Marie Laure Colasson, Promenade notturna, collage 30×40, 2023 –
La poesia è fare il giro del giorno in ottanta mondi (Anonimo romano)
.
L’eternità è una perdita di tempo
(Antonio Sagredo)
La perdita di valore all’interno della catena del valore rappresentata dalla tradizione
Questo volume è una antologia della poesia di Antonio Sagredo (poeta salentino trapiantato a Roma) che raccoglie le sue poesie dal 1989 al 2018. Il titolo rimanda alla «gorgiera» dei ritratti di Velazquez e al «delirio» di cui quei ritratti sono stati attinti dopo che Freud ha scoperchiato che sotto la «maschera» c’era il vuoto dell’inconscio, un abisso che avrebbe dato la stura alle peggiori nequizie della storia del novecento. La foto in copertina ritrae il giovane poeta sul palcoscenico truccato in modo vistoso con della biacca sul volto e un cappello a cilindro. Per rappresentare il «vuoto» era necessario un locutore che ne parlasse in un suo esclusivo e personalissimo idioletto che facesse scoccare diapason acustici e mixage di registri linguistici dal plebeo al sublime, con il lessico chiesastico che fa scintille con quello da ebreo errante dell’impero asburgico, un linguaggio poetico quello di Sagredo che non sembra avere parentele o filiazioni rispetto alla tradizione poetica italiana. Un libro, dunque, sortito fuori dal nulla del «valore» (da cui l’abisso dell’inconscio) e dal nulla della tradizione poetica (numerosissime sono le recriminazioni di Sagredo contro la triade Ungaretti-Quasimodo-Montale e avverso i riformismi moderati del tardo novecento). Sagredo è davvero un caso di incompatibilità con tutto ciò che gli è attiguo, non è ragguagliabile a nessun altro poeta del novecento italiano, nel bene e nel male, se così si può dire. Il poeta salentino (ma anche romano di adozione) riprende la «linea innica» dei Canti orfici di Dino Campana opportunamente restaurata in un linguaggio inventato di sana pianta salmodiando insieme l’osceno e lo sguaiato con il rococò, sceneggiando il ribrezzo per gli scheletri, i tabernacoli, esaltando la Morte barocca e la putredine degli Angeli in crescendi che sconfinano in una miriade di punti esclamativi. Sagredo balla il suo «fox-trot coi tacchi appuntiti» mentre «gocciano detriti gli obitori», mette in scena una sua ipotiposi maligna, titilla le meningi del malcapitato lettore per spremerne ircocervi, acquasantiere e ippocampi lunari. Il «folle» flusso di parole di Sagredo elaborato senza alcuna geometria euclidea buca lo spazio curvo e la pluralità dei tempi, la costruzione si muta continuamente in de-costruzione, l’autore conduce l’orchestra in un «sapiente» delirio abitato da «Santa Clitoride», «Dulcinea», «Don Chisciotte», il «Minotauro» etc. governato e sorvegliato da un io dispotico e psicotico che, in un certo senso, anticipa la nuova fenomenologia del poetico o poetry kitchen e le si avvicina tangenzialmente; ma Sagredo è Sagredo, il suo linguaggio è un abito tagliato su misura su di lui e su nessun altro. In tal senso, il suo modo di operare linguisticamente è il tipico modus di un linguaggio poetico in perdita, una perdita di valore all’interno della catena del valore rappresentata dalla tradizione, a cui però viene negata ogni rappresentatività e autorevolezza. La stessa ipertrofia dell’io che attraversa il suo linguaggio poetico è più il sintomo di un malore, di una malsania del linguaggio stesso, che non una mera presa d’atto.
Ci troviamo in un orizzonte antiedipico e antimetafisico e quindi post-storico
Se è lecito affermare che ci troviamo in un orizzonte antiedipico e antimetafisico e quindi post-storico, ne deriva che la forma-narrativa e la forma-poesia di base sono quelle «anti-edipica» e «antimetafisica» come l’avrebbero definita Deleuze e Guattari; vale a dire che la forma dello storytelling è diventata una narrazione priva di un limite esterno, di un confine, e priva anche di un confine interno; così la forma-racconto e la forma-poesia si presentano come un intreccio virtuosisticamente alimentabile all’infinito, al pari della marxiana «catena del valore» che non può mai arrestarsi e che alimenta nel capitalismo cognitivo la produzione di beni e servizi pena il crollo simultaneo del sistema tutto. Il sistema lavora come una catena di eventi nella quale sarà sempre possibile aggiungere nuovi anelli, nuove tessere al mosaico, nuove varianti al «valore» e al «disvalore». Sarà sempre possibile aggiungere una piccola tessera alla catastrofe e al disastro.
