SEI POESIE DI BORA ĆOSIĆ SULLA RESPONSABILITA’ DEL “FARE” POESIA: DA  “ I MORTI – BERLINO DELLE MIE POESIE” (Mesogea, 2006) – LA TESTIMONIANZA DELLA POESIA SULL’EMIGRAZIONE EUROPEA. Traduzione di Lavinia Bissoli e Lola Vlatković Con un commento di Letizia Leone

Bora Cosic Ancora la Trg. Bana J. Jelacica con i tram a due assi 157 e 150 sulla linea “11”

Zagabria Ancora la Trg. Bana J. Jelacica con i tram a due assi 157 e 150 sulla linea “11”

Berlino delle mie poesie, Mesogea by GEM s.r.l., Messina, 2006; prefazione di Predrag Matvejević, a cura di Silvio Ferrari; Traduzione di Lavinia Bissoli e Lola Vlatković

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http://www.mesogea.it/casa-editrice-mesogea.html

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Bora Ćosić (1932) è uno dei più noti scrittori della ex Jugoslavia. Nasce a Zagabria e nel 1937 si trasferisce con la famiglia a Belgrado, dove più tardi intraprenderà gli studi di filosofia. Nei primi anni cinquanta collabora con diverse riviste letterarie, si dedica alla traduzione di alcuni autori classici della letteratura russa, tra cui Majakovskij e Chlebnikov, ma soprattutto diventa, giovanissimo, una delle personalità di spicco della vita culturale belgradese. Scrittore caustico per eccellenza, intellettuale anticonformista e déraciné, malvisto dalle autorità ma amatissimo dai suoi lettori, è sempre stato un autentico “apolide dello spirito”, come testimonia il suo Dnevnik apatrida [Diario di un senza patria, 1993], scritto durante le guerre jugoslave. Nel 1992, in seguito al collasso del proprio Paese e in aperta opposizione al regime di Milošević, si trasferisce prima in Istria, nella casa estiva di Rovigno, e poi a Berlino, città nella quale vive tuttora in una sorta di “asilio-esilio” e a cui ha dedicato un’intensa raccolta di poesie dal titolo I morti (2006). Ha ottenuto tra gli altri, il Leipzig Book Award.Dopo aver vissuto per molti anni a Belgrado, dove si è laureato in filosofia, nel 1992 ha dovuto lasciare la Serbia, a causa delle sue posizioni anti-nazionaliste, per emigrare a Rovigno, in Istria. Dal 1995 vive a Berlino dove ha ottenuto una borsa dal Deutscher Akademischer Austauchsdienst. Il ruolo della mia famiglia nella rivoluzione mondiale (e/o 1996), è il suo primo romanzo, apparso negli anni del “disgelo jugoslavo”, grazie al quale ha subito conosciuto il successo internazionale.

