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Antologia di poesie e immagini a cura di Carlo Livia
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INVITO al LABORATORIO PUBBLICO GRATUITO di POESIA mercoledì, 8 marzo 2017 presso la libreria L’Altracittà di Roma, via Pavia, 106 h. 18:00 – tel fax 06 64465725 – Referente Silvia Dionisi – Programma degli interventi – Contributi per una riflessione sul Novecento
La «Nuova Poesia» non può che essere il prodotto di un «Nuovo Progetto» o «Nuovo Modello», di un lavoro tra poeti che si fa insieme, nel quale ciascuno può portare un proprio contributo di idee: questa è la finalità del Laboratorio di Poesia che la Redazione della Rivista telematica L’Ombra delle Parole intende perseguire. Sarà presente la Redazione.
L’Invito a partecipare è gratuito e rivolto a tutti e tutti saranno i benvenuti. Vi aspettiamo.
Programma di base:
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1) Giorgio Linguaglossa: Lettura e Commento di una poesia di Tomas Tranströmer. La metafora quadri dimensionale e il tempo interno.
2) Chiara Catapano: Odisseo Elytis La metafisica della luce.
3) Steven Grieco Rathgeb: Lettura e Commento di una Poesia di Antonio Sagredo.
4) Letizia Leone: Tempo e materia. Una prospettiva quadridimensionale in una descrizione veneziana di Iosif Brodskij. Letture da Fondamenta degli incurabili.
5) Donatella Costantina Giancaspero: Lettura e Commento di una poesia di Kjell Espmark (da La creazione, Aracne, 2016 trad. Enrico Tiozzo)
6) Franco Di Carlo Commento a Trasumanar e organizzar (1971) di P.P. Pasolini.
7) Donato Di Stasi Commenta il libro di Antonio Sagredo Capricci (2017) con lettura di poesie dell’Autore.
8) Ospite: Donatella Bisutti parlerà del proprio itinerario poetico.
9) Ospite: Vincenzo Mascolo parlerà del proprio itinerario poetico.
10) Interventi e Letture del Pubblico.
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Ringraziamo la libreria L’altra Città per la disponibilità e invitiamo i partecipanti a sostenere la Libreria indipendente con l’acquisto di un libro di loro interesse.
Sabino Caronia “Gabriele D’Annunzio fra tradizione e avanguardia” con uno stralcio de l’Alcyone “Il fanciullo”e una nota redazionale; “I temi e la struttura metrica de L’Alcyone”

gabriele d’annunzio e benito mussolini
Commento di Sabino Caronia
Chi non ricorda I miti superstiti di Laus Vitae?
È il D’Annunzio «lontan dalla madre» che nella sua «dolcezza di figlio» esclama: «Chi mi consolerà, mentre / vivo sotto cieli pur dolci, / chi mi consolerà dei soli / spenti, dei giorni caduti?».
Sono versi che richiamano quelli di Piero Bigongiari, che non a caso ha dedicato a D’Annunzio un memorabile saggio dei suoi Studi in Pescia-Lucca: «Ho vissuto / nelle città più dolci della terra / come una rondine passeggera…».
In Il libro segreto D’Annunzio dichiarerà in maniera inequivocabile la sua costante volontà di «far della vetustà nota una modernità ignota».
Ma vediamo di fare un’analisi e una cronistoria del mito dannunziano richiamando il nostro Gabriele D’Annunzio: «Torna con me nell’Ellade scolpita» contenuto nel volume terzo dell’opera a cura di Pietro Gibellini Il mito della letteratura italiana, Morcelliana, Brescia 2003, pp. 293-332.
Prima di procedere a un confronto con il riuso del mito nei testi del futurismo, ricordiamo i giudizi del vate su Marinetti, di cui dirà che è «una nullità tonante, un cretino fosforescente, e forse ancora un cretino con qualche lampo di imbecillità».
Marinetti a sua volta lo etichetterà come «un Montecarlo di tutte le letterature», un passatista «noioso e anacronistico», opponendogli il Pascoli considerato e dichiarato da lui il più grande poeta italiano.
Certo ammirerà sempre il seduttore prestigioso e leggendario della folla legato indissolubilmente alla vicenda di Fiume e condividerà, o almeno crederà di condividere, le sue scelte politiche, ma rifiuterà sempre quel sentimentalismo romantico e quella mania del passato e dell’archeologia che sono alla base della sua idea simbolista dell’arte.
L’artista futurista, a differenza del simbolista, non si protende nostalgicamente verso un mondo di immagini e favole perdute, seppur rivissute solo come illusioni, che è il caso di D’Annunzio, ma guarda alla realtà che lo circonda e trae dalla attualità della propria esperienza la materia del suo poetare.
Significativo in proposito quanto scrive Marinetti riguardo al suo ripudio dei «padri simbolisti» in Guerra sola igiene del mondo, che si può leggere ora insieme agli altri manifesti futuristi in Filippo Tommaso Marinetti, teoria e invenzione linguistica, a cura di Luciano de Maria, Milano, Mondadori 1983.: «Per quei geni non esisteva poesia senza nostalgia, senza evocazione di tempi defunti, senza bruma di storie e di leggende. Noi li odiamo, i Maestri simbolisti, noi che abbiamo osato uscir nudi dal fiume del tempo e creiamo nostro malgrado, coi nostri corpi scorticati sulle pietre dell’ascesa dirupata, nuove sorgenti di eroismo che cantano, nuovi torrenti che drappeggiano di scarlatto la montagna» (p. 302).
La presunta fondazione di una nuova mitologia non risulta, a ben vedere, pienamente efficace, anzi presenta vistosi limiti.
È almeno sorprendente che molti di quei miti vengano trascelti da quel repertorio mitologico classico di cui al contempo si decreta la morte e, in particolare, che tra quelli più celebri si ritrovino le gesta di Ulisse, di Fetonte o di Icaro, fin troppo note grazie alla loro massiccia presenza in D’Annunzio perché il richiamo al vate possa credersi involontario.
