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Poesia di Giorgio Linguaglossa da La notte è la tomba di Dio

Evgenia Arbugaeva Weather_man_02-1

foto di Evgenia Arbugaeva, la Torre

Giorgio Linguaglossa

(poesia inedita da La notte è la tomba di Dio)

Il bacio è la tomba di Dio

La torre del faro nella pianura di neve.
«Il bacio è la tomba di Dio».

C’erano scritte queste insensate parole
sopra l’ingresso della torre…

Ma forse non era quella la torre ma un’altra
che si trova in Siberia, nei pressi del polo artico

dove sorge un’isba; nell’isba c’è Evgenia Arbugaeva
sulla sedia a dondolo, osserva la distesa di neve.

Un pianoforte a coda nella neve suona Lux Aeterna di Ligeti.
C’è scritto: «Hic incipit tragoedia» e, nello spartito,

le parole di Ubaldo de Robertis sull’universo ad anelli.
[Nell’universo c’è un punto. Uno solo, così trascurabile…]

La musica incontraddittoria si solleva dalla neve eterna.
Diventa luce.
[…]
La gondola è vestita a lutto. Carica di morti. Affonda.
Nella picea onda del Canal Grande.

Ponte degli Scalzi.
L’appartamento di Anonymous sul Canal Regio.

Uno spartito aperto sul leggio: La lontananza nostalgica.
Il vento sfoglia le pagine dello spartito.
[…]
Tre finestre. Lesene bianche. Canal Regio.
Due leoni all’ingresso divaricano le mandibole.

[Se ti sporgi dalla finestra puoi quasi toccare
il filo dell’acqua verdastra. Laguna di vetro.]
[…]
Madame Hanska si spoglia lentamente nel boudoir.
Ufficiali austriaci giocano a whist mentre il Signor K. asserisce:

«il tavolo cammina e non cammina perché la contraddittorietà
non può violare il principio di non contraddizione.

Il PNC è auto contraddittorio, non potrebbe essere altrimenti;
mi creda, Herr Cogito, anche i suoi pensieri,

picchi di luce eterna, sono auto contraddittori, collidono,
a sua insaputa, con altri suoi pensieri antecedenti…».
[…]
«L’universo è il cadavere di Dio e noi i suoi vermi.
Anche le parole che ora diciamo, il vento nella sua rovina
le porta via».
[…]
Sulla parete a sinistra del soggiorno e in alto sul soffitto
è ritratta la Peste.

La Signora Morte impugna una pertica
che termina con una falce.

Ammassa i morti e taglia loro la testa.
E ride.

Ritto sulla prua il gondoliere afferra il remo.
E canta.
[…]
Lassù, in alto, strillano gli uccelli e brindano le stelle.
Wagner e List giocano a dadi

in un bar nel sotoportego del Canal Grande.
Tiziano beve un’ombra con la modella

dell’«Amor sacro e l’Amor profano».
[…]
Madame Hanska al Torcello riceve gli ospiti
nel salotto color fucsia.

I clienti della locanda del buio brindano alla felicità
i calici di Murano scintillano.
[…]
Dio bussa alla porta d’ingresso; dice:
«posso aggiustare il rubinetto,

sistemare la lavastoviglie, riparare il frigorifero,
darle l’indirizzo di una casa di appuntamenti,

ho anche dei numeri per il Lotto…».
Incredibile, disse proprio così.
[…]
Ed entrammo in una stanza bianca, un pianoforte nero al centro.
Un bambino vestito di bianco suonava qualcosa

che i miei cinque sensi non percepivano.
Una voce dal parlatorio diceva:

«Il re morto è un dio vivente, il dio morto è un re che vive,
la tomba del re è la casa del dio

che si è dimenticato di essere un dio…».

Fu a quel punto che quelle parole inaccessibili risuonarono in me
mentre calpestavo il pavimento di linoleum bianco…
[…]
Una grande vetrata si affaccia sul mare veneziano.
“Non c’è anima più viva”, pensai, ma scacciai subito

quel pensiero molesto.
Una sirena cantava dalla spiaggia dei morti:

«Non c’è più lutto tra i morti».
«Non c’è più lutto tra i morti».

