(Uno stralcio del poemetto è stato pubblicato anche su How the Trojan War Ended I Don’t Remember . Come è finita la guerra di Troia, non ricordo, Chelsea Editions, New York, 2017, 330 pagine $ 20)
L’idea forte di questa Antologia pubblicata negli Stati Uniti con Chelsea Editions nel 2017 è la individuazione di una Linea Modernista che ha attraversato la poesia italiana del tardo novecento e di queste due ultime decadi. Non riconoscere o voler dimidiare l’importanza della Linea Modernista nella poesia italiana di queste ultime decadi è un atto di cecità e di faziosità, penso che rimettere al centro dell’agorà della poesia italiana la questione della poesia modernista implichi il riconoscimento che la dicotomia tra una «linea innica» e una «linea elegiaca» di continiana memoria, non abbia più alcuna ragion d’essere, siamo entrati in una nuova situazione stilistica e poetica, il mondo, quel mondo che si nutriva di quella «dicotomia» si è dissolto, oggi il mondo è diventato globale e glocale e la poesia non può non prenderne atto ed agire di conseguenza.
Il mio personale impegno di queste ultime decadi è sempre stato quello di favorire l’emergere di una linea modernistica dalla rivalutazione di poeti come Alfredo de Palchi, Ennio Flaiano, Angelo Maria Ripellino, Helle Busacca, Giorgia Stecher, Maria Rosaria Madonna, Mario Lunetta, Anonimo Romano, Anna Ventura fino a Letizia Leone indebitamente trascurati e lateralizzati. Una storia letteraria non può farsi a suon di rimozioni e di espulsioni, compito della ermeneutica è quello di ripristinare le regole del gioco e ripulire il terreno delle valutazioni dettate da interessi di parte. Letizia Leone si pone nella linea di coloro che hanno optato per una scrittura poetica modernistica che si rifacesse al mito come fonte originaria di nuova interpretazione. La poetessa romana sviluppa il mito del satiro Marsia che sfidò il dio Apollo ad una tenzone musicale per essere poi sconfitta con un sotterfugio dal dio e condannata ad essere scorticata viva. La Leone adotta il traslato, immagina il mito dal vivo, entra direttamente nella «macelleria» dove è stato compiuto l’olocausto della ninfa Marsia (o del satiro Marsia?), il terribile misfatto da cui avranno inizio tutti i misfatti e i delitti perpetrati contro le donne e i diversi. Marsia è morto ma Marsia è vivo (viva?), e lo sarà per migliaia di anni fin quando ci saranno dei diversi e delle donne che vengono torturate e uccise per un ciuffo di capelli fuori ordinanza come l’iraniana Masha Amini che ha dato il via all’autunno di rivolta e di proteste nel paese islamico, ma il mito di Marsia ripreso da Letizia Leone vuole indicarci anche le tribolazioni di tutti i diversi e di tutte le donne che hanno lottato e lottano contro i soprusi e le angherie degli uomini di potere e degli dèi proconsolari, contro tutte le ideologie del potere maschilista, contro l’accettazione remissiva dell’ontologia della guerra.
Anche da Letizia Leone si diparte la individuazione della linea che segue la poesia modernista di fine novecento, ovvero, la nuova ontologia estetica, che altro non è che un approfondimento e una rivalutazione delle tematiche della linea modernistica su un altro piano problematico. Certo, la problematizzazione stilistica e filosofica della nuova ontologia estetica è l’indice dell’aggravarsi della Crisi rappresentativa delle proposte di poetica personalistiche e posiziocentriche che continuano inconsapevolmente la grammatica regionale ed epigonale di una poesia ancora incentrata sull’io post-elegiaco. Ecco, questo è il punto forte di discrimine tra le posizioni epigonali e quelle della nuova ontologia estetica che ritengo caratterizzata da uno zoccolo filosofico di amplissimo respiro e dalla consapevolezza che una stagione della forma-poesia italiana si sia definitivamente esaurita. E che occorra aprire una nuova pagina.
Riporto, per completezza, il brano di Giorgio Agamben sulla vexata quaestio della linea innica e della linea elegiaca:
«Tra le cartografie della poesia italiana del Novecento, ve n’è una che gode di un prestigio particolare, perché è stata stilata da Gianfranco Contini. La caratteristica essenziale di questa mappa è di essere incentrata su Montale e sulla linea per così dire “elegiaca” che culmina nella sua poesia. Nel segno di questa “lunga fedeltà” all’amico, la mappa si articola attraverso silenzi ed esclusioni (valga per tutti, il silenzio su Penna e Caproni, significativamente assenti dallo Schedario del 1978), emarginazioni (esemplare la stroncatura di Campana e la riduzione “lombarda” di Rebora) e, infine, esplicite graduatorie, in cui la pietra di paragone è, ancora una volta, l’autore degli Ossi di seppia (1925). Una di queste graduatorie riguarda appunto Zanzotto, che la prefazione a Galateo in bosco (1956) rubrica senza riserve come “il più importante poeta italiano dopo Montale” (…) Riprendendo un cenno di Montale, che, nella recensione a La Beltà (1968), aveva parlato di “pre-espressione che precede la parola articolata”, di “sinonimi in filastrocca” e “parole che si raggruppano per sole affinità foniche”, la poesia di Zanzotto viene definita nello Schedario nei termini privativi e generici di “smarrimento dell’identità razionale” delle parole, di “balbuzie ed evocazione fonica pura”; quanto alla silhouette “affabile poeta ctonio”, che conclude la prefazione, essa è, nel migliore dei casi, una caricatura. (…)
L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini. Di questa paziente strategia, che si svolge coerentemente in una serie di saggi e articoli dal 1933 al 1985, l’esecuzione sommaria di Campana, il ridimensionamento “lombardo” di Rebora e l’ostinato silenzio su Caproni e Penna sono i corollari tattici. In questo implacabile esercizio di fedeltà, il critico non faceva che seguire e portare all’estremo un suggerimento dell’amico, che proprio in Riviere, la poesia che chiude gli Ossi, aveva compendiato nell’impossibilità di “cangiare in inno l’elegia” la lezione – e il limite – della sua poetica. Di qui la conseguenza tratta da Contini: se la poesia di Montale implicava la rinuncia dell’inno, bastava espungere dalla tradizione del Novecento ogni componente innica (o, comunque, antielegiaca) perché quella rinuncia non apparisse più come un limite, ma segnasse l’isoglossa al di là della quale la poesia scadeva in idioma marginale o estraneo vernacolo (…) Contro la riduzione strategica di Contini converrà riprendere l’opposizione proposta da Mengaldo, tra una linea “orfico-sapienziale” (che da Campana conduce a Luzi e a Zanzotto) e una linea cosiddetta “esistenziale”, nella polarità fra una tendenza innica e una tendenza elegiaca, salvo a verificare che esse non si danno mai in assoluta separazione.»1]
(Giorgio Linguaglossa)
1] Giorgio Agamben, Categorie italiane, 2011, Laterza p. 114
(da Letizia Leone, La disgrazia elementare, Giulio Perrone Editore, Roma, 2011)
(da AA.VV. Poesia Italiana Contemporanea, a cura di G. Linguaglossa, Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016)
(Uno stralcio del poemetto è stato pubblicato anche su How the Trojan War Ended I Don’t Remember – Come è finita la guerra di Troia, non ricordo, Chelsea Editions, New York, 2017, 330 pagine $ 20)
Opera di Giorgio Ortona, ritratto di Letizia Leone
.