Ricordiamo un giudizio di Borges che risale agli anni trenta: «Filippo Tommaso Marinetti è forse l’esempio più famoso di scrittore che vive delle sue invenzioni e che non inventa quasi niente».
Si veda ad esempio in Più che l’amore (1906) il discorso finale di Corrado Brando che all’amico Virginio prospetta la metallica tempra, crudamente forgiata, del superuomo, «impeto magnifico scagliato verso una meta più severa della morte» e si confronti la sua figura con quella di Mafarka, il futurista eroe nero creato sullo scenario africano da Marinetti nel suo romanzo francese Mafarke le futuriste, che è del 1909.
I visitatori che ogni anno affollano il Vittoriale più che la dimora di Pascoli a Barga o la villa del Caos di Pirandello non sono per lo più attratti da ragioni letterarie quanto piuttosto da una curiosità del personaggio in cui è pur presente il noto e fin troppo irriso kitsch del suo apparato scenografico.
Vien fatto di richiamare il celebre racconto di Henry James intitolato La madonna del futuro, dove è la contrapposizione tra l’artista che vuole competere col capolavoro di Raffaello e la facilità imitativa rivoltante del suo antagonista che riesce a vendere a caro prezzo le sue statuette di gatti e scimmie fatte con un composto plastico.
Non a caso a chi ha potuto recentemente ammirare sulla piazza della Signoria a Firenze, accanto alle copie dei capolavori immortali del Rinascimento il Pluto and Proserpina di Jeff Koons è tornato alla mente il racconto di James richiamato in proposito anche da grande critico Arthur Danto.
Quanto detto a ulteriore conferma dell’incisività a lunga portata di quell’«amèricanisme reclamiste» attribuito a D’Annunzio dal Marinetti di Les dieux s’ént vont, D’Annunzio reste.
Protagonista di tante stagioni non solo letterarie della vita italiana di cui si è fatto operatore ed interprete, dalla crisi del Risorgimento all’espansione coloniale, dalla «vittoria mutilata» all’impresa di Fiume, dall’ascesa del Fascismo alla critica feroce all’asse Mussolini-Hitler da lui fortemente osteggiato al punto che Hernest Hemingway lo poteva indicare come principale rappresentante di un’Italia nuova, liberata dal Fascismo e dal Nazismo, D’Annunzio ha conosciuto una nuova stagione a partire dal mitico 1968, come dimostra tra l’altro il libro di Claudia Salaris Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume, che mette in luce il fenomeno rivoluzionario del “fiumanesimo” in rapporto alle avanguardie storiche, quali il futurismo politico, di cui troviamo sulla scena fiumana esponenti qualificati come lo stesso Marinetti o altri come Mario Carli, non esenti da simpatie per il bolscevismo.
La vita come festa, la liberazione sessuale, la libera circolazione della droga, il nesso tra politica e gioco, la dissacrazione di ogni principio d’autorità fanno di Fiume un vero e proprio laboratorio sociale da cui a tutti, in particolare ai futuristi, era dato attingere per la costruzione di un mondo futuro, con prospettive violentemente anticipatrici per quanto riguarda l’economia, la difesa del lavoro, la creazione di un vasto movimento antiimperialistico.
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gabriele d’annunzio-trai-suoi-bersaglieri-a-Fiume
Notizia redazionale
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La sorte che ha segnato il personaggio D’Annunzio, dal punto di vista sociale, pubblico, militare e politico, ha spesso condizionato la lettura delle sue opere. Come è accaduto per quanto riguarda la controversa relazione con Mussolini e il nazionalismo esasperato, talvolta confuso con l’appartenenza almeno ideologica al partito fascista. Laddove invece è ben nota l’espressione del duce, secondo cui con D’Annunzio bisognava comportarsi come con un dente marcio: estirparlo o ricoprirlo d’oro. Mussolini scelse la seconda possibilità, relegando il poeta, a partire dal ’24, nell’esilio dorato del Vittoriale, ben consapevole del fatto che le capacità oratorie di D’Annunzio avrebbero potuto creare qualche problema alla propaganda di regime. Tuttavia, tentando di leggere l’opera dannunziana al di là da ogni legame con la situazione contingente, è impossibile non riconoscere, almeno alla poesia, una valenza fortemente innovativa: con Pascoli, D’Annunzio traghetta la lirica italiana dal XIX al XX secolo. D’Annunzio poeta, dunque, e soprattutto autore delle Laudi, merita una lettura attenta e approfondita, oltre che ampia.
Conoscenza dei principali caratteri della lirica italiana tradizionale (nozioni di verso, rima, strofa…) / conoscenza delle principali figure retoriche di senso, di suono, di posizione / capacità di analisi testuale strutturale e stilistica.
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Le fasi della produzione poetica dannunziana
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Le opere poetiche di D’Annunzio, come il resto della sua produzione, sono spesso pensate e articolate in raccolte dai toni molto variegati. Se la critica è unanime nel considerare Alcyone come il frutto più maturo della produzione dannunziana, sembra comunque opportuno ricordare, se pure per sommi capi, la diverse fasi della sua produzione.
Ancora studente liceale, nel 1879, D’Annunzio pubblica, a spese del padre in 500 copie, la raccolta Primo vere, 26 poesie, più 4 traduzioni da Orazio. Ovviamente, si tratta di liriche acerbe e dai toni roboanti, secondo il gusto dell’epoca e secondo il modello carducciano che il giovanissimo poeta considera allora il più autorevole riferimento. Ancora più evidente il medesimo modello nel successivo Canto novo, raccolta di liriche scritte nel 1882, pubblicate finalmente da un importante editore, il milanese Treves, nel 1886. Siamo ancora nella fase precedente il grande successo del Piacere, che uscirà per lo stesso editore tre anni dopo.