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bora cosic 2

Bora Cosic

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Commento di Letizia Leone

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Pedrag Matvejević nel presentare Bora Ćosić non esita a collocarlo in un punto di oscillazione “tra asilo ed esilio”, condizione esistenziale che si rivela per un poeta inevitabilmente condizione linguistica: “L’epiteto jugoslava continua, nel suo caso, ad avere ancora un senso. Di origine serba, ma nato in Croazia, questo poeta e prosatore che vive adesso in Germania, ha abitato a Belgrado per molti anni prima di emigrare a “Rovigno” città istriana croato-italiana, all’epoca della guerra serbo-croato-bosniaco-montenegrina. Si troverebbe più difficilmente uno scrittore più europeo di lui. In un momento in cui i nazionalismi vogliono a ogni costo imporre il concetto di patria, lui si professa senza patria.”
È un esilio spontaneo ma necessario quello di Ćosić come di colui che ha perso il terreno sotto i piedi, quello del suo paese, la ex Jugoslavia risucchiata nel buco nero della storia. Il processo è stato violento, doloroso e il vessillo della morte sventola sulle sessanta poesie raccolte in questo libro. La morte fisica di un’intera nazione per disintegrazione identitaria e quella degli amici o dei grandi poeti che ormai è possibile   incontrare “in queste sue passeggiate…in fondo ai cimiteri”: È tutto il giorno che tasto il pavimento / cercando sotto la tavola il buco / dov’è finita la vita dell’amico / millecinquecento chilometri / più a sud…”
Dopo la dissoluzione della federazione jugoslava la lingua diventa lo strumento principale della nazionalizzazione generando situazioni paradossali come quella di chi, ormai straniero nel proprio paese, ne sperimenta la data di scadenza: Con un decreto speciale / è stata abolita la lingua del mio paese / sostituita da una nuova / tutto quello che finora avevo scritto / si considera non tradotto.
La narrazione poetica sembra adottare lo stile dell’assenza, quella “parola trasparente e “impassibile” inaugurata dallo straniero di Camus, una scrittura neutra che sgombra la pagina da ogni rivestimento estetico accessorio, da ornamenti, rovine, miti formali del linguaggio letterario novecentesco. “Se la scrittura è veramente neutra, se il linguaggio, invece di essere un atto ingombrante e indomabile, raggiunge lo stato di un’equazione pura, sottile come un’algebra davanti alla futilità dell’uomo, allora la Letteratura è vinta, la problematica umana è scoperta e rivelata senza colori, lo scrittore è per sempre un uomo onesto”, l’utopia della scrittura immacolata avanzata da Roland Barthes pare spostare il baricentro della riflessione  sull’aspetto morale, sulla funzione sociale della forma e sulla inevitabile “responsabilità che l’artista assume scegliendola”.
Questa forte tensione all’onestà informa tutto il libro. La poesia deve riprendere le misure, controllare e tarare la strumentazione nel grande arsenale retorico e letterario per ricalibrare la lingua attraverso il confronto con la società. Un tipo di scrittura da referto medico-legale, vicina al gergo giornalistico, che ha messo al bando con gli aggettivi qualificativi ogni intenzione estetico-formale e sposta il baricentro della riflessione dalla problematica estetica “senza contenuto” all’autenticità dell’Erlebnis: questo richiedono le contingenze drammatiche dei nostri giorni, sembra dirci Bora Ćosić.  
Un riposizionamento del punto di vista soggettivo, la morte della “persona metaforica” affinché il discorso poetico esca dal pantano della celebrazione nichilista del proprio oblio: Come se invece di un’enorme albero dell’Amazzonia /arrivassero a Amburgo /per esigenze di costruzione /solo le sue misure.
In questi testi selezionati, vere e proprie meditazioni su modi e ruoli del poeta di oggi, sembra superata quella lacerazione della coscienza che affligge l’artista moderno impegnato nella ricerca formale di un proprio principio artistico assoluto. Per Ćosić bisogna ricominciare a scrivere con il metodo che usava Mandel’štam nella sua cella (o Dante nel suo esilio e Campanella nella fossa del Camerone, potremmo aggiungere) e cioè poetare, “poietare” nel senso di produrre, dall’incandescenza della Storia usando il metodo di raffreddamento del pensiero.
Gli strali a qualche famoso collega burocrate della poesia, gigante del minimalismo che sa tutto di “cosa succede in quelle stanzette” evidenziano i rischi di degenerazione nell’estetismo (o inestetismo anestetico) inautentico:

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IL GIGANTE

Un grande poeta del mio paese
ha una statura che arriva al quarto piano
è per questo che sa
cosa succede in quelle stanzette
tra le ragazze in soffitta
e nel letto del malato
nello stesso corridoio
lui è capace di deviare tutto il fiume
dal suo letto
di sollevarlo sopra i suoi occhi
come una radice
di osservarlo accuratamente
e rimetterlo al suo posto
adesso siamo in guerra
senza sapere perché
lo vedo seduto tra gli assassini
allo stesso tavolo
chissà come ha fatto a mettercisi
forse si è rimpicciolito nel frattempo
forse ha dimenticato
come aveva trattato il fiume
che oggi è ghiacciato
perché non se ne serve
come di una mazza.

