Mi accorgo solo adesso che l’artrite deforma le mani. Tutto cominciò con una caduta
Giorgio Linguaglossa 13 febbraio 2018 alle 22:29
caro Gino Rago,
soltanto adesso ho capito quanto dolore, quanta strada ha fatto la tua poesia di stracci e di rottami appiccicati ai sacchi di juta di Burri dopo che hai abbandonato l’anticaglia del retoricume della poesia del sud. Con una sola spallata hai scaraventato tutta l’anticaglia sudista a mare, quel Sinisgalli, quel Quasimodo et compagni di cordata etcetera, quell’anticaglia che per un poeta del sud è stata una terribile e pesantissima palla al piede. Ci hai dovuto mettere una gran quantità di stracci e di ritagli di giornale, e sì, hai dovuto porti in pre-pensionamento, hai aumentato la distanza tra te e la tradizione della poesia del sud, tra te e la tradizione della poesia del nord e del centro e, improvvisamente, quando temevi che tutto fosse perduto, hai trovato un’altra isola, una nuova terraferma. Leggiamo una poesia di
Gino Rago:
La Musa degli stracci
Non c’è niente di più opaco Della trasparenza totale. Il corpo è colore e odore. I sospiri delle onde richiamano il vento. Ora soltanto sboccio. Una rosa tra le dita. «Prendila». Mi accorgo solo adesso che l’artrite deforma le mani. Tutto cominciò con una caduta. […] Spremere fuori il mistero. Ti muovi viva nel tuo stesso corpo. Ma nuvolaglie increspano Le visioni razionali. […] Ritirarsi? Sì. Ritirarsi. Ma dalle forme consunte del poetico. E rifarsi un vestito. […] Un abito tutto nuovo di parole Per la festa e per il quotidiano. Confezionarsi un capo nuovo Nell’atelier di ritagli di stoffa. È nuova La poesia fatta con gli scampoli. Chi più interroga l’oracolo? Chi pone più domande radicali? Entra nella sala degli specchi come una Regina La Musa degli stracci.
In questa poesia hai preso definitivamente congedo dal tuo «io», hai messo una distanza infinita tra te e la poesia che fino a ieri abitavi… ma quell’abitazione è caduta a pezzi, ha ormai il tetto sfondato, ci piove dentro e ci cade la neve; non era più abitabile, ne hai preso atto e ti sei costruito una nuova abitazione, ci hai messo i solidi mattoni della nuova ontologia estetica ma lo hai fatto a tuo modo, con la tua sensibilità storica, con la tua percezione delle «cose», quelle «cose» che fino a ieri non vedevi e che invece adesso vedi con la massima chiarezza. E così sono sorte le parole nuove, quelle della «nuova poesia».
[Gino Rago, Giorgio Linguaglossa]
Scrive Pier Aldo Rovatti:
«Per Carlo Sini, l’esercizio con cui dobbiamo cercare di entrare in sintonia con il ritmo del nostro esistere è una “iniziazione” del soggetto. Che cosa può significare? Chiamare la pratica della soggettività “iniziazione”, e farlo in un contesto filosofico, significa prendere congedo da un’idea semplice e tradizionale di “autocoscienza”: potenza del lumen ed efficacia degli specchi, il normale regime o registro delle immagini, o ancor meglio dell’immaginario, dovrebbero essere “sospesi”. Ma, di nuovo, che significa “sospendere” se non proprio, nell’atto stesso del sospendere (o dell’esitare), mettere in questione il dominio delle leggi ottiche del mondo-oggetto, il mondo “cosale” del pleroma che dà semantica e sintassi al nostro discorso comune?
Allora il mettere fra parentesi, e il mettere tra parentesi le parentesi in un gioco distanziante e “abissale”, non potrà essere né gratuito né disinteressato, non potrà nutrirsi alla filo-sofia: nessuna amicizia e amore intellettuale per la verità, nessun rilancio sublimante (uno sguardo che si alza) verrà in soccorso all’esercizio, alla possibilità pratica di esso. Infatti, se qualcosa se ne può dire (poiché ha un suo rigore), è che, rispetto alla verità comunque intesa come una forma di “possesso” (reale o possibile), cerca un evitamento, una difesa, una resistenza: e ingaggia conseguentemente una lotta, o almeno una contesa, un contenzioso. Se si tratta di iniziarsi al soggetto come a ciò che ha da prendere ai nostri occhi una “figura inaudita”, ancorché noi lo siamo ogni giorno e in ciascun istante (dato che si tratterebbe di “ascoltare” qualcuno che ci dice che non siamo noi stessi ma altro, alterità), occorre predisporre uno spazio, dei margini, un’intercapedine, una zona di vuoto.
Per “lasciar essere” le cose, dobbiamo con molta fatica alleggerirci di molta zavorra, anche se ci dispiace (ecco la fatica) perché questa “zavorra” è fatta di saperi, strumenti, piccoli e grandi apparati vantaggiosi per la nostra personale potenza. Non si tratta di rinunciare a essi per chi sa quale “povertà”: bensì di ritirare identificazioni e investimenti, lateralizzare, togliere valore e importanza. Rispetto, per esempio, al credere che “conoscere è sempre un bene”. Il problema della “sospensione”, insomma il senso da attribuire alla “iniziazione”, si condensa sulla possibilità di praticare la persuasione (penso a Carlo Michelstaedter) che vi sono zone di “non consapevolezza” che non solo è opportuno conservare, ma che vanno “attivate” proprio per permettere al soggetto di entrare in gioco con se stesso». 1]
«La Musa degli stracci» mi convince pienamente. Sei un poeta autentico.
1] Pier Aldo Rovatti Abitare la distanza, Raffaello Cortina, 2010, pp. 6,7
Donatella Costantina Giancaspero 14 febbraio 2018 alle 11:53Continua a leggere →
l’illusione è la realtà che si guarda allo specchio
Alberto Tommasi, nato a Milano nel 1957, ha studiato all’Università di Pisa ed insegna materie letterarie, latino e greco nella provincia di Bolzano. È stato lettore di italiano all’Università di Osnabrück dal 1992 al 1999. Ha scritto su Guido Piovene, cultura/civiltà italiana nelle università tedesche, C. G. Jung e Paul Celan. Ultime pubblicazioni: «L’incipit del canto VIII del Purgatorio di Dante Alighieri», in Sacco, Sergio; Tommasi, Alberto (a cura di): La nostalgia. Atti del settimo Seminario Italia-Germania-Russia Belluno, 11-13 Ottobre 2009. Belluno: Istituto Bellunese di Ricerche Sociali e Culturali, 2011, pp. 129-154. «Retrospettiva sui concetti di Animus e Anima», in Studi Junghiani, vol. 20 (2014), n. 2, pp. 5-21. Ha pubblicato soltanto una poesia sulla Prima Guerra del Golfo nell’inserto «Mercurio» di Repubblica di fine gennaio 1991.
Giorgio Linguaglossa, grafica di Lucio Mayoor Tosi
Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
L’atmosfera inquieta e saturnina di queste composizioni, il loro spettro poematico, il loro sviluppo narrativo sono tutti elementi che situano questa poesia nel solco di quella rinascenza della narratività che oggi sembra contagiare gli esiti più maturi della poesia contemporanea. E non è un caso questa consonanza dello spettro poematico dall’andamento giambico con la riproposizione di un metro endecasillabico, esso è anche indice e spia della caduta tendenziale della forma-poesia, del suo oscuramento, della sua interna mutazione genetica verso un qualcosa d’altro che ancora non riusciamo ad intravedere. Una nuova forma-poesia in Italia è latitante da così tanti decenni ormai che se ne è persa addirittura la eco, ma Alberto Tommasi è in cammino, un cammino consapevole che un’epoca di transizione si è consumata e ne è cominciata un’altra che ancora non è riconoscibile ma è ben visibile; c’è in questi testi una costante stilistica erede degli antichi parametri di riferimento (tra Lucio Piccolo e Lorenzo Calogero) ormai perenti ed obsoleti vista la rinascenza di quella narratività di cui dicevamo, ed è anche rinvenibile, a mio avviso, una qualche problematicità ad individuare una direzione di ricerca.
