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Il Problema Leopardi (il grande dimenticato) nel rapporto con la poesia del Novecento – Lettura di Leopardi da Ungaretti agli ermetici, la Ronda: De Robertis, Cardarelli, la Restaurazione, Umberto Saba – Lettura del dopo guerra: da Pavese, Moravia, Fortini Pasolini fino a Zanzotto e la neoavanguardia e Sanguineti e la nuova ontologia estetica – A cura di Franco Di Carlo

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domenico morelli ritratto di giacomo leopardi

Di solito, quando si dice Ungaretti, si pensa subito all’opera di scardinamento espressivo e di rivoluzione del linguaggio poetico compiuta dai suoi versi e dai suoi scritti teorico-critici nei confronti della tradizione letterària italiana (dal ‘200 all’800 romantico) che continuava ad avere i suoi maggiori rappresentanti in Carducci e, per certi versi, in Pascoli e D’Annunzio, legati anch’essi, nonostante le indubbie novità della loro poetica e del loro linguaggio espressivo, ad una figura di letterato «ossequioso» nei confronti dell’«ufficialità» (letteraria e non): un’immagine, in fondo, ancora borghese e tardo-romantica, provincialisticamente sorda alle novità letterarie europee. In realtà, il rischio di considerare la poesia di Ungaretti come esclusivo effetto di un atteggiamento esplosivamente distruttivo (tipico dell’avanguardia à la mode, italiana e non) rispetto alle forme poetiche proprie della tradizione, ha una sua giustificazione, non solo di ordine psicologico-sentimentale, ma storico-letteraria: l’immediatezza espressiva e l’essenzialità della «parola» ungarettiana, balzano subito agli occhi come caratteristica peculiare della prima stagione creativa di Ungaretti, dal Porto sepolto (1916) all’Allegria (1931). Tuttavia già in quest’ultima, in un periodo di «apparente sommovimento di principi», si può notare la presenza, anche se in nuce (che si svilupperà meglio in seguito, nel Sentimento, 1933), di un retaggio di temi e di espressioni che fanno pensare, nonostante la scomposizione del verso tradizionale, al recupero di un ordine, esistenziale e stilistico ad un tempo.

La guerra, con i suoi miti e la sua esperienza traumatica,

aveva fatto nascere il canto dell’umanità, proprio dell’Allegria: la guerra, in realtà, si era presentata al «soldato» Ungaretti ben diversa da come l’avevano vaticinata e idoleggiata la retorica dannunziana e le rumorose gazzarre futuriste. Ungaretti sentiva, finita ora la guerra, il bisogno di «ritrovare un ordine» (e siamo già nel periodo del Sentimento, dal ’19 in poi) «da ristabilirsi nel senso della tradizione, incominciando […] dall’ordine poetico, non contro, cioè, ma dentro la tradizione anche metodologicamente». Pur rappresentando, perciò, l’Allegria la prima fase della «sperimentazione formale» di Ungaretti, ed avendo la rottura del verso tradizionale come scopo principale quello di evidenziare, alla maniera dei simbolisti e di Poe, le capacità analogiche ed evocative della parola, sentirla, cioè «nel suo compiuto e intenso, insostituibile significato», nasce da una condizione umana di precarietà come quella del «soldato». In realtà, già dal ’19 nasce in Ungaretti la preoccupazione di ricreare, con quei suoi versicoli franti e spogliati di qualsiasi discorsività, un tono ed una misura classicamente evocati e organizzati: è la perfezione del settenario, del novenario e dell’endecasillabo, raggiunta mettendo le parole una accanto all’altra e non più una sotto l’altra (si pensi per questo alle osservazioni critiche del De Robertis sulla formazione letteraria di Ungaretti).

In una intervista del ’63 Ungaretti dirà

a proposito della sua poesia degli anni post-bellici: «E poi gli endecasillabi bisognava imparare a rifarli… quindi l’endecasillabo tornava a costituirsi in modo normale». E ancora: «L’endecasillabo nasce subito, nasce dal ’19, nasce immediatamente dopo la guerra», come esigenza di un «canto» con cui partecipare dell’esempio dei classici, da Petrarca a Leopardi, filtrato attraverso l’esperienza mallarméana e baudelairiana. Questo recupero di un ritmo e di una metrica, di una musicalità, nuove ed antiche ad un tempo, sorgeva già da quegli anni terribili della guerra e del dopoguerra, come necessità di un equilibrio interiore e stilistico insieme. Era questo il periodo de «La Ronda»: della volontà di ristabilire, e in politica e in letteratura, quell’ordine turbato dell’esperienza della guerra. E qui balza subito agli occhi l’indiscutibile influenza mediatrice della rivista di Cardarelli e Bacchelli sul «secondo» Ungaretti, quello del Sentimento, sul suo atteggiamento nei confronti della tradizione letteraria italiana.