Negli anni immediatamente successivi, proprio sull’onda del successo del romanzo, D’Annunzio si dedica essenzialmente alla prosa, per poi tornare alla poesia: dapprima con il Poema paradisiaco, che rappresenta la definitiva svolta verso una poesia più decisamente ‘novecentesca’, innovativa, che risente di temi e stilemi europei, in particolare decadenti e simbolisti; poi con l’imponente progetto delle Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi: sette libri previsti, intitolati ciascuno a una delle sette stelle della costellazione delle Plèiadi. I primi tre libri, Maia (poema in versi liberi di circa ottomila versi), Elettra (raccolta di liriche essenzialmente celebrative) e Alcyone vedranno la luce nel 1903, quest’ultimo a fine anno e con la data editoriale del 1904. Dopo alcuni anni vedranno finalmente la luce anche Merope (esaltazione della guerra italo-turca, 1912) e Asterope (liriche dedicate all’esaltazione della “guerra giusta”, quella condotta per motivi nazionalistici, 1918). Con le Laudi può considerarsi chiusa la produzione lirica dannunziana.
Alcyone: la storia compositiva
Alcyone è una raccolta di 88 liriche, scritte a partire dal 1899, anche se alcuni elementi di ispirazione sono già evidenti nei taccuini del ’97 e del ’98.
Le prime 7 vedono la luce in rivista, sulla “Nuova Antologia” in quello stesso anno. Successivamente, D’Annunzio continua la scrittura, con impegno irregolare, fino al 1903. Le poesie sono costruite, a formare una sorta di diario della stagione estiva, con un capillare lavoro di risistemazione compiuto dall’autore stesso e testimoniato dai tanto tormentati autografi che ripropongono diverse organizzazioni dell’indice della raccolta.
Nella stesura definitiva la disposizione dei componimenti segue un criterio ben preciso, che tende a riprodurre, condensandole in un’unica estate, le esperienze fortemente legate al mondo della natura che il poeta ha vissuto in compagnia di Eleonora Duse durante le estati trascorse nella loro villa in Versilia. La collocazione dei componimenti è sottolineata dalla presenza (se pure non simmetrica) di 4 ditirambi (intitolati con numeri romani), preceduti da altrettanti cosiddetti preditirambi, ciascuno dei quali presenta un titolo latino e fa riferimento o alla stagione dell’anno o a noti episodi della mitologia classica.
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I temi e la struttura metrica
Alcyone, uscita, sembra quasi per simbolica coincidenza, nello stesso anno dell’edizione definitiva di Myricae di Pascoli, rappresenta l’abbandono definitivo, da parte del poeta, ma anche della letteratura lirica italiana, delle strutture metrico-stilistiche tipiche della poesia tradizionale. Anche se in alcune liriche, basti ricordare La sera fiesolana, è ancora presente un sistema di strofe (che nel caso citato si rifà addirittura alla lauda francescana: Laudata sii…), l’autore preferisce l’uso della strofa lunga, talvolta lunghissima, composta di versi liberi, di misura diversa, liberamente alternati e legati tra loro in modo del tutto irregolare da rime, ma più spesso da assonanze e/o consonanze.
Il passare della stagione estiva, quasi scientificamente racchiusa tra gli equinozi d’estate e d’autunno, è lo sfondo di una miriade di eventi naturali, che hanno sempre la funzione di pretesto per le riflessioni dell’autore. La mietitura, un’improvvisa pioggia estiva, il paesaggio toscano marino, sono occasioni attraverso le quali l’io lirico di questa raccolta (che coincide contemporaneamente con il soggetto narrante e con ciascun lettore) percorre la strada del panismo, la progressiva compenetrazione tra uomo e natura, che culmina nella metamorfosi, un evento quasi soprannaturale e divino, capace di collocare l’uomo in una dimensione super-umana di contatto con la natura, di cui diventa parte integrante, quasi dimentico della sua appartenenza alla specie umana.
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foto d’epoca di nudo
Scelte stilistiche
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Il linguaggio di Alcyone rappresenta senza dubbio il culmine della poesia dannunziana. Con la produzione di D’Annunzio dovrà fare i conti chiunque vorrà, nel corso del Novecento, approdare a un continente nuovo, come avevano ben presto intuito Gozzano prima e Montale poi. Se la poesia è, in generale, il regno della connotazione, quella di Alcyone ne è un esempio altissimo: analogia, sinestesia, onomatopea, assonanza, consonanza, colori (quanti colori nella lirica di D’Annunzio! E quanti sostantivi colorati!); e ancora: metafore, similitudini esplicite e poi sempre più sottintese, fino all’uso (chiarissimo esempio in tal senso è Meriggio) del verbo ‘essere’ che si sostituisce al ‘come’ della similitudine, a rappresentare l’avvenuta metamorfosi dell’uomo in un elemento della natura. Evidente la fortissima presenza delle figure di suono, fino a un insistito fonosimbolismo (basti pensare alla Pioggia nel pineto).
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gabriele d’annunzio il vate simbolo della poesia decadente in italia
Il fanciullo (da Alcyone)
I
Figlio della Cicala e dell’Olivo,
nell’orto di qual Fauno
tu cogliesti la canna pel tuo flauto,
pel tuo sufolo doppio a sette fóri?
In quel che ha il nume agresto entro un’antica
villa di Camerata
deserta per la morte di Pampìnea?
O forse lungo l’Affrico che riga
la pallida contrada
ove i campi il cipresso han per confine?
Più presso, nella Mensola che ride
sotto il ponte selvaggia?
Più lungi, ove l’Ombron segue la traccia
d’Ambra e Lorenzo canta i vani ardori?