“Bora Ćosić costituisce, forse, uno degli ultimi legami fra quelle letterature serba e croata che oggi preferiscono ignorarsi.”: le parole di Matvejević siglano con nostalgia un fallimento civile e culturale.

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Bora Cosic Berlino Immagine

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LE MISURE

Adesso capisco Osip Mandeljštam
quando privo di matita
sceglie le parole russe
fissando il soffitto
dal suo giaciglio in carcere.
Perché la poesia non deve essere scritta
mentre sta dietro alle mie spalle
all’angolo della via Gervinus
come uno sbirro, come Rogožin, come la peste.
Lì nel prato vicino
cerco di scavare una piccola tomba
per l’amico
morto straniero nel proprio paese.
Si tratta di una fossa angusta
dove c’è posto solo per il piccolo pezzo
di quella creatura morta
che è toccato a me.
Come se invece di un’enorme albero dell’Amazzonia
arrivassero a Amburgo
per esigenze di costruzione
solo le sue misure.

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IL LETAMAIO

Io non so fino a dove si estende
una poesia
forse sono ancora disteso
nella frase di ieri
sto tastando intorno con la mano
solo cose taglienti e pericolose
lucchetti ghiaia viti e latta
il basamento di un letto
arrugginito nel basso fondale
del Mar Caspio
attraverso il materasso si sta infiltrando
la rotaia di una ferrovia siciliana
abbandonata
il guanciale facilmente marcisce
in quel letamaio
di Pomerania
il mio mondo è affondato
capisco mia sorella
che talora non ha voglia di alzarsi
anch’io avevo un amico poeta
che si è impiccato
nel bosco vicino a Zagabria
e una ragazza che è saltata giù dal ponte
non farò nessuna sciocchezza
chiedo solo molte spiegazioni fino a quando il quartiere di Kaslshost
sembrerà un cane bastonato
lasciato a crepare
non cedo né alla scalinata né alla via
di Belgrado
trasformata in porcile
sarebbe stupido dare tutta la colpa
alla stagione
che è oggi al potere
ho un piccolo motivo.

 

Bora Cosic 1

Bora Cosic

ESSERE E TEMPO

Non c’è molta realtà
nei nostri appartamenti
l’avvenimento
si è già svolto
prima
come quando arriva
una lettera d’oltreoceano
dalla quale fuoriesce
un tempo passato remoto

nell’angolo opposto della stanza
il mio inevitabile futuro
bisogna pagare i conti
andare all’assicurazione
vedere una buona volta quella gente
tutti i vari compiti ricevuti da Husserl

solo nel mezzo
là dov’è il tappeto
c’è un po’ del tempo presente
che non si può dimostrare
un casuale raggio di sole
caduto chissà da dove
sparito
come le promesse fatte a Kafka
e poi mancate.

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IL SOGGETTO

Un eroico agente segreto
ridotto all’assurdo
in seguito al nuovo ordine di potere
continua a camminare in quel film
come se la città fosse ancora divisa
non parla con nessuno
osserva le cose con la coda dell’occhio
ogni tanto entra in una cabina telefonica
per farsi vivo con il suo capo
e questo è tutto
lui stesso è il suo soggetto
cortese abile competente
un po’ solitario

Così anch’io mi guardo attorno
raccolgo i dati
del mio essere
come se si trovassero sulle facciate
ricompongo l’intreccio il complotto
il contenuto del mio dramma
con la tecnica del monologo muto
quando è stato eretto questo piano
questo assomiglia a Bruno Ganz
anzi è proprio Bruno Ganz
dai giornali vengo a sapere della morte dell’amico
tutto nel mondo solo al mondo
mi sto rotolando lungo il Kurfurstendamm
cannoneggiato dalla grande Berta
delle mie intenzioni
senza rumore
concepisco questa storia.