*

[postilla dell’autore]
Paul Valéry scrive : «le gout est fait de mille dégoûts».
Definizione provocazione choc che ci introduce all’interno del concetto di «gusto», concetto che racchiude in sé la massima incontraddittorietà del contraddittorio, ovvero, il «gusto» è un atto incontraddittorio (Kant parlava del “giudizio estetico a priori”) proprio perché contiene in sé tutte le contraddittorietà possibili e pensabili. Io la metterei così: tutte le contraddittorietà possibili e pensabili formano la incontraddittorietà del giudizio di gusto, il quale è in sé una aporia, ma non per un errore del nostro intelletto quanto perché il suo interno è un «luogo» incontraddittorio che chiama la massima contraddittorietà.
In questa accezione, in questa mia poesia ho tentato la confluenza e convergenza della massima possibile estensione del contraddittorio che dà luogo alla incontraddittorietà complessiva. Non so se ci sono, almeno in parte, riuscito, ma il tentativo andava fatto e l’ho fatto nell’orizzonte di una «nuova poesia», la quale non può essere interpretata con le categorie con cui si è soliti interpretare la poesia del novecento italiano, essendo essa estranea a quelle categorie critiche.
La conclusione mi sembra chiara a questo punto: una poesia se è nuova richiede sempre la costruzione di nuove categorie ermeneutiche, altrimenti diventa incomprensibile. Anzi, la poesia tende a sottrarsi a qualsiasi atto di intellezione che pretenda di inoltrarsi al suo interno. In questo senso, ogni poesia, se è nuova, si presenta con le vesti dell’Enigma, non essendo essa pensabile con le categorie della vecchia metafisica.
Si tratta di un «polittico», parola che ritengo idonea, la poesia si compone di più poesie tenute insieme da un misterioso filo conduttore presente nella mia mente.
Ed ora un aneddoto:
cinque anni fa fui trasferito in un ufficio nel circondario del carcere di Rebibbia di Roma. L’ufficio era situato molto lontano, all’interno del circondario del carcere e dovevo ogni giorno fare a piedi un lunghissimo percorso all’interno del comprensorio del carcere, tra il muro di cinta e l’inferriata che dà sulla strada pubblica. E così, ogni giorno camminavo avendo alla mia sinistra il lugubre muro di cinta grigio di calcestruzzo con le torrette di avvistamento, e a destra il prato che confinava con la lunghissima inferriata che perimetra il complesso carcere, il più grande complesso carcerario d’Italia perché comprende ben 4 carceri con 4 direzioni distinte. Camminare accanto a quel muro lunghissimo è stata una esperienza fondamentale, con il sole e con la pioggia, sentivo il freddo del grigio del muro di calcestruzzo, di là i dannati, i detenuti, di qua gli uomini liberi…
All’improvviso, un giorno mi viene in mente il verso di inizio della poesia «Il bacio è la tomba di Dio» che non capii da dove fosse uscito, ma lo capii in seguito: il verso era la risposta che la mia mente dava per documentare la condizione spirituale del lunghissimo muro di calcestruzzo alla mia sinistra. La risposta mi era stata data con il verso di inizio; poi tutto il seguito della poesia non è altro che una serie di cripto citazioni e di rimandi a versi di altri poeti che nei successivi cinque anni mi venivano in mente, in modo da costituire un vero e proprio polittico, con salti spazio temporali, interventi di personaggi veri e di fantasia. La poesia – posso dirlo – si è venuta costruendo da sola, senza l’intervento del mio «io», o meglio, io mi sono occupato soltanto della regia esterna, tutto ciò che c’è dentro alla composizione si è formato da solo. Penso che ad un certo punto la poesia abbia iniziato ad esercitare una forza di attrazione verso tutto ciò che essa riteneva di dover attrarre ed ingurgitare, e così spezzoni di citazioni, frasi e icone immaginarie sono state attratte dalla frase di inizio: «il bacio è la tomba di Dio» che, in sé non significa un bel nulla perché vuole significare qualcosa che sta oltre le possibilità espressive del linguaggio ma che è contenuto nel linguaggio.
In un certo senso, la poesia non sarebbe venuta fuori se non avessi accettato di far fare al mio «io» un passo indietro e di porre come orizzonte della significazione e del senso l’indicibile come compito precipuo della poesia.
Soltanto qualche giorno fa il mio ultimo tocco è stato di suddividere la poesia in distici. E il lavoro lo considero ormai ultimato. Dunque, cinque anni di lavoro.

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Mariella Colonna, Poesia inedita – Sotto il tendone del Teatro di strada – Allegoria della condizione infernale dell’uomo sulla terra… con un Commento di Mariella Colonna e un Appunto di Giorgio Linguaglossa

 

Commedia eroicomica in versi prosastici sulla trama di una [di Giorgio Linguaglossa] poesia.

Siamo in un tendone di un «Teatro di strada» dove si sta allestendo un «Grande spettacolo» dal titolo misterioso: Il bacio è la tomba di Dio,  con la partecipazione del primo attore, Mario Gabriele,  e di il Signor K., Madame Hanska e  Anonymous (creazioni artistiche di Giorgio Linguaglossa), e Miss Evelyn (creazione artistica di Mario Gabriele). E ancora, in prima persona intervengono gli attori: Giorgio Linguaglossa, Gino Rago, Elena, Ecuba di Troia, Odette, (personaggio scaturito dalla fantasia di Mariella Colonna);  e personaggi vari di altre poesie. Dimenticavo, c’è anche «una Galleria con quadri animati»; e un Signor K2, e, infine, addirittura un K3! Sembra un manicomio ambulante! Ci sono delle Signore che litigano tra di loro, si colpiscono con le borsette… E c’è nientemeno Dio che interviene di qua e di là per tentare di comporre gli innumerevoli dissidi che nel frattempo si moltiplicano come funghi. Siamo nel bel mezzo del paradosso e della peritropè (capovolgimento), di una realtà surrazionale, al di là del reale e del non reale: siamo nel multireale multiprospettico proprio della dimensione psichica, nella dimensione della «nuova ontologia estetica».

Oserei dire, con Andrea Emo, che «nel paradosso è sempre e finalmente l’unica verità; ma nel paradosso, e perciò nella Verità, possiamo soltanto credere. Il linguaggio, il Verbo del Paradosso, è il mito; soltanto il mito sa esprimere il paradosso».1 Infatti, la valorizzazione e la trasmutazione del quotidiano in mito, implica il rivolgimento del linguaggio in linguaggio mitico, come espressione di un «reale» profondamente paradossale e sovra-razionale.

1 Cfr. A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981, a cura di Massimo Donà e Romano Gasparotti, Marsilio Editori, Venezia 1989, p. 34

(Giorgio Linguaglossa)

Gif volti

Gif, Roy Lichtenstein

[Interpretazione del testo e regia di Mariella Colonna.]