Letizia Leone
Estasi Della Macellazione
Chi conosce l’indirizzo dei mattatoi?
Supplizio fossile
(Del Satiro Marsia che osò sfidare in gara musicale il dio Apollo e finì scorticato vivo: strumento cantante.)
No,
non avresti dovuto scherzare col suono
col grido di do
questo drago illeso nel fuoco della campana,
nell’arca di bronzo. Né usare
le note
dell’uovo spaccato
quasi fossero venti, Marsia!
Per non dire delle folate d’aria
sullo scheletro vibratorio delle sillabe.
Hai immolato il tuo corpo.
Raggiante di silenzio e morte
sembra il lavoro di un sadico
ma c’è troppa letizia di un dio
in questo fasto del sangue.
E che altro?
Il canto di lode
travolse gli alberi da olocausto,
era dunque musica incosciente
la risata quadrata della natura?
Poi si sa, un dio
in questo caso Apollo,
è un mezzo vivo con poca musica,
affamata di grida guerriere
la sua sordità.
E come si canta?
I
Dapprima il gioco di Apollo
fu pantomima del tuono
grande musica totemica.
Imitava – lui, dio pappagallo-
i rumori robusti delle materie:
folgori mareggiate sfregamenti
di bestie contro cortecce
poi passò agli animali,
esaurito il coro della natura,
prese dai vivi il fiato per un canto,
l’invidioso.
Ma gli inni primaverili, l’accompagnamento
dei cembali, i tintinnii, in fondo
lo mettevano a disagio
che farsene di un Cantico solare?
Costruire un tamburo di pelle
dura e gonfia con pezzi d’animale
e assordare Marte con quest’arma sonora
al ritmo delle arterie
una crociata di rombi, urla
a squarciagola
e le lingue profonde dei selvaggi
farle volare mozzate con la freccia sibilante
di un suono e gli schizzi di sangue,
questo si che è uno strumento cantante
da pestare con mani e piedi
su una terra assetata
– se è vero che i suoni incurvano e spezzano-
e poi si potrebbe amplificare tutto in un
antro! Questo pensava Apollo.
Oppure un altro ordigno: il corno.
Con tamburo e corno
sarebbe stato più facile imboccare la via dell’inferno.
II
Ma questi, di far risuonare caverne
erano desideri inespressi
profondi. Che qui come dio
gli toccava accoppiarsi al sole
all’armonia delle piante
alla forza altalena di una scala maggiore,
una gru di toni e ipertoni
dai ritmi edificatori,
insomma
all’unisono con i bocci
tanta musica alata
a nutrire gli insetti non nati
pronti a tuffarsi nella luce.
Perché un cantare supremo era il suo compito
apollineo, celebrare il culto
della vita con la lira.
Altro che clamori infernali.
III
Per il combattimento col suono
doveva arrivare questo
metà uomo e metà caprone, satiro peloso
col suo flauto fiammante rubato a una dea
giocattolo erotico,
un congegno di magia amatoria!
Suonava l’ominide, musica fatale
sfregamenti sensuali di gioia
che spietrificavano, eccitavano i pistilli,
le crescite
i matrimoni dei morti, le primavere, i germogli
tutti tirati fuori dalle grotte
al sole neonato del solstizio
ai sonagli dei suoni
al canto chiaro e rotondo
le forti lucertole da scaldare
fuori le foglie, le corazze di pepe, le rute,
l’erba cornacchia, i grani d’alloro
al sole dai letarghi il castoro
dai tuorli invernali gli insetti
verso l’alba i ruggiti del leone,
ogni sasso incantato in diadema
in un trionfo di splendore
e ogni fiore d’ortica
uno sprizzare d’incenso.
Si divertiva così quel presuntuoso,
lanciando note come trappole d’attrazione.
Troppo.
Gongola Marsia
nel delirio da esibizione, nella gloria
assoluta delle tonalità:
“Non è poi così difficile essere un dio
quando si suona.
E Apollo chi è?”
IV
Ma un vero Dio
si annuncia a passi disordinati
con una voce intonata che usa il fragore dei tuoni
o i versi delle bestie feroci poiché il suo strano
fiato gli è sfuggito
dalla gola ed è caduto
nei rami o nell’acqua, e poi generosamente
in tutte le materie del regno.
Chi è che ruba questa musica da ballo, questa primavera
questo carro
d’oro del risveglio lo affonda nelle mie foglie?
Chi rafforza i vegetali in mia vece?Chi risorge
dal suo corpo sepolcro
con i miei poteri e usurpa
redenzione
con una canzone?
Satiro irriguardoso
ti esaudirò, ti farò cantare per sempre
il sacrificio sonoro della carne.
“In ligno
caro extenditur, ut tympanum fiat et ex cruce
discant suavem sonum
gratiae confiteri”: dal tuo legno
un suono soave.
Si, ti suonerò.
L’olocausto è l’orchestra
di accordi vivi fabbricati
con ossa, pelli, intestini, capelli
muti fino
al flauto, al corno, al tamburo, alle cetre
d’iniziazione, alla dolce cantilena delle corde.
V
Solennemente dolore.
VI
Sotto salasso
l’operazione cominciò dalla cassa toracica, (disse un testimone
o perlomeno giunse così la notizia
sui fogli del mito
sui fogli del sogno)
lo scorticamento
non dalle punte del corpo ma dal centro
ovale della pienezza, là dove si raccoglie l’alito anzi il respiro, anzi il suono concentrato
del calmo tamburello cardiaco.
Sebbene l’orecchio di questa specie nana dei boschi
si palesasse come organo supremo dell’ascolto,
(ma l’ avete mai vista da vicino
l’appuntita forma dell’orecchio di un Sileno?)
pronta a scattare ad ogni piuma vibratoria,
puntuta antenna come quella dei cani.
Uno allora potrebbe immaginare che si cominciassero a strappare le carni
da lì, macchè…
Apollo sfoderò un’unghia felina,
un bisturi, lungo uncino corneo
come se si dovesse lacerare la verginità di un’imene
e alzò in aria la mano
magra aperta nella sfida degli artigli
contro la faccia del martire.