La catena del valore perde valore
La simmetria stilistica tracima e trasborda in virtuosismo e in anti simmetria. La catena del valore perde valore, diciamo così, ma anche la anti-simmetria perde valore, accumula perdite su perdite. Ne sono tipici esempi nel postmoderno classico i romanzi di Italo Svevo, La coscienza di Zeno (1923), Musil L’uomo senza qualità (1930,1933, 1943) e Il maestro e Margherita (scritto tra il 1928 e il 1940) di Bulgakov, e, nei tempi recenti, I figli della mezzanotte (1981) di Salman Rushdie e Museo dell’innocenza (2008) di Orhan Pamuk. Quello che è avvenuto dopo la seconda guerra mondiale si può riassumere così: nel secondo postmoderno cioè all’avvento dell’età anti edipica e anti metafisica è avvenuto che la forma-narrativa liberatasi dalle pastoie del senso e del consenso ha contaminato la forma-poesia sgretolandola al suo interno: distruggendo l’Autore-locutore, ha determinato il decesso della autorialità, con la conseguenza che sono saltate in aria tutta una serie di retoriche che contraddistinguevano il romanzo e la poesia dell’ottocento e del primo novecento. La jouissance ha sostituito il desiderio, un desiderio lacanianamente forcluso che è strasbordato dagli argini in seguito alla forclusione del Nome-del-Padre e di Thanatos riducendosi a mero symptôme, mera ridondanza, mero mot-valise, mero refrain; così la trama (romanzesca e poetica una volta liberata dalla obeissance al plot e alla ratio del racconto), se ne è andata per i fatti suoi, è stata defenestrata piuttosto che liberata, e così la funzione-autore ha assunto i connotati tipici dello storytelling con ipertrofia e disseminazione dell’Io «smargiasso», «cafonesco» e «derisorio», ovvero, diventando mero elemento accessorio dello storytelling, intreccio senza conclusione, scherzo ludico, patema derisorio e auto derisorio.
Si impone così una nuova concezione della trama: essa, in tempi di miseria simbolica, non viene più intesa come condizione strutturale del desiderio, non chiede più di essere considerata come un elemento determinato dal Finale, tant’è che un critico, Calabrese, parodiando il titolo del celebre lavoro di Kermode, parla di un «sense of a nonending» che dilaga nel romanzo postmodernista e nelle recenti «poesie privatistiche» postate dalle anime sensibili di moda oggi che si cibano di camembert e di vitel tonnè, e magari con tanto di targa pacifista che fa sempre bon ton; quindi: nessun epilogo, nessun archetipo «clausulare» hanno sorretto nel postmodernismo il sogno infranto di un Fine che coincidesse con la Fine. Senza una conclusione (ma con l’intervenuta forclusione), e quindi senza una finalità né un momento di determinazione del senso, il plot deve ricercare la propria ragione testuale nelle variazioni, nelle biforcazioni, nelle deviazioni. A parte ciò, una testualità dovrebbe a questo punto ipotizzare la possibilità di un nuovo tipo di testualità conseguente alla fine della condizione postmoderna, se è vero, come scrive Karl Marx, che «Alles was fest ist, schmilzt in der Luft» (Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria);1 è lecito quindi definire questa forma-narrativa o forma-poesia come «evaporata», «dissolta» «in der Luft» (in aria), con tanto di benedizione marxiana per tutto ciò che appare nella poststoria in quanto volatile, diffusa ovunque negli spazi aperti, priva di una forma specifica, poiché mancante di una figura che la articoli come faceva un tempo lontano l’autore che garantiva l’autorialità del testo. Tutto ciò è evaporato e con essa evaporazione sono evaporate le «forme» e le «parole». Tutto ciò richiama alla mente la «evaporazione del Padre» cara a Lacan.