Sotto il tendone del Teatro di strada, aperto a nord a sud
ad est e ad ovest, il signor K [personaggio della poesia
di Giorgio Linguaglossa] grida e la voce si diffonde
nelle quattro direzioni dello spazio:

“Venite, venite tutti a vedere
il più grande spettacolo del mondo
dal titolo insuperabile: Il bacio è la tomba di Dio!
Avete mai sentito una cosa del genere??
Vi presento me stesso, il signor Kappa,
il sommo… prestigiatore, il mago portentoso
capace di cambiare i destini degli uomini
e dei popoli!

Alla modesta cifra della vostra anima
(che non vale niente)
posso fare di voi il contrario di quello che siete,
poveri incapaci e depressi abitanti
di questo miserabile pianeta avviati alla catastrofe!
Ascoltatemi dunque!
(si rivolge ai suoi scherani)
“Suvvia, date fiato alle trombe! Inizi lo spettacolo!”

“Un momento…alt!”
“E voi chi siete?”
“Sono il signor K!”
“Ah, questa poi…
il signor K(appa) sono io!”
“Siamo due Signor K, io sono famoso ormai
per essere passato dalle poesie di Mario Gabriele
in quella di Giorgio Linguaglossa intitolata ‘Il corvo entra dalla finestra’…
“per corteggiare una dama, miss. Evelyn…”.

“Ma che state dicendo? Di che diavolo parlate?
Rivolgendosi al pubblico: “Non sa che io
sono tanto più famoso di lui…”
“È la verità. Piuttosto voi…”
“Tacete! Fate un silenzio di pietra quando parlate con me…
State a sentire: vedete quella torre?”
“Sì, la vedo…”
“Ma no, non quella che vedete! Quella che non vedete!”
“Va bene, credo di aver capito.”
“C’è scritta una frase bizzarra.”
“Ma non riesco a leggerla bene. Non ho con me gli occhiali.”
“Vi ho detto che non dovete ‘vederla!’
E neppure leggerla, non avete bisogno degli occhiali,
vi basti immaginare.”
“L’imagination au pouvoir!”
“Così va meglio, però.
Prima di tutto ditemi perché avete interrotto l’inizio
dello spettacolo?”
“Volevo che lei, signor Kappa,
ci spiegasse il senso di tutto questo baccano…”
“Questo mai, se lo facessi, addio suspence…
c’è un incredibile evento che vi inchioderà sulle sedie,
cari signori! Ma adesso
continui lei, signor K2, che dice di essere il mio doppio!
Da quale parte del mondo viene?”

“Vede, signor Kappa, io e lei siamo due personaggi complicati:
io vengo non dalla mia terra, ma da due poesie.
La prima l’ho scritta io che sono un poeta e mi chiamo
Mario Gabriele; nella mia poesia ho creato Evelyn:
lei si è presa una sbandata per me e io per lei.
Ma, per attrarla e farmi desiderare, mi sono recato
con il nome d’arte di Signor K nella poesia-opera d’arte
di Giorgio Linguaglossa!
Una Galleria con quadri animati
che hanno molto movimentato l’Incontro con miss Evelyn.
Quando ho scelto di identificarmi con il signor K,
ero all’oscuro della sua identità, signor Kappa.”
“Lei dunque sa meglio di me chi sono?”
Se è per questo anche lei sa meglio di me
chi sono e chi è il signor K n.3, che poi è il primo!”

“Va bene, allora basta! Non mi confonda le idee
con altre spiegazioni, tenga pure il mio nome,
ma, mi raccomando, coll’aggiunta del 2 , lei è il signor K2!
E sappia che… chi porta il mio nome porta dentro di sé
qualcosa di me”.
“Essere K2 aumenterà il mio fascino agli occhi di Evelyn.
D’altra parte, anche la mia Evelyn è ambigua,
adesso è un’elegante signora Liberty… ma, Gi Elle dice che ha
un passato da megera e prosseneta: si guadagnava da vivere con le carte etc…”.
“Ma sì, la conosco bene anche io, il patto è concluso: vede,
con la musica-luce verde-rossa rivolta ora al suo volto ora al mio…
Diamo inizio allo spettacolo!” Continua a leggere

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Giorgio Linguaglossa Appunti sul Nichilismo – con due poesie inedite: Il bacio è la tomba di Dio, di Giorgio Linguaglossa e Frammenti per Sally, di Lucio Mayoor Tosi, grafiche di Lucio Mayoor Tosi

Foto di Evgenia Arbugaeva, Weather man, Siberia, la Torre

Evgenia Arbugaeva Weather_man_02-1

Giorgio Linguaglossa

Appunti sul Nichilismo

Nietzsche definiva il nichilismo il processo di «svalutazione dei valori finora supremi»,

i quali soli  conferiscono all’ente il suo «valore». «Unospite inquietante» lo definiva Heidegger. Diceva del nichilismo, che ormai è impossibile «metterlo alla porta», e invitava a «guardarlo bene in faccia». Nietzsche osava affermare di essere «il primo perfetto nichilista d’Europa, che però ha già vissuto in sé fino in fondo il nichilismo stesso – che lo ha dentro di sé, sotto di sé, fuori di sé».

Chi ha saputo raccogliere la sfida di Nietzsche è stato innanzitutto Heidegger. Dalla metà degli anni Trenta, nel lungo periodo in cui elaborò il suo imponente Nietzsche (1961), Heidegger individua nel nichilismo la traiettoria dell’Occidente, quello che domina la sua storia non già dai sussulti rivoluzionari ottocenteschi, ma fin dalle origini greche.