E certo, «Epitaffio per la morte delle nuvole» è uno splendido titolo di una raccolta a venire ed è un verso eccellente. C’è in esso già tutto il nostro nihil, la nostra liquefazione la nostra frammentazione ontologica. Anche il giro frastico sembra avvolgersi in spire concentriche e ondulatorie attorno ad un asse centrale immaginario, simile ad un buco nero che si assottigli e tenda a scomparire. Oggi che siamo in piena disseminazione delle forme estetiche e liquefazione del verso, la poesia di Alberto Tommasi tende ad assottigliare le proprie differenze rispetto alla poesia di matrice post-simbolistica di un Lucio Piccolo, ma non per sua negligenza o per incuria quanto perché la poesia italiana di oggi si trova dinanzi ad un bivio, o proseguire lungo il pendio elegiaco irriflesso (o riflesso) con inserimento di correttori prosastici come fa la stragrande maggioranza dei poeti «colti», o procedere verso una elegia ripropositiva, magari mascherata e vestita a festa per renderla presentabile.
Ed è proprio qui, in questo punto che Alberto Tommasi, poeta dotato e colto, viene in contatto con la piattaforma della nuova ontologia estetica, e tale contatto non potrà che rendergli un positivo servizio di approvvigionamento verso un nuovo orizzonte degli eventi poetici, credo. È qui che si è aperto per la poesia italiana di oggi un nuovo panorama, un nuovo orizzonte da cui Alberto Tommasi saprà scegliere ciò che gli è più congeniale.
Mi scrive Alberto dopo aver letto una mia poesia della NOE, “Io Zosimo”: «dovrò correggere “glossorgico” in “glossargico”, cioè non ‘colui che si addormenta sulle parole’, bensì ‘colui che va in letargo alla loro ombra, per poi risorgere alla fine dell’inverno’». Io mi sento di replicare così: stiamo tutti in una comune condizione glossargica, stiamo ogni giorno immersi in mezzo a migliaia di emittenti linguistiche ed iconiche di un mondo in stato di frammenti glossargici e peristaltici.
Gino Rago, Grafica di Lucio Mayoor Tosi
Scrive Gino Rago:
Verso un nuovo paradigma poetico
La Introduzione di Giorgio Linguaglossa [alla Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo] non lascia margini ad ulteriori dubbi: si è chiusa in modo definitivo la stagione del post-sperimentalismo novecentesco, si sono esaurite le proposte di mini canoni e di mini progetti lanciati da sponde poetiche le più diverse ma per motivi, diciamo, elettoralistici e auto pubblicitari, si sono esaurite la questione e la stagione dei «linguaggi poetici», anche di quelli finiti nel buco dell’ozono del nulla; la poesia italiana sembra essere arrivata ad un punto di gassosità e di rarefazione ultime dalle quali non sembra esservi più ritorno. Questo è il panorama se guardiamo alle pubblicazioni delle collane a diffusione nazionale, come eufemisticamente si diceva una volta nel lontano Novecento. Se invece gettiamo uno sguardo retrospettivo libero da pregiudizi sul contemporaneo al di fuori delle proposte editoriali maggioritarie, ci accorgiamo di una grande vivacità della poesia contemporanea. È questo l’aspetto più importante, credo, del rilevamento del “polso” della poesia contemporanea. Restano sul terreno voci poetiche totalmente dissimili ma tutte portatrici di linee di ricerca originali e innovative.
Molte delle voci di poesia antologizzate vibrano, con rara consapevolezza dei propri strumenti linguistici, in quell’area denominata L’Epoca della stagnazione, che non significa riduttivamente stagnazione della poesia ma consapevolezza da parte dei poeti più intelligenti della necessità di intraprendere strade nuove di indagine poetica riallacciandosi alle poetiche del modernismo europeo per una «forma-poesia» sufficientemente ampia che sappia farsi portavoce delle nuove esigenze espressive della nostra epoca.
Innanzitutto, il decano della nuova poesia è espressamente indicato nella persona di Alfredo de Palchi, il poeta che con Sessioni con l’analista del 1967, inaugura una poesia frammentata e proto sperimentale, una linea che, purtroppo, rimarrà priva di sviluppo nella poesia italiana del tardo Novecento ma che è bene, in questa sede, rimarcare per riallacciare un discorso interrotto. Un percorso che riprenderà Maria Rosaria Madonna con il suo libro del 1992, Stige, forse il discorso più frammentato del Novecento, dove il «frammento è l’intervento della morte dell’opera. Col distruggere l’opera, la morte ne elimina la macchia dell’apparenza».1] Un discorso sul «frammento» in poesia ci porterebbe lontano ma ci aiuterebbe a collocare certe opere del Novecento, come quella citata di de Palchi con l’altra di Maria Rosaria Madonna. In un certo senso, questa Antologia vuole riallacciare un «discorso interrotto», collegare le «membra disiecta», capire le ragioni che lo hanno «interrotto» per ripartire con maggiore consapevolezza da un nuovo discorso critico della poesia del secondo Novecento. Forse adesso i tempi sono maturi per rimettere al centro della poesia italiana del secondo Novecento poeti come Alfredo de Palchi, Angelo Maria Ripellino,Helle Busacca, ma anche Maria Rosaria Madonna, Mario Lunetta e Giorgia Stecher ingiustamente dimenticati. Ne uscirebbe una nuova mappa della poesia italiana.
1] T.W. Adorno Teoria estetica, Einaudi, 1970
Alberto Tommasi, ott. 2014
Alberto Tommasi
Epitaffio per la morte delle nuvole
(Io) mi nutro d’un tempo non umano taglio vetri in fiumi senza rive qui non è dato levare tele d’angoli male esistiti. Hölderlin non più s’avvolge in spire di quest’unico cielo tra colline – da quando il maschio (non il padre) cacciò le vacche (bandì le figure) dall’azzurro x N all’infinito. Sicché spento il dolore del ritorno le perifrasi crollano dei cieli. Astratta sempre lacca di cobalto e mai nessuno visita la tomba.
Accoglimi, guardiano delle giare.
Da custodire ti fingo con secchi fiori un giardino nel quale l’erba intorno ascolta l’invecchiare di ruvide piscine. Tramonti gialli e brevi ti crescono di là dal muro del giardino. Qualcuno a casa ti attende.Continua a leggere →
Roma, venerdì 15 aprile ore 18 all’Aleph vicolo del Bologna, 72 (Trastevere) presenta Teoria delle Ombre, notturno in 4 movimenti per Lucio Piccolo (1901-1969) nella interpretazione di Pino Censi, real time processing Paolo de Laurentiis
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Appunto di Pino Censi
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Teoria delle Ombre, notturno in quattro movimenti per Lucio Piccolo si propone di investigare il senso alto e sublime della parola poetica – eludendone l’enfasi – evidenziando nella pratica vocale le presenze e le apparenze che in essa sono contenute.
