
L’oltre è un soffermarsi presso la linea:
visualizzarne in altro modo l’intorno.
Annamaria De Pietro è nata a Napoli. Vive a Milano. La sua prima pubblicazione in versi risale al 1997: Il nodo nell’inventario (Dominioni Editore, Como 1997). Sono seguiti Dubbi a Flora (Edizioni La Copia, Siena 2000), La madrevite (Manni, Lecce 2000), Venti fusioni a cera persa (Manni, Lecce 2002). Nel 2005 pubblica un libro in napoletano, Si vuo’ ‘o ciardino (Book Editore, 2005). Nel 2012 esce Magdeburgo in Ratisbona (Milanocosa Edizioni, Milano, 2012). Le ultime pubblicazioni sono Rettangoli in cerca di un pi greco. Il Primo Libro delle Quartine (Marco Saya Edizioni, Milano 2015) e Rettangoli in cerca di un pi greco. Il Secondo Libro delle Quartine (Marco Saya Edizioni, Milano 2017).
Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa
«Tra le cartografie della poesia italiana del Novecento, ve n’è una che gode di un prestigio particolare, perché è stata stilata da Gianfranco Contini. La caratteristica essenziale di questa mappa è di essere incentrata su Montale e sulla linea per così dire “elegiaca” che culmina nella sua poesia. Nel segno di questa “lunga fedeltà” all’amico, la mappa si articola attraverso silenzi ed esclusioni (valga per tutti, il silenzio su Penna e Caproni, significativamente assenti dallo Schedario del 1978), emarginazioni (esemplare la stroncatura di Campana e la riduzione “lombarda” di Rebora) e, infine, esplicite graduatorie, in cui la pietra di paragone è, ancora una volta, l’autore degli Ossi di seppia. Una di queste graduatorie riguarda appunto Zanzotto, che la prefazione a Galateo in bosco rubrica senza riserve come “il più importante poeta italiano dopo Montale” (…) Riprendendo un cenno di Montale, che, nella recensione a La Beltà, aveva parlato di “pre-espressione che precede la parola articolata”, di “sinonimi in filastrocca” e “parole che si raggruppano per sole affinità foniche”, la poesia di Zanzotto viene definita nello Schedario nei termini privativi e generici di “smarrimento dell’identità razionale” delle parole, di “balbuzie ed evocazione fonica pura”; quanto alla silhouette “affabile poeta ctonio”, che conclude la prefazione, essa è, nel migliore dei casi, una caricatura. (…)

Stanotte cadono le stelle. Una
cada nel tuo bicchiere come ghiaccio
L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento,
che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini. Di questa paziente strategia, che si svolge coerentemente in una serie di saggi e articoli dal 1933 al 1985, l’esecuzione sommaria di Campana, il ridimensionamento “lombardo” di Rebora e l’ostinato silenzio su Caproni e Penna sono i corollari tattici. In questo implacabile esercizio di fedeltà, il critico non faceva che seguire e portare all’estremo un suggerimento dell’amico, che proprio in Riviere, la poesia che chiude gli Ossi, aveva compendiato nell’impossibilità di “cangiare in inno l’elegia” la lezione – e il limite – della sua poetica. Di qui la conseguenza tratta da Contini: se la poesia di Montale implicava la rinuncia dell’inno, bastava espungere dalla tradizione del Novecento ogni componente innica (o, comunque, antielegiaca) perché quella rinuncia non apparisse più come un limite, ma segnasse l’isoglossa al di là della quale la poesia scadeva in idioma marginale o estraneo vernacolo (…) Contro la riduzione strategica di Contini converrà riprendere l’opposizione proposta da Mengaldo, tra una linea “orfico-sapienziale” (che da Campana conduce a Luzi e a Zanzotto) e una linea cosiddetta “esistenziale”, nella polarità fra una tendenza innica e una tendenza elegiaca, salvo a verificare che esse non si danno mai in assoluta separazione.»