Bellissimo, la voce piena di giovinezza,
si aprì in un sorriso a mostrare tutti i denti:
“L a t o r t u r a s a r à l e n t a e d o l o r o s a
o r a c a n t a s e n z a a c c o m p a g n a m e n t o,
c o l m a d i d o l o r e p u r o l’u n i v e r s o”:
Fu suadente il suo dire.
VII
Il capro umano non riusciva a sopportare
il pensiero dell’imminente
olocausto, non riusciva a svenire,
levato a testa in giù
nella paralisi della minaccia
chiuse gli occhi strizzando le palpebre in due rughe d’inghiottimento.
Però un essere così irsuto, non dico solo
nelle zampe di animale ma anche nel petto,
villoso e spinoso
prima di essere spellato in quarti di pelle
da asciugare al sole,
necessitava di rimanere calvo in ogni angolo.
Fatti cassa di risonanza animale del fuoco…
Anche se la frusta esorcistica delle grida
sembrò esagerata per una semplice limatura
che strappava i peli a tappeto
dai pettorali dalle braccia dalle cosce
fino allo zoccolo,
mentre tutto il corpo trascolorando come
sotto effetto di bruciatura confondeva,
ma era sangue in risveglio
in uscita all’alba
dalle spugne muscolari,
Quando iniziarono i meravigliosi tagli
si fece udire la cascata lirica suprema
dei liquidi e dei vulcani
insieme sulla pelle,
musica degli angeli inascoltabile
che i versi della lotta con la morte dell’animale
parevano coprire, e coprivano tutto,
fin l’intero universo
di sangue.
VIII
Tanti palpiti a disposizione
ma soprattutto pelle
urlante, rantolante, vibrante,
in forti spasmi e scosse.
Si divertiva Apollo nella sua evasione satanica.
E quanto era dura la cotenna
da staccare lenta e che difficoltà a tirarla giù tutta intera
quella guaina impregnata di vita in convulsione
centimetro dopo centimetro
con lentezza.
Ogni tanto l’uomo capra moriva
e si poteva lavorare meglio
soprattutto tra le dita e i pollici
ma era uno svenimento breve
in flatus voci
tra le labbra che cominciavano a chiudersi in u
articolato tutto l’alfabeto platonico
le armoniche della lamentazione
fino alla fine delle forze.
Intorno né uccelli né foglie
ma pelle
pelle sacrificata
stesa per un nuovo e fiammante corpo-tamburo.
Lenzuola rosa ad asciugare.
IX
Un albero calvo
legno della croce dell’appeso
carogna nel silenzio
che a terra ha formato un rivo acido
mai nessun ombra in volo
tutti gli uccelli lontani
perché fu scritto che
un colpo d’ali mette in moto il respiro
e qui adesso un punto si è fermato
si prega nell’impossibilità, attimo sacro
per il ritmo chiuso del prima
senza fiato
un passato del sogno tramontato
in un pugno la fame degli dei
ssssssssssst…
piuma ferma
eternità del Tao.
Letizia Leone
From La Disgrazia Elementare (The Elementary Misfortune) Giulio Perrone Editore, Rome, 2011
THE ECSTASY OF SLAUGHTER
Who knows the address of the abattoir?
The Fossil Torture
(Of Marsyas the Satyr, who dared challenge the god Apollo to a musical contest and was flayed alive. A singing instrument.)
No,
you should not have trifled with the sound
with the cry of C
this dragon unscathed in the bell’s fire,
in the bronze ark. Nor used
the notes
of the split egg
as though they were winds, Marsyas!
Not to speak of the airy gusts
on the syllables’ twanging skeleton.
It was your body’s immolation.
Radiant with silence and death
it looks like a sadist’s job
yet great indeed is a god’s delight
in this splendor of blood.
What else?
The song of praise
overwhelmed the trees of extermination:
was it then an unconscious music,
nature’s square burst of laughter?
For we know, a god
– in this case Apollo –
is a living means with little music,
and such deafness hungers
for warrior cries.
Then how is it to be sung?
At first Apollo’s game
was a pantomime of thunder,
great totem music.
He – parrot god – mimicked
the rugged noises of prime matter:
lightning bolts heavy seas scratching
of beasts against tree barks,
then he turned to the animals –
having exhausted nature’s choir
he, the envious one,
took from the living the breath for a song.
But the hymns of spring, the accompaniment
of cymbals, the tinkling, only
made him uneasy –
to what purpose a canticle to the sun?
Fashion a leather drum rugged and tight
with animal parts
and deafen Mars with this weapon of noise
to the rhythm of the arteries
a crusade of roars, of ear-splitting
cries
and the deep-slit tongues of savages
make them fly with the whining arrow
of a sound and the spurting blood:
truly this is a singing instrument
you can beat with hand and foot
on parched soil –
if sounds indeed do bend and crack…
And then why not amplify it all inside
a cave! These were Apollo’s musings.
Or then another device: the horn.
With drum and horn
it would be easier to go the road down to hell.
But to cause caves to resound
were but deep, unspoken
desires. For here as a god
he must mate with the sun,
in harmony with the plants
the see-saw power of a major scale
a crane of tones and hypertones
with edifying rhythms:
in short
in unison with all the buds
feed this winged music
to the unborn insects
ready to dive into the light.
For a supreme song was his Apollonian
duty: celebrate the cult
of life with a lyre.
Surely no such infernal uproar.
To engage in a fight with sound
this half-man half-billy-goat
needed to come – a furry satyr
with the shiny new flute he filched from a goddess,
a sex toy,
a device for amatorial magic!
So the hominid played away: a fatal music
of sensuous rubbings of joy
that unpacked the stones, excited the pistils,
the burgeonings
the weddings of the dead, the spring seasons, the sprouts –
every one of them drawn from the grottoes
to the newborn sun of the solstice
to the harness bells of sounds
a song round and clear
to warm the strong lizards –
out with the leaves, pepper’s armor, rue,
hedge mustard, laurel berries –
from winter sleep beavers to the sunlight,
the insects out their winter yolks,
the lion’s roaring at dawn,
each stone an enchanted diadem
triumphant splendor,
and a scattering of incense
from each nettle flower.
This is how that impostor delighted,
casting notes like snares that attract.
Too much.
Marsyas revels
in his drunken exhibitionism, in the supreme performance
glory of those tones:
“It’s not so difficult after all to be a god
when you play.
And who is Apollo?”
But a true god
heralds his approach with disorderly steps
with a tuneful voice that uses rumbling thunder
or the calls of wild beasts, for his strange
breath has slipped
from his throat and fallen
on the branches or into the water, and then generously
amid all the kingdom’s substances.
Who is it steals this music for dancing, this spring season
this golden
chariot of awakening and plunges it into my leaves?
Who in my stead strengthens the greens? Who rises
from his entombed body
with my powers and usurps
redemption
with a song?
Disrespectful satyr,
this shall I grant you: to sing forever
the sacrifice of sound of your flesh.