Le singole liriche, come suggeriva lo stesso poeta, saranno considerate un inarrestabile e stravagante flusso meditativo ciclico e unitario
“affannosa e spettrale recherche…memorielegate a risvegli infantili…ex-voto per le anime in fiamme liberate dalla vibrazione del canto”.
I movimenti di scansione potrebbero costituire ideali cesure legate alla simbologia numerica del quattro. Essi oltre a richiamare la modalità musicale barocca, cioè quella di comporre per temi ordinati in una successione di sezioni e blocchi, possono evocare ancora gli angoli di una ipotetica stanza nella quale le stagioni dell’anno, i quattro elementi, i punti cardinali, le fasi della luna, i quattro momenti in cui si sviluppa l’arco temporale di una giornata, orbitano e si fondono con lo sviluppo archetipico dell’età umane collegate tra loro (attraverso la poesia) dal centro del cosmo.
Contrappunto all’interpretazione musicale del pensiero, una drammaturgia sonora concepita per questo carme.
…« Notturno» è solo un riferimento mentale e giocoso rispetto al significato attribuitogli dai romantici…ad eccezione del fatto che il componimento potrebbe essere idealmente destinato e concepito per le ore della notte, o meglio ispirato ad esse. Forse più semplicemente è un ulteriore tributo diretto a Piccolo, autore egli stesso di uno spettrale e magico notturno…contenuto nella partitura dello spettacolo?
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Sono appassionato lettore di Lucio Piccolo da molti anni e recitare POESIA è stata da sempre una mia OSSESSIONE, pensavo fosse solo quell’esperienza intimissima e profonda
-quasi sacra- dell’occhio con il foglio scritto.
Questo è un tentativo affascinato ed estremo di una ulteriore riflessione sul seducente mondo del poeta,una delle figure più significative del 900.
Indagare dentro quei suoi versi densissimi frutto di una costante tensione metafisica in continua fluttuazione tra il protagonista lirico e la realtà circostante, contingente, documentata da una cattura incessante di simboli e immagini… dallo sperimentalismo linguistico (uno stile ermetico reso da una forma e struttura barocche generanti un ossimoro letterario) alle combinazioni prospettiche, al contrappunto tematico, alle variazioni ritmiche fino al richiamo della “armonistica bartokiana”. Tutti questi segni hanno avvicinato l’amato poeta proprio al “moderno compositore politonale” intravisto da Montale… ed è proprio lui, Lucio stesso, che in un inesauribile vortice mi ha condotto e fatto violare quell’inviolabile limite intimo – quasi sacro – tra occhio e pagina, offrendomi con la sua poesia, voce e corpo all’impalpabile e implacabile flusso mentale della parola, una parola “… poeticissima, luminosa, difficile da penetrare, di pasta dura e, come la luna con zone d’ombre, macchie scure”.
picnic di famiglia
Commento di Silvia Chessa da Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 83 (2015)
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Piccolo, Lucio (Lucio Carlo Francesco), barone di Calanovella. – Nacque a Palermo il 27 ottobre 1901 da Giuseppe e Teresa Mastrogiovanni Tasca Filangeri di Cutò, e morì a Capo d’Orlando nel 1969.
Lucio Piccolo appartenne a una famiglia aristocratica siciliana che annoverava, per parte materna, l’origine normanna e tre viceré di Sicilia. Il padre Giuseppe (1866-1928), figlio di Casimiro e Agata Moncada Notarbartolo, aveva sposato Teresa il 28 aprile 1890 ed era morto a Sanremo, in una sorta d’esilio imposto dalla moglie, che aveva tollerato la cattiva gestione del patrimonio e le avventure sentimentali, ma non l’abbandono della famiglia. Da Lucio Mastrogiovanni Tasca Lanza d’Almerita, che nel 1867 aveva sposato Giovanna, figlia del soprano Teresa Merli Clerici e unica erede di Alessandro Filangeri di Cutò, nacque invece la madre (1871-1953) di Piccolo, in una famiglia numerosa ma non fortunata: il fratello Lucio morì poco dopo la nascita; Nicoletta fu vittima del terremoto di Messina del 1908; Giulia, la bellissima dama di corte della regina Elena e madrina del principe ereditario Umberto, fu assassinata dal proprio amante; Maria morì per una dose eccessiva di Veronal e Pia colpita da meningite, a soli otto anni. Alessandro, fratello minore di Teresa, si distinse per la sua attività giornalistica e l’impegno politico nel Partito socialista riformista, ma l’alto tenore di vita, l’inclinazione munifica e le conseguenze di una condanna per diffamazione contribuirono al suo declino economico, e il ‘Principe Rosso’ morì in povertà nel 1943. Il suo primogenito, Alessandro jr., produsse e collaborò con registi di fama come Orson Welles e John Huston.
In questo illustre e complesso contesto familiare, la parentela più nota è però quella con Giuseppe Tomasi di Lampedusa, figlio di Giulio Maria e di Beatrice Tasca Filangeri di Cutò, sorella maggiore di Teresa. Giuseppe ebbe un legame profondo con i cugini Piccolo, di cui condivise gli interessi culturali, le aspirazioni e una nativa neghittosità mista a timidezza e fierezza. Non privi di analogie furono anche i rapporti con le figure genitoriali e i condizionamenti familiari relativi a matrimoni e discendenze: Tomasi adottò Gioacchino Lanza Mazzarino, e Piccolo, che non si sposò mai, ebbe da Maria Paterniti l’atteso erede, Giuseppe Giovanni Piccolo di Calanovella (Ficarra, 24 giugno 1960 – Palermo, 1° luglio 2012), su cui decise di far confluire il patrimonio materiale e culturale della famiglia. Da Giuseppe e da sua moglie Gaetana Guadalupi nacque a Messina, il 23 marzo 1991, Mariel (all’anagrafe Mariella) Piccolo di Calanovella.
Ultimo di tre fratelli, Piccolo trascorse gran parte della sua esistenza nella villa di contrada Vina, a tre chilometri dal centro di Capo d’Orlando, in cui, in ossequio alla volontà materna, la famiglia si trasferì definitivamente dopo l’allontanamento del padre e le difficoltà economiche che determinarono la perdita della casa palermitana di via Libertà 13. Poliglotti, colti e raffinati conversatori, amanti della musica e dell’arte, della natura e degli animali, specialmente dei cani, cui avevano riservato in villa un degno cimitero con il nome dei defunti sulle lapidi, i Piccolo vennero inevitabilmente considerati una famiglia di eccentrici.
La sorella Agata Giovanna (1891-1974), appassionata di botanica e membro dell’Associazione mondiale di floricultura, trapiantò, nell’orto di villa Vina, la Puya delle Ande, introducendo per la prima volta in Europa la rara pianta tropicale illustrata in un saggio del 1963. Fin troppo noto per la sua inclinazione verso l’occulto, il fratello Casimiro (1894-1970) condivise con Lucio la fascinazione per l’oscurità, spartita fra indagine scientifica ed esoterismo; più recente fu invece l’attenzione agli acquerelli e alle fotografie, testimoni di originali e pionieristici interessi.
Ingegno acutissimo, precoce e poliedrico, Piccolo sovrastò tutti per talento lirico e cultura. Conseguita la maturità classica al liceo Garibaldi di Palermo, non intraprese studi universitari; fu in una corrispondenza con William Butler Yeats e frequentò il salotto palermitano del barone Bebbuzzo Sgàdari di Lo Monaco. All’insegna di un paradossale cosmopolitismo (rari gli spostamenti in Italia e all’estero, in Francia e in Inghilterra con Lampedusa), Piccolo continuò a vivere a Capo d’Orlando dove fu munifico ospite di letterati, artisti e giornalisti, attratti dalla sua personalità non meno che dall’opera. Eclettico lettore di testi classici moderni e contemporanei, italiani e stranieri in lingua originale, esperto di filosofia, teosofia, metapsichica, matematica e astronomia, fu anche pittore e musicista con la passione per Richard Wagner, i polifonici del Cinquecento e Gian Francesco Malipiero.