Miseria del Simbolico
Eliminato il Padre, eliminato il Figlio, eliminato Edipo, eliminato l’Autore, eliminato il Lettore, eliminato Creonte, eliminato il Plot, eliminata la Forma-poesia, eliminata la Parola significante, pontificante, eliminata la Legge del Finale e dell’Inizio sono rimaste le parole nude, quelle gratuite, smargiasse, ipoveritative, idiolettiche, quelle con la blefarite negli occhi e con gli aculei, quelle professionali della catena del valore; resta la Miseria del Simbolico del privatismo riduzionista dei fatti gli affari tuoi, resta la jouissance (rimossa, indecente, onanista: le parole baldracche) la quale, in nome dell’Io (l’Autore) e dell’Anima bella ha iniziato a proliferare in modo incontrollabile e dissennato sotto gli archi della post-storia. La storialità si nutre della Miseria del Simbolico.
Per quanto concerne lo scadimento della dimensione del plot (filmico, narrativo, poetico e narrazionale), si legga il famoso romanzo a puntate che Salman Rushdie sta facendo al computer chiedendo la collaborazione dei lettori della rete per quanto concerne verianti e colpi di scena da inserire nella trama. Tutto ciò è un fatto di enorme importanza, il fatto che un computer sia in grado di scrivere un romanzo anche senza l’apporto guida di un Autore in quanto l’Autore non c’è più, è scomparso. Occorre pensare una teoria plausibile per questa inedita modalità del récit e delle sue ripercussioni sul sociale che sono già in atto da tempo. Nella poesia kitchen ad esempio è già possibile fare una mappatura dei caratteri e delle maschere in nacchere che la forma-narrativa e la forma-poesia hanno ereditato dall’avvento dello storytelling privatistico oggi divenuto quintessenza della poiesis comunicazionale. Il fatto è che la narrazione si è dissolta «in der Luft» (nell’aria) «evaporata» e «dissolta»; la spia di ciò sta in un’ossessiva attenzione alle «parole» gratuite, opportunamente privatizzate e sterilizzate (eufoniche o cacofoniche fa lo stesso) anche a discapito del significato, infatti, nella forma-poesia di Antonio Sagredo e, in modo ancor più vistoso nelle poesie in modalità kitchen, il senso è estroiettato dalla logica narrazionale della forma-poesia del novecento. Il senso del testo è un fuori-senso, un non-senso ultroneo che non dipende più dalla trama in sé (come nella forma-romanzo del novecento), né dalla successione e dalla combinazione degli eventi linguistici (come nella forma-poesia del novecento). Nella poesia che promana dalla Miseria del Simbolico non si può pensare se non in termini di locutore e di locuzione, di grammatizzazioni, di idioletti e non più di successione dei significati e/o di ragionamenti dell’Io empirico (come nella poesia dell’ottocento e del novecento, si pensi alla poesia-ragionamento di Leopardi); in Sagredo e nella poesia in modalità kitchen è la mancanza stessa del Finale e dell’Inizio, la mancanza del Padre e del Figlio, di Edipo e di Creonte che agisce retroattivamente inficiando la grammatizzazione, il logos narrazionale, la forma-poesia che conoscevamo. Forse Sagredo e il Kitchen hanno preso in parola le parole di Heidegger: «Das Nicht nichtet» (Il Nulla nientifica), e operano di conseguenza.
(Marie Laure Colasson, Giorgio Linguaglossa)
1 Karl Marx, Friedrich Engels, Manifest der Kommunistischen Partei [1848], Severus, Berlino, 2017, trad it. Manifesto del Partito comunista, p. 18.
III
Là, rantoli di muffa, delizie, torce
e broccati, ciarle di accesi candelabri,
come sulla via dei misteri fittizie sfingi, Tamerlano
con tamburi e denti le stanze acquetasse
e fosse il tempo solo rostri d’ossa non scarniti.
Lascia che i vermi aspettino!
Perché possano infiniti digitali annullare
i miti con domande e corde, fustigare visioni
e abbracci di Orfei.
E’ solo, è solo il gallo sui crateri!
Le Madri su stampi di fauno, sbiadite, Tommaso!
La tela dei neurini manipoliamo come banderuole:
sono visite cortesi, maschere corazzate
di colomba, surrogati di corone o gemiti imperiali.
Quando la pietra più che al volo
all’indugio spezza l’asta della luce, il tuo cranio
possa lacrimare in barba ai veri morti tra giostre
rinascimenti lutti e spine, renderti giustizia
tra tumuli e tumulti. Caccerò il roditore d’ossa,
non spezzerò il pane,
né il vino offrirò, né il sale,
né il cantico dal passo di lumaca, ma il morso
di un’àncora… col sonno tra le mani, alle analisi
di neve sui divani, la lira e il libro opporrò,
urla fossili, grumi di nere frecce,
il sangue strizzato da una perla al dio compatto.