Il «ritorno all’ordine»

Sono gli anni, quindi, in cui emerge la necessità di un «ritorno all’ordine», da ripristinare nel senso della tradizione, attraverso il recupero di temi, di modi espressivi, propri di un mondo passato, ma rivissuti e riscoperti in una rilettura moderna e originale, personalizzata. Si trattava per Ungaretti di «non turbare l’armonia del nostro endecasillabo, di non rinunciare ad alcuna delle sue infinite risorse che nella sua lunga vita ha conquistato e insieme di non essere inferiori a nessuno nell’audacia, nell’aderenza al proprio tempo». In realtà il cosiddetto «neoclassicismo» non farà mancare il suo peso determinante nel segno e nel senso di un’arte predisposta «verso un ordine tradizionalmente tramandato e che solo negli schemi è stato sovvertito». Ungaretti rompe soltanto gli schemi e la disposizione della trama espressiva e non le strutture formali e tematiche interne alla poesia, recuperandone, così, i valori «puri» e misteriosi per via retorico-stilistica e tecnico-metrica. «Al di là», quindi, della «retorica» dannunziana e futurista, dei toni «dimessi» dei crepuscolari, del sentimento «languido» del Pascoli, si trattava di eliminare, attraverso l’apparente liquidazione della tecnica tradizionale, «le sovrastrutture linguistiche che impacciavano il folgorare dell’invenzione», riuscendo ad attingere, a livello metrico, ritmico-musicale, una «parola» che miracolosamente riacquistava nella sua rinnovata collocazione una sua interna e misteriosa valenza, non solo e non tanto metrica. Quest’opera riformatrice del linguaggio poetico era attuata da Ungaretti non tanto mediante il ripudio dei versi canonici tradizionali «quanto piuttosto nella loro disarticolazione e nel loro impiego di nuovo genere, che comporta lo spostamento degli accenti dalle loro sedi tradizionali, la scomparsa della cesura, l’uso della rima scarso e asimmetrico, il valore assegnato alle pause». Continua a leggere

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Giorgio Linguaglossa Appunti sul Nichilismo – con due poesie inedite: Il bacio è la tomba di Dio, di Giorgio Linguaglossa e Frammenti per Sally, di Lucio Mayoor Tosi, grafiche di Lucio Mayoor Tosi

Foto di Evgenia Arbugaeva, Weather man, Siberia, la Torre

Evgenia Arbugaeva Weather_man_02-1

Giorgio Linguaglossa

Appunti sul Nichilismo

Nietzsche definiva il nichilismo il processo di «svalutazione dei valori finora supremi»,

i quali soli  conferiscono all’ente il suo «valore». «Unospite inquietante» lo definiva Heidegger. Diceva del nichilismo, che ormai è impossibile «metterlo alla porta», e invitava a «guardarlo bene in faccia». Nietzsche osava affermare di essere «il primo perfetto nichilista d’Europa, che però ha già vissuto in sé fino in fondo il nichilismo stesso – che lo ha dentro di sé, sotto di sé, fuori di sé».

Chi ha saputo raccogliere la sfida di Nietzsche è stato innanzitutto Heidegger. Dalla metà degli anni Trenta, nel lungo periodo in cui elaborò il suo imponente Nietzsche (1961), Heidegger individua nel nichilismo la traiettoria dell’Occidente, quello che domina la sua storia non già dai sussulti rivoluzionari ottocenteschi, ma fin dalle origini greche.

Il concetto di nichilismo assurge dignità di elemento portante nella filosofia in Nietzsche. Ne La gaia scienza, infatti, il filosofo tedesco annuncia la «morte di Dio» e la vacuità di ogni valore, auspicando l’autosoteria dell’Übermensch, dell’Oltreuomo, unico modello in grado di sottrarre l’uomo europeo dalla decadenza in cui l’ha precipitato la religione cristiana.

Heidegger individua la causa del nichilismo nella metafisica,

sostenendo che: «La metafisica in quanto metafisica è l’autentico nichilismo. L’essenza del nichilismo si dà storicamente nelle vesti della metafisica. La metafisica di Platone non è meno nichilistica di quella di Nietzsche. In quella l’essenza del nichilismo resta solo celata, in questa giunge interamente alla comparsa», dove per «metafisica» egli intende quella tradizione di pensiero che pone il problema dell’essere dell’essente, andando oltre (metà) l’essente stesso, in una irrealistica dimensione trascendente.

L’inizio del Novecento È caratterizzato dal fenomeno delle avanguardie che porteranno a compimento la rivoluzione delle arti plastiche, letterarie e figurative in un impeto di distruzione del vecchio mondo volto alla realizzazione di uno nuovo (proprio come sosteneva Turgenev nel romanzo Padri e figli!). Da questo punto di vista, le due guerre mondiali devono essere ricomprese nel quadro ideologico-psicologico  del compimento della potenza detonante del nichilismo e della progressiva perdita dei nicciani «valori» orientativi di «scopo», «unità» e «verità».

Laboratorio 4 NuoviIl fenomeno delle post-avanguardie letterarie

e artistiche del secondo Novecento rappresenta la stigmatizzazione del riposizionamento combattivo di gruppi artistici e soprattutto letterari che cercano  di ritagliarsi un posto e una funzione nell’ambito del dispiegamento universale della forma-merce e del mercato globale che non contempla più alcuna funzione di «valore» all’arte e alla letteratura nel sistema società. È la reazione della nuova letteratura di fronte ai cambiamenti epocali che la relegano al di fuori del sistema mercato e delle nuove istituzioni culturali. La metafisica ha prodotto il mercato globale, e il mercato globale è il compimento (Vollendung) della metafisica. È qui che si apre la nuova stagione del nichilismo come «stato psicologico» del mondo contemporaneo. Il nichilismo, dirà Heidegger, viene concepito come «stato psicologico», «ciò significa allora: il nichilismo riguarda la posizione dell’uomo in mezzo all’ente nel suo insieme, riguarda il modo in cui l’uomo si pone in relazione con l’ente in quanto tale, in cui configura e afferma questo rapporto e quindi se stesso; ciò non significa altro che il modo in cui l’uomo è storicamente.»1]

«Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore» , così recitava il nono punto del manifesto programmatico del Futurismo di F.T. Marinetti e soci, pubblicato il 20 Febbraio 1909 su Le Figaro. O più ‘nichilisticamente votate soltanto alla distruzione: questo È il caso di Dada, definito dagli stessi dadaisti come: «un fenomeno che scoppia nella metà della crisi morale ed economica del dopoguerra, un salvatore, un mostro che avrebbe sparso spazzatura sul suo cammino. Un sistematico lavoro di distruzione e demoralizzazione… che alla fine non è diventato che un atto sacrilego».

Del resto come preannunziarono nel loro manifesto: «Dada non significa nulla. È solo un prodotto della bocca».

Laboratorio lillaScrive Heidegger: «Forse l’essenza del nichilismo

consiste nel non prendere sul serio la domanda del Niente. In effetti la si lascia inesplicata, si rimane cocciutamente fermi allo schema interrogativo di un aut-aut da tempo abituale. Con l’approvazione generale si dice: o il Niente “è” “qualcosa” senz’altro nullo oppure deve essere un “ente”. Poiché però, evidentemente, il Niente non può mai essere un ente, non rimane che l’altra possibilità, cioè che il Niente sia l’assolutamente nullo.

[…]

E se il Niente, in verità, non fosse un ente, ma non fosse nemmeno mai ciò che è soltanto nullo? E se la domanda dell’essenza del Niente non fosse, sulla scorta di quell’aut-aut, nemmeno posta in termini sufficienti? E, ancor di più, se la mancanza (Ausbleiben) di questa domanda dispiegata che chiede dell’essenza del Niente fosse la ragione (Grund) del fatto che la metafisica occidentale deve cadere vittima del nichilismo? Il nichilismo sarebbe allora esperito e concepito in modo più originario ed essenziale, quella storia della metafisica che spinge a una posizione metafisica di fondo nella quale il Niente, nella sua essenza, non solo non può essere compreso, ma non vuole più nemmeno essere capito. Nichilismo significherebbe allora: il non pensare, per essenza, all’essenza del Niente. (…) Nietzsche riconosce, sì, il nichilismo come movimento soprattutto della storia occidentale, ma non è capace di pensare l’essenza del Niente perché non è in grado di cercarla domandando, egli deve diventare il nichilista classico che esprime la storia che sta accadendo ora. Nietzsche riconosce ed esperisce il nichilismo poiché pensa lui stesso in modo nichilistico. Il concetto nietzschiano del nichilismo è esso stesso un concetto nichilistico. Nietzsche non è capace, nonostante tutte le intuizioni, di riconoscere l’essenza occulta del nichilismo perché lo concepisce fin dall’inizio e soltanto in base al pensiero del valore come il processo della svalutazione dei valori supremi. Egli deve concepire il nichilismo in tal modo perché, mantenendosi nella traiettoria e nell’ambito della metafisica occidentale, pensa quest’ultima fino in fondo.»2] Continua a leggere

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Sabino Caronia “Gabriele D’Annunzio fra tradizione e avanguardia” con uno stralcio de l’Alcyone “Il fanciullo”e una nota redazionale; “I temi e la struttura metrica de L’Alcyone”