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eugenio montale e il picchio
A Eugenio Montale inviò, nell’aprile del 1954, un gruppo di sue poesie, 9 liriche, con una lettera di accompagnamento. Un’altra lettera, con poesie accluse, fu contestualmente indirizzata a Giuseppe De Robertis, informato, come Montale, che una copia dattiloscritta delle liriche era in lettura presso Vallecchi. Pochi mesi dopo la morte della madre – per la quale in villa si continuava ad apparecchiare un posto a tavola –, Piccolo si aprì quindi al confronto con almeno tre importanti interlocutori: un editore, un poeta e un critico.
A scrivere la lettera d’accompagnamento, che a Montale era parsa «piuttosto generica e tale da far temere una poesia puramente descrittiva», era stato invece Tomasi. Lo rivelò lo stesso Piccolo a Camilla Cederna: «in una sorta di raptus scrissi i “Canti barocchi”. Li lessi a Lampedusa, che, smesso quell’inesorabile seppure stimolante persiflage nei miei confronti, li approvò incoraggiandomi a mandarli a Montale. Fu lui anzi a scrivere la lettera d’accompagnamento, e in questo modo io restavo come Nereo dietro le ombre, e lui si divertì a mettere Montale in curiosità» (cfr. L’Espresso, 29 aprile 1962, p. 18).
Fu Montale invece a raccontare di una busta gialla, con un bollo da 35 lire il cui ritiro gli costò 180 lire di tassa per l’errore di affrancatura: conteneva un «libriccino» stampato nello Stabilimento Progresso di Sant’Agata di Militello in una veste tipografica che gli ricordava i Canti Orfici di Dino Campana. Nel mese di luglio del 1954, al convegno di San Pellegrino Terme organizzato da Giuseppe Ravegnani sul confronto letterario fra due generazioni, Montale, invitato a fare il nome di un nuovo scrittore, scelse di presentare Piccolo, scoprendo che il poeta «nuovo» era in realtà poco più giovane di lui. L’arrivo del barone e del principe suo cugino, l’ancora sconosciuto autore del Gattopardo, in questo contesto mondano e sottilmente ostile, suscitò molta curiosità, acuita e riorientata dal discorso tenuto da Montale vòlto poi a introdurre Canti barocchie altre liriche (Milano 1956), edito nella collana mondadoriana Lo Specchio.
Montale vi descriveva le singolarità di «un uomo che la crisi del nostro tempo ha buttato fuori del tempo», un poeta senza maestri, in cui la virtù oratoria presente nella linea materna (specialmente in suo zio, l’on. Tasca di Cutò) era riuscita a sublimarsi in poesia: «Mi trovavo, insomma, di fronte a un clerc così dotto e consapevole che veramente l’idea di dovergli essere padrino mi metteva in un insormontabile imbarazzo. Lucio Piccolo ha letto tous les livres nella solitudine delle sue terre di Capo d’Orlando; ma non segue nessuna scuola» (cfr. E. Montale, Prefazione, ibid., pp. 16-17). Nello stesso anno, al premio letterario Chianciano, Piccolo ottenne per i Canti barocchi un ex aequo con Le passeggiate di Saverio Vollaro (Roma 1956).
Sempre per Mondadori, Piccolo pubblicò Gioco a nascondere. Canti barocchi e altre liriche (Milano 1960), dedicato a Montale, e nel 1967, anno della sua ristampa, presso Scheiwiller uscì un’«edizioncina» di nove componimenti, Plumelia (poi 1979), con dedica ad Antonio Pizzuto, da lui ricambiato in Ultime. Nel 1959 erano già apparse in Botteghe Oscure (XXIV, 2, pp. 291-295) le poesie Ombre, Topazio affumicato e Candele, mentre datata 2 giugno 1965 è la lettera-omaggio per i settant’anni di Montale (Per la conoscenza di noi stessi, in Letteratura, n.s., XXX (1966), 79-81, p. 249).
In Nuovi Argomenti furono edite L’esequie della luna – un balletto sulla Palermo barocca cui, almeno nei voti, avrebbe dovuto far seguito, con la musica di Malipiero e i costumi di Fabrizio Clerici, un’esecuzione alla Piccola Scala di Milano diretta da Gianandrea Gavazzeni – e La torre (rispett. n.s., 1967, n. 7-8, pp. 152-169; 1968, n. 9, pp. 112-114). Su Carte segrete uscì invece La seta (1968, 2, 7, p. 191). Con Pier Paolo Pasolini e Alberto Moravia, direttori di Nuovi argomenti, e insieme ad altri amici, fu nella giuria del premio letterario Vitaliano Brancati di Zafferana Etnea (1968). Nei due anni precedenti aveva presieduto il premio internazionale di poesia Riviera dei Marmi (Custonaci, Trapani; 1967) e il premio Città di Naso (1966), vinto da Maria Luisa Spaziani.
Il 1° novembre del 1968, fra il serio e il faceto, e con un vaticinio d’addio non solo poetico, Piccolo mandò a Pizzuto una cartolina illustrata: «Io sto non troppo bene con disturbi di circolazione che fanno un tantino di male al cuore. Ma questo sarebbe nulla se non soffrissi di una quasi completa aridità poetica. Non scriverò più nulla ahimè! Per la quale ragione ben tosto mi getterò da questa storica torre – di cui ti mando la foto. Così potrai vedere il luogo nel quale chiuse tragicamente i suoi giorni il tuo sventuratissimo amico».
Per un’embolia cerebrale morì a Capo d’Orlando il 26 maggio 1969.
La prima raccolta postuma fu edita da Vanni Scheiwiller con il titolo La seta e altre poesie inedite e sparse (a cura di G. Musolino – G. Gaglio, Milano 1984). La stima e amicizia con il poeta aprivano la Nota dell’editore in cui Scheiwiller faceva cenno ai progetti editoriali condivisi e poi sospesi per l’inattesa morte di Piccolo, alla «scoperta» degli inediti, alla vertenza giudiziaria che aveva reso temporaneamente inaccessibili le carte e la biblioteca (cfr. La sorte delle carte del poeta L. P., in Corriere della sera, 21 gennaio 1973, p. 5), e alla personale consegna delle bozze a Giuseppe Piccolo e ai curatori. La silloge, articolata in «Poesie sparse mai raccolte in volume» e una serie di venticinque «Poesie inedite», comprendeva fra queste ultime Resurrescit, già apparsa in L’esperienza poetica (1955, n. 7-8, pp. 6-9), insieme con Anna Perenna, che in altra redazione sarebbe entrata in Gioco a nascondere. Fra gli Autografi di poeti italiani contemporanei“all’insegna del Pesce d’Oro” (Milano 1986) fu inclusa la traduzione da Yeats Ma mentre andava brancicando; sempre per Scheiwiller uscirono Il raggio verde e altre poesie inedite e L’esequie della luna e alcune prose inedite (Milano 1993 e 1996, a cura di G. Musolino); l’Antologia poetica (Milano 1999, con introd. e note a cura di G. Celona); Canti barocchi e Gioco a nascondere (Milano 2001, con uno scritto di V. Consolo, Il barone magico); Plumelia, La seta, Il raggio verde e altre poesie (Milano 2001, con prefaz. di P. Gibellini); e A. Pizzuto – L. Piccolo, L’oboe e il clarino. Carteggio 1965-1969 (Milano 2002, a cura di A. Fo – A. Pane). Nel 2005, con le litografie di Mimmo Paladino, sono stati editi da Zanella e Upiglio i Canti barocchi (note di B. Manzitti, Una busta per Montale e S. Verdino, Poesia di sangue blu) e nel 2010, a Ficarra, per il Museo Lucio Piccolo, 9 liriche (nota al testo di D. Perrone). Alta, difficile, resistente alle necessità tassonomiche di antologie e storie letterarie, la scrittura di Piccolo, anche nella sua inappartenenza, è quella di un poeta metafisico che si colloca all’interno della più grande tradizione italiana e straniera. Il suo lirismo strumenta l’invenzione di un’epoca e traduce un’autentica febbrile visionarietà, stemperata solo dall’intensità apollinea dei referenti fisici e stilistici, chiusi in quel cerchio della memoria che è per Piccolo vita e poesia. Una lirica pura, che sintetizza sostanza e forma poetica nei termini di una perfezione stilistica non minacciata dal descrittivismo e non contaminata da intellettualismi, e per la quale Pizzuto dichiara la sua stima al massimo poeta italiano del suo tempo. L’opera di Piccolo attende e merita una nuova acquisizione al panorama storiografico nazionale e internazionale, che dovrà passare attraverso il vaglio della biblioteca, il censimento, l’indagine sistematica delle carte, e un’adeguata valorizzazione in sede di edizione critica.