Sono parole di Giorgio Agamben (in Categorie italiane, 2011, Laterza p. 114). Tra gli stereotipi più persistenti che hanno afflitto i geografi (e i geologi) della poesia italiana del secondo Novecento, c’è quello della ricostruzione dell’asse centrale del secondo Novecento a far luogo dalla poesia di Andrea Zanzotto, già da Dietro il paesaggio (1951) fino a Fosfeni (1983). Di conseguenza, far ruotare la poesia del secondo Novecento attorno al «Signore dei significanti» come Montale ebbe a definire Zanzotto, dal punto di vista di fine secolo può considerarsi un errore di prospettiva. Ma se rovesciamo il punto di vista del secondo Novecento con cui si guarda alla geografia del primo, Campana appare come il poeta nella cui opera vengono a confluire i due momenti: quello innico e quello elegiaco…*
Oggi, per scrivere poesia veramente «moderna» bisognerebbe porsi in ascolto di ciò che noi siamo diventati dopo la fine del modernismo e la fine del Moderno. Annamaria De Pietro raddrizza l’endecasillabo, restaura la quartina rimata (ABBA – ABAB), e da lì parte per una scrittura elegantemente sillabico endecasillabica. In modo incredibile, qui c’è la gioia della rima, la gioia del solfeggio e del cantato e del cantabile. E non c’è dubbio che la De Pietro sia il poeta, tra quelli che io ho letto, che impiega l’endecasillabo in modo impareggiabile. È il suo modo di rispondere alla crisi della poesia: la risposta a questa crisi la poesia la deve e la può dare con i mezzi della poesia, non ricorrendo a stentorei squilli di tromba o a percussioni da contrabbasso… l’epoca delle avanguardie è finita da cento anni almeno, e così l’epoca delle retroguardie. E Annamaria ne ha preso atto.
Oggi che il modernismo si è esaurito, è chiaro che non si può procedere oltre di esso senza avere chiaro il quadro di riferimento storico e ideologico che aveva costituito le basi del modernismo. Il modernismo, che è stato il prodotto poetico del mondo occidentale in disfacimento che aveva condotto alle tre guerre mondiali, oggi, paradossalmente, ha più che mai voce in capitolo dato che siamo entrati nella IV guerra mondiale in uno stato di belligeranza diffusa e di apparente normalità. Nelle città dell’Europa occidentale si vive in uno stato di apparente tranquillità, ma la minaccia è ovunque, è sufficiente una buona tromba di Eustachio e un buon paio di occhiali. La poesia della De Pietro assomiglia alla barchetta di carta che galleggia tra i flutti della materia equorea, «è un soffermarsi presso la linea», per dirla con Pier Aldo Rovatti.

annamaria de pietro
Poesie di Annamaria De Pietro
* Giorgio Linguaglossa Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000-2013), 2013 Società Editrice Fiorentina, pp. 148 € 14.
L’oltre è un soffermarsi presso la linea:
visualizzarne in altro modo l’intorno. Identificare,
costruire, attraverso l’uso che facciamo del linguaggio,
uno spazio di gioco, un’abitabilità.
Mettersi in ascolto non di un «canto» sepolto e originario,
bensì di un «groviglio» di significati…
(Pier Aldo Rovatti) Continua a leggere
POESIE SCELTE di Marco Onofrio da Ai bordi di un quadrato senza lati (2015) con un Commento di Giorgio Linguaglossa
cornelius escher stelle
Marco Onofrio (Roma, 11 febbraio 1971), poeta e saggista, è nato a Roma l’11 febbraio 1971. Ha pubblicato 21 volumi. Per la poesia ha pubblicato: Squarci d’eliso (2002), Autologia (2005), D’istruzioni (2006), Antebe. Romanzo d’amore in versi (Perrone, 2007), È giorno (EdiLet, 2007), Emporium. Poemetto di civile indignazione (EdiLet, 2008), La presenza di Giano (in collaborazione con Raffaello Utzeri, EdiLet 2010), Disfunzioni (Edizioni della Sera, 2011), Ora è altrove (Lepisma, 2013). La sua produzione letteraria è stata oggetto di decine di presentazioni pubbliche presso librerie, caffè letterari, associazioni culturali, teatri, fiere del libro, scuole, sale istituzionali. Alle composizioni poetiche di D’istruzioni Aldo Forbice ha dedicato una puntata di Zapping (Rai Radio1) il 9 aprile 2007. Ha conseguito finora 30 riconoscimenti letterari, tra cui il Montale (1996) il Carver (2009) il Farina (2011) e il Viareggio Carnevale (2013). È intervenuto come relatore in presentazioni di libri e conferenze pubbliche. Nel 1995 si è laureato, con lode, in Lettere moderne all’Università “La Sapienza” di Roma, discutendo una tesi sugli aspetti orfici della poesia di Dino Campana. Ha insegnato materie letterarie presso Licei e Istituti di pubblica istruzione. Ha tenuto corsi di italiano per stranieri. Ha partecipato come ospite a trasmissioni radiofoniche di carattere culturale presso Radio Rai, emittenti private e web radio. Ha scritto decine di prefazioni e pubblicato articoli e interventi critici presso varie testate, tra cui “Il Messaggero”, “Il Tempo”, “Lazio ieri e oggi”, “Studium”, “La Voce romana”, “Polimnia”, “Poeti e Poesia”, “Orlando” e “Le Città”.