gabriele d'annunzio e benito mussolini

gabriele d’annunzio e benito mussolini

Commento di Sabino Caronia

            Chi non ricorda I miti superstiti di Laus Vitae?
            È il D’Annunzio «lontan dalla madre» che nella sua «dolcezza di figlio» esclama: «Chi mi consolerà, mentre / vivo sotto cieli pur dolci, / chi mi consolerà dei soli / spenti, dei giorni caduti?».
            Sono versi che richiamano quelli di Piero Bigongiari, che non a caso ha dedicato a D’Annunzio un memorabile saggio dei suoi Studi in Pescia-Lucca: «Ho vissuto / nelle città più dolci della terra / come una rondine passeggera…».
            In Il libro segreto D’Annunzio dichiarerà in maniera inequivocabile la sua costante volontà di «far della vetustà nota una modernità ignota».
            Ma vediamo di fare un’analisi e una cronistoria del mito dannunziano richiamando il nostro Gabriele D’Annunzio: «Torna con me nell’Ellade scolpita» contenuto nel volume terzo dell’opera a cura di Pietro Gibellini Il mito della letteratura italiana, Morcelliana, Brescia 2003, pp. 293-332.
            Prima di procedere a un confronto con il riuso del mito nei testi del futurismo,  ricordiamo i giudizi del vate su Marinetti, di cui dirà che è «una nullità tonante, un cretino fosforescente, e forse ancora un cretino con qualche lampo di imbecillità».
            Marinetti a sua volta lo etichetterà come «un Montecarlo di tutte le letterature», un passatista «noioso e anacronistico», opponendogli il Pascoli considerato e dichiarato da lui il più grande poeta italiano.
            Certo ammirerà sempre il seduttore prestigioso e leggendario della folla legato indissolubilmente alla vicenda di Fiume e condividerà, o almeno crederà di condividere, le sue scelte politiche, ma rifiuterà sempre quel sentimentalismo romantico e quella mania del passato e dell’archeologia che sono alla base della sua idea simbolista dell’arte.
            L’artista futurista, a differenza del simbolista, non si protende nostalgicamente verso un mondo di immagini e favole perdute, seppur rivissute solo come illusioni, che è il caso di D’Annunzio, ma guarda alla realtà che lo circonda e trae dalla attualità della propria esperienza la materia del suo poetare.
            Significativo in proposito quanto scrive Marinetti riguardo al suo ripudio dei «padri simbolisti» in Guerra sola igiene del mondo, che si può leggere ora insieme agli altri manifesti futuristi in Filippo Tommaso Marinetti, teoria e invenzione linguistica, a cura di Luciano de Maria, Milano, Mondadori 1983.: «Per quei geni non esisteva poesia senza nostalgia, senza evocazione di tempi defunti, senza bruma di storie e di leggende. Noi li odiamo, i Maestri simbolisti, noi che abbiamo osato uscir nudi dal fiume del tempo e creiamo nostro malgrado, coi nostri corpi scorticati sulle pietre dell’ascesa dirupata, nuove sorgenti di eroismo che cantano, nuovi torrenti che drappeggiano di scarlatto la montagna» (p. 302).
            La presunta fondazione di una nuova mitologia non risulta, a ben vedere, pienamente efficace, anzi presenta vistosi limiti.
            È almeno sorprendente che molti di quei miti vengano trascelti da quel repertorio mitologico classico di cui al contempo si decreta la morte e, in particolare, che tra quelli più celebri si ritrovino le gesta di Ulisse, di Fetonte o di Icaro, fin troppo note grazie alla loro massiccia presenza in D’Annunzio perché il richiamo al vate possa credersi involontario.
            Ricordiamo un giudizio di Borges che risale agli anni trenta: «Filippo Tommaso Marinetti è forse l’esempio più famoso di scrittore che vive delle sue invenzioni e che non inventa quasi niente».
            Si veda ad esempio in Più che l’amore (1906) il discorso finale di Corrado Brando che all’amico Virginio prospetta la metallica tempra, crudamente forgiata, del superuomo, «impeto magnifico scagliato verso una meta più severa della morte» e si confronti la sua figura con quella di Mafarka, il futurista eroe nero creato sullo scenario africano da Marinetti nel suo romanzo francese Mafarke le futuriste, che è del 1909.
            I visitatori che ogni anno affollano il Vittoriale più che la dimora di Pascoli a Barga o la villa del Caos di Pirandello non sono per lo più attratti da ragioni letterarie quanto piuttosto da una curiosità del personaggio in cui è pur presente il noto e fin troppo irriso kitsch del suo apparato scenografico.
            Vien fatto di richiamare il celebre racconto di Henry James intitolato La madonna del futuro, dove è la contrapposizione tra l’artista che vuole competere col capolavoro di Raffaello e la facilità imitativa rivoltante del suo antagonista che riesce a vendere a caro prezzo le sue statuette di gatti e scimmie fatte con un composto plastico.
            Non a caso a chi ha potuto recentemente ammirare sulla piazza della Signoria a Firenze, accanto alle copie dei capolavori immortali del Rinascimento il Pluto and Proserpina di Jeff Koons è tornato alla mente il racconto di James richiamato in proposito anche da grande critico Arthur Danto.
            Quanto detto a ulteriore conferma dell’incisività a lunga portata di quell’«amèricanisme reclamiste» attribuito a D’Annunzio dal Marinetti di Les dieux s’ént vont, D’Annunzio reste.
            Protagonista di tante stagioni non solo letterarie della vita italiana di cui si è fatto operatore ed interprete, dalla crisi del Risorgimento all’espansione coloniale, dalla «vittoria mutilata» all’impresa di Fiume, dall’ascesa del Fascismo alla critica feroce all’asse Mussolini-Hitler da lui fortemente osteggiato al punto che Hernest Hemingway lo poteva indicare come principale rappresentante di un’Italia nuova, liberata dal Fascismo e dal Nazismo, D’Annunzio ha conosciuto una nuova stagione a partire dal mitico 1968, come dimostra tra l’altro il libro di Claudia Salaris Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume, che mette in luce il fenomeno rivoluzionario del “fiumanesimo” in rapporto alle avanguardie storiche, quali il futurismo politico, di cui troviamo sulla scena fiumana esponenti qualificati come lo stesso Marinetti o altri come Mario Carli, non esenti da simpatie per il bolscevismo.
            La vita come festa, la liberazione sessuale, la libera circolazione della droga, il nesso tra politica e gioco, la dissacrazione di ogni principio d’autorità fanno di Fiume un vero e proprio laboratorio sociale da cui a tutti, in particolare ai futuristi, era dato attingere per la costruzione di un mondo futuro, con prospettive violentemente anticipatrici per quanto riguarda l’economia, la difesa del lavoro, la creazione di un vasto movimento antiimperialistico.