“In ligno
caro extenditur, ut tympanum fiat et ex cruce
discant suavem sonum
gratiae confiteri”: out of your wood
a gentle lilt.
Yes, I shall play you.
Sacrifice is the orchestra
of live chords made
from bones, skin, intestine, hair
dumb until they reach
the flute, the drum, the zithers
of initiation, the strings’ sweet chant.
Solemnly pain.
As for bloodletting
the job began from the rib cage (said a witness
or at least so came the news
on the leaves of the myth,
on the leaves of dream):
a skinning
not from the body’s extremities but from its full
oval centre, where is gathered breath – nay, respiration – nay, the taut sound
of the heart’s calm tambourine.
Even though the ear of this dwarf species of the woods
was disclosed as the supreme organ of hearing,
(have you ever closely observed
the sharp ear tip of a Silenus?)
ready to start at every twitching feather –
a pointed antenna like a dog’s.
So you might imagine flesh now being torn
from there, not a bit of it…
Apollo drew out a catlike nail,
a scalpel, a long horny hook
as though a maiden’s virginity needed to be slit
and he lifted his thin hand in the air
opened with all its claws in a challenge
straight at the martyr’s face.
Wondrously handsome, his voice full of youth,
he broke into a smile showing all his teeth:
“t h e t o r t u r e w i l l b e s l o w a n d p a i n f u l
n o w s i n g w i t h o u t a c c o m p a n i m e n t,
f i l l t h e u n i v e r s e w i t h p u r e p a i n.”
These were his charming words.
The human goat could not bear
the thought of the impending
torment, nor get himself to faint:
strung up head down
paralysed by that threat
he squeezed both eyelids till two creases
swallowed his eyes.
But such a creature, shaggy not only
on his animal paws but on his chest as well –
hairy and thorny –
ever before being flayed in so many sections of hide
for drying in the sun,
needs to remain bald all over.
Become a resonant cavity, animal of fire…
Even though the exorcising whip of cries
seemed overdone for this simple paring
that tore the hairs like a carpet
away from pectorals arms thighs
down to his very hoofs,
while the entire body in a flush as though
by burning grew bewildered
but it was blood awakening
bursting out at dawn
from the sponges of his muscles.
When the wonderful cuts began
a supreme lyrical cascade was heard
of liquids and volcanoes
together on the skin,
unlistenable angel music
which the calls of the animal’s death struggle
seemed to cover, and covered all,
the entire universe
with blood.
So many throbs available
but above all the shouting,
gurgling, twanging skin
in powerful spasms and shudders.
Apollo was having a high time in his satanic evasion.
And how tough, that hide
that required slow detaching, how hard to pull it down all in one
that sheath drenched with life in convulsions
inch by inch
in slow motion.
Now and then the human goat would die
and then it’s easier to work
particularly between finger and thumbs
but it was a brief swoon
in flatus voci –
between his lips now closing in a U shape
the entire Platonic alphabet was uttered
as the overtones of lamentation
sapped his last strength.
All around no birds no leaves
but skin
victim skin
stretched out for a brand-new drum body.
Pink sheets put out to dry.
Look: a bald tree
wood of the cross of the hanging one,
carrion in the silence
leaves an acid trickle on the ground
never a shadow soaring
all the birds out of sight
for it was written that
a wing-beat starts the breathing
and now a point here stands still,
the impossible prayer, a sacred moment
for the rhythmic shutdown of the breathless
before
a past tense of the now dehydrated dream
the hunger of the gods in a fistful
sssssssssssst…..
still feather
Tao’s eternity.
Un carissimo abbraccio,
Antonio Sagredo
———————————————————————-
Ai poeti grecolatini, i miei debiti
Quel torpore che agli angeli dona un volo di disarmonie
è l’istanza di una finzione che reclama un osceno canto,
un salmodiare che nei miei impuri versi agli Enti Eterni
lo sguardo distoglie dalle catastrofi tra ceneri di morti.
Eppure io gradisco poco un verso fatto e limato,
ma tu con le parole mi raggiri, e un patibolo per me,
distratto, costruisci: tu sei il solo che dà retta alle mie inezie!
La condanna è irriverente, come l’artiglio di una tragedia.
La Notte che mi sfidava come il flauto di Marsia
coronava di spazi strani i punti cardinali
e la fronte di Antonio che crollava coi suoi natali –
ma le sue pagine sono eterne, ben oltre la sua fine.
Era quel rogo terminale fra coriandoli e scintille
il capezzale dove la Trinità danzava come Valpurga,
le mie narici si gonfiavano come vele infernali –
sono stato inquietato dai canti e dai trionfi!
Il sigillo dei miei canti mai spezzato da nessun oblio,
né dal sole, non sarà più di una trascorsa terra,
ma un pianeta altrove su altre cave orbite mi offrirà
in ginocchio un’altra umanità –e sarò letto, io, ancora!
E fra crudi inverni e balsami persiani saprò là
ritrovare le mie cadenze, studieranno i lirici
le mie canzoni, le elegie domino come i lauri,
sarò sempre con voi, versi miei: schiavi, signori!
antonio sagredo
Vermicino, 28 febbraio 2008
Ma Marsia è un sileno, non una ninfa! La poetessa ne fa una ninfa? Non
l’ho letta, e dunque non posso pronunciarmi. Ma sarebbe un’interessante
trasformazione – moderna – del mito. Cfr.
https://www.treccani.it/enciclopedia/marsia/
Dino Villatico
Il 08/11/2022 08:25, L’Ombra delle Parole Rivista Letteraria
Internaziona
Mi correggo. Ho letto la poesia di Letizia Leone. Anche per lei Marsia è
un “satiro”. Come diventa “ninfa” nel commento?
Dino Villatico
Il 08/11/2022 08:25, L’Ombra delle Parole Rivista Letteraria
Internaziona
Ringrazio Giorgio Linguaglossa per l’inquadramento storico -critico di questo mio poemetto “Estasi della macellazione”, una neo-allegoria che si rivela purtroppo attuale e procede per assimilazione profonda del mito più che per riproposizione. Così anche il satiro Marsia, in quanto altro, diverso, marginalizzato può trasfigurare in Ninfa (in un senso tutto contemporaneo di una condizione di violenza di genere istituzionalizzata nelle feroci teocrazie del 2022, una misoginia di stato che annienta il femminile). Inoltre è importante sottolineare come questa antologia americana del 2017 con i suoi notevoli contributi poetici, si riveli anello di congiunzione di un modernismo mancante nella linea poetica italiana. Poesia modernista magistralmente individuata da Linguaglossa nei suoi esponenti principali, non a caso, trascurati e marginalizzati. Ricambio i saluti e ringrazio per l’attenzione e le letture Antonio Sagredo e Dino Villatico.