Ma il mio pensier mi finge che tu colta
l’abbia tra quelle mura
che Arno parte, negli Orti Oricellari,
ove dalla barbarie fu sepolta
ahi sì trista, la Musa
Fiorenza che cantò ne’ dì lontani
ai lauri insigni, ai chiari
fonti, all’eco dell’inclite caverne,
quando di Grecia le Sirene eterne
venner con Plato alla Città dei Fiori.
Te certo vide Luca della Robbia,
ti mirò Donatello,
operando le belle cantorìe.
Tutte le frutta della Cornucopia
per forza di scalpello
fecero onuste le ghirlande pie.
E tu danzavi le tue melodìe,
nudo fanciul pagano,
àlacre nel divin marmo apuano
come nell’aria, conducendo i cori.
Figlio della Cicala e dell’Olivo,
or col tuo sufoletto
incanti la lucertola verdognola
a cui sopra la selce il fianco vivo
palpita pel diletto
in misura seguendo il dolce suono.
Non tu conosci il sogno
forse della silente creatura?
Ver lei ti pieghi: in lei non è paura:
tu moduli secondo i suoi colori.
Tu moduli secondo l’aura e l’ombra
e l’acqua e il ramoscello
e la spica e la man dell’uom che falcia,
secondo il bianco vol della colomba,
la grazia del torello
che di repente pavido s’inarca,
la nuvola che varca
il colle qual pensier che seren vólto
muti, l’amore della vite all’olmo
l’arte dell’ape, il flutto degli odori.
Ogni voce in tuo suono si ritrova
e in ogni voce sei
sparso, quando apri e chiudi i fóri alterni.
Par quasi che tu sol le cose muova
mentre solo ti bei
nell’obbedire ai movimenti eterni.
Tutto ignori, e discerni
tutte le verità che l’ombra asconde.
Se interroghi la terra, il ciel risponde;
se favelli con l’acque, odono i fiori.
O fiore innumerevole di tutta
la vita bella, umano
fiore della divina arte innocente,
preghiamo che la nostra anima nuda
si miri in te, preghiamo
che assempri te maravigliosamente!
L’immensa plenitudine vivente
trema nel lieve suono
creato dal virgineo tuo soffio,
e l’uom co’ suoi fervori e i suoi dolori.
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II
Or la tua melodìa
tutta la valle come un bel pensiere
di pace crea, le due canne leggiere
versando una la luce ed una l’ombra.
La spiga che s’inclina
per offerirsi all’uomo
e il monte che gli dà pietre del grembo,
se ben l’una vicina
e l’altro sia rimoto
e l’una esigua e l’altro ingente, sembra
si giungano per l’aere sereno
come i tuoi labbri e le tue dolci canne,
come su letto d’erbe amato e amante,
come i tuoi diti snelli e i sette fóri,
come il mare e le foci,
come nell’ala chiare e negre penne,
come il fior del leandro e le tue tempie,
come il pampino e l’uva,
come la fonte e l’urna,
come la gronda e il nido della rondine,
come l’argilla e il pollice,
come ne’ fiari tuoi la cera e il miele,
come il fuoco e la stipula stridente,
come il sentiere e l’orma,
come la luce ovunque tocca l’ombra.
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gabriele d’annunzio e il volo
III
Sopor mi colse presso la fontana.
Lo sciame era discorde:
avea due re; pendea come due poppe
fulve. E il rame s’udìa come campana.
Ti vidi nel mio sogno, o lene aulente.
Lottato avevi ignudo
contro il torrente folle di rapina.
Raccolto avevi piuma di sparviere
che a sommo del ciel muto
in sue rote ferìa l’aer di strida.
Ahi, lungi dalle tue musiche dita
gittato avevi i calami forati.
Chino con sopraccigli corrugati
eri, fanciul pugnace,
intento a farti archi da saettare
col legno della flèssile avellana.
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IV
Eleggere sapesti il re splendente
nello sciame diviso,
ridere d’un tuo bel selvaggio riso
spegnendo il fuco sterile e sonoro.
Con la man tinta in mele di sosillo
traesti fuor la troppa
signoria. Cauto e fermo le calcavi.
Sporgeva a modo d’uvero di poppa
il buon sire tranquillo
che fu re delle artefici soavi.
Poi franco te n’andavi
sonando per le prata di trifoglio,
incoronato d’ellera e d’orgoglio,
entro la nube delle pecchie d’oro.
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V
L’acqua sorgiva fra i tuoi neri cigli
fecesi occhio che vede e che sorride;
fecesi chioma su la tua cervice
il crespo capelvenere.
Fatto sei di segreto e di freschezza.
Fatte son di làtice
fluido e d’umide fibre le tue membra.
Il tuo spirto, dal fonte come il salice
ma senza l’amarezza
nato, le amiche naiadi rimembra;
tutte le polle sembra
trarre per le invisibili sue stirpi.
E se gli occhi tuoi cesii han neri cigli,
ha neri gambi il verde capelvenere.
Converse le tue canne sono in chiari
vetri, onde lenti i suoni
stillano come gocce da clessidre.
S’appressano i colúbri maculosi,
gli aspidi i cencri e gli angui
e le ceraste e le verdissime idre.
Taciti, senza spire,
eretti i serpi bevono l’incanto.
Sol le bìfide lingue a quando a quando
tremano come trema il capelvenere.
Sino ai ginocchi immerso nella cupa
linfa, alla venenata
greggia tu moduli il tuo lento carme.
Par che da’ piedi tuoi torta sia nata
radice e di natura
erbida par ti sien fatte le gambe.
Ma il fior della tua carne
suso come il nenùfaro s’ingiglia.
E se gli occhi tuoi cesii han nere ciglia,
neri ha gli steli il verde capelvenere.
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gabriele-d’annunzio-e-natale-palli a bordo dell’SVA ANsaldo
VI
Se t’è l’acqua visibile negli occhi
e se il làtice nudre le tue carni,
viver puoi anco ne’ perfetti marmi
e la colonna dorica abitare.