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DUE POESIE SULLA TRADUZIONE

1.

Quel taxi americano
sul quale è salito il poeta
Charles Simić
con la sua invisibile figlia
non è lo stesso
della traduzione di Enzensberger.
La differenza sta
nel tipo di traffico
nella larghezza delle strade
e nella grammatica.
Perché ogni veicolo
che attraversa l’Oceano della lingua
ha un passeggero nuovo
con idee mai viste prima.

Così ricevo dal mio paese le notizie
sulla mia scomparsa
come dopo l’affondamento di una nave.

Perciò mi attengo alla traduzione libera
grazie alla quale
cammino ancora per Berlino.

2.

Alla stazione Zoo
portando una borsa leggera
compro un giornale
cerco lo scompartimento
nel treno per Dresda
come una pallina
che cerca la casella
nel Flipper.

Mezzo secolo fa
gli occhi dei bambini nei Balcani
si rallegravano
all’incendio di quella città.
Poi è avvenuto il cambiamento
come quando una barca
entrando nel canale nel livello più basso del fiume
scopre una nuova uscita
con l’aiuto di un argano
e di altri sapienti congegni.
Dopo di che lo sappiamo:
a Dresda è stato commesso un crimine.

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ČECHOV

E io signori miei leggo molto Čechov
nei miei vasti possedimenti
di due stanze in via Sybel Charlottenburg
mi sembra strano di non essere finito
nelle grinfie dei creditori
sono solo moderatamente malinconico
tenendo presente la mia sorte
abbastanza russa non sono epilettico
non ho duellato con nessuno
mi aggiro per Berlino
come se fosse la steppa siberiana
osservo la gente
come se fossi in treno verso Tula
poi scrivo qualcosa
su questi argomenti
per un quotidiano berlinese
dicono che pubblicheranno ma sono molto stupiti
di fronte a questo modo di scrivere
cos’ero prima
c’era qualche storiella lirica
sì c’era
ma questa persona metaforica
è morta
il giardino dei ciliegi l’abbiamo venduto
i compratori l’hanno abbattuto.

Letizia Leone diwali

Letizia Leone

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Letizia Leone è nata a Roma. Ha insegnato materie letterarie e lavorato presso l’UNICEF. Ha avuto riconoscimenti in vari premi (Segnalazione Premio Eugenio Montale, 1997; “Grande Dizionario della Lingua Italiana S. Battaglia”, UTET, 1998; “Nuove Scrittrici” Tracce, 1998 e 2002; Menzione d’onore “Lorenzo Montano” ed. Anterem; Selezione Miosotìs , Edizioni d’if, 2010 e 2012; Premiazione “Civetta di Minerva”). 
Ha pubblicato i seguenti libri: Pochi centimetri di luce, (2000); L’ora minerale, (2004); Carte Sanitarie, (2008);  La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi ,(2013); AA.VV. La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (a cura di G. Alfano), Perrone, 2011; la pièce teatrale Rose e detriti, FusibiliaLibri, 2015. Un suo racconto presente nell’antologia Sorridimi ancora a cura di Lidia Ravera, (2007) è stato messo in scena nel 2009 nello spettacolo Le invisibili (regia di E. Giordano) al Teatro Valle di Roma. Ha curato numerose antologie tra le quali Rosso da cameraVersi erotici delle poetesse italiane- (2012). Attualmente organizza laboratori di lettura e scrittura poetica.