Font e Bibl.: Il Fondo «Lucio Piccolo di Calanovella» è conservato presso le eredi Gaetana Guadalupi e Mariel Piccolo, e comprende carte e libri, alcune collezioni, mobili e una motocicletta di P.; a oggi, tre sono gli inventari, redatti da G. Guadalupi e M. Piccolo, con l’ausilio di G. Celona, relativi a testi letterari (fra cui materiali preparatori, appunti e scritti vari), corrispondenza (che annovera almeno Yeats, Tomasi, Montale e Pizzuto, Guido Piovene, Leonardo Sciascia, Maria Luisa Spaziani, Vincenzo Consolo e, fra gli editori, Mondadori e Scheiwiller) e materiale fotografico. Sono invece in corso di allestimento l’inventario dei manoscritti musicali, in cui si registra il pluricitato Magnificat, e quello dei disegni e acquerelli. È infine conservato nel Fondo un nucleo di documentazione privata, costituito da atti, donazioni e testamenti personali e familiari. Duemila volumi circa compongono la biblioteca; la lingua maggioritaria è l’italiano, ma sono presenti testi in francese, inglese, tedesco, spagnolo, greco, latino e alcuni in arabo.
Per la Fondazione Famiglia Piccolo di Calanovella (Capo d’Orlando, villa Vina, oggi Casa-museo), si vedano l’Archivio storico famiglia Piccolo di Calanovella, a cura di A.M. Corradini, Capo d’Orlando 2002, e il sito ufficiale http://www.fondazionepiccolo.it.
Per un profilo complessivo della bibliografia di e su Piccolo si rinvia a S. Palumbo, Notizia e Bibliografia critica, in L. Piccolo, Plumelia,La seta,Il raggio verde e altre poesie, cit., pp. 111-113 e 114-128; Opere di L. P. e Opere su L. P. (www.fondazionepiccolo.it) in cui sono inclusi documentari, programmi radiofonici e tesi di laurea. Ulteriori rimandi in A. Tasca di Cutò, Un principe in America e altrove, Palermo 2004; G. Tomasi di Lampedusa, Viaggio in Europa. Epistolario 1925-1930, a cura di G. Lanza Tomasi – S.S. Nigro, Milano 2006; C. Aliberti, L. P., in Letteratura siciliana contemporanea. Da Capuana a Verga, a Pirandello, a Quasimodo, a Camilleri, Cosenza 2008, pp. 536-550; S. Chessa, Dalla Torre di L. P., in Studi di filologia italiana, LXVI (2008), pp. 293-325; A.M. Corradini, Il principe rosso. Alessandro Tasca Filangeri di Cutò un socialista dimenticato, Acireale-Roma 2010; F. Cevasco, Montale e Lucio il poeta barone nella villa incantata dei Gattopardi, in Corriere della sera, 14 agosto 2013, p. 30; C. Segre, Le fughe e i ritorni di Consolo. Sicilia non è solo Gattopardo, ibid., 19 gennaio 2015, pp. 30 s.
LE LIRICHE
(da: Gioco a nascondere-Canti Barocchi, Mondadori 1960; Plumelia, Scheiwiller 1967; La seta, Scheiwiller 1984; Il raggio verde, Scheiwiller 1993)
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Non fu come credevi…
Non fu come credevi per lo scatto del giorno innanzi che aveva turbato la pianta gracile troppo sensitiva. Per altro fu il singhiozzo subito: forse l’eco risorta d’una storia dolente; ma certo in me s’apriva tremenda ed umile la voce che da sempre dura e che ci lega, ognuno di noi, al dolore d’ognuno anche ignorato. Poi viene calma, e il riposo al tuo riparo. Su la rena onda dopo onda la marina lontana forse suona una notte in cui riemergono dalle profondità sull’errante pianura le luci fuggitive dei tesori che i navigli salpati alle speranze dell’Isole Felici dispersero sull’acque.
. I giorni
I giorni della luce fragile, i giorni che restarono presi ad uno scrollo fresco di rami, a un incontro d’acque, e la corrente li portò lontano, di là dagli orizzonti, oltre il ricordo, – la speranza era suono d’ogni voce, e la cercammo in dolci cavità di valli, in fonti – oh non li richiamare, non li muovere, anche il soffio più timido è violenza che li fra storna, lascia che posino nei limbi, è molto se qualche falda d’oro ne traluce o scende a un raggio su la trasparente essenza che li tiene ma d’improvviso nell’oblio, sul buio fondo ove le nostre ore discendono leggero e immenso un subito risveglio trascorrerà di palpiti di sole sui muschi, su zampilli che il vento frange, e sono oltre le strade, oltre i ritorni ancora i giorni della luce fragile, i giorni…
. La meridiana
Guarda l’acqua inesplicabile: contrafforte, torre, soglio di granito, piuma, ramo, ala, pupilla, tutto spezza, scioglie, immilla; nell’ansiosa flessione quello ch’era pietra, massa di bastione, è gorgo fatuo che passa, trillo d’iride, gorgoglio e dilegua con la foglia avventurosa; sogna spazi, e dove giunge lucente e molle non è che un infinito frangersi di gocce efimere, di bolle. Guarda l’acqua inesplicabile: al suo tocco l’Universo è labile. E quando hai spento la lampada ed ogni pensiero nell’ombra senza peso affonda, la senti che scorre leggera e profonda e canta dietro ai tuoi sogni. Nell’ora colma, nelle strade meridiane (ov’è l’ombra, ai mascheroni anneriti alle gronde scuote l’erbe l’aria marina) rispondono le fontane, dalla corte vicina (lasciò la notte ai muri umidi incrostazioni di sali, costellazioni che il raggio disperde), dai giardini pensili ove s’ancora il verde si librano cristallini archi s’incontrano nell’aria incantata alle piazze sui cavalli di spuma gelata, s’alzano volte di suono radiante che frange un istante e ricrea – la tenera piovra, il fiore liquido emerge, elude il silenzio e un àndito schiude fra il canto e il sopore; s’aprono zone di solitudini, di trasparenze, e il bordone poggiato al sedile riposa e il sogno si leva… L’ombra del cavalcavia Batte al selciato che brucia. Ora piana ora ferma, ti guardi, ti specchi beata in alta murata di loggia –nitore di vela- in altana e la loggia, la cupola, la cuspide che vuole salire più alta, sono immerse nel vento del sole; permea l’azzurro le travature corrose, la scala che sale alla cella, delle aperture dei muri forati, degli archi fa sguardi sereni, e le cavalcature riposano ai fieni falciati; rigoglio di lantane, di muse, di calle, ai terrapieni ove il gelso arpeggia l’ombre ed alle balaustre scendono diffuse le molli frane del caprifoglio, (dietro al cancello fra gli aranci l’acqua nascosta ha note d’uccello). E le montagne, le montagne, l’han consumate al corale dei raggi le resine, l’erbe odorose, gli aromi selvaggi …lancia il sole crinale cerchio nell’idrie ove l’acqua scintilla e s’uno scende l’atro sale, • armonica d’oro – la Bilancia appena oscilla quasi uguale. Attendono i vegliardi; sotto la cupola al segno rotondo (in gemini) folgora l’ora eco di cosmi, ed alle siepi del mondo passa il brivido di fulgore fende l’immane distesa celeste vibra, smuore, tace, vento senza presa e silenzio. Ma se il fugace è sgomento l’eterno è terrore.