Natura ed Arte sono un dio bifronte
che conduce il tuo passo armonioso
per tutti i campi della Terra pura.
Tu non distingui l’un dall’altro volto
ma pulsare odi il cuor che si nasconde
unico nella duplice figura.
O ignuda creatura,
teco salir la rupe veneranda
voglio, teco offerire una ghirlanda
del nostro ulivo a quell’eterno altare.
Torna con me nell’Ellade scolpita
ove la pietra è figlia della luce
e sostanza dell’aere è il pensiere.
Navigando nell’alta notte illune,
noi vedremo rilucere la riva
del diurno fulgor ch’ella ritiene.
Stamperai nelle arene
del Fàlero orme ardenti. Ospiti soli
presso Colòno udremo gli usignuoli
di Sofocle ad Antigone cantare.
Vedremo nei Propìlei le porte
del Giorno aperte, nell’intercolunnio
tutto il cielo dell’Attica gioire;
nel tempio d’Erettèo, coro notturno
dai negricanti pepli le sopposte
vergini stare come urne votive;
la potenza sublime
della Citta, transfusa in ogni vena
del vital marmo ov’è presente Atena,
regnar col ritmo il ciel la terra il mare.
Alcun arbore mai non t’avrà dato
gioia sì come la colonna intatta
che serba i raggi ne’ suoi solchi eguali.
All’ora quando l’ombra sua trapassa
i gradi, tu t’assiderai sul grado
più alto, co’ tuoi calami toscani.
La Vittoria senz’ali
forse t’udrà, spoglia d’avorio e d’oro;
e quella alata che raffrèna il toro;
e quella che dislaccia il suo calzare.
Taci! La cima della gioia è attinta.
Guarda il Parnete al ciel, come leggiero!
Guarda l’Imetto roscido di miele!
Flessibile m’appar come l’efebo,
vestito della clamide succinta,
che cavalcò nelle Panatenee.
Sorse dall’acque egee
il bel monte dell’api e fu vivente.
Or tuttavia nella sua forma ei sente
la vita delle belle acque ondeggiare.
Seno d’Egina! Oh isola nutrice
di colombe e d’eroi! Pallida via
d’Eleusi coi vestigi di Demetra!
Splendore della duplice ferita
nel fianco del Pentelico! Armonie
del glauco olivo e della bianca pietra!
Ogni golfo è una cetra.
Tu taci, aulete, e ascolti. Per l’Imetto
l’ombra si spande. Il monte violetto
mormora e odora come un alveare.
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VII
L’odo fuggir tra gli arcipressi foschi,
e l’ansia il cor mi punge.
Ei mi chiama di lunge
solo negli alti boschi, e s’allontana.
Mutato è il suon delle sue dolci canne.
Trèmane il cor che l’ode,
balza se sotto il piè strida l’arbusto;
pavido è fatto al rombo del suo sangue,
ed altro più non ode
il cor presàgo di remoto lutto.
Prego: «O fanciul venusto,
non esser sì veloce
ch’io non ti giunga!» È vana la mia voce.
Melodiosamente ei s’allontana.
Elci nereggian dopo gli arcipressi,
antiqui arbori cavi.
Pascono suso in ciel nuvole bianche.
A quando a quando tra gli intrichi spessi
le nuvole soavi
son come prede tra selvagge branche.
E sempre odo le canne
gemere d’ombra in ombra
roche quasi richiamo di colomba
che va di ramo in ramo e s’allontana.
«O fanciullo fuggevole, t’arresta!
Tu non sai com’io t’ami,
intimo fiore dell’anima mia.
Una sol volta almen volgi la testa,
se te la inghirlandai,
bel figlio della mia melancolìa!
Con la tua melodìa
fugge quel che divino
era venuto in me, quasi improvviso
ritorno dell’infanzia più lontana.
Fa che l’ultima volta io t’incoroni,
pur di negro cipresso,
e teco io sia nella dolente sera!»
Ei nell’onda volubile dei suoni
con un gentil suo gesto,
simile a un spirto della primavera,
volgesi; alla preghiera
sorride, e non l’esaude.
L’ansia mia vana odo sol tra le pause,
mentre che d’ombra in ombra ei s’allontana.
Ad un fonte m’abbatto che s’accoglie
entro conca profonda
per aver pace, e un elce gli fa notte.
«O figlio, sosta! Imiterai le foglie
e l’acque anche una volta
e i silenzii del dì con le tue note.
Sediamo in su le prode.
Fa ch’io veda l’imagine
puerile di te presso l’imagine
di me nel cupo speglio!» Ei s’allontana.
S’allontana melodiosamente
né più mi volge il viso,
emulo di Favonio ei nel suo volo.
Sol calando, la plaga d’occidente
s’infiamma; e d’improvviso
tutta la selva è fatta un vasto rogo.
Le nuvole di foco
ardono gli elci forti,
aerie vergini al disìo dei mostri.
Giunge clangor di buccina lontana.
E un tempio ecco apparire, alte ruine
cui scindon le radici
errabonde. Gli antichi iddii son vinti.
Giaccion tronche le statue divine
cadute dai fastigi;
dormono in bruni pepli di corimbi.
Lentischi e terebinti
l’odor dei timiami
fan loro intorno. «O figlio, se tu m’ami,
sosta nel luogo santo!» Ei s’allontana.
«Rialzerò le candide colonne,
rialzerò l’altare
e tu l’abiterai unico dio.
M’odi: te l’ornerò con arti nuove.
E non avrà l’eguale.
Maraviglioso artefice son io.
T’adorerò nel mio
petto e nel tempio. M’odi,
figlio! Che immortalmente io t’incoroni!»
Nel gran fuoco del vespro ei s’allontana.