Il concetto di nichilismo assurge dignità di elemento portante nella filosofia in Nietzsche. Ne La gaia scienza, infatti, il filosofo tedesco annuncia la «morte di Dio» e la vacuità di ogni valore, auspicando l’autosoteria dell’Übermensch, dell’Oltreuomo, unico modello in grado di sottrarre l’uomo europeo dalla decadenza in cui l’ha precipitato la religione cristiana.

Heidegger individua la causa del nichilismo nella metafisica,

sostenendo che: «La metafisica in quanto metafisica è l’autentico nichilismo. L’essenza del nichilismo si dà storicamente nelle vesti della metafisica. La metafisica di Platone non è meno nichilistica di quella di Nietzsche. In quella l’essenza del nichilismo resta solo celata, in questa giunge interamente alla comparsa», dove per «metafisica» egli intende quella tradizione di pensiero che pone il problema dell’essere dell’essente, andando oltre (metà) l’essente stesso, in una irrealistica dimensione trascendente.

L’inizio del Novecento È caratterizzato dal fenomeno delle avanguardie che porteranno a compimento la rivoluzione delle arti plastiche, letterarie e figurative in un impeto di distruzione del vecchio mondo volto alla realizzazione di uno nuovo (proprio come sosteneva Turgenev nel romanzo Padri e figli!). Da questo punto di vista, le due guerre mondiali devono essere ricomprese nel quadro ideologico-psicologico  del compimento della potenza detonante del nichilismo e della progressiva perdita dei nicciani «valori» orientativi di «scopo», «unità» e «verità».

Laboratorio 4 NuoviIl fenomeno delle post-avanguardie letterarie

e artistiche del secondo Novecento rappresenta la stigmatizzazione del riposizionamento combattivo di gruppi artistici e soprattutto letterari che cercano  di ritagliarsi un posto e una funzione nell’ambito del dispiegamento universale della forma-merce e del mercato globale che non contempla più alcuna funzione di «valore» all’arte e alla letteratura nel sistema società. È la reazione della nuova letteratura di fronte ai cambiamenti epocali che la relegano al di fuori del sistema mercato e delle nuove istituzioni culturali. La metafisica ha prodotto il mercato globale, e il mercato globale è il compimento (Vollendung) della metafisica. È qui che si apre la nuova stagione del nichilismo come «stato psicologico» del mondo contemporaneo. Il nichilismo, dirà Heidegger, viene concepito come «stato psicologico», «ciò significa allora: il nichilismo riguarda la posizione dell’uomo in mezzo all’ente nel suo insieme, riguarda il modo in cui l’uomo si pone in relazione con l’ente in quanto tale, in cui configura e afferma questo rapporto e quindi se stesso; ciò non significa altro che il modo in cui l’uomo è storicamente.»1]

«Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore» , così recitava il nono punto del manifesto programmatico del Futurismo di F.T. Marinetti e soci, pubblicato il 20 Febbraio 1909 su Le Figaro. O più ‘nichilisticamente votate soltanto alla distruzione: questo È il caso di Dada, definito dagli stessi dadaisti come: «un fenomeno che scoppia nella metà della crisi morale ed economica del dopoguerra, un salvatore, un mostro che avrebbe sparso spazzatura sul suo cammino. Un sistematico lavoro di distruzione e demoralizzazione… che alla fine non è diventato che un atto sacrilego».

Del resto come preannunziarono nel loro manifesto: «Dada non significa nulla. È solo un prodotto della bocca».

Laboratorio lillaScrive Heidegger: «Forse l’essenza del nichilismo

consiste nel non prendere sul serio la domanda del Niente. In effetti la si lascia inesplicata, si rimane cocciutamente fermi allo schema interrogativo di un aut-aut da tempo abituale. Con l’approvazione generale si dice: o il Niente “è” “qualcosa” senz’altro nullo oppure deve essere un “ente”. Poiché però, evidentemente, il Niente non può mai essere un ente, non rimane che l’altra possibilità, cioè che il Niente sia l’assolutamente nullo.

[…]

E se il Niente, in verità, non fosse un ente, ma non fosse nemmeno mai ciò che è soltanto nullo? E se la domanda dell’essenza del Niente non fosse, sulla scorta di quell’aut-aut, nemmeno posta in termini sufficienti? E, ancor di più, se la mancanza (Ausbleiben) di questa domanda dispiegata che chiede dell’essenza del Niente fosse la ragione (Grund) del fatto che la metafisica occidentale deve cadere vittima del nichilismo? Il nichilismo sarebbe allora esperito e concepito in modo più originario ed essenziale, quella storia della metafisica che spinge a una posizione metafisica di fondo nella quale il Niente, nella sua essenza, non solo non può essere compreso, ma non vuole più nemmeno essere capito. Nichilismo significherebbe allora: il non pensare, per essenza, all’essenza del Niente. (…) Nietzsche riconosce, sì, il nichilismo come movimento soprattutto della storia occidentale, ma non è capace di pensare l’essenza del Niente perché non è in grado di cercarla domandando, egli deve diventare il nichilista classico che esprime la storia che sta accadendo ora. Nietzsche riconosce ed esperisce il nichilismo poiché pensa lui stesso in modo nichilistico. Il concetto nietzschiano del nichilismo è esso stesso un concetto nichilistico. Nietzsche non è capace, nonostante tutte le intuizioni, di riconoscere l’essenza occulta del nichilismo perché lo concepisce fin dall’inizio e soltanto in base al pensiero del valore come il processo della svalutazione dei valori supremi. Egli deve concepire il nichilismo in tal modo perché, mantenendosi nella traiettoria e nell’ambito della metafisica occidentale, pensa quest’ultima fino in fondo.»2] Continua a leggere