Sono io che ringrazio per la precisa risposta. Mi era parso d’intuirlo, ma non volevo sovrappormi all’autrice dei versi. Gli spagnoli reputano indeclinabile la parola poeta e mi piacerebbe che l’uso entrasse anche in italiano, il che rispetterebbe la parola greca che è ambigenere. Del mito di Marsia Tiziano ha dipinto una rappresentazione terribile. Dante ne fa addirittura una metafora dell’ispirazione. La lettura moderna dei miti – e non solo di quelli greci – mi sembra una via eccezionale di riscoprire una continuità nell’esperienza della cultura umana, anche a distanza di millenni. Ma si deve avere, appunto, un occhio moderno, e non accademico, di lettura. Cosa che riscontro attuata con consapevolezza nei versi di Letizia Leone.
Il satiro Marsia è un diverso, mezzo animale e metà uomo e in quanto tale, è un irregolare, un reietto, un mezzo animale e un mezzo antropos; la sfida che lancia al dio Apollo è percepita da quest’ultimo come un oltraggio e il dio non lo può consentire.
Il pezzo di Letizia è forse il suo capolavoro poetico che si distanzia dalla poesia mitopoietica che andava di moda negli anni ottanta, Letizia ci parla dell’oggi, dei rapporti di potere tra le potenze e tra gli umani e i mezzi animali e Apollo è una potenza dispositiva, da lui ha inizio la storia dell’Occidente e la sconfitta del satiro era ampiamente prevedibile e già messa in calendario. Poesia modernista, appunto, non poesia neo-orfica come andava di moda negli anni ottanta. Poesia modernista che segna la fine del modernismo poetico in Italia. E questo qualcosa significherà pure…
copio e incollo qui una composizione molto interessante di un giovane, Davide Galipò… finalmente un giovane che non scrive poesia epigonale. Una eccellente composizione che sembra senza futuro e senza passato, uscita fuori da una cinepresa d’altri tempi…
Lo spettatore è introdotto
in una sala cinematografica
senza sedie, ai cui lati
vengono disposti degli altoparlanti.
Da questi si diffonde
una serie di discorsi alle nazioni europee
dei grandi dittatori del passato:
Mussolini, Franco, Hitler, Pinochet.
Avvicinandosi agli altoparlanti
possono essere compresi
nella loro interezza.
Sul fondo della sala, su uno schermo
viene proiettato un film muto
consistente in due labbra femminili.
Il filmato presenta poi dei frame
provenienti dai CIE libici:
radiografie di fratture, contusioni, traumi
che – spesso – vengono inviate
alle famiglie per chiedere un riscatto.
Le fotografie durano pochi secondi
e non vengono percepite dallo spettatore
se non a livello subliminale.
Man mano che il filmato va avanti
il volume dei discorsi alle nazioni aumenta
fino a sovrapporsi l’un l’altro.
Un suono acuto interrompe il brusio.
Sullo schermo un veloce montaggio
delle fotografie dei prigionieri libici.
Due altoparlanti all’uscita diffondono
il plagio di massa necessario
ad abbassare presso un’intera comunità
il livello di coscienza e accettare
passivamente tale prevaricazione.
Il testo è riportato integralmente
sullo schermo e scorre
a caratteri bianchi su sfondo nero
come i titoli di coda di un film.
https://davideidee.wordpress.com/2022/10/19/discorsi-alla-nazione/
Sono nato a Torino nel 1991 e cresciuto in Sicilia. Nel 2015 mi sono laureato all’Università di Bologna, con una tesi sulla poesia dadaista nella Neoavanguardia italiana. Nel 2016 ho partecipato al Premio Alberto Dubito di poesia e musica con il progetto spoken word music LeParole, arrivando tra i quattro finalisti. Nel 2020 sono arrivato in finale al Premio InediTO con il progetto spoken word music Spellbinder, menzionato dalla giuria tra i migliori testi di canzoni. Nel 2022 ho iniziato il mio progetto cantautorale, Galipœ. Sono autore delle raccolte di poesia visiva VIC0LO (2015) e di poesia lineare Istruzioni alla rivolta (2020) e degli EP Volontà di vivere (2016), Madrigale (2020) e La Terra La Guerra E Noi (2022). Dirigo il magazine «Neutopia – Rivista del Possibile» e organizzo il festival Poetrification, nel quartiere torinese Barriera di Milano. Sono referente del Premio Roberto Sanesi di poesia in musica. Vivo e lavoro a Torino come operatore culturale.
Grazie dell’attenzione Giorgio, contento di essere tra coloro che non scrivono poesie epigonali, anche se non più “giovanissimo”.
Dinanzi ad una poesia dobbiamo innanzitutto soffermarci sul lessico (Mussolini, Franco, Hitler, Pinochet, sala cinematografica, altoparlanti, schermo, sala, filmato, caratteri bianchi su sfondo nero, film, titoli di coda etc.); in secondo luogo, sullo stato di cose, ovvero, sullo stato del luogo (un cinema); in terzo luogo, l’azione che vi si svolge; in quarto luogo, lo stile, in questo caso dichiarativo, ovvero, nominale, cioè che semplicemente espone le cose e lo «stato delle cose»; in quinto luogo, le immagini. Tutte queste cose insieme formano una rappresentazione, ovvero, una composizione di nomi di cose messi in modo tale da dare al lettore una sensazione prima ancora che una impressione. La sensazione contagia e determina l’impressione. Nel caso della composizione di Davide Galipò abbiamo una rappresentazione neutrale e neutrofilica, come se le cose venissero viste dal di fuori dello «stato di cose» e dello «stato dei luoghi», proprio come avviene al lettore il quale vede le cose dal di fuori attraverso una rappresentazione ortogonale tutta di superficie, in piena visibilità.
È chiaro a questo punto che qui siamo fuori della ontologia negativa del novecento che perorava che l’essere è ciò che non si dice, qui siamo entrati nell’ontologia positiva per cui l’essere è ciò che si dice.
https://pbs.twimg.com/media/FhHjyqoXEAA4SfS?format=jpg&name=small
NON SAI MAI
Non sai mai
se puoi raccogliere
stelle in una pozzanghera
comprendere il raspo d’uva
che svuota il Trasimeno
sentire il fragore di dei
che si nascondono in un menisco
e le scale musicali diroccate
uguali a tagliole
a campi minati di mirto
dissolti in un lenzuolo
con ai capi artigli
e bavero di gallio
in stagioni sfogliate al contrario
diademi di cubi cuciti sugli obici
dentro un pugno senza uscita di sicurezza
aspettando il prossimo volo
da un lato all’altro della testa
per scoprire gli angoli
di soli in esubero
Gli adulti assennati che sono stati educati alla poesia del Pascoli di Myricae (1891- 1903) avevano della poesia una rappresentazione illibata e intonsa, posizione che il Croce ha poi eternizzato nella la famosa forbice dicotomica: o è poesia o non lo è, risolvendo a suo modo, in modo semplicistico e al modo del liberalismo italiano post-ottocentesco una questione che avrebbe dovuto comportare una ben altra problematizzazione; quegli adulti poi sarebbero andati come ufficiali cadetti e soldati a invadere la Libia nel 1911 e a compiere massacri senza falsa coscienza e senza colpo feìrire… che poi le poesie del Pascoli avevano la funzione sanatoria di silenziare rimorsi (semmai ve ne fossero stati) e dubbi sui massacri che essi stavano compiendo.