Si dilegua ne’ fiammei orizzonti
Forse è fratel degli astri.
O forse nel mio sogno s’è converso?
«Ti cercherò, ti cercherò ne’ monti,
ti cercherò per gli aspri
torrenti dove ti sarai deterso.
E ti vedrò diverso!
Gittato avrai le canne,
intento a farti archi da saettare
col legno della flèssile avellana».

sabino caronia
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/02/28/pittura-e-poesia-rosario-la-polla-gino-rago-noi-siamo-qui-per-ecuba-metafora-delle-vittime-rimane-lei-per-sempre-la-regina-il-figlio-dun-eroe-spaventa-i-vincitori/comment-page-1/#comment-18410
Gino Rago
QUASI UN BILANCIO DELLA POESIA ITALIANA DEL ‘900
La poesia italiana del ‘900, da rileggere?
Siamo ben oltre i tre lustri del XXI Secolo. Per chi agisce nel regno della poesia, come autore di versi, come critico letterario, come interprete, o anche semplicemente come lettore/amante della lirica contemporanea, è inevitabile che noi de L’Ombra delle Parole ci poniamo alcune domande, tutt’altro che oziose:
– Cosa davvero sappiamo, che pensiamo ormai della poesia italiana del ‘900?
– Le polemiche, i dibattiti, perfino gli scontri degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso sono ancora vivi o appartengono a un’epoca remota?
Nei nostri giorni sono ancora immaginabili o appaiono impossibili?
– La lingua degli ideologi di quelle stagioni (Sanguineti – Fortini – Pasolini) oggi è ancora comprensibile e/o traducibile in atti di poesia?
– Nelle Università italiane “ sulla poesia “ si tengono corsi, si assegnano tesi di laurea, si organizzano convegni?
Forse sì. Ma, se avviene, si tratta di eventi rari, di eccezioni.
Eppure, alla presenza di alcuni critici letterari e di alcuni poeti a Berlino, all’Istituto Italiano di Cultura, ben tre giorni ( di conferenze, seminari, letture di testi critici e poetici ) sono stati dedicati alla nostra poesia dagl’inizi del Novecento a oggi.
I risultati più importanti? Eccoli, in breve sintesi:
La poesia italiana di tutto il Novecento andrebbe riletta (anche sulla poesia di questi anni non sono mancati e non mancano disaccordi). Dell’ermetismo, sia di quello eminentemente legato alla “poetica della parola” (Bigongiari-Luzi- Parronchi), sia di quello “mediterraneo” (Gatto, Bodini, Quasimodo, De Libero, Sinisgalli) non si parla più. Ungaretti vale soprattutto per la sua prima stagione lirica. Luzi resta interessante ma soltanto se letto accanto ai suoi coetanei: Bertolucci, Caproni, Sereni. I quali, secondo alcuni, (e qui il giudizio si lega alle metodologie critiche), superano in valori poetici i leggermente più giovani Zanzotto e Pasolini. Il primato di Saba e Montale resta indiscusso.
«Sperimentalismo»,« impegno», «avanguardia», « formalismo» sono termini ed esperienze ormai fuori corso. Giovanni Giudici, considerato il vero erede di Gozzano (e Saba ) sembra quasi dimenticato. La neoavanguardia degli Anni ’60 è considerata come una costruzione soprattutto ideologica.
Sandro Penna con Amelia Rosselli hanno più di altri influenzato le nuove generazioni. Non Marinetti (poeta-vate elettrizzato) ma Campana – Rebora – Sbarbaro sono stati i veri « poeti moderni » della poesia italiana del Novecento. Il “Postmoderno”? Su proposta di Alfonso Berardinelli, tutti l’hanno accolto come «Sperimentalismo neoclassico».
Un sentito ringraziamento da parte di tutti è da rivolgere ad Angelo Bolaffi (direttore dell’Istituto di Cultura Italiana di Berlino) e alla Literaturwerkstatt berlinese, se non altro per la coincidenza quasi millimetrica delle conclusioni “berlinesi” con quelle emerse dai lavori proposti su L’Ombra delle Parole, dagli esordi della nostra Rivista di Letteratura Internazionale ad oggi.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/02/28/pittura-e-poesia-rosario-la-polla-gino-rago-noi-siamo-qui-per-ecuba-metafora-delle-vittime-rimane-lei-per-sempre-la-regina-il-figlio-dun-eroe-spaventa-i-vincitori/comment-page-1/#comment-18412
Alfonso Berardinelli
LA POESIA ITALIANA TRA GLI ANNI SETTANTA E OTTANTA
[…] Con Franco Fortini sembra concludersi una fase della poesia italiana che va dall’acquisizione delle poetiche simboliste all’autoriflessione politica della lirica come falsa libertà del soggetto.
La categoria di «sperimentalismo», elaborata da Pasolini alla metà degli anni Cinquanta, costituì un momento di sintesi carica di possibilità negli anni che vanno dall’esaurimento dell’engagement neorealistico e del montalismo all’avvento delle nuove avanguardie. Il luogo di elaborazione delle ipotesi «sperimentali» fu la rivista bolognese “Officina“, una piccola rivista artigianale, dal pubblico estremamente limitato, che uscì dal 1935 al 1958 a Bologna, diretta da Roberto Roversi, Franco Leonetti e dallo stesso Pasolini. In questi tre scrittori (anche Leonetti e Roversi, come Pasolini, sono poeti e autori di opere narrative e di assemblaggi autobiografico-saggistici) la scelta definibile come sperimentale corrisponde ad un atteggiamento di opposizione, di aggressività «angry», ma anche ad una situazione di isolamento politico, in parte subìto, e in parte voluto, e fonte di continue oscillazioni.