VII
Gocciano detriti gli obitori.
Arrivo, arrivo! Sono venato di turgori,
lapidi e trapassi! Sono così muto,
che non esisti!
Tubercoli festosi, trilli, tedio e capricci
a raffiche s’avventano incarnati.
Lamie, siate oscene! Come saziate di idoli
nei postriboli gerofanti asceti profeti!
Volubile è il carnefice, questo dolce tenero
sembiante. Che cosa aspetti? Uno spasmo,
un palpito, il solito pallore, e dopo il cauterio
il dono informe di uno sfarzoso madrigale.
Sonagli di tramonti, di arcane pietre.
Trottola, dai moli, ìstighi sospiri, vaticini…
Come brillano i morti, di disastri!
Nei diamanti, mantici e braci!
Rauco deserto, sabbia ossidata, crosta
di spazio terso.
Mano ancora disegni busti
di castalidi cioncate?
Perché l’indugio si muti in ciarle fasti enigmi,
e si scontrino sortilegi talismani con presagi emblemi.
Sei così nudo, che non esisto, poi che il morire
e il vivere sono di Dio, e la risposta…
Muraglie a sciami, letargo delle fonti.
Singhiozzi scuotono cripte, marciano rimorsi,
a grappoli fughe e affanni, bràmiti di sistole
pulsano sindoni: lino e gorgo, copule di sangue,
malumori, piaceri di spine e plasma.
Carne, inchioda la grazia, gli orrori
della divisa scienza!
Guardati, centro, dal libro!
Il seme ha chiuso l’anima nel pozzo.
Fuori nemmeno un corpo genera stirpi.
Abbraccio, fatti volo!
Volo, sei pietra!
VIII
Sommerso da madonne, gorgiere e bende,
che io tra i vivi non lasci la mia morte
agire con guinzagli, disperdere candele e torce
negli oratori o l’intrìco dimenarsi nei turiboli,
poi che il divenire è maculato di festini
e i suoi errori sono portali di scoperta.
Rattratto, cospiro sotto portici gordiani
dall’iride alla selce per spandere garofani e lavande,
resine e drappeggi, amuleti balsami e damaschi,
simulare commiati, divinare dottrine da torbidi recessi.
Sento il dominio di lucrose tiare violare alcove,
sofismi bifronti e lamenti ungulati diffondersi
nei laboratori, scienze e fermento ovunque
entusiasmi agitazioni offrire un cantuccio per l’orrore.
Volati via sigilli e scrigni!
Accidia di lagune!
Livido il pensiero se crivelli digitali frattali
sono preludi virulenti, sterili pannelli… e più felice
conforto la mia mente digiuna di chimere
con altre ombre… da cardini aguzzi idiomi di sirene
e falò s’ergono come verghe… posticcio vagare del sangue.
Garrisce ai vespri, dietro cortine ricami
e frange, il mio disdegno d’aconito e sidro:
venefica baldoria di fanali in fuga verso gli arenili,
gonfie e verdastre le gote dei moli.
Ah, Parche, con cetre arpe lire, non mi morite di suoni!
Non voglio corone vaghe,
criniere, balsami trascorsi…
IX
L’odio ha illustri antenati:
volti gordiani, colori sfigurati.
Sono giallastri ospizi e culle:
succhiano bava, risibili ossa.
Non mi resta che ebbrezza delle ceneri,
fittizie profondità, disfatte crapule.
Troneggiano carcasse, parati di liquami.
Infògnati di quinte e di loggioni
il trucco assapora, lo smorire di fanfare,
nel nudo dilaniare conta i ferrigni
ludìbri e cesella litanie, arringa
i neutrini a trapassare fondali e prosceni.
Vien meno l’oracolo se un ghigno ha parvenza
di querimonie e di coboldi, e nel sinedrio
le smorfie del tetrattico corazzano di sego
adulatori, se nei cunicoli con aguzze gobbe
imbonitori predicano gemiti opulenti
e prezzolati.
Ah, non ho che suppliche di opali, mattinali
rovine, anfiteatri!
Nel sacrario ossuti sogghigni,
spartiti, come tafani, succhiano suoni,
archetti blasfemi, sonate di basalto.
Tetri, in ceppi, anacoreti corvini
udivo marciare nell’estasi cava.
A chi darò la mia luce? Anima è eresia!