Lucio Piccolo
Scirocco
. E sovra i monti, lontano sugli orizzonti è lunga striscia color zafferano: irrompe la torma moresca dei venti, d’assalto prende le porte grandi gli osservatori sui tetti di smalto, batte alle facciate da mezzogiorno, agita cortine scarlatte, pennoni sanguigni, aquiloni, schiarite apre azzurre, cupole, forme sognate, i pergolati scuote, le tegole vive ove acqua di sorgive posa in orci iridati, polloni brucia, di virgulti fa sterpi, in tromba cangia androni, piomba su le crescenze incerte dei giardini, ghermisce le foglie deserte e i gelsomini puerili – poi vien più mite batte tamburini; fiocchi, nastri… Ma quando ad occidente chiude l’ale d’incendio il selvaggio pontificale e l’ultima gora rossa si sfalda d’ogni lato sale la notte calda in agguato.
. La notte
La notte si fa dolce talvolta, se dalla cerchia oscura dei monti non leva alito di frescura perché non sòffochi, ai muri vicini apre corimbo di canti, sale coi rampicanti pei lunghi archi, alle terrazze alte, ai pergolati, al traforo dei mobili rami segna garofani d’oro, segreti fievoli coglie ai fili d’acqua sui greti o muove i passi stanchi dove l’onde buje si frangono ai moli bianchi. Subito allo schermo dei sogni soffia in vene vive volti già cenere, parole àfone… muove la girandola d’ombre: sulla soglia, in alto, ogni dove vacuo vano, andito grande tende a forme, sguardo che muove le prende, sguardo che ferma le annulla. Riverberi d’echi, frantumi, memorie insaziate, riflusso di vita svanita che trabocca dall’urna del Tempo, la nemica clessidra che spezza, è bocca d’aria che cerca bacio, ira, è mano di vento che vuole carezza. Alle scale di pietra, al gradino di lavagna, alla porta che si fende per secchezza è solo lume l’olio quieto; spento il rigore dei versetti a poco a poco il buio è più denso – sembra riposo ma è febbre; l’ombra pende al segreto battere d’un immenso Cuore di fuoco.
* sebbene tu cerchi che la tua stessa fugacità sia l’arpa, il flauto, il ruscello, sai che su la fronte è il segno di una malinconia senza fine; e se l’aria della notte che avanza scioglie la maggiorana, i mirti, il chiaro calice della datura in fumo umido di fragranza, sai che la favola sboccia, poco dura, s’allontana, e l’amaro e dell’ultima goccia. Anche se il disperso ritrova il confine, il lume notturno, il riposo, anche se il tumulto gioioso delle campane irrompe nell’aria della sera, e la corona da le gemme invernali dolce sì curva a la primavera dei bianchi sponsali. Ora su le colline oscure, su le curve dei monti le terse cinture, le cacce di scintille prende il primo scoramento che poi trascolora, e saranno in fondo a le valli, brusio, brina, all’eriche sonaglio di stille che vapora, breve fluire di fonti che l’erba disperde, che la terra densa ai raggi caldi beve.
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Notturno
Hai visto come al varcare la soglia il lume che era nella mano manca mentre l’altra fa schermo, ha dato uno svampo leggero del vetro se spento. tardo il passo ne fu colpo di vento, forse ha soffiato qualcuno, un volto subito svaporato nell’aria? Felpata, ovattata densa di cortine ogni stanza, ogni vano -solo per la notte che pensa? Imbottiture a finestre doppie che l’aria non giri ed anche la porta a la sua veste di stoffa che spenga ogni stridio (rinchiuso interno che la malinconia di nuovo chiama opprime e la figura annosa e i figli estremi incandescenti al flusso giallo). Non ebbe strisce sanguigne il tramonto, vennero chiare le campane, ora pende la lanterna al carretto che stenta e in fondo alla strada sul mare un bastimento che prende il largo gira i suoi fuochi lontani. E ancora due volte hai riacceso Il lume e due volte se spento all’entrare: una villetta, un ventaglio di piume, una mano che sfilò dal guanto, la falda d’un portale che non sostenne Il nastro? Ma non c’è nessuno e sai che non bisogna tentare il buio: rimemora, a nostalgie, imprevisti, l’ombra a le ombre, meglio pregare a questo ora, quel che gioco sembra di giorno fa vero di notte la notte che sogna- penso che farai: la luna, i pianeti la rosa Di maestrale o scirocco nei porti lontani maree: il volume sibillino di numeri e immagini che muta in oro innegabile voci smorzate all’orecchio, significazioni di sogni, eventi. Ma i morti non hanno cifre per i nostri tesori, singulti hanno in noi, veglie di fiamme basse, aneliti d’angoscia verso un nodo di vita incompreso, e a volte una sera che scende dall’alto e candori infiniti. Parlottare fatuo nell’aria o il buio che si cerca o sfioramenti di matasse invisibili o altro certo non saranno che folle, ma è vero che per tre volte t’anno soffiato sul lume al passare.
. Il raggio verde
Da torri e balconi protesi incontro alle brezze vedemmo l’ultimo sguardo del sole farsi cristallo marino d’abissi… poi venne la notte sfiorarono immense ali di farfalle: senso dell’ombra. Ma il raggio che sembrò perduto nel turbinio della terra accese di verde il profondo di noi dove canta perenne una favole, fu voce che sentimmo nei giorni, fiorì di selve tremanti il mattino.
. Voce umile e perenne
Voce umile e perenne sommesso cantico del dolore nei tempi, che ovunque ci giungi e ovunque ci tocchi, la nostra musica è vana troppo grave, la spezzi; per te solo vorremmo il balsamo ignoto, le bende… ma sono inchiodate dinnanzi al tuo pianto le braccia non possiamo che darti la preghiera e l’angoscia.