Della perpetua lotta e rincorsa fra una scrittura poetica disposta a qualsiasi avventura linguistica e funzionale, e una realtà odiata-amata in costante movimento, Pier Paolo Pasolini (1922-1975) ha fatto il centro surriscaldato di tutta la sua opera. Un’opera che sembrava attentissima alla costruzione di un proprio programma strutturale e strategico, e che poi si è mostrata disposta ad andare letteralmente allo sbaraglio, rischiando tutto e tendenzialmente autodistruggendosi come tale, pur di mantenere la propria «presa diretta» sul presente. Perciò la passione e l’ideologia dello «sperimentare», attraverso la «disperata vitalità» della trascrizione improvvisata, non potevano che portare Pasolini alla fine di ogni «stile» (magari intesa come rinuncia e autospossessamento dell’autore incalzato dai suoi traumi e dalle sue disperazioni personali).
La versatilità creativa e intellettuale di Pasolini (se si considerano i limiti rimasti sostanzialmente inalterati della sua cultura: una cultura quasi esclusivamente, e anche limitatamente, letteraria, molto italiana e in fondo refrattaria alle influenze della maggiore cultura europea del novecento) ha dato vita ad un’opera eccezionalmente vasta: di narratore, di regista, di critico letterario (soprattutto con Passione e ideologia, 1960, e con Descrizioni di descrizioni, 1979, postumo), di poeta. E la poesia di Pasolini, dalle liriche dialettali e mistico-erotiche (La meglio gioventù, 1954); L’usignolo della Chiesa Cattolica, 1958) ai poemetti «civili» degli anni Cinquanta (Le ceneri di Gramsci, 1957; La religione del mio tempo, 1961) fino ai poemi-collages e agli articoli in versi (Poesia in forma di rosa, 1964; Trasumanar e organizzar, 1971) è documento di un trauma personale e storico; dovuto non solo al fallimento fatale di una ipertrofia narcisistica del soggetto-scrittore, ma anche alla involuzione della democrazia italiana, soffocata dalla meschinità conformistica della sua cultura politica e del suo ceto medio.
In Pasolini, del resto, e in toni di violenza nostalgia, parlava un’Italia non ancora «razionalizzata» dallo sviluppo industriale: un’Italia rurale e municipale, frammentata nei suoi localismi regionali, e perciò «umile», legata alle sue origini contadine e preborghesi. Questa aderenza biologica al suolo rurale, inteso come protezione materna e come nutrimento primordiale, è presente, sebbene in forme molto diverse, anche nella poesia di Andrea Zanzotto (1921-2012). Zanzotto ha sperimentato su una base di partenza diversa: ha rinnovato la transizione orfica ed ermetica, spingendo la sua ricerca di laboratorio fino alla dissociazione molecolare delle unità del linguaggio, giocando contemporaneamente sula massima astrazione stilistica (con recuperi petrarcheschi, bucolici, arcadici) e su uno smembramento analitico che risospinge il linguaggio alle soglie dell’afasia, verso le sillabazioni e i balbettamenti infantili. Qui l’atteggiamento «sperimentale» non solo tocca i suoi limiti estremi, ma nel momento in cui, Zanzotto riesce a scrivere una stupenda lirica carnevalesca e apocalittica, mostra anche il rischio che l’esibizione del laboratorio, mostra anche il rischio che l’esibizione del laboratorio rovesci il meraviglioso spettacolo linguistico nel grigiore del gratuito e dell’inerte.
Un caso a sé, in assoluto fra i più originali degli ultimi decenni, è quello di Giovanni Giudici (1924-2011). Con Giudici si misura la distanza che può separare un autentico scrittore in versi di questi anni da tutto quanto si è discusso, agitato e rimescolato nella cultura poetica italiana di circa mezzo secolo. Galleria ironica, funebre o sentimentale di personaggi in movimento, di situazioni grottesche e senza sbocco, in una inesausta recitazione stilistica, la poesia di Giudici (La vita in versi, 1965; Autobiologia, 1969; O Beatrice, 1972; Il male dei creditori, 1977) scavalca le scuole novecentesche, ritrova levità melodiche e attitudini realistiche settecentesche, attraversando Saba, Gozzano e Pascoli. Ma il suo protagonista è l’uomo medio dell’Italia impiegatizia, aziendale e democristiana…1]
1] A. Berardinelli La cultura del 900 Mondadori, vol. III 1981, pp. 350, 351, 352
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/02/28/pittura-e-poesia-rosario-la-polla-gino-rago-noi-siamo-qui-per-ecuba-metafora-delle-vittime-rimane-lei-per-sempre-la-regina-il-figlio-dun-eroe-spaventa-i-vincitori/comment-page-1/#comment-18413
Giorgio Linguaglossa
Anni Cinquanta-Settanta – La dissoluzione dell’unità metrica e la poesia dell’Avvenire
Qualche tempo fa una riflessione di Steven Grieco Rathgeb mi ha spronato a pensare ad una Poesia dell’Avvenire. Che cosa significa? – Direi che non si può rispondere a questa domanda se non facciamo riferimento, anche implicito, alla «Poesia del Novecento», e quindi alla «tradizione». Ecco il punto. Non si può pensare ad una Poesia del prossimo futuro se non abbiamo in mente un chiaro concetto della «Poesia del Novecento», sapendo che non c’è tradizione senza una critica della tradizione, non ci può essere passato senza una severa critica del passato, altrimenti faremmo dell’epigonismo, ci attesteremmo nella linea discendente di una tradizione e la tradizione si estinguerebbe.
«Pensare l’impensato» significa quindi pensare qualcosa che non è stato ancora pensato, qualcosa che metta in discussione tutte le nostre precedenti acquisizioni. Questa credo è la via giusta da percorrere, qualcosa che ci induca a pensare qualcosa che non è stato ancora pensato… Ma che cos’è questo se non un Progetto (non so se grande o piccolo) di «pensare l’impensato», di fratturare il pensato con l’«impensato»? Che cos’è l’«impensato»?