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Notizia redazionale

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La sorte che ha segnato il personaggio D’Annunzio, dal punto di vista sociale, pubblico, militare e politico, ha spesso condizionato la lettura delle sue opere. Come è accaduto per quanto riguarda la controversa relazione con Mussolini e il nazionalismo esasperato, talvolta confuso con l’appartenenza almeno ideologica al partito fascista. Laddove invece è ben nota l’espressione del duce, secondo cui con D’Annunzio bisognava comportarsi come con un dente marcio: estirparlo o ricoprirlo d’oro. Mussolini scelse la seconda possibilità, relegando il poeta, a partire dal ’24, nell’esilio dorato del Vittoriale, ben consapevole del fatto che le capacità oratorie di D’Annunzio avrebbero potuto creare qualche problema alla propaganda di regime. Tuttavia, tentando di leggere l’opera dannunziana al di là da ogni legame con la situazione contingente, è impossibile non riconoscere, almeno alla poesia, una valenza fortemente innovativa: con Pascoli, D’Annunzio traghetta la lirica italiana dal XIX al XX secolo. D’Annunzio poeta, dunque, e soprattutto autore delle Laudi, merita una lettura attenta e approfondita, oltre che ampia.
Conoscenza dei principali caratteri della lirica italiana tradizionale (nozioni di verso, rima, strofa…) / conoscenza delle principali figure retoriche di senso, di suono, di posizione / capacità di analisi testuale strutturale e stilistica.

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Le fasi della produzione poetica dannunziana

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Le opere poetiche di D’Annunzio, come il resto della sua produzione, sono spesso pensate e articolate in raccolte dai toni molto variegati. Se la critica è unanime nel considerare Alcyone come il frutto più maturo della produzione dannunziana, sembra comunque opportuno ricordare, se pure per sommi capi, la diverse fasi della sua produzione.
Ancora studente liceale, nel 1879, D’Annunzio pubblica, a spese del padre in 500 copie, la raccolta Primo vere, 26 poesie, più 4 traduzioni da Orazio. Ovviamente, si tratta di liriche acerbe e dai toni roboanti, secondo il gusto dell’epoca e secondo il modello carducciano che il giovanissimo poeta considera allora il più autorevole riferimento. Ancora più evidente il medesimo modello nel successivo Canto novo, raccolta di liriche scritte nel 1882, pubblicate finalmente da un importante editore, il milanese Treves, nel 1886. Siamo ancora nella fase precedente il grande successo del Piacere, che uscirà per lo stesso editore tre anni dopo.
Negli anni immediatamente successivi, proprio sull’onda del successo del romanzo, D’Annunzio si dedica essenzialmente alla prosa, per poi tornare alla poesia: dapprima con il Poema paradisiaco, che rappresenta la definitiva svolta verso una poesia più decisamente ‘novecentesca’, innovativa, che risente di temi e stilemi europei, in particolare decadenti e simbolisti; poi con l’imponente progetto delle Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi: sette libri previsti, intitolati ciascuno a una delle sette stelle della costellazione delle Plèiadi. I primi tre libri, Maia (poema in versi liberi di circa ottomila versi), Elettra (raccolta di liriche essenzialmente celebrative) e Alcyone vedranno la luce nel 1903, quest’ultimo a fine anno e con la data editoriale del 1904. Dopo alcuni anni vedranno finalmente la luce anche Merope (esaltazione della guerra italo-turca, 1912) e Asterope (liriche dedicate all’esaltazione della “guerra giusta”, quella condotta per motivi nazionalistici, 1918). Con le Laudi può considerarsi chiusa la produzione lirica dannunziana.

foto d'epoca 2Alcyone: la storia compositiva

Alcyone è una raccolta di 88 liriche, scritte a partire dal 1899, anche se alcuni elementi di ispirazione sono già evidenti nei taccuini del ’97 e del ’98.
Le prime 7 vedono la luce in rivista, sulla “Nuova Antologia” in quello stesso anno. Successivamente, D’Annunzio continua la scrittura, con impegno irregolare, fino al 1903. Le poesie sono costruite, a formare una sorta di diario della stagione estiva, con un capillare lavoro di risistemazione compiuto dall’autore stesso e testimoniato dai tanto tormentati autografi che ripropongono diverse organizzazioni dell’indice della raccolta.
Nella stesura definitiva la disposizione dei componimenti segue un criterio ben preciso, che tende a riprodurre, condensandole in un’unica estate, le esperienze fortemente legate al mondo della natura che il poeta ha vissuto in compagnia di Eleonora Duse durante le estati trascorse nella loro villa in Versilia. La collocazione dei componimenti è sottolineata dalla presenza (se pure non simmetrica) di 4 ditirambi (intitolati con numeri romani), preceduti da altrettanti cosiddetti preditirambi, ciascuno dei quali presenta un titolo latino e fa riferimento o alla stagione dell’anno o a noti episodi della mitologia classica.

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I temi e la struttura metrica

 
Alcyone, uscita, sembra quasi per simbolica coincidenza, nello stesso anno dell’edizione definitiva di Myricae di Pascoli, rappresenta l’abbandono definitivo, da parte del poeta, ma anche della letteratura lirica italiana, delle strutture metrico-stilistiche tipiche della poesia tradizionale. Anche se in alcune liriche, basti ricordare La sera fiesolana, è ancora presente un sistema di strofe (che nel caso citato si rifà addirittura alla lauda francescana: Laudata sii…), l’autore preferisce l’uso della strofa lunga, talvolta lunghissima, composta di versi liberi, di misura diversa, liberamente alternati e legati tra loro in modo del tutto irregolare da rime, ma più spesso da assonanze e/o consonanze.
Il passare della stagione estiva, quasi scientificamente racchiusa tra gli equinozi d’estate e d’autunno, è lo sfondo di una miriade di eventi naturali, che hanno sempre la funzione di pretesto per le riflessioni dell’autore. La mietitura, un’improvvisa pioggia estiva, il paesaggio toscano marino, sono occasioni attraverso le quali l’io lirico di questa raccolta (che coincide contemporaneamente con il soggetto narrante e con ciascun lettore) percorre la strada del panismo, la progressiva compenetrazione tra uomo e natura, che culmina nella metamorfosi, un evento quasi soprannaturale e divino, capace di collocare l’uomo in una dimensione super-umana di contatto con la natura, di cui diventa parte integrante, quasi dimentico della sua appartenenza alla specie umana.