12 commenti

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12 risposte a “SEI POESIE DI BORA ĆOSIĆ SULLA RESPONSABILITA’ DEL “FARE” POESIA: DA  “ I MORTI – BERLINO DELLE MIE POESIE” (Mesogea, 2006) – LA TESTIMONIANZA DELLA POESIA SULL’EMIGRAZIONE EUROPEA. Traduzione di Lavinia Bissoli e Lola Vlatković Con un commento di Letizia Leone

  1. In un certo senso è una posizione invidiabile quella in cui si è trovato ad vivere Bora Cosic, intendo quella dell’esilio-asilio. Insomma, per Bora Cosic è accaduto quello che è accaduto ad altri poeti (ad esempio Brodskij) europei e americani (Pound), il vivere nella propria lingua separato dal proprio popolo, il vivere dentro la propria lingua ma all’estero dove non si parla la propria lingua di origine. Questa doppia estraneità è per noi italiani incomprensibile, inimmaginabile. Molti dei poeti italiani hanno un ottimo rapporto con la propria lingua. E questo, a mio avviso, non facilita le cose, anzi, le complica. Intendo le cose poetiche. Avere un ottimo rapporto con la propria lingua significa restare in superficie. Ecco perché molti italiani trasmigrati all’estero poi sono diventati qualcosa che non corrispondeva più alla propria essenza italiana. Come è accaduto ad Emanuel Carnevali il quale una volta in America ha iniziato a scrivere in inglese. È accaduto questo: che un poeta italiano si è messo a scrivere in una lingua straniera, in inglese. Paradossale.
    Eppure, io penso che un poeta italiano debba avere nei confronti della lingua italiana un atteggiamento analogo a quello che Bora Cosic ha avuto con la sua propria lingua: un atteggiamento di distacco; guardare alla propria lingua un po’ dall’esterno, come se si fosse un estraneo. Lo so, è difficile fare questo, ma è fondamentale ritagliarsi uno spazio di estraneità rispetto alla propria lingua e alla comunità di parlanti di quella lingua. La lingua di un poeta, e non solo la sua lingua ma anche il suo immaginario (le imagery), deve essere in attrito con quello sociale, deve essere non in consonanza, deve intrattenere una ostilità di fondo, come un rumore di fondo ineliminabile da un apparecchio acustico. Insomma, voglio dire che un facile accesso al proprio linguaggio poetico dà come risultato una lingua facile facile, e quindi piatta, comunicabile, sì, ma piatta, di superficie.

  2. cos’ero prima
    c’era qualche storiella lirica
    sì c’era
    ma questa persona metaforica
    è morta
    Accade quando s’aggrappa qualcosa, attratta dalla gola, e lo dici. A quel punto non si ha più bisogno di giocare con le metafore. Entra un sapiente borbottare, “con la tecnica del monologo muto” che appaga e si basta. “Sono solo moderatamente malinconico”. Drammi sociali causano shock linguistici. E’ quel che ho potuto condividere leggendo. Quindi non dovrei dire che mi è piaciuto veramente, eppure è così. Sulla concretezza s’avverte il cielo della poesia. Senza troppi giri di parole, un forte sentimento.

  3. Alcuni versi di queste sei poesie di Bora Cosic mi richiamano alla mente la visionarietà di un Pessoa, se non fosse che la realtà da cui nascono è ben diversa: non l’essere presenza/assente, indolenza di immagini che si insinuano nel proprio essere in suggestione onirica, ma bruciore, dramma, esistenza lacerata senza chimere, esilio e pena, in una scrittura rapida e “trasparente”, come ben dice Letizia Leone nel suo puntuale e sapiente commento introduttivo.

  4. antonio sagredo

    Cara Letizia, mi piacerebbe sapere se Bora Cosic ha letto (conosce) i due studi fondamentali di Ripellino su Chlebnikov e Majakovskij (di questi ne vedo qualche traccia in questi versi qui pubbicati). Saresti in grado, a proposito, di dirmi qualcosa, o bisogna domandare a Pedrag Matvejević?
    Io intuisco che conosca gli studi dello slavista.
    La poesia di Cosic è sostanzialmente metropolitana con tutte le amarezze che si è portato dietro dalla sua terra più le amarezze e le delusioni berlinesi.
    Grazie, a.s.