Commento di Giorgio Linguaglossa
da Marco Onofrio Ai bordi di un quadrato senza lati Marco Saya Edizioni, 2015 pp. 78 € 10
L’autocoscienza del vuoto è quella condizione propria dell’uomo moderno che fa esperienza della propria de-realizzazione; la percezione del vuoto non più visto in contrapposizione al pieno ma come complemento necessario e inevitabile del pieno, anzi, come giustificazione della insorgenza del pieno. Il de-realizzato sa fin troppo bene che il vuoto è onnipotente, tanto da non essere più qualcosa che si avverte, ma piuttosto qualcosa in cui ci si stabilizza esistenzialmente, una tonalità affettiva che diventa totalità affettiva, un dentro-fuori che nuota nel vuoto assiologico, che aderisce agli oggetti circostanti, che contamina il soggetto: così tutto appare vuoto e privo di senso. La melancholia viene anestetizzata in ipertrofia dell’io manifesto. Chi avverte il vuoto sente di condurre una pseudo esistenza, staccata dallo sfondo, priva di un orizzonte di senso o di speranza, chi vive vive sovrappensiero o con pensieri laterali, con retropensieri, senza un contatto tangibile con gli oggetti del mondo, chi vive vive «ai bordi di un quadrato senza lati», «di questo sole verde con criniera» che «brilla dall’interno luce nera». De-personalizzazione e de-realizzazione diventano così due facce della stessa medaglia dove il rapporto col mondo viene tagliato fuori dal «tatto», viene a perdere la tattilità delle cose e il mondo perde la caratteristica della tridimensionalità per apparire unidimensionale come un fondale da teatro.
Ecco spiegata l’ossessione del teatro nella poesia di Marco Onofrio, l’ossessione del burattino che si muove secondo i fili invisibili che lo tirano di qua e di là, senza un perché, senza un per come. I movimenti legnosi del burattino rispondono bene come condizione di esistenza alla dittatura del vuoto. E c’è anche l’ossessione del vuoto, la poesia di Onofrio è, se mi si passa il termine, piena di vuoto, perché il vuoto straripa nel mondo pieno di a-sensi e pieno di buchi, di voragini, di abissi dall’uno all’altro dei lati del «quadrato senza lati». L’indirezione, l’inorientazione che ne deriva inibisce ogni scelta direzionale (agorafobia) come per la profondità o l’altezza (acrofobia), di qui il rullo compressore della versificazione che tenta di acciuffare il reale per via della sua spinta progressiva e propulsiva. Di qui la sensazione di un periclitare maniacale senza fine nel fondo di un abisso, lo s-fondamento della metaforizzazione, cioè della distinzione tra il proprio-corpo (il letterale) e in non-proprio (il figurato), tra il significante del referente e un secondo significante del medesimo referente; di qui la «disfunzione» (tipico concetto della poesia di Onofrio), questo indebolimento progressivo della condizione esistenziale si risolve, nella sua poesia, in intensificazione del magma lessicale musicale, quasi un linguaggio primario pre-epistemologico (la lingua materna) che giunge per via di intuizione alla immaginazione delle «cose».
Se quella del vuoto e dell’abisso è un’immagine, lo è nel senso di una immagine (la metafora assoluta di Blumenberg) letterale. Il vuoto di Onofrio è dunque un vuoto originario e genetico che crea le cose, non dunque il vuoto inteso come il non-ancora della sua utilizzabilità come nel caso della brocca come «offerta del versato» (Heidegger, Das Ding, Essere e tempo), un concetto ancorato alla tematizzazione del vuoto trattato come assenza o lacuna che attende di essere riempita e non come pausa indispensabile nel continuum dell’in-fondato che rende possibile l’apparire linguistico della cosa. Ad un mondo ridotto a superficie priva di senso, la poesia di Onofrio risponde con una superficie che introietta il vuoto ricco di a-senso. La sua è una poesia, diciamo, ricca di vuoto, sospesa tra la a-figurazione dello s-fondo e la figurazione oggettiva della metafora, tra la metafora assoluta che giace al fondo del linguaggio primario musicale e la de-metaforizzazione dei processi linguistici nella lingua di relazione. Come lo s-fondo delle sculture di Henry Moore è una superficie tersa e monocorde che meglio riesce a mettere in evidenza la scultura in primo piano, parimenti la poesia di Onofrio soggiace a questa medesima necessità raffigurativa. Ci sono gli oggetti in primo piano ma il fondale è una superficie linguistica a-significativa. Tra gli oggetti linguistici e il fondale non si dà alcuna relazione, sono come giustapposti e muti, sono privi di comunicazione, ecco spiegata l’intensificazione della colonna sonora di cui questa poesia non può fare a meno.