Mi sorge un dubbio: che l’idea che abbiamo della poesia del Novecento sia già stata pensata. Come possiamo immaginare la poesia del «Presente» e del «Futuro» se non tracciamo un quadro chiaro della poesia di «Ieri»? Che cosa è stata la storia d’Italia del primo Novecento? E del secondo Novecento? Che cosa farci con questa storia, cosa portare con noi e cosa abbandonare alle tarme? Quale poesia portare nella scialuppa di Pegaso e quale invece abbandonare? Che cosa pensiamo di questi anni di Stagnazione spirituale e stilistica?
Sono tutte domande legittime, credo, anzi, doverose. Se non ci facciamo queste domande non potremo andare da nessuna parte. Tracciare una direzione è già tanto, significa aver sgombrato dal campo le altre direzioni, ma per tracciare una direzione occorre aver pensato su ciò che portiamo con noi, e su ciò che abbandoniamo alle tarme.
Anni Cinquanta. Dissoluzione dell’unità metrica
È proprio negli anni Cinquanta che l’unità metrica, o meglio, la metricità endecasillabica di matrice ermetica e pascoliana, entra in crisi irreversibile. La crisi si prolunga durante tutti gli anni Sessanta, aggravandosi durante gli anni Settanta, senza che venisse riformulata una «piattaforma» metrica, lessicale e stilistica dalla quale ripartire. In un certo senso, il linguaggio poetico italiano accusa il colpo della crisi, non trova vie di uscita, si ritira sulla difensiva, diventa un linguaggio di nicchia, austera e nobile quanto si vuole, ma di nicchia. I tentativi del tardo Attilio Bertolucci con La capanna indiana (1951 e 1955) e La camera da letto (1984 e 1988) e di Mario Luzi Al fuoco della controversia (1978), saranno gli ultimi tentativi di una civiltà stilistica matura ma in via di esaurimento. Dopo di essa bisognerà fare i conti con la invasione delle emittenti linguistiche della civiltà mediatica. Indubbiamente, il proto sperimentalismo effrattivo di Alfredo de Palchi sarà il solo, insieme a quello distantissimo di Ennio Flaiano, a circumnavigare la crisi e a presentarsi nella nuova situazione letteraria con un vestito linguistico stilisticamente riconoscibile con Sessioni con l’analista (1967). Flaiano mette in opera una superfetazione dei luoghi comuni del linguaggio letterario e dei linguaggi pubblicitari, de Palchi una poesia che ruota attorno al proprio centro simbolico. Per la poesia depalchiana parlare ancora di unità metrica diventa davvero problematico. L’unità metrica pascoliana si è esaurita, per fortuna, già negli anni Cinquanta quando Pasolini pubblica Le ceneri di Gramsci (1957). Da allora, non c’è più stata in Italia una unità metrica riconosciuta, la poesia italiana cercherà altre strade metricamente compatibili con la tradizione con risultati alterni, con riformismi moderati (Sereni) e rivoluzioni formali e linguistiche (Sanguineti e Zanzotto). Il risultato sarà lo smarrimento, da parte della poesia italiana di qualsiasi omogeneità metrica, con il conseguente fenomeno di apertura a forme di metricità diffuse.
Dagli anni Settanta in poi saltano tutti gli schemi stabiliti. Le istituzioni letterarie scelgono di cavalcare la tigre. Zanzotto pubblica nel 1968 La Beltà, il risultato terminale dello sperimentalismo, e Montale nel 1971 Satura, il mattone iniziale della nuova metricità diffusa. Nel 1972 verrà Helle Busacca a mettere in scacco queste operazioni mostrando che il re era nudo. I suoi Quanti del suicidio (1972) sono delle unità metriche di derivazione interamente prosastica. La poesia è diventata prosa. Rimanevano gli a-capo a segnalare una situazione di non-ritorno.
Resisterà ancora qualcuno che pensa in termini di unità metrica stabile. C’è ancora chi pensa ad una poesia pacificata, che abiti il giusto mezzo, una sorta di phronesis della poesia. Ma si tratta di aspetti secondari di epigonismo che esploderanno nel decennio degli anni Settanta.
I contributi critici di Alfonso Berardinelli (“La poesia italiana fra anni Settanta e Ottanta”) e di Giorgio Linguaglossa (“La dissoluzione dell’unità metrica e la poesia dell’avvenire”) gettano nuove luci sul tentativo, che prima o poi dovrà essere affrontato, e scartocciato nelle sue linee fondamentali, di una rilettura del ‘900 poetico italiano.
Anche se molti aspetti già compiutamente emergono sia come “conseguenze” poetiche di suggestioni e influenze lontane, sia come basi estetiche verso un nuovo corso poetico italiano. Qualche deduzione sull’orizzonte operativo della “nuova” poesia italiana quindi forse è possibile, forse può essere tentato:
– sembra in via di liquidazione l’intimismo, almeno quello che in termini di teorie simboliste, ha permeato la lirica dai crepuscolari agli ermetici;
– pare definitivamente in crisi l’istanza di quel realismo di matrici sociologiche e marxiste, con tutti gli estri rivoluzionari a farsi interpreti di quella massificazione a opera d’una società industriale avanzata;
– si colgono, disseminati e sparsi qui e là, taluni semi e segni di una certa critica del linguaggio tradizionale (Crovi, Ceronetti, Pignotti) tesa alla ricostruzione d’una espressione in grado d’inglobare in sé tutti i frammenti – mitici – delle idealità perdute.
Forse in una certa misura, con la rottura dell’unità metrica segnalata nel suo lavoro critico da Giorgio Linguaglossa, sul finire del ‘900 la lirica italiana prende atto del fatto che il “come evolversi esteticamente” per lei significasse passaggio a nuova vita, senza rimpianto per le vecchie forme passate.