Pino Censi
Pino Censi, diplomato all’Accademia Nazionale d’Arte drammatica “Silvio d’Amico”, è stato diretto da Gabriele Lavia, Glauco Mauri,Walter Pagliaro, Cherif, Barbara Nativi e Giorgio Treves. Intensa la collaborazione artistica con Sandro Sequi negli spettacoli realizzati per il Centro Teatrale Bresciano. Suoi i progetti “Nijinsky” (frammenti dai “Quaderni” di Vaslav Nijinsky, il madrigale di Claudio Monteverdi “Combatimento di Tancredi et Clorinda”, ”Cerchio di Melodie – Teoria delle Ombre” da dieci liriche di Lucio Piccolo e “Una lunga notte” tratto dal romanzo omonimo di Antonella Cilento sull’opera del ceroplasta secentesco G. Zummo. Alla biennale di Venezia (n°40) è stato Minosse/Cefalo nello spettacolo di Giorgio Marini “Il giavellotto dalla punta d’oro” racconto di Roberto Calasso. Ippolito nella “Fedra” di D’Annunzio al Vittoriale; Edipo nella performance “Edipo, la sfinge e lo spettro” da Cocteau presso la galleria “L’Attico” di Sargentini e Egon Schiele in “vive morendo ogni cosa” dal “diario di Neulengbach” dell’artista viennese.
L’uomo abita l’ombra delle parole, la giostra dell’ombra delle parole. Un “animale metafisico” lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l’ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l’uomo legge l’universo.
«Quegli sguardi dall'abisso... noi guardiamo dentro quelle pupille enormi, nere, lucenti come sfere d'ossidiana, e vediamo l'abisso. Ma loro verso cosa guardano? Verso di noi guardano. E vedono in noi l'abisso»
Il Mangiaparole – Come abbonarsi alla rivista, Quota ordinaria € 25, Quota sostenitore € 50 + copia di un Libro in omaggio a scelta della collana Il Dado e la Clessidra
Trimestrale di Poesia Critica e Contemporaneistica Il Mangiaparole n. 1
La Nuova Ontologia Estetica, Poetry kitchen – La parola kitchen è da pensarsi come evento linguistico: quindi evento dell’altro proprio perché si annuncia in quanto irruzione di ciò che è per venire, ciò che è assolutamente non riappropriabile; in quanto unico e singolare l’evento linguistico sfida l’anticipazione, la riappropriazione, il calcolo ed ogni predeterminazione. L’avvenire, ciò che sta per av-venire può essere pensato solo a partire da una radicale alterità, che va accolta e rispettata nella sua inappropriabilità e infungibilità. La contaminazione, l’impurità, l’intreccio, la complicazione, la coinplicazione, l’interferenza, i rumori di fondo, la duplicazione, la peritropé, il salto, la perifrasi costituiscono il nocciolo stesso della fusione a freddo dei materiali linguistici, gli algoritmi che descrivono la non originarietà del linguaggio, il suo esser sempre stato, il suo essere sempre presente; una ontologia della coimplicazione occupa il posto della tradizionale ontologia che divideva essere e linguaggio, la ontologia della coimplicazione ci dice che il linguaggio è l’essere, l’unico essere al quale possiamo accedere. Non si dà mai una purezza espressiva nel logos ma sempre una impurità dell’espressione, un voler dire, un ammiccare, un parlare per indizi e per rinvii.
La storia letteraria è un libro di ricette. Gli editori sono i cuochi. I filosofi quelli che scrivono il menu. Gli scrittori e i preti sono i camerieri. I critici letterari sono i buttafuori. Il canto che sentite sono i poeti che lavano i piatti in cucina.
Tutta la cultura dopo Auschwitz, compresa la critica urgente ad essa, è spazzatura
Al posto del problema gnoseologico kantiano, come sia possibile la metafisica, compare quella di filosofia della storia, se sia possibile comunque un’esperienza metafisica
Ogni felicità è frammento di tutta la felicità che si nega agli uomini e che essi si negano
Gli uomini vivono sotto il totem di un sortilegio: che la vita abbia un senso o che non ne abbia alcuno
Pura immediatezza e feticismo sono ugualmente non veri
Così anche la disperazione è l’ultima ideologia, utilissima per l’autoconservazione
Un angelo zoppo ci venne incontro e disse, senza guardarci: “malediciamo il nome di Dio.”
Nessuno capace di amare e così ciascuno crede di essere amato troppo poco
Le epoche della felicità sono i suoi fogli vuoti (Hegel)
Sortilegio e ideologia sono la stessa cosa (T.W. Adorno) Si può dire… che l’uomo è l’essere che progetta di essere Dio. Dio, valore e termine ultimo della trascendenza, rappresenta il limite permanente in base al quale l’uomo si fa annunciare ciò che è. Essere uomo significa tendere ad essere Dio, o, se si preferisce, l’uomo è fondamentalmente desiderio di essere Dio (J.P. Sartre)
Alfredo de Palchi monografia – Adesso diciamo una cosa tremendamente reale, che siamo entrati tutti in un Grande Gelo, in una nuova epoca, nell’epoca della piccola glaciazione dove le parole le trovi sì, ma raffreddate se non ibernate
Donatella Costantina Giancaspero
Vincenzo Petronelli La tecnica pone fine alla metafisica dell’occidente assegnandole un compito diverso in concomitanza con la dissoluzione della struttura denotativa che ha caratterizzato le lingue umane
la tecnica pone fine alla metafisica dell’occidente assegnandole un compito diverso in concomitanza con la dissoluzione della struttura denotativa che ha caratterizzato le lingue umane
La poesia è scrittura della nostra preistoria
Il soggetto non è mai del tutto soggetto, l’oggetto oggetto
Le cose si irrigidiscono in frammenti di ciò che è stato soggiogato
Il piacere sensoriale, a volte punito da un misto di ascetismo e di autoritarismo, è divenuto storicamente nemico immediato dell’arte: l’eufonia del suono, l’armonia dei colori, la soavità sono divenute pacchianeria e marchio dell’industria culturale (Adorno)
L’io penetra l’oggetto pensandolo e immaginandolo
Helle Busacca La disintegrazione della «struttura tragica» della poesia di Maria Rosaria Madonna segna la pre-condizione di possibilità per la nascita della poetry kitchen.