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DIALOGO tra STEVEN GRIECO RATHGEB e GIORGIO LINGUAGLOSSA sullo STATUTO del FRAMMENTO in POESIA con una composizione esemplificativa di Steven Grieco e Mario M. Gabriele La realtà frammentata; La forma aperta; Il frammento interrompe il flusso di ricezione; Velocità-rallentamento; La scrittura per “frammenti” e la Dis-locazione del Presente; Lo pseudo concetto imperiale di identità poetica e Alcune Poesie di René Char

  1. Gif FelliniSteven Grieco-Rathgeb

9 aprile 2016 alle 17:13 Modifica

Caro Giorgio, l’uso di frammenti per narrare una realtà frammentata come la nostra, sincopata nei ritmi, è interessante, è un tuo contributo ad una rinnovata riflessione sulla poesia. Che spero continuerai a sviluppare. Niente si ferma, tutto è in un continuo stato di flusso.
In diversi modi, i tuoi frammenti stanno vicino alla mia urgenza di rallentare il ritmo di arrivo della poesia alla fruizione del lettore.
Del tempo fa, nel contesto di un post di poesia di Edith Dzieduscycka su L’Ombra delle Parole, c’è stato un interessante dialogo con il Signor Pasquale Balestriere, il quale giustamente non capiva, in un primo momento, come la poesia possa avere un moto veloce e lento allo stesso tempo. Io ho cercato di spiegare che questo dipende secondo me tanto dalla mente che recepisce la poesia, quanto dalla poesia stessa.
Il frammento interrompe il flusso di ricezione, lo rende zackig, frastagliato, come dire, ma allo stesso tempo quel rallentamento libera il pensiero retrostante, libera l’ombra significante che segue le parole e le illumina. Ecco perché rallentamento in poesia si traduce spesso in un percepito aumento della velocità.
Ho studiato a lungo la poesia recente e meno recente per capire questa dinamica. Le prime volte era con i poeti moderni quando avevo 16-17 anni: mentre leggevo, d’un tratto si liberava una risonanza da una parola, o da un gruppo di parole, facendomi trasalire, come un uccello spiccava il volo e andava a posarsi in qualche altro punto della poesia, dove non avrei mai pensato: indicandomi con un sorriso segreto che la poesia stavo leggendo non veicolava soltanto pensiero e concetto, ma anche risonanze di pensiero e di concetto: e che dunque sopra la poesia, con il suo generico e pur ricco significato letterale, si estendeva una trama lucente di un altro significato, impossibile da cogliere se non per un attimo. Mi sembrava che questa trama fosse, in qualche modo, riflesso della psiche del poeta, la quale porta in sé il millenario abisso di civiltà, di cui il poeta è solo vagamente conscio – a lui, tuttavia, il merito di aver saputo veicolare quell’indicibile. Allora la poesia che leggevo mi diventava luminosissima, la riconoscevo come “grande”: un miracolo: essa esprimeva anche me: e mi dava licenza di ispirarmi ad essa perché io facessi un ulteriore passo nella ricerca del senso indecifrabile delle cose. Forse questo è il vero significato della parola “tramandare”, “tradizione”.
foto ipermoderno Louis Vuitton on the bridge

