da Fuorivia, Ensemble, Roma, aprile 2013

Luigi Manzi e Edoardo Sanguineti

Luigi Manzi e Edoardo Sanguineti

Se potessi vedervi

Se potessi vedervi, giorni a venire,
oppure scoprire i tornanti della vita,
conoscere le spine al riparo delle foglie;
forse ora, su questo balcone dirimpettaio
alla fanciulla che si snuda,
mentre si guarda allo specchio e pare una mela primina,
e s’accarezza la treccia
nel bagno d’oro della luce;
ah! se fossi certo della bruma, allora,
che mi pieghi a balestra
la passione che resta, e in una volta sola
scocchi la freccia d’amore, fino alla sua bocca
rimasta come una ferita maliziosa
fra le imposte socchiuse.

(da Capo d’Inverno, 1997)

Luigi Manzi beveA ritroso

Corre nella pianura
il cavaliere obliquo in sella
al morello ombroso.
Dov’è la luna? chiede
e mostra il volto vuoto.
Il giorno e la notte
sono l’uno nell’altra –
risponde la bimba che salta la corda
con la treccia in mano –
il tempo qui non esiste,
c’è solo eternità;
cammini a ritroso
nel tuo tempo che passa
e il destriero è il nulla
dell’immutabilità.
Io sono te stesso: amami
solo per il piacere,
senza felicità.

( da Mele rosse, 2006)

*

Fra tutte

Fra tutte le rose tu, rosa essenziale,
mia alba serena venuta alla foce, mia
luna traslucida impigliata al fogliame,
mia lama;
fra tutte le rose tu, rosa sovrana,
mia riva pescosa arabescata dal mare, mia
isola chiara levigata dal fiume,
mia cruna;
o mio tormento, mia malattia;
rosa dispersa per ogni piega, dentro ogni vena,
mia schiava minuta, mia assoluta regina;
tu, mia follia, mia gola assetata,
screziata forma
desiderata.

(da Aloe, 1993)

*

Sesterzio

Sesterzio

Al mercato il giocoliere
pettina una scimmia lurida fra rossi pagliacci.
Di lato, la baldracca mostra la pancia al lenone
che titilla la catena d’oro
sul riquadro del petto. Un giovane indù
versa albicocche nel cesto,
poi lo solleva e se ne va.
Un rospo attraversa la piazza;
una rondine cuce e scuce
il cielo a zig-zag.
C’è odore d’acetilene nella cisterna;
gli operai con la testa che penzola
fanno luce sul fondo. Se si osserva bene,
il bimbetto che si sorregge allo sporto
ingoia il filo e riemette
un gomitolo.

*

In seno

Le gru osservano la città dall’alto;
sanguinano nel vespro,
come rosolio in un cucchiaio.

In seno a te riposo,
mio sobborgo disossato; mi ristoro
dai viali occlusi, dalle trombe altisonanti
sulle guglie.

In te riaffioro sgombro d’ogni assalto
o contumelia.

E quando ritorno qui, fra gli alti
spigoli di roccia,
provo il volo con la mente,
quasi fossi
di nuovo ritto
in cima al picco, felice quanto
un avvoltoio.

*

sesterzio_1

Luigi Manzi con Seamus Heaneay (1981)

 

Presagio

Il geco, la vipera, il falco sul combusto
altopiano. Il tabacco giace arricciato
sopra i teli di canapa. Ti parlo, anche se tu non ascolti
mentre ti muovi in silenzio sui colli
abrasi, senz’uve.
– L’afa occlude la bocca,
come un sasso. Nella radura il traliccio girevole
dell’acquedotto
pende sulla vasca in frantumi – Ma già il ramo fulvo
che sporge dal petto dell’acero, è il presagio
del tempo futuro. Così io mi rivedo nell’arbusto costretto
nell’interstizio del muro: ultimo rifugio
dove l’arida radica
si nutre di tufo.

Jean Cocteau Il testamento di OrfeoNeppure

Neppure l’indizio breve d’un messaggio.
Nel perimetro deserto
tutti sono altrove. Nessuno ha lasciato
orma né traccia.
Eppure ciascuno è al suo posto,
dentro il proprio profilo. Possibile
che il bimbo
che trascina l’oca al guinzaglio sia scomparso persino
laddove è rimasto?

Afa

Tentenna il geranio. Nel bosco
la rana schiocca. Manca il respiro
nel deserto di zolfo.
Resto inerte – nell’afa –
a presidio del corpo. Non mi muovo.
Nell’incendio dell’aria,
la poiana ascende, colore di selce,
turbina nell’assalto.
Ha catturato se stessa,
e ora s’ingozza.

Ohlalà

Ohlalà, nella bocca rotonda
la bimba schiocca la lingua.
L’allampanato signore che suona il violino
si leva nell’andito buio: ha smesso
il brano della romanza.
Il marmoraro ha rifatto il filo al bulino. Il lattaio
ha ripreso il cammino.
La bimba,
fra le mani chiuse a conchiglia,
mostra un corvo.

Orfeo suona la lira

Orfeo suona la lira

L’ospite

Scrivi d’insonnie, di sonorità perdute.
Tu puoi ascoltare l’ortica e il caprifoglio
mentre crescono lungo i fossi; seguire di soppiatto
la lepre timida che salta nel cespuglio
o fissare la vipera prima dello scatto.
Eppure non ti è permesso entrare in città, se non
girovagare presso le mura;
essere l’ospite che mostra di sbieco
il suo lasciapassare.
Ti mozzeranno la lingua con un colpo,
la daranno in pasto alle larve senza lingua
per mutarla in altra lingua. Solo i dispersi.
ti presteranno ascolto.
O coloro che in silenzio
procedono sul bordo.

Tornanti

Chiuse le imposte e salutato il firmamento, il custode
abbandona la soglia per risalire il sentiero
che in larghi tornanti
lo conduce alle serpi che dormono
nel cavo dei dirupi.
Lungo il viaggio notturno – puntigliosamente –
ha divelto gli aculei alle siepi,
accarezzato gli stecchi, fino a quando
è apparsa la capra fra le prime nebbie, a dargli cenno
con lo sguardo raggelato.
Intanto in cima alla roccia il cavallante osserva l’Orsa
nel cielo antelucano.
La sorveglia coi sospiri.

*

Torno dove un tempo ero già stato.

Da qui ti chiamo
senza voltarmi; vado incontro all’orizzonte
carico di nubi vorticose.
M’allontano fra le siepi del sambuco tormentato
dalla merla, carico di bacche sanguinose. Il passo
ci divide. Procedo cauto
fra le bisce che succiano i coralli lungo gli argini
e il ramarro disteso nel turchino
a occhi socchiusi.
Però tu in città salutami gli amici; raccontami
il livore di chi, lungo le strade,
cerca un rifugio disperato
alla piena che travalica i ponti, tracima
dalle caditoie. Dimmi di chi è rimasto
fra i meandri rugginosi;
o si muove guardingo sotto gli ovuli grigi delle cupole;
o nel bianco nitore dei fulmini,
che appaiono e dissolvono,
si contrae esterrefatto
dentro un fotogramma.

(da Fuorivia, 2013)

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