Edith Dzieduszycka. Avevano corso,/ di giorno e di notte,/ poi di nuovo di giorno,/ e ancora di notte./ Avevano corso/ come bestie assetate,/ in cerca del ruscello al quale abbeverarsi
Letizia Leone: Il diavolo indossa un camice bianco/ E stacca pezzi di carne dalla carne/ Del mondo/ Con aghi, occhi a punta, lame, rasoi // Non affonda la mano/ ma ferro disinfettato./ Non si sporca
Su di un cerchio ogni punto d’inizio può anche essere un punto di fine (Eraclito) – Roma, 1997, Giorgio Linguaglossa e Antonella Zagaroli
Cara Signora Schubert, mi capita di vedere nello specchio Greta Garbo. È sempre più simile A Socrate. Forse la causa è una cicatrice sul vetro (Ewa Lipska)
La casa pare ormeggiata nel cassetto di una vecchia scrivania./ “Mi chiedevo dove avessi lasciato le scarpe”./ La donna guarda attraverso le fessure della tapparella./ Ha sentito sbattere la portiera (Lucio Mayoor Tosi)
Anna Ventura conserva le parole tra le righe della sua scrittura come si mette un cibo in frigorifero
Domando al piombo perché ti sei lasciato fondere in pallottola? Ti sei forse scordato degli alchimisti? (Ch. Simic)
La precarietà del pensiero non identificante che indugia sulle cose. La tranquilla consapevolezza che ciò che possono dare le parole poetiche forse non è granché ma è pur sempre qualcosa di importante
Il mio amico [di Roma]*, quello che si occupa del Signor Nulla, litiga di nascosto con lo specchio (Gino Rago)
Le parole sono i raggi ultravioletti dell’anima
Maria Rosaria Madonna, cover 1992
Iosif Brodskij Le immagini rappresentano il contro movimento delle parole. C’è un rapporto debitorio tra le immagini e le parole, o un rapporto creditorio, uno squilibrio della contabilità, della partita doppia
Giorgio Linguaglossa Critica della Ragione Sufficiente
Trattare tutte le cose come un terzo pensiero che ci osserva
Edith Dzieduszycka
Alfredo de Palchi, a 12 anni/ meschino nella tuta lurida di grassi/ per motori a nafta/ consegno 5 lire/ (la settimana—domenica compresa)/ nella busta troppo larga al nonno anarchico/ mangiato dal cancro
Mauro Pierno, Compostaggi – Così anche la disperazione è l’ultima ideologia, condizionata storicamente e socialmente. Il contenuto di verità dell’assente è indifferente (T.W. Adorno)
La poesia di Giuseppe Talia proviene da una grande deflagrazione delle parole e della stessa tradizione del ‘900
Perdita dell’Origine (Ursprung) e spaesatezza (Heimatlosigkeit) si danno la mano amichevolmente. Se manca l’Origine, c’è la spaesatezza. E siamo tutti deiettati nel mondo senza più una patria (Heimat). Ed ecco l’Estraneo che si avvicina. E all’approssimarsi dell’Estraneo (Unheimlich) le nottole del tramonto singhiozzano [Maria Rosaria Madonna]
in cover Maria Rosaria Madonna
La poesia di Mario Gabriele è un film, una successione di fotogrammi in un orologio senza lancette. «Una vita che avesse senso non si porrebbe il problema del senso: esso sfugge alla questione» (T.W. Adorno)
Un gendarme della RDT, lungo la Friedrichstraße,/ separava la pula dal grano,/ chiese a Franz se mai avesse letto Il crepuscolo degli dei./ Fermo sul binario n. 1 stava il rapido 777./ Pochi libri sul sedile. Il viso di Marilyn sul Time. (Mario Gabriele)
Gezim Hajdari, Il poietès è il più grande positivo perché porta le cose all’essere dal nulla
Ci sono dei pensieri che hanno una carica elettrica, uno di questi sono le cose della vita, gli eventi che ci accadono, gli eventi omnibus»diceva Ortega y Gasset
Perché le parole sono sagge, loro lo sanno di essere melliflue e superflue
Un Enigma ci parla, ma noi non comprendiamo quella lingua. L’Enigma non può essere sciolto, può solo essere vissuto
Quante parole dobbiamo usare per avvertire il silenzio tra le parole?
Quando una categoria si modifica muta la costellazione di tutte le altre (Adorno)
Letizia Leone
Giorgio Agamben Da quella lontananza rovesciata raggiungiamo la lontananza nostalgica. Non essere a casa propria ovunque
Critica della Ragione sufficiente
Il postino della verità non passa né due volte né una volta, non passa mai. Non c’è alcuna verità nella soggettività, non c’è alcuna verità nel canto degli uccelli nel bosco che tanto piaceva all’estetica kantiana
Mario Gabriele, Una fila di caravan al centro della/ piazza con gente venuta da Trescore e da Milano ad ascoltare Licinio:/-Questa è Yasmina da Madhia che nella vita ha tradito e amato,/ per questo la lasceremo ai lupi e ai cani
Predrag Bjelosevic
Gino Rago, Alla domanda di Herbert: «Dove passerai l’eternità?»,/ risponde il filosofo Erèsia: «cara Signora Circe, caro Signor Nessuno,/ il poeta da finisterre parla con l’oceano e scrive le sue parole sull’acqua
Le parole che scriviamo ci parlano di altre parole che non conosciamo
Le parole sono finestre che aggettano sul labirinto che noi siamo
Anna Ventura, Finalmente so/ che cosa mi avete insegnato./ Siete nella tazza di caffè/ vuota sul tavolo,/ nelle carte sparse, nel cerchio di luce della lampada.
Era piccola la casa, accanto a un cimitero romano. I suoi vetri tremavano per via di carri armati e caccia (Charles Simic)
Roberto Bertoldo
Donatella Giancaspero, Giorgio Linguaglossa, 2016
Alle 18 torna Milena. Prepara la cena. Il tavolo ha quarant’anni. Sale il fumo fino alla lampada. Andrea rinnova aria fresca (Mario Gabriele)
Poiché solo all’apparire del “perturbante” si dileguano gli idoli. Exeunt simulacra (Giacomo Marramao)
Lucio Mayoor Tosi, – Prenderò del Cornac; con spremuta di pomodori e un Lìsson. – Ci vuole della cannella sul Lìsson? – Sì, perché no./ Lo sai che sono innamorata di te
Gezim Hajdari
Carlo Livia, La prigione celeste
Ewa Tagher
Wystan Hugh Auden
Petr Kral
Michal Ajvaz
Mario Lunetta
Ubaldo de Robertis
Jorge Luis Borges
Giuseppe Talia
Kjell Espmark
Tomas Tranströmer
Salman Rushdie
Osip Mandel’stam
Iosif Brodskij
Boris Pasternak
Cesare Pavese
Georg Trakl
Sabino Caronia
Vladimir Majakovskij
Il Mangiaparole n. 10
Pier Paolo Pasolini
Czeslaw Milosz
Salman Rushdie
Alejandra Alfaro Alfieri
Duska Vrhovac
Fernanda Romagnoli
Antologia della Poetry kitchen – Il discorso poetico abita quel paragrafo dell’ inconscio dove siede il deus absconditus, dove fa ingresso l’Estraneo, l’Innominabile. Giacché, se è inconscio, e quindi segreto, quella è la sua abitazione prediletta. Noi lo sappiamo, l’Estraneo non ama soggiornare nei luoghi illuminati, preferisce l’ombra, in particolare l’ombra delle parole e delle cose, gli angoli bui, i recessi umidi e poco rischiarati.
Marie Laure Colasson
Lorenzo Calogero
Predrag Bjelosevic
Petr Kral Il Mangiaparole
Zbigniew Herbert
Bertolt Brecht
Werner Aspenström
Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa
Fernando Pessoa
Giuseppe Ungaretti
Eugenio Montale
Paul Celan
Ezra Pound
Edgar Allan Poe
T.S. Eliot
Samuel Beckett
Franco Fortini
Allen Ginsberg
Charles Bukowski
Agota Kristof
Derek Walcott
Giorgio Linguaglossa e Gino Rago
Marina Petrillo
Charles Simic, Il mostro ama il suo labirinto e abita presso l’Hotel Insonnia
Fernando Pessoa
Jacopo Ricciardi
Jacopo Ricciardi
Samuel Beckett
Anna Ventura, «Tra le parole e le cose occorre una grande distanza»
Guido Galdini, Le parole sono schegge di appunti precolombiani – è uno specchio per le allodole/ o sono allodole per lo specchio/ o le allodole sono lo specchio?
Guido Galdini
Mauro Pierno, Lo statuto recondito delle parole dimenticate
L'uomo abita l'ombra delle parole, la giostra dell'ombra delle parole. Un "animale metafisico" lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l'ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l'uomo legge l'universo.
L'uomo abita l'ombra delle parole, la giostra dell'ombra delle parole. Un "animale metafisico" lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l'ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l'uomo legge l'universo.
La presenza di Èrato vuole essere la palestra della poesia e della critica della poesia operata sul campo, un libero e democratico agone delle idee, il luogo del confronto dei gusti e delle posizioni senza alcuna preclusione verso nessuna petizione di poetica e di poesia.