ipermoderno Louis Vuitton on the bridge

A scuola avevamo letto tantissimo Shakespeare, il nostro professore amava anche i poeti del Sei e del Settecento. Giustamente additava Alexander Pope come un gigante e maestro della forma classica, mai più, io penso, raggiunto. Ma quello strano sistema di risonanze che ho detto sopra lo sentivo più nei poeti dal Romanticismo in poi, e in particolar modo nei moderni, da Eliot in poi. Penso adesso che ciò fosse dovuto alla mia sensibilità di moderno. In questo senso, anche i Romantici inglesi erano moderni, grazie alla Rivoluzione Industriale. (Impossibile idealizzare l’operaio in fabbrica, come si era fatto con il contadino, nel suo idillico contesto campestre.)
Qualche anno più tardi, una volta che fui in grado di leggere l’italiano, sentii questo stesso fuggire di risonanze anche in un poeta come Montale.
Torno al concetto di rallentamento-velocità, che è un fenomeno, mi pare, nato in genere con il modernismo, e sorto forse anche involontariamente per rispecchiare l’ansia, l’incertezza esistenziale, che noi moderni abbiamo iniziato a vivere come quotidianità dopo che sono caduti gli idoli dell’Occidente, dopo che si è in genere stabilita la relatività delle cose di questo mondo.
I poeti scandinavi del secondo ‘900 sono maestri di questo procedimento. Tranströmer è solo uno di loro.
Velocità-rallentamento, in una forma molto simile, è un fenomeno fortemente presente nella modalità “dhrupad” della musica classica indiana. La quale lavora anche sui microtoni per tirare fuori la suggestione che vibra sopra al dettato musicale di base, sopra al succedersi sequenziale, lineare, delle note. Simile, come ho già detto, al poeta che scrive una poesia le cui parole suggeriscono qualcosa oltre il significato letterale. Certo, questo già lo si fa, ma si tratta, io dico, di notevolmente accrescere questa potenzialità che pure la musica, e la lingua hanno. Le parole che noi usiamo, e che siamo quotidianamente costretti ad usare quasi fossero gli spiccioli del nostro pensiero, sono antichissime, arcaiche, radicano in lingue e pensieri precedenti, in gran parte obliati, hanno una ricchezza immisurabile. E’ qui forse che sta il mistero della poesia (e della lingua) che diceva Salvatore Martino: semplicemente vaga percezione della “immensità di culture millennarie”, che appare nelle nostre parole, che però hanno anche una leggerezza assolutamente indispensabile perché gli esseri umani possano comunicare liberi fra di loro.
Poeta forse è anche colui che sa fare questo: intuire in ogni attimo quel vasto orizzonte, ma saperlo rendere leggero, fruibile all’uomo del suo tempo. Reintegrare l’uomo. Ecco perché una significativa comunicazione poetica con l’uomo di oggi non sarebbe possibile, secondo me e genericamente parlando, tramite la forma del sonetto. La comunicazione poetica già sembra impresa ardua con le forme “aperte”! Ciascun poeta dovrà attraverso i suoi tormenti trovare da sé la forma che va bene oggi, se è vero che il suo compito è prima di tutto raggiungere il lettore-ascoltatore esterno, il quale vive nella realtà di oggi, non nel passato. Le scelte a sua disposizione, e proprio grazie a questa caotica libertà che ci ritroviamo, sono molte. (Una, per esempio, è quella di Stefanie Golisch.) Non c’è niente di facile in tutto questo.
Il mistero, dunque, è ben più fitto di un verso di poesia luminoso e ben tornito.
Torno alla musica dhrupad: tutto il senso di quella musica sta nel suo continuo dispiegarsi adesso, nel suo apparente muoversi erratico, non-lineare, ciò che abbatte ogni sequenzalità stretta, aprendo molteplici spazi temporali. Perché essa tiene sempre in bilico il momento presente, affinché noi possiamo meglio afferrarne l’evanescenza. La concentrazione sul momento apre scorci impensati sugli altri tempi che pure noi conosciamo ma troppo velocemente abbiamo normalizzato e pensato di catalogare.
In poche parole: sia musica che scrittura seguono quello che appare come linearità nel tempo obbligata. Come allora suggerire quello che tutti che sappiamo, ossia che il nostro vivere, i nostri pensieri, tutto fanno fuorché seguire una traccia sequenziale obbligata?
Ecco cosa significa fruizione estetica di un’opera! Questo!
La musica classica occidentale fino a Bruckner e Wagner si basava sulla formula 1) presentazione di una problematica, 2) trattazione della stessa, 3) risoluzione della stessa – con tutte le sue complessità, chiaramente. Mahler ha sovraccaricato questa formula, l’ha inturgidita al massimo, fino a distruggerla. E infatti, dopo Mahler, alla musica occidentale liberata da quelle pastoie si è aperto un orizzonte allargato, immenso e spesso sublime. Che ha reso possibili grandissimi musicisti come Scelsi, Stockhausen, Cage, e quanti altri.
Io penso che la scelta oggi da parte di quasi tutti i poeti occidentali di ascoltare prevalentemente rock, jazz o musica classica tradizionale – e non Scelsi, Stockhausen, Ligeti, Jani Christou – spieghi in parte perché ci sono così grandi difficoltà a pervenire ad un linguaggio della poesia più in simbiosi con il presente; perché invece così spesso si finisce per praticare il minimalismo epigonico di forme già viste e variate all’infinito. La musica classica contemporanea è uno dei prodotti artistici più alti della cultura occidentale del ‘900: ha aperto una strada incredibile, ma sembra che il 90% delle persone non sanno nemmeno che esiste. Già nell’Europa orientale la cultura da questo punto di vista è molto avanzata – grazie, paradossalmente, a decenni di censura. Prendete Bela Tarr, per esempio, che nei suoi film usa musiche di Mihaly Vig, molto vicine alla avanguardia musicale del ‘900.
Sono tutte riflessioni, solo riflessioni queste, per aprire un dibattito.
  1. foto Louis Vuitton L'ultima fermata della campagna Chic

    Louis Vuitton L’ultima fermata della campagna Chic

    giorgio linguaglossa

9 aprile 2016 alle 19:39 Modifica

caro Steven Grieco,
PROBABILMENTE OGGI CHE ALLA POESIA NON è RICHIESTO PIU’ NULLA, forse proprio oggi alla poesia è posta la Interrogazione Fondamentale. Finalmente la poesia è libera, libera di non dire nulla o di dire ciò che è essenziale e inevitabile. Questo è molto semplice, è un pensiero intuitivo che tutti possono far proprio. Nel momento della sua chiusura clausura, la poesia si trova sorprendentemente libera, libera di porsi la Domanda Fondamentale, quella Domanda che per lunghi decenni nel corso del Novecento non si aveva l’urgenza e la necessità di porsi. La poesia, dunque, si trova davanti alla inevitabilità di dire ciò che è. E questa io credo che sia la più grande possibilità che il mondo moderno concede alla Poesia.
Esprimere nel modo più determinato e concreto l’inconscio che sta alle spalle del Pensiero pensato e non pensato dell’Occidente, il sottosuolo del sottosuolo che giace ancora più a fondo del sottosuolo costituito dal pensiero ordinario in cui ormai tutto viene pensato e vissuto dalla civiltà dell’Occidente.
Una poesia che si ponga l’ambizioso obiettivo di pensare l’impensato, le cose del sottosuolo more geometrico di un precedente more geometrico sotterraneo. Pensare la costruzione stilistica disabitata come la più consona ad essere abitata. Trarre dunque la forza dalla propria debolezza, mobilitare tutta la forza della visionarietà geometrica della poesia, questo è il compito che i poeti autentici oggi si trovano di fronte. E non è poco. Dobbiamo, per far questo, giungere a guardare alla poesia da un luogo ad essa esterno. E proprio questa paradossalità ci permette di seguire in ogni suo meandro il lungo percorso di un pensiero poetante che faccia di questo «tramonto» il luogo più abitabile.
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Steven Grieco Rathgeb