Oggi ai poeti post-pascoliani e post-minimalisti non viene certo in mente la situazione del mondo (di allora e di ora), quella cosa lì non li riguarda, infatti continuano a produrre poesie dozzinali ed epigonali che vengono incensate sul Sole 24 Ore; in confronto ad esse, le poesie di Mimmo Pugliese sono solo binocoli che osservano da molto lontano il mondo ridotto a fumo e cenere che il minimo alito di vento le farebbe volare via se non ci fosse il ferro di cavallo lontanissimo e quasi in disparizione della colonna sonora della poesia del Pascoli ma così scolorita da renderla irriconoscibile, e infatti irriconoscibile lo è la poesia di Pugliese, proprio come tutta la poesia della natura de-naturata e della natura de-formata della migliore e consapevole poesia di oggidì che fa capo alla poetry kitchen..
PER MILAURE COLASSON
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davvero non mi sonoa ccorto che in Itala ci fosse una
Poesia Modernista.
Tra l’altro non so cogliere nemmeno il significato.
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So che in Spagna c’è stato una corrente che si chiamava “Modernismo”, ma anche da giovane non sapevo cogliere il significato. Forse che ho un metro di misura diverso, ma non ne sono consapevole.
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E’ che da un solo verso comprendo se quello che sto leggendo è un poeta, oppure no: agisco come una accetta.
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Poi non capisco cosa voglia dire scrivere una “poesia epigonale”,
spiegatemelo, per favore.
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DIECI MOTIVI PER BECCARE IN UN VASSOIO UN GIORNO DI SOLE DEL SECCO NOVEMBRE
1- Sembrerà strano ma essere neri tra colombi è di grande vantaggio.
Niente scorrerie del mediterraneo, tutto made in Italy, con residenza fissa
E figli a scuola con lo scuolabus.
2- Il sole guarda ma non ferisce. È l’oscuro che fa parlare il mare se, ad ali aperte, ci si avvicina troppo. Una mano-cosa c’è appeso alle ossa?- che allontana, conterrà crema di topo.
3-Gustosi crackers e olive salutano in bitontino:- Qui sull’arida sponda…
Nessuna citazione è permessa a quest’ora. Non si sa dove finisca la pancia.
Ad Ovest però c’è una fattoria di sole mucche. Dicono che ci sia una piantagione d’idrogeno più a Nord.
4-Plutonio è mio fratello. Lebbroso e tisico si lascia accarezzare da suore della carità. Talvolta al piede stringe un calzino e non caccia. Rosso per l’eccellenza ma senza gerarchie e poi diciamocelo, qui il piede sull’acceleratore suda parecchio.
5-Cagare è sconveniente in certi casi ma su una sedia calda è da gran signore essere stitici.
6- Non si importunano i barboncini delle signore. Tra generi ci si intende su chi è lo schiavo e chi il padrone. Ma nessun cane beve whisky alle 12,30 e sorseggia un buon caffè dopo un wurstel. Il cielo è calvo e sudato. Sul prato si fa jogging e si parla di Titano.
7- Alla barche manda a dire che non c’è una lisca per la mente. Viaggiare come fanno i cormorani e poi poggiare i piedi su un chiodo ritenendo inaffidabili gli spettatori a riva. Questo sì che salva il pranzo.
8- I due capelloni parlano in linguaggio floreale. Un petalo giura all’altro eterni abbracci. D’ora in poi si parlerà di meno e in cambio nascerà una margherita direttamente sulla nostra frisella.
Un asso di ritorno: dove la farò?
9-Il nono è sempre l’ultimo. Non si inizia una decina senza tracimare un secolo in un altro. Se al piede si hanno le zeppe di Maria Antonietta non diventeranno i tacchi a spillo di Lady Gaga. E dunque insabbia tutto in un foglio di carta.
Che sia il menù di domani?
(F.P. Intini)
Francesco Paolo Intini
CALCOLARE L’EQUIVALENTE IN EURO DI 6000 BOMBE NAGASAKI
(Dati: 1 ton = Mille chili di tritolo
Costo di 1 Kg di tritolo: circa Mille euro
Bomba di Nagasaki: circa 20 Kiloton )
Diciamocela tutta la cifra, senza indietreggiare davanti all’imponenza.
Guerre se ne sono viste e anche blatte che entravano ed uscivano
da corpi fecondati da una cicca ma la cifra significativa si è presa la rivincita
E si è incoronata regina cingendosi da sola il capo.
Il re imperatore a fianco.
Napoleone cammina tra di noi. Sotto falso nome sbarcò da Sant’Elena.
Perché dare della mummia a uno standard di perdente?
Chi indovinerà sotto la leggiadria del metro un irredento re di spada?
Uno che capiva di batterie di cannoni non si sarebbe perso il nostro tempo
solo perché un Metternich gli aveva tolto di torno l’Europa
come uno scatolo di Borboni fai da te.
Dal calcolo o si esce vincenti o si rischia l’ignoranza.
Guerre se ne sono viste ma con le cifre in trincea
e con molti zeri per la truppa
si è rischiato di vedere l’Africa impazzire
e rimettere sul mercato un Neanderthal azzoppato e con molte tare.
Ah i ferri del mestiere, l’agrodolce dei soldatini di piombo
ha conquistato l’ albero maestro del transatlantico
per sbarcare sulla luna e riderci in faccia.
Beethoven sul marciapiede non è un bello spettacolo
e poi diciamocelo chiaramente
di Elisa non si vede l’ombra
Il disgusto sale in cattedra?
Le cifre sono cifre e tra kilotoni ci si intende.
Solo il costo non si comprende ed i teoremi dell’ultima cifra si afflosciano
perché una imprecisione di un milione di miliardi non è alla portata di bilancia.
Dell’alta finanza sì!
Commento
Facebook è una Chiesa ci rende meno liberi e più sottomessi. Twitter, Tic Toc, Instagram, il tablet, lo smartphone, i monitor… i romanzi, le pseudo poesie, i film dozzinali, i tiggì, le sale concerto, le sale da ballo, gli open space, gli spaceLab, le agorà etc., perfino le guerre, vicine e lontane viste in video e in foto, gli youporn sono i nostri panottici digitali, sono le novelle scuole della nostra sottomissione attiva, l’I like è il nostro Amen, il nostro credo devozionale.
Ogni dispositivo elettronico, produce una tecnica di dominio, produce oggetti devozionali,che vengono utilizzati per sottomettere: materializzano e stabilizzano il dominio.