Marco Onofrio alla Biblioteca Casanatense di Roma legge Emporium, 2013
BURLA
«Portate il mimo dell’invisibile, subito:
che bruci ad ogni tuffo del suo cuore».
(Sussurro dalla tenebra infinita)
«… Se il mondo è una pupilla pitturata
l’occhio che lo vede, mio signore
è un battere di ciglia, un colpo, un velo.
Un buco che sfavilla e poi si chiude
all’orizzonte:
nell’azzurro».
«Chi parla?»
(Scalpiccio di passi approssimati)
«Eccomi, padrone. Sono qua.
Burattino ironico e sublime.
Buffo. A disposizione».
«Apre dai due lati il mio portone».
(Fattosi scoperto alla visione)
«La la la, lallalla…»
«Tu. Che cosa ti sostiene?»
«Mi arrangio. I miei fili
si perdono nel cielo…»
«Forza, dunque, fammi divertire».
«Ma certo, Sire!»
(…)
«Ebbene?»
(toltasi la maschera:
mostrato finalmente il volto fero)
«Vieni che ti mangio in un boccone»…
cornelius escher
PRIMA DI MANGIARE
Briciole di sogni nei pensieri
curvi come virgole di lampi
vengono-scompaiono dal vuoto.
Sale, lenta, l’onda d’alto sale
cresce l’ombra chiusa sopra il fungo
di questo sole verde con criniera:
brilla dall’interno luce nera
e al fuoco freddo nuvole di prosa
e un giorno che non parte e non finisce
come il sospiro sfatto, il reo maniero
di una meretrice che riposa
cotta col vapore del lenzuolo
e con il burro, del civile uomo
che condisce: prima di mangiare.
LA BESTIA
Le trombe spalancavano la luce
tagliando vasti cerchi di silenzio
il veleggiare ai falchi in alto fumo.
Formicolava l’aria degli scavi:
io scorsi in fondo al cielo le visioni
trascorrere nel vuoto universale
le ali remiganti, i folti stormi
passare ombre nere e poi cadere
tra gli ominosi gesti, i sortilegi
e il lembo sconfinato del sentore
non si lasciava intendere o afferrare
la preveggenza acuta e illuminante
indizi come più nefasti segni:
allora che più ardente la potenza
il palpitare ignoto della vita
la brace agli occhi accesi e roteanti
sputava dalla lingua biforcuta
apriva a forza varchi dentro muri
spallava monti, abbatteva ponti
seccava fumigando i gialli fiumi
e poi, scoccando le saette dai suoi archi
mieteva a frotte martiri innocenti
come le spighe verdi in mezzo ai campi:
e fece tenebra di notte a mezzogiorno
e il mondo più non vide cosa alcuna
e da se stesso ovunque il suo contorno
sparì nel lato opposto della luna.
Cercammo Dio: non c’era.
La bestia ci sorprese tutti quanti.
Di tante anime ritornò nessuna.
labirinto
LA SCROFA
La morte ci tiene nel suo grembo
ci culla, madre della bocca
che usiamo per mangiare
baciare, parlare, vivere
del cielo che racchiude il nostro corpo:
la soglia da cui esce lo spirito, nel mondo
ed entra il vuoto dell’immensità
lungamente s’insinua, faticosamente
ovunque intorno a noi
è dentro noi. Soffia, mastica, grugnisce
ci impasta lentamente le budella.
È una scrofa che ci nutre
ci mangia, ci fotte, ci caca
ci semina, ci frutta, ci raccoglie.
Siamo i porci della morte:
rotoliamo nel fango
e mastichiamo i ruvidi diamanti
della sua beltà.
Ingrassiamo di dolore
per la baldoria guasta
di una festa grande
che verrà.
«Ascolta bene: è già con te, lì, qui.