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foto d'epoca 3

foto d’epoca di nudo

Scelte stilistiche

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Il linguaggio di Alcyone rappresenta senza dubbio il culmine della poesia dannunziana. Con la produzione di D’Annunzio dovrà fare i conti chiunque vorrà, nel corso del Novecento, approdare a un continente nuovo, come avevano ben presto intuito Gozzano prima e Montale poi. Se la poesia è, in generale, il regno della connotazione, quella di Alcyone ne è un esempio altissimo: analogia, sinestesia, onomatopea, assonanza, consonanza, colori (quanti colori nella lirica di D’Annunzio! E quanti sostantivi colorati!); e ancora: metafore, similitudini esplicite e poi sempre più sottintese, fino all’uso (chiarissimo esempio in tal senso è Meriggio) del verbo ‘essere’ che si sostituisce al ‘come’ della similitudine, a rappresentare l’avvenuta metamorfosi dell’uomo in un elemento della natura. Evidente la fortissima presenza delle figure di suono, fino a un insistito fonosimbolismo (basti pensare alla Pioggia nel pineto).

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gabriele d’annunzio il vate simbolo della poesia decadente in italia

Il fanciullo (da Alcyone)

I
Figlio della Cicala e dell’Olivo,
nell’orto di qual Fauno
tu cogliesti la canna pel tuo flauto,
pel tuo sufolo doppio a sette fóri?
In quel che ha il nume agresto entro un’antica
villa di Camerata
deserta per la morte di Pampìnea?
O forse lungo l’Affrico che riga
la pallida contrada
ove i campi il cipresso han per confine?
Più presso, nella Mensola che ride
sotto il ponte selvaggia?
Più lungi, ove l’Ombron segue la traccia
d’Ambra e Lorenzo canta i vani ardori?
Ma il mio pensier mi finge che tu colta
l’abbia tra quelle mura
che Arno parte, negli Orti Oricellari,
ove dalla barbarie fu sepolta
ahi sì trista, la Musa
Fiorenza che cantò ne’ dì lontani
ai lauri insigni, ai chiari
fonti, all’eco dell’inclite caverne,
quando di Grecia le Sirene eterne
venner con Plato alla Città dei Fiori.
Te certo vide Luca della Robbia,
ti mirò Donatello,
operando le belle cantorìe.
Tutte le frutta della Cornucopia
per forza di scalpello
fecero onuste le ghirlande pie.
E tu danzavi le tue melodìe,
nudo fanciul pagano,
àlacre nel divin marmo apuano
come nell’aria, conducendo i cori.
Figlio della Cicala e dell’Olivo,
or col tuo sufoletto
incanti la lucertola verdognola
a cui sopra la selce il fianco vivo
palpita pel diletto
in misura seguendo il dolce suono.
Non tu conosci il sogno
forse della silente creatura?
Ver lei ti pieghi: in lei non è paura:
tu moduli secondo i suoi colori.
Tu moduli secondo l’aura e l’ombra
e l’acqua e il ramoscello
e la spica e la man dell’uom che falcia,
secondo il bianco vol della colomba,
la grazia del torello
che di repente pavido s’inarca,
la nuvola che varca
il colle qual pensier che seren vólto
muti, l’amore della vite all’olmo
l’arte dell’ape, il flutto degli odori.
Ogni voce in tuo suono si ritrova
e in ogni voce sei
sparso, quando apri e chiudi i fóri alterni.
Par quasi che tu sol le cose muova
mentre solo ti bei
nell’obbedire ai movimenti eterni.
Tutto ignori, e discerni
tutte le verità che l’ombra asconde.
Se interroghi la terra, il ciel risponde;
se favelli con l’acque, odono i fiori.
O fiore innumerevole di tutta
la vita bella, umano
fiore della divina arte innocente,
preghiamo che la nostra anima nuda
si miri in te, preghiamo
che assempri te maravigliosamente!
L’immensa plenitudine vivente
trema nel lieve suono
creato dal virgineo tuo soffio,
e l’uom co’ suoi fervori e i suoi dolori.
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II
Or la tua melodìa
tutta la valle come un bel pensiere
di pace crea, le due canne leggiere
versando una la luce ed una l’ombra.
La spiga che s’inclina
per offerirsi all’uomo
e il monte che gli dà pietre del grembo,
se ben l’una vicina
e l’altro sia rimoto
e l’una esigua e l’altro ingente, sembra
si giungano per l’aere sereno
come i tuoi labbri e le tue dolci canne,
come su letto d’erbe amato e amante,
come i tuoi diti snelli e i sette fóri,
come il mare e le foci,
come nell’ala chiare e negre penne,
come il fior del leandro e le tue tempie,
come il pampino e l’uva,
come la fonte e l’urna,
come la gronda e il nido della rondine,
come l’argilla e il pollice,
come ne’ fiari tuoi la cera e il miele,
come il fuoco e la stipula stridente,
come il sentiere e l’orma,
come la luce ovunque tocca l’ombra.
.