IL BUON AUGURIO
La vita era reale, splendida; e profondamente nascosti
in noi gli alberi, i primi iris mirabili nella luce nera.
Il paesaggio diurno senza sogni, senza nascondigli.

“FERMI!”
– esclamò d’un tratto il Regista –
“Avete studiato le vostre parti troppo a fondo!
Non siete più voi stessi! Tutto da rifare!”

Ci fermammo di colpo, profondamente scossi.

Poiché nelle sue parole, in effetti, nulla si era fermato:
e più chiari che mai il palco su cui stavamo, le
scenografie spente, il cerone che ci imbrattava il viso.

Non c’era dubbio: era stato commesso un furto ignobile.
E noi, del tutto ignari.

Poi ancora un urlo dietro le quinte: “Il mondo non va più da sé!
Fate qualcosa!”
e tonfi sull’assito, e le grida di stupore
visibili nell’aria che veniva lacerandosi di traverso.

«Mmmm…» mormorò rapito il Regista, sprofondato
nella sua poltrona, gli occhi rivolti in su: quasi gioisse
di queste fronde d’albero che stormivano solo immaginandosi:
quasi prendesse il largo un re dalla mantella azzurra
in una barca sull’oceano.

Allora cercai il tuo viso nell’estrema durezza del riflesso:
ma da noi sorgevano mille profondità:
non semplice amalgama di ombre e sabbia,
luce respinta: una forma umana dal corridoio, giù in fondo,
superando seppur di sbieco uno dopo l’altro i rovelli,
non più derubata, fermo lo sguardo,
avanzava oltre i molti presenti in ogni dove,
la folla di nichilisti che spingeva,
tormentandosi nel buio.
Ancora guardai nello specchio. Era una finestra,
e il paesaggio là fuori, un inaspettato presagio:
i campi di grano, morbida onda prossima alla mietitura
mentre un fiume verde-bruno muoveva tra le sponde
rallegrandosi dei suoi riflessi azzurri;
e più avanti, dove i salici d’argento disperdono nivei fiori
solo per celare, come all’inizio di un verso,
l’usignolo di Chông.

Ancora gridò la voce assordante fuori campo:
“NON VEDETE come tutti ve la danno a bere?”

In effetti, il buio era più fitto che mai.
Ma proprio là dentro, nel cuore dello sguardo cieco
sorgeva questo tasso d’intensità sconosciuto,
come se noi irradiassimo una visione.

Come se non fossimo altro che noi stessi.

Aveva ragione da vendere, il Regista.
La partita l’avevamo stravinta.

(1987-2012) 

Gif Fellini Anita Eckberg

Leggiamo una poesia di Mario M. Gabriele

Una fila di caravan al centro della piazza
con gente venuta da Trescore e da Milano
ad ascoltare Licinio:-Questa è Yasmina da Madhia
che nella vita ha tradito e amato,
per questo la lasceremo ai lupi e ai cani,
getteremo le ceneri nel Paranà
dove abbondano i piranha,
risaliremo la collina delle croci
a lenire i giorni penduli come melograni,
perché sia fatta la nostra volontà.-
Un gobbo si fermò davanti al centurione
dicendo:- Questo è l’uomo che ha macchiato
le tavole di Krsna, distrutto il carro di Rukmi,
non ha avuto pietà per Kamadeva,
rubato gioielli e incenso dagli altari di Nuova Delhi.-
-Allora lasciatelo alla frusta di Clara e di Francesca,
alla Miseria e alla Misericordia.
Domani le vigne saranno rosse
anche se non è ancora autunno
e spunta il ruscus in mezzo ai rovi-, così parlò Licinio.
Un profumo di rauwolfia veniva dal fondo dei sepolcri.
Carlino guardava le donne di Cracovia,
da dietro i vetri Palmira ci salutava
per chissà quale esilio o viaggio.
Nonna Eliodora da giugno era scomparsa.
Stranamente oggi non ho visto Randall.
Mia amata, qui scorrono i giorni
come fossero fiumi e la speranza è così lontana.
Dimmi solo se a Boston ci sarai,
se si accendono le luci a Newbury Street.
Era triste Bobby quando lesse il Day By Day.
Oh il tuo cadeau, Patsy, nel giorno di Natale!