  5. letizia leone

    Caro Antonio, al di là del dato particolare sui due studi del Ripellino, ti posso confermare la diretta e profonda familiarità con la letteratura russa da parte Cosic il quale ha tradotto soprattutto Majakovskij e Chlebnikov, e dunque la sua consapevolezza della portata della poesia russa moderna… Comunque una peculiarità dello stile modernista di Cosic è l’intertestualità più o meno esplicita, il fitto reticolo di riferimenti che tramano i suoi testi tanto da eleggere questo procedimento a vero e proprio genere tra saggio, pseudo-biografia, falsificazione creativa ad esempio con la scrittura di un falso quaderno di Musil (Il taccuino di Musil) e una finta biografia di Miroslav Krleza ( Doktor Krleza, 1988)…naturalmente la mia lettura del poeta è soggetta a tutti i limiti di una lettura in traduzione sebbene la fascinazione della scrittura mi abbia raggiunto in pieno…

  6. Gino Rago

    Sui versi di Cosic mi riprometto di tornare dopo una loro più approfondita lettura.
    Registro in me invece l’alta padronanza ermeneutica di Letizia Leone, autrice di una presentazione frutto di osmosi fra svariati stili di critica letteraria.
    Anche in questa occasione sembra, come spesso è successo con la scrittura di Giorgio Linguaglossa quando presenta versi altrui, che il recensore faccia ombra al recensito (il riferimento di Letizia Leone al Tommaso Campanella in esilio in una “cella” mi ha toccato molto).

    Gino Rago

  7. Poesie di tipo ‘narrativo’ dove conta l’invenzione di una realtà che sfugge e diventa anche iperbole.

  8. Due sono i temi che mi hanno molto toccata: quello dell’auto-esilio e quello della “traduzione” (e come non poteva?) che, a guardare bene, sono in realtà strettamente collegati. Entrambi dicono una cosa: tradurre, trasporre, in senso etimologico, un testo o se stessi, significa ridisegnare spazio e tempo. Interno ed esterno. Cosic stesso lo dice nella sua poesia sulla traduzione.

    “La differenza sta
    nel tipo di traffico
    nella larghezza delle strade
    e nella grammatica.
    Perché ogni veicolo
    che attraversa l’Oceano della lingua
    ha un passeggero nuovo
    con idee mai viste prima.”
    ecc

    Io non mi meraviglio, Giorgio, del fatto che un poeta o uno scrittore, vivendo in un paese straniero, comincino a scrivere nella lingua di quel paese, anzi, lo trovo naturale. Lo faccio anche io con l’inglese. Ci sono esempi illustri. Così come ci sono esempi opposti, come Singer che, pur vivendo ormai da decenni negli USA, scrisse tutte le sue opere in yiddish. Credo che per Singer l’aver continuato a tenere vivo un mondo ormai annientato, scomparso, vivo solo nel ricordo, fosse necessaria la lingua di quel mondo per descriverlo. Mentre per Beckett, ad esempio, il francese era la lingua “diversa”, con un “diverso tipo di traffico” e di grammatica, fondamentale per la rottura delle regole e delle strutture dalle quali proveniva.
    Cosic proviene da una realtà linguistica e culturale altamente complessa, che un tempo era la Mitteleuropa, dove si parlavano molte lingue E il tedesco. Dunque questo senso della “traduzione” o dell’ “esilio” pur rimanendo sulla propria terra non è del tutto nuovo. Trovo questo grande poeta molto mitteleuropeo anche se quella è, politicamente e geograficamente, una realtà che non esiste più, Questo senso sfuggente eppure forte dell’identità, che in un certo senso ti porti dentro di te.
    Pur se con le dovute differenze, qualcosa di analogo avviene nelle letterature post-coloniali.