Ti sta aspettando da una vita
oltre la porta del tuo ultimo respiro».
.
TUFFARSI
Basterebbe uno scatto di follia.
Una bestemmia di ribellione.
La forza di volerci come siamo
al di là di tutto.
Ogni accenno di ribellione
ci infervora a un dissenso
d’illusione, al fulgore inane
della vita, che cerchiamo vera.
Tuffarsi e via, lasciarsi andare
lungo il sottilissimo crinale
che separa l’ora dalla fine…
E il senso?
QUALE CENTRO
La verità? È una giostra di seggiole
che gira. Anche le seggiole possono
girare – magari in senso inverso,
contromano: così, poi,
vedi quello che tu lasci
andando avanti.
Alcune sono scomode e legnose;
altre ricoperte di velluto.
C’è qualche cavalluccio
dondolante. E si gira,
si gira tutto in tondo
per viaggiare – e il viaggio
è verso dove?
Non si esce da quel cerchio
a non finire.
E intorno a quale centro,
incontro a cosa?
escher Labirinto
CERTE LUCI
Che cosa c’è stasera nei tuoi occhi?
Hai lo sguardo strano, e acceso
delle bestie che annusano la morte.
Il battito ti ha, ormai, nella fiamma
terribile del tempo. Sei avvolta
dal futuro che ti fa carbone.
Niente ti potrà salvare.
«Certe luci» dicevi «sarebbe meglio
non spegnerle mai».
Ma tutto – ricordi? – era ancora possibile:
fino a ieri, non so perché è cambiato,
le cose si piegavano a qualunque
desiderio, in fluttuazioni
liquide, in carni tenere
come le onde che si sfasciano
nel mare. Poi, il culmine estatico
coi suoi picchi di magnificenza:
e lo splendore della tua presenza
ti ha portato via, nella fiamma
terribile del tempo. Cantava cantava
il giallo misterioso dei limoni
contro il cupo ardore delle arance
e intanto vedevi sorgere
da dentro, sotto il manto d’aria
il bianco incenerito sulle guance:
l’argento degli ulivi si spargeva
ovunque, diventavi lo sguardo
del vuoto. Ora lo senti il profumo
del tempo, il suono che dorme
sotto i grandi alberi? Brillano ancora
le strisce di sole nell’erba. La gioia
è tutta nel segreto dell’attimo
che accende l’ultimo fulgore
prima della tenebra finale.
.
INFIORESCENZA
La notte passa radiosa
della sua luce invisibile
con gli occhi di una sposa che sorride:
diamanti smerigliati di rugiada
sui vetri dove, tra meno di un minuto
squillerà il mattino.
MONTECRISTO
Ombrosa, isola isolata
incidi il tuo profilo nella luce
d’oro del crepuscolo tirreno
viola contro il fumo di laggiù
lontano, lontano, all’orizzonte
tricuspide, dentro il tuo mistero
impenetrato, chiusa Montecristo:
tu, fortezza di solitudine
immersa nel tuo tempo millenario
al di fuori del tempo
stai, protetta dalla Storia
nel silenzio dell’eternità.
Ma io ti ho visto, ti ho visto
un pomeriggio di cent’anni fa…
(Follonica, 9 luglio 2014)
Cornelius Escher
AI BORDI DI UN QUADRATO SENZA LATI
Il silenzio, oltre il vuoto nero:
il grande spazio interno
l’Uno eterno,
ai bordi di un quadrato senza lati.
L’immenso è troppo vasto
per farsi quietamente
una ragione.
Beati quelli che si accontentano
delle nuvole: io, per me, basto
alle stelle. La mia bocca storta
nello spasimo amaro
della vertigine
è una porta aperta che si chiude
sulla solitudine.
Ecco l’aprile, che non allunga ponti
al tempo della dolce convulsione
e annoda i resoconti delle sere
sopra il viso: e la speranza
è disperazione.
Il filo che mi teneva in piedi
è sempre più liso, sempre più
sottile. Devo afferrarmi
al mondo, ormai,
per non cadere.
.
OLTRE L’ORIZZONTE
L’aria si prolunga da ogni parte
dentro la rete dello spazio vuoto
dal mio corpo oltre l’orizzonte.
Che ci sarà dall’altra parte?
Chi mi attenderà?
In quale Africa del cielo, in quale Itaca
troverò me stesso?
Il sole sarà l’ultimo gradino
dopo il grande passo:
verso le sorgenti del mattino.
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