*

foto ipermoderno 2

ipermoderno

Giorgio Linguaglossa

Vorrei scagliare una freccia in favore della scrittura per «frammenti». Che cosa significa? E perché?
Innanzitutto, un presente assolutamente presente non esiste se non nella immaginazione dei filosofi assolutistici. Nel presente c’è sempre il non-presente. Ci sono dei varchi, dei vuoti, delle zone d’ombra che noi nella vita quotidiana non percepiamo, ma ci sono, sono identificabili. Così, una scrittura totalmente fonetica non esiste, poiché anche nella scrittura fonetica si danno elementi significanti non fonetizzabili: la punteggiatura, le spaziature, le virgolettature, i corsivi ecc.
La scrittura per «frammenti» implica l’impiego di una decostruzione riflessiva, la quale nella sua propria essenza, segue il tempo del «Presente» che sfugge di continuo, che si dis-loca. Il dislocante è dunque il «Presente» che si presenta sotto forma del «soggetto» significante (ricordiamoci che per Lacan il soggetto si instaura come rapporto con un significante e l’altro). Ma, appunto, proprio per l’essere una macchinazione significante, il «soggetto» non può mai raggiungere il pieno possesso del «significato».
In base a queste premesse, una scrittura logologica o logocentrica, non è niente altro che un miraggio, il miraggio dell’Oasi del Presente come cosa identificabile e circoscritta, con il versus che segue il precedente credendo ingenuamente che qui si instauri una «continuità» nel tempo. Questa è una nobile utopia che però non corrisponde al vero.
Io dico una cosa molto semplice: che l’utilizzazione intensiva ad esempio della punteggiatura produce l’effetto non secondario di interrompere il «flusso continuo» che dà l’illusione del Presente; produce lo spezzettamento del presente, la sua dis-locazione, la sua locomozione nel tempo. Introduce la differenza nel «presente».
Il non dicibile abita dunque la struttura del «presente», fa sì che vengano in piena visibilità le differenze di senso, gli scarti, le zone d’ombra di cui il «presente» è costituito.
Alla luce di quanto sopra, se seguiamo l’andatura strofica della poesia di Mario Gabriele, ci accorgeremo di quante interruzioni introdotte dalla punteggiatura ci siano, quante differenze introdotte dalla dis-locazione del discorso poetico, interpretato non più come flusso unitario ma come un immagazzinamento di differenze, di salti, di zone d’ombra, di varchi:

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Nonna Eliodora da giugno era scomparsa.
Stranamente oggi non ho visto Randall.
Mia amata, qui scorrono i giorni
come fossero fiumi e la speranza è così lontana.
Dimmi solo se a Boston ci sarai,
se si accendono le luci a Newbury Street.
Era triste Bobby quando lesse il Day By Day.
Oh il tuo cadeau, Patsy, nel giorno di Natale!

.

Nella nuova poesia, come in questa di Mario Gabriele, non c’è un senso compiuto, totale e totalizzante. Il senso si decostruisce nel mentre si costruisce. Non si dà il senso ma i sensi. Una molteplicità di sensi e di punti di vista. Come in un cristallo, si ha una molteplicità di superfici riflettenti. Non si dà nessuna gerarchia tra le superfici riflettenti e i punti di vista. Si ha disseminazione e moltiplicazione del senso. Scopo della lettura è quello di mettere in evidenza gli scarti, i vuoti, le fratture, le discontinuità, le aporie, le strutture ideologiche e attanziali piuttosto che l’unità posticciamente intenzionata da un concetto totalizzante dell’opera d’arte che ha in mente un concetto imperiale di identità. La nuova poesia e il nuovo romanzo sono alieni dal concetto di sistema che tutto unifica, che tutto «identifica» (e tutto nientifica) e riduce ad identità, che tutto inghiotte in un progetto di identità, che tutto plasma a propria immagine, in vista di una rivendicazione dell’Altro e della differenza come grande impensato della tradizione filosofica occidentale. In questa accezione, la decostruzione è una conseguenza della riflessione filosofica di Martin Heidegger. Infatti il disegno della seconda sezione di Sein und Zeit – rimasta alla fase di mera progettazione, per la caratteristica inadeguatezza del linguaggio della metafisica – risuonava come una “distruzione della storia dell’ontologia”, in nome di una ontologia fenomenologica capace di assumere di «lasciar/far vedere il fenomeno per come esso si mostra» (Derrida) – a far luogo da un linguaggio rinnovato alla radice (ripensato), filosoficamente (nell’accezione ordinaria del termine) scandaloso.

da lombradelleparole.wordpress.com

Rita 1- Copertina

Rita 2 - poesie

Steven Grieco a Trieste giugno 2013

Steven Grieco a Trieste giugno 2013

Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka. In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. protokavi@gmail.com

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Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista ha fondato la Rivista di critica e di poetica “Nuova Letteratura” e pubblicato diversi volumi di poesia tra cui il recente Ritratto di Signora 2014. Ha curato monografie e saggi di poeti del Secondo Novecento. Ha ottenuto il Premio Chiaravalle 1982 con il volume Carte della città segreta, con prefazione di Domenico Rea. E’ presente inFebbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio, Mursia Editore 1983, Progetto di curva e di volo di Domenico Cara, Laboratorio delle Arti 1994, Le città dei poetidi Carlo Felice Colucci, Guida Editore 2005, Poeti in Campania di G. B. Nazzario, Marcus Edizioni 2005, e in Psicoestetica, il piacere dell’analisi di Carlo Di Lieto, Genesi Editrice, 2012. Si sono interessati alla sua opera: G.B.Vicari, Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Luigi Fontanella, Giose Rimanelli, Francesco d’Episcopo, Giuliano Ladolfi,e Sebastiano Martelli. Altri Interventi critici sono apparsi su quotidiani e riviste: Tuttolibri, Quinta Generazione, La Repubblica, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier. Cura il blog di poesia italiana e straniera L’isola dei poeti.

 

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