  9. Provenire da, Essere in : non essere parte mai nel punto in cui ci si trova. Poesia che apprezzo molto, un ringraziamento alla bravissima Letizia Leone per questa proposta. Oltre a un grazie per il lavoro delle traduttrici

  10. Salvatore Martino

    Cara Letizia scusami se ho tardato ad inserire qualche mia parola sopra la tua introduzione del poeta Cosic. Ma arrivata la “crudele ” primavera il mio grande gairdino si è svegliato, quasi al richiamo di Wedekind , obbligandomi ad un lavoro stressante, che data la mia “verdissima” età mi ha concesso, e mi concede poco spazio e tempo. Ho visto solo adesso la tua proposta e ho commesso un errore, che non faccio mai: ho letto per primo il tuo commento, lucido, chiaro, con un linguaggio semplice e preciso, senza compiacimenti virtuosistici e parole incomprensibili, senza soverchi accostamenti, con un profondo rispetto per la poesia, e senza sfoggio di cultura, quella si legge tra le righe ad ogni passo. Brava: Ho commesso un altro errore, leggendo la biografia dell’autore, molto interessante, prima delle sua poesie. Il risultato : deluso dai versi, mi aspettavo più profondità, più sangue, più disperazione. Non mi rimane molto alla memoria, testi che mi sono scivolati addosso senza lasciare traccia. Mi rendo conto che l’esiguità del materiale non consente una visione più elaborata, soltanto una parzialissima intuizione di quello che il poeta può raccontare, ma certo questo primo impatto mi ha lasciato abbastanza freddo. Salvatore Martino

    • Caro Salvatore, posso capire quello che dici, ma purtroppo noi qui leggiamo una traduzione e non gli originali. Per di più da una lingua che non conosciamo e quindi non siamo in grado di giudicare veramente appieno cosa nella lingua originale Cosic abbia voluto trasporre e come. Anche perché è chiaro che per lui il problema della lingua è essenziale. Dunque dubito che la usi in modo tanto povero.
      La traduzione poetica è un’impresa estremamente carica di rischi, e chiunque l’affronti deve mettere in conto l’enorme responsabilità che si assume. E, come ben sappiamo, nella poesia, la parola, il ritmo, il suono sono tutto. Forse è un po’ come un’opera, di cui si legga solo il libretto ma senza musica. Perché il problema non è tanto, o solo, quello che si dice. Ma “come” lo si dice. Ed è in quel “come” che sta tutta la differenza e la poesia.
      La bravissima Letizia infatti lo sottolinea, nel commento, quanto complessa sia la tramatura della lingua di questo poeta, di quanti riferimenti e giochi sia ricca e questo probabilmente si potrà cogliere nell’originale. Purtroppo, lo ripeto, questo non siamo in grado di giudicarlo.

    • letizia leone

      Caro Salvatore,
      penso che tu non abbia commesso nessun errore, è giusto esigere una provocazione emotiva dai testi sia che questi vengano letti prima o dopo le note introduttive e poi l’empatia immediata con un poeta rientra in un orizzonte individuale di attese, in un personalissimo universo interiore, Gadamer parla di “linee orientative e provvisorie” preliminari che fanno sì che ciò che leggiamo in parte sia già compreso… Ma penso che l’efficacia e il successo di una poesia sia anche nell’urto, nella capacità di mettere alla prova le nostre presupposizioni e aprire punti di vista nuovi e questo può farlo solo una poesia di qualità come questa di Cosic, ad esempio. Le sei poesie proposte sono lapalissiane dichiarazioni di poetica orientata nell’eliminazione di ogni intenzione estetica e sentimentale nel perseguimento di una forma moralmente significativa in tempi di crisi.
      Come ha spiegato mirabilmente Francesca da addetta ai lavori qual è, la traduzione svuota la lingua delle sue “virtù”, l’energia del suono in primis e il mondo originario in cui è radicata, tradurre è tradire, eppure l’intelligenza poetica di Cosic ci arriva lo stesso con tutta la sua potenza. Il trauma della storia disarticola l’emozione e pare aver prosciugato lirismi, metafore, epifanie. L’occhio lucido, esplorativo e questo sguardo che raggela (come quello in modi diversi di un Grunbein o di un Rozewicz) sono la spia di una lacerazione profonda, irreparabile…

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