gabriele d'annunzio 1

gabriele d’annunzio e il volo

III
Sopor mi colse presso la fontana.
Lo sciame era discorde:
avea due re; pendea come due poppe
fulve. E il rame s’udìa come campana.
Ti vidi nel mio sogno, o lene aulente.
Lottato avevi ignudo
contro il torrente folle di rapina.
Raccolto avevi piuma di sparviere
che a sommo del ciel muto
in sue rote ferìa l’aer di strida.
Ahi, lungi dalle tue musiche dita
gittato avevi i calami forati.
Chino con sopraccigli corrugati
eri, fanciul pugnace,
intento a farti archi da saettare
col legno della flèssile avellana.

.
IV
Eleggere sapesti il re splendente
nello sciame diviso,
ridere d’un tuo bel selvaggio riso
spegnendo il fuco sterile e sonoro.
Con la man tinta in mele di sosillo
traesti fuor la troppa
signoria. Cauto e fermo le calcavi.
Sporgeva a modo d’uvero di poppa
il buon sire tranquillo
che fu re delle artefici soavi.
Poi franco te n’andavi
sonando per le prata di trifoglio,
incoronato d’ellera e d’orgoglio,
entro la nube delle pecchie d’oro.
.
V
L’acqua sorgiva fra i tuoi neri cigli
fecesi occhio che vede e che sorride;
fecesi chioma su la tua cervice
il crespo capelvenere.
Fatto sei di segreto e di freschezza.
Fatte son di làtice
fluido e d’umide fibre le tue membra.
Il tuo spirto, dal fonte come il salice
ma senza l’amarezza
nato, le amiche naiadi rimembra;
tutte le polle sembra
trarre per le invisibili sue stirpi.
E se gli occhi tuoi cesii han neri cigli,
ha neri gambi il verde capelvenere.
Converse le tue canne sono in chiari
vetri, onde lenti i suoni
stillano come gocce da clessidre.
S’appressano i colúbri maculosi,
gli aspidi i cencri e gli angui
e le ceraste e le verdissime idre.
Taciti, senza spire,
eretti i serpi bevono l’incanto.
Sol le bìfide lingue a quando a quando
tremano come trema il capelvenere.
Sino ai ginocchi immerso nella cupa
linfa, alla venenata
greggia tu moduli il tuo lento carme.
Par che da’ piedi tuoi torta sia nata
radice e di natura
erbida par ti sien fatte le gambe.
Ma il fior della tua carne
suso come il nenùfaro s’ingiglia.
E se gli occhi tuoi cesii han nere ciglia,
neri ha gli steli il verde capelvenere.
.