Devoto significa sottomesso. Lo smartphone è un oggettodevozionale di natura digitale, anzi è per eccellenza l’
oggetto devozionaledel digitale. Come strumento di soggettivazione funziona come il rosario,che pure rappresenta, per la sua maneggevolezza, una specie di cellulare.Entrambi servono alla sorveglianza e al controllo del singolo su se stesso.Delegando la sorveglianza a ogni individuo, il dominio aumenta la propriaefficacia. Il like è l’amen digitale. Mentre clicchiamo like, ci sottomettiamo al rapporto di dominio. Lo smartphone non è solo un effettivo strumento disorveglianza, ma anche un confessionale mobile.
Facebook è la Chiesa, la Sinagoga – letteralmente, “adunanza” – globale del digitale.
E la risultante di questa gigantesca sottomissione al dominio con tanto di atto di devozione agli dei di oggi: FB, Twitter, difesa dei confini della Nazione, tiggì, youporn, guerra, fake news, romanzi dozzinali etc. … a tutto questo la poesia di Intini, del giovane Galipò e quella apparentemente trasognata di Mimmo Pugliese risponde con un urlo di disobbedienza civile…
Exxson: peste nera!
Quel sentiero che come un verso precede i miei passi
e di catrame i petali dei tuoi sguardi deturpa e sfascia –
mi stampava sui sipari i calchi di algidi rancori
e i deliri della Exxson che distruggono la scienza e la speranza.
Signori del petrolio sono padri teneri
nonni in pantofole…
il loro occhio è cinico e sede dell’orrore,
il loro abbraccio è monco raccapriccio!
antonio sagredo
Roma, inizio maggio 2012
A proposito di alcuni enunciati standard
Posto qui alcuni enunciati standard che abbondano nei siti web e nelle comunicazioni via web. Si tratta di alcuni esempi di messaggi anisotropi, neutri, standard, impersonali, oggettivi, persuasivi, assertori, direi gentili della gentilezza di un linguaggio robotizzato, standardizzato, programmato. Si tratta di un linguaggio allo stato cristallino, sostanzialmente ambiguo ed eterodiretto che può essere interpretato in molti modi diversi a seconda delle sollecitazioni psichiche ed endopsichiche che intercettano.
Così Treccani definisce la «anisotropia»:
«Proprietà per cui in una sostanza il valore di una grandezza fisica (velocità di accrescimento, indice di rifrazione, conducibilità elettrica e termica ecc.) dipende dalla direzione che si considera. Fenomeni di anisotropia naturale si manifestano nelle sostanze allo stato cristallino e mesomorfico, ma non nelle sostanze amorfe; fenomeni di a. artificiale possono prodursi in sostanze amorfe in conseguenza di determinate sollecitazioni: per es., un’a. ottica, che si manifesta nel fenomeno della birifrazione, può insorgere in alcuni vetri e in alcuni liquidi in conseguenza di sollecitazioni meccaniche o dell’azione di un campo elettrico.»
L’assimilazione di questo genere di linguaggi in un testo poetico o narrativo è un fenomeno del tutto naturale, il fenomeno si verifica in modo inconscio in ogni istante della nostra vita di relazione. Ovviamente, in un testo poetico plurilingue e pluristile questi linguaggi vengono, per così dire, messi in vetrina, esposti alla visibilità, cioè, esposti alla verificazione e alla falsificazione, vengono cioè demistificati nei loro contenuti ipoveritativi e meramente strumentali.
È per queste ragioni che, ad esempio, nei miei testi poetici impiego (cito) questo tipo di messaggi comunicazionali, per esporli nella loro nudità, esporli nella loro falsa coscienza.
È per queste ragioni che questo genere di enunciati si possono rintracciare in gran quantità nella poetry kitchen di vari autori.
“Lo strumento fondamentale per la manipolazione della realtà è la manipolazione delle parole. Se puoi controllare il significato delle parole, puoi controllare le persone”, ha scritto Philip K. Dick, talento visionario del romanzo fantascientifico.
Ha scritto Umberto Eco:
«L’avanguardia storica (come modello di Modernismo) aveva cercato di regolare i conti con il passato. Al grido di “Abbasso il chiaro di luna” aveva distrutto il passato, lo aveva sfigurato: le Demoiselles d’Avignon erano state il gesto tipico dell’avanguardia. Poi l’avanguardia era andata oltre, dopo aver distrutto la figura l’aveva annullata, era arriva all’astratto, all’informale, alla tela bianca, alla tela lacerata, alla tela bruciata, in architettura alla condizione minima del curtain wall, all’edificio come stele, parallepipedo puro, in letteratura alla distruzione del flusso del discorso, sino al collage e infine alla pagina bianca, in musica al passaggio dall’atonalità al rumore, prima, e al silenzio assoluto poi.
Ma era arrivato il momento in cui il moderno non poteva andare oltre, perché si era ridotto al metalinguaggio che parlava dei suoi testi impossibili (l’arte concettuale). La risposta postmoderna al moderno è consistita nel riconoscere che il passato, visto che la sua distruzione portava al silenzio, doveva essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente.
Se il postmoderno è questo, è chiaro perché Sterne o Rabelais fossero postmoderni, perché lo è certamente Borges, perché in uno stesso artista possano convivere, o seguirsi a breve distanza, o alternarsi, il momento moderno e quello postmoderno. Si veda cosa accade con Joyce. Il Portrait è la storia di un tentativo moderno. I Dubliners, anche se vengono prima, sono più moderni del Portrait. Ulysses sta al limite. Finnegans Wake è già postmoderno, o almeno apre il discorso postmoderno, richiede, per essere compreso, non la negazione del già detto, ma la sua citazione ininterrotta».1
1 Umberto Eco, Di un realismo negativo, in Bentornata realtà, a cura di Mario De Caro e Maurizio Ferraris, Torino, Einaudi 2012
Lasciando quel che scrive Eco da aparte, possiamo per ora immaginare che Poesia equivale a “anisotropia”…
termine che conoscevo già per aver studiato anche (e purtroppo per) la chimica-fisica.
Dunque possiamo applicare al concetto universale di POESIA quel che è detto a proposito di anisotropia . Essendo la POESIA la sede naturaledi ogni scienza e filosofia insieme, come dal\al tempo degli antichi cinesi, egiziani e poi greci e latini.
Si può e si deve immaginare che qualsiasi principio o concetto generato dalla mente umana è facilmente riscontrabile nella stessa mente umana come “cosa” già immanente e permanente.
La applicazione della Poesia a tutti i princi pi e concetti genera poi le innumerevoli scuole, distinta ciascuno da un soìuo peculiare linguaggio, e da qui giungere a quella “tavola degli elementi poetci” più o meno equivalente alla tavola di Mendelelev.
Il principio originario della POESIA nasce dal momneto che scatta dalla osservazione ossessiva la curiosità di sempre sapere e conoscere il cirocstante, quindi non il “TEMPO”, ma lo “SPAZIO”
che è qualcosa di tangibile e di immediata verifica sul campo, e non il TEMPO che è astrattezza.
La POESIA si impone nonoistante tutte le avversità e i pensieri e concetti ostili che la circondano.
Giorgio Linguaglossa
a Francesco Paolo Intini e alla sua poesia indirizzo questa riflessione
La cultura è kitsch, spazzatura e la poetry kitchen è conseguente ai suoi assunti: assume la spazzatura a proprio contenuto.
La cultura è kitsch, spazzatura e l’arte ne dipende come la nettezza urbana dall’immondizia. Parlare di contenuto di verità a proposito dell’arte moderna è come parlare di ircocervi dello spirito. L’oggetto dell’estetica è qualcosa che non sta né qua né là, e l’arte non ha modo di acciuffarlo se non con l’accalappiacani o l’acchiappafarfalle. In ciò, il concetto di arte è affine a quello delle nuvole, è un concetto rarefatto, un concetto meteorologico.
L’arte che vuole essere fondazionale, si ritrova ad essere funzionale, perché l’arte non fonda più alcunché tranne la propria metessi con lo spirito fatto di ircocervi. Così, l’arte scopre la propria natura meteorologica e merceologica. L’arte suprema è la forma suprema di merceologia dello spirito. L’arte suprema di Baudelaire ha mostrato che quella «Promesse du bonheur» che essa promette è, in realtà, una truffa, in quanto nella società delle merci essa è sempre meno sicura della propria esistenza e della propria sopravvivenza. L’arte però risponde alla propria insussistenza con il ritorno del rimosso, ripresentando ogni volta quella promessa fedifraga sapendo della menzogna, ma tacendola. Ed ecco come il silenzio si insinua nella sua struttura con il ritorno del rimosso. Baudelaire ci ha mostrato in maniera indiscutibile quanto quella «Promesse du bonheur» sia una truffa dello spirito servile e quanto la pacchianeria sia vicina all’arte nella sua più alta forma di espressione.
Marie Laure Colasson
27 gennaio 2022 alle 19:34
Esplorare la potenza del linguaggio, i suoi enunciati, le sue espressioni vuol dire indagarne il potere propriamente in-significazionale. L’assioma secondo il quale compito del discorso poetico è la sua capacità portarci vicini alle cose, all’essere stesso si rivela un inganno, un effetto ottico del soggetto che indossa gli occhiali della intenzione significante.
È proprio questo il punto.
Infatti, il linguaggio poetico kitchen mina l’intenzione soggettiva, de-stabilizza il «luogo del soggetto», la poesia kitchen segue il segno fin dove esso marca l’esplosione del linguaggio verso l’altro da sé, la sua apertura. Questa esplosione è il proprio della pratica kitchen, mostra l’assurdo, il fuori-luogo del «dire». Il luogo di questa esplosione è appunto il discorso poetico kitchen, lì infatti il linguaggio sfugge sempre a sé stesso e ci sfugge, e tuttavia è anche il luogo dove viene a sé stesso, il luogo dove il linguaggio mostra la sua incomprensibilità e la potenza del dire, mostra di dover tacere davanti a ciò che dice e di dover continuare a dire. La funzione ontologica del linguaggio originata dalla intenzione significante del soggetto, è questa assiomatica che la poesia kitchen deve ad ogni costo smobilitare e de-pauperare, è proprio l’intenzione significante che deve essere annichilita, altrimenti si ricade indietro nel «luogo del soggetto» e delle sue perifrasi, dei suoi enunciati sibillini.
da “Parole Beate” – 2007
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E mi sentivo orfano degli applausi inesausti della stoica Natura,
Come il defunto di un requiem qualsiasi…
Sorella, tormentarsi?
Perché davvero sappiamo chi siamo, ora!
Come se le nostre destinazioni non più dal Nilo nacquero,
ma dalle necropoli!
E non più s’addice ai morti il libro se l’ibis e lo sciacallo lottano fra di loro!
Mi afferravo agli anelli erranti che clementi come in una zana mi dondolavano
E in quel cantuccio, sotto una nera scala di servizio come il poeta
Vivevo e pensavo a ciò che dell’ignoto conoscevo…
E non era un errore questo mio viaggiare con loro
Come nel grembo la creatura si agita per il volto della madre che non sa
E per questo già vive nel mistero… proprio lui che è mistero del segreto!
Così noi viviamo in un linguaggio che non sa chi noi siamo!
Costruiamo invano cattedrali perché alla loro ombra dissetiamo
La nostra scienza, e il suo dire ci è caro come la bellezza di un numero
Ci traduce in quegli spazi che beati crediamo saturi d’orrore…
Recidivi siamo nell’errore…
In questo poemetto di Letizia Leone la scrittura si rifa al metodo mitico di T.S. Eliot, parlare della realtà innominabile rifacendosi ai miti, in cui le immagini e il montaggio di frammenti differenti giocano un ruolo decisivo. Ma a Letizia Leone, come succedeva per certi versi al Benjamin dei Passages, non importa parlare attraverso le immagini ma le interessa la “vita” racchiusa in ogni immagine. Per il montaggio, che non è una tecnica ma un modo di leggere la realtà, direi che Per questi versi di Letizia Leone bene si attaglia il montaggio di Warburg, quello dell’Atlante di Mnemosyne.
Ma sono indicazioni-osservazioni che andrebbero sviluppate e più compiutamente contestualizzate in un lavoro più organico.
La fine del modernismo la fisserei nel 1997 data in cui muore Zbigniew Herbert. Dopo di allora c’è stata una lenta uscita dal modernismo che in Italia ha avuto un parto lungo e problematico per motivi tutti interni al letterario… Il mio libro del 2013 Blumenbilder (natura morta con fiori) era dichiaratamente ancora modernista (anche perché scritto di getto durante l’estate nel 1988), ma già La Filosofia del the del 2018 e Il Tedio di dio sempre del 2018 erano opere che si situavano fuori del modernismo in quanto non era più rinvenibile un io, un soggetto identificabile e identificato all’interno dei testi; così come fuori dal modernismo erano i libri di Gino Rago, I platani sul Tevere diventano betulle (2020) e quello di Giuseppe Talìa La Musa Last Minute (2018)… Dopo il 2018 c’è stata una accelerazione dei tempi… Dopo il 2019 si è verificata una ulteriore accelerazione della Storia… Oggi, in pieno 2022 con la guerra in Ucraina si è verificata una ulteriore e aggiuntiva accelerazione della Storia…
L’ha ripubblicato su RIDONDANZEe ha commentato:
(Uno stralcio del poemetto è stato pubblicato anche su How the Trojan War Ended I Don’t Remember . Come è finita la guerra di Troia, non ricordo, Chelsea Editions, New York, 2017, 330 pagine $ 20)
LETIZIA LEONE