gabriele-d'annunzio-e-natale-palli a bordo dell'SVA ANsaldo

gabriele-d’annunzio-e-natale-palli a bordo dell’SVA ANsaldo

VI
Se t’è l’acqua visibile negli occhi
e se il làtice nudre le tue carni,
viver puoi anco ne’ perfetti marmi
e la colonna dorica abitare.
Natura ed Arte sono un dio bifronte
che conduce il tuo passo armonioso
per tutti i campi della Terra pura.
Tu non distingui l’un dall’altro volto
ma pulsare odi il cuor che si nasconde
unico nella duplice figura.
O ignuda creatura,
teco salir la rupe veneranda
voglio, teco offerire una ghirlanda
del nostro ulivo a quell’eterno altare.
Torna con me nell’Ellade scolpita
ove la pietra è figlia della luce
e sostanza dell’aere è il pensiere.
Navigando nell’alta notte illune,
noi vedremo rilucere la riva
del diurno fulgor ch’ella ritiene.
Stamperai nelle arene
del Fàlero orme ardenti. Ospiti soli
presso Colòno udremo gli usignuoli
di Sofocle ad Antigone cantare.
Vedremo nei Propìlei le porte
del Giorno aperte, nell’intercolunnio
tutto il cielo dell’Attica gioire;
nel tempio d’Erettèo, coro notturno
dai negricanti pepli le sopposte
vergini stare come urne votive;
la potenza sublime
della Citta, transfusa in ogni vena
del vital marmo ov’è presente Atena,
regnar col ritmo il ciel la terra il mare.
Alcun arbore mai non t’avrà dato
gioia sì come la colonna intatta
che serba i raggi ne’ suoi solchi eguali.
All’ora quando l’ombra sua trapassa
i gradi, tu t’assiderai sul grado
più alto, co’ tuoi calami toscani.
La Vittoria senz’ali
forse t’udrà, spoglia d’avorio e d’oro;
e quella alata che raffrèna il toro;
e quella che dislaccia il suo calzare.
Taci! La cima della gioia è attinta.
Guarda il Parnete al ciel, come leggiero!
Guarda l’Imetto roscido di miele!
Flessibile m’appar come l’efebo,
vestito della clamide succinta,
che cavalcò nelle Panatenee.
Sorse dall’acque egee
il bel monte dell’api e fu vivente.
Or tuttavia nella sua forma ei sente
la vita delle belle acque ondeggiare.
Seno d’Egina! Oh isola nutrice
di colombe e d’eroi! Pallida via
d’Eleusi coi vestigi di Demetra!
Splendore della duplice ferita
nel fianco del Pentelico! Armonie
del glauco olivo e della bianca pietra!
Ogni golfo è una cetra.
Tu taci, aulete, e ascolti. Per l’Imetto
l’ombra si spande. Il monte violetto
mormora e odora come un alveare.
.
VII
L’odo fuggir tra gli arcipressi foschi,
e l’ansia il cor mi punge.
Ei mi chiama di lunge
solo negli alti boschi, e s’allontana.
Mutato è il suon delle sue dolci canne.
Trèmane il cor che l’ode,
balza se sotto il piè strida l’arbusto;
pavido è fatto al rombo del suo sangue,
ed altro più non ode
il cor presàgo di remoto lutto.
Prego: «O fanciul venusto,
non esser sì veloce
ch’io non ti giunga!» È vana la mia voce.
Melodiosamente ei s’allontana.
Elci nereggian dopo gli arcipressi,
antiqui arbori cavi.
Pascono suso in ciel nuvole bianche.
A quando a quando tra gli intrichi spessi
le nuvole soavi
son come prede tra selvagge branche.
E sempre odo le canne
gemere d’ombra in ombra
roche quasi richiamo di colomba
che va di ramo in ramo e s’allontana.
«O fanciullo fuggevole, t’arresta!
Tu non sai com’io t’ami,
intimo fiore dell’anima mia.
Una sol volta almen volgi la testa,
se te la inghirlandai,
bel figlio della mia melancolìa!
Con la tua melodìa
fugge quel che divino
era venuto in me, quasi improvviso
ritorno dell’infanzia più lontana.
Fa che l’ultima volta io t’incoroni,
pur di negro cipresso,
e teco io sia nella dolente sera!»
Ei nell’onda volubile dei suoni
con un gentil suo gesto,
simile a un spirto della primavera,
volgesi; alla preghiera
sorride, e non l’esaude.
L’ansia mia vana odo sol tra le pause,
mentre che d’ombra in ombra ei s’allontana.
Ad un fonte m’abbatto che s’accoglie
entro conca profonda
per aver pace, e un elce gli fa notte.
«O figlio, sosta! Imiterai le foglie
e l’acque anche una volta
e i silenzii del dì con le tue note.
Sediamo in su le prode.
Fa ch’io veda l’imagine
puerile di te presso l’imagine
di me nel cupo speglio!» Ei s’allontana.
S’allontana melodiosamente
né più mi volge il viso,
emulo di Favonio ei nel suo volo.
Sol calando, la plaga d’occidente
s’infiamma; e d’improvviso
tutta la selva è fatta un vasto rogo.
Le nuvole di foco
ardono gli elci forti,
aerie vergini al disìo dei mostri.
Giunge clangor di buccina lontana.
E un tempio ecco apparire, alte ruine
cui scindon le radici
errabonde. Gli antichi iddii son vinti.
Giaccion tronche le statue divine
cadute dai fastigi;
dormono in bruni pepli di corimbi.
Lentischi e terebinti
l’odor dei timiami
fan loro intorno. «O figlio, se tu m’ami,
sosta nel luogo santo!» Ei s’allontana.
«Rialzerò le candide colonne,
rialzerò l’altare
e tu l’abiterai unico dio.
M’odi: te l’ornerò con arti nuove.
E non avrà l’eguale.
Maraviglioso artefice son io.
T’adorerò nel mio
petto e nel tempio. M’odi,
figlio! Che immortalmente io t’incoroni!»
Nel gran fuoco del vespro ei s’allontana.
Si dilegua ne’ fiammei orizzonti
Forse è fratel degli astri.
O forse nel mio sogno s’è converso?
«Ti cercherò, ti cercherò ne’ monti,
ti cercherò per gli aspri
torrenti dove ti sarai deterso.
E ti vedrò diverso!
Gittato avrai le canne,
intento a farti archi da saettare
col legno della flèssile avellana».

sabino caronia

sabino caronia

Sabino Caronia, critico letterario e scrittore, romano, ha pubblicato le raccolte di saggi novecenteschi L’usignolo di Orfeo (Sciascia editore, 1990) e Il gelsomino d’Arabia (Bulzoni, 2000) ed ha curato tra l’altro i volumi Il lume dei due occhi. G.Dessì, biografia e letteratura (Edizioni Periferia, 1987) e Licy e il Gattopardo (Edizioni Associate, 1995).
Ha lavorato presso la cattedra di Letteratura Italiana Contemporanea all’Università di Perugia e ha collaborato con l’Università di Tor Vergata, con cui ha pubblicato tra l’altro Gli specchi di Borges (Universitalia, 2000).
Membro dell’Istituto di Studi Romani e del Centro Studi G. G. Belli, autore di numerosi profili di narratori italiani del Novecento per la Letteratura Italiana Contemporanea (Lucarini Editore), collabora ad autorevoli riviste, nonché ad alcuni giornali, tra cui «L’Osservatore Romano» e «Liberal».
Suoi racconti e poesie sono apparsi in diverse riviste. Ha pubblicato i romanzi L’ultima estate di Moro (Schena Editore 2008), Morte di un cittadino americano. Jim Morrison a Parigi (Edilazio 2009), La cupa dell’acqua chiara (Edizioni Periferia 2009) e la raccolta poetica Il secondo dono (Progetto Cultura 2013) .

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