Pure sul palco, tra rinunce e approdi,
tu registri grifi e doccioni, sospesi
dai loro gozzi trenodie e zelanti decreti,
bellurie conversari convegni.
Sofferenza è sbadiglio, ferialità.
Deforme vaghezza il ventre. Lusinga,
svilisci il diaframma! Scrigno: agorà
di bisbigli, di crucci
– manciata di sonagli!
Amo le scissioni, le scadenze, le fini che giungono
e a cui tendo, i ferini appelli, i luminosi
geli di finti vuoti, di trafitti nulla.
Aver fede è un orrore recidivo.
(1989)
*
Don Chisciotte ha l’artrosi – il menisco del deserto
è pure una vergogna per il suo cammino e il suo bacile.
Come resero folli i suoi sogni i Libri della Cavalleria!
Il suo cuore era miniato come i libri del Medioevo!
Le quattro labbra di Dulcinea come mulini a vento
furono il sudario di marmo delle sue imprese erotiche.
La finzione eretica fu il trionfo di Santa Clitoride.
(2005)
*
Dulcinea, la Bella, soffriva di visioni in fotocopia,
fu una femmina fatale, cavaliera, esperta di aste armate.
Su una veronica tracciò i punti cardinali
– ah, anima candida! – dei suoi viaggi erogeni.
Pianse la Colomba nell’alcova – pietre!
Era tranquilla, statuaria come una Iside sedotta dai misteri,
lubrificava di continuo le sue quattro ali
perché potessero le sue ginocchia sacrileghe
sollevare il Cavaliere in alto – pozzo o luna –
e abbattere i malleoli del suo Minotauro!
(2005)
4
Non sopporto più dei trionfi le sue ceneri…
E corrosi dalla nostra stessa mente siamo ossessi ad ogni passo
E senza sorrisi sono gli stendardi delle nostre follie – fossili
Nemmeno dissolti , senza storie, si dileguano i cammini dietro muri
A cui noi domandiamo se mai testimonianze dei trascorsi…
Taciturni non vollero dire le ossessioni, gli effimeri ritorni,
I rovesci dei destini e nell’oblio si traviarono… recidivi per antonomasia.
E allora a Narciso domandai:
– Perché non sei morto con la tua maschera riflessa?
– Perché continui ancora a specchiarti?
Mi rispose
– I poeti mi hanno escluso dai grandi miti, non sono che un accattone di riflessi!
Non ci sono più stagni, soltanto accidia di lagune!
Ma noi viventi ancora, solo in apparenza restiamo interdetti
E con la pece del sangue sigilliamo le tristizie…
Rendimi la quiete che un giorno donai al caos,
È da quel giorno che un calice, sugli altari, s’è mutato in rondine ferita
E non so più dove andare, sono decollato di visioni
E non ho che da cantare un madrigale oscuro…
Continuò:
Se fossi stato per un solo istante un satiro o un fauno avresti
Dal tuo spirito cancellato la carnale frenesia, avresti avuto
Come sorella la Medusa a cui confessare fra serpenti i tuoi delitti!
Ora, come me, non sei che un accattone di versi altrui,
Non sei che uno dei quattro angeli di legno inchiodato a un carro
Funebre,
E nemmeno il cigolio delle ruote ti conforta… per te, non è musica!
E se ne veniva giù una voce lugubre : “qui, i poeti…”
E nei loro volti una pietà che invogliava l’animo… scendeva
Dalla soglia della Casa degli Artisti un corteo lunghissimo
E infine una donna di una bellezza velata e offuscata, ma non guasta
un tempo maestosa… sembrava in pianto, sembrava…
Perché dunque la Natura distinse il pianto dei poeti
Da quello delle donne?
E quelle donne che generarono versi come figli amati
Avevano un pianto eguale?
Così mi domandai stretto a quegli umidi muri sulla Kampa
Mentre con le dita inchiodavo gli occhi al Silenziario,
Dove i Morti amano le orbite alla misericordia di una qualsiasi visione!
Non potevo lacrimare – era l’inverno delle solitudini,
Non un albero conservava, non per errore, il ricordo d’una foglia
O la progenie delle proprie radici dove ancora una volta
Si ripeteva la farsa di Orfeo e Euridice… di questi due siamo stufi, infine!
E il muro si strinse le spalle e indossò un cappotto di muschio
Perché s’era dimesso dall’essere soltanto sostegno degli accattoni
E non voleva proteggere alcuno… alzò tacchi e mattoni e se ne andò via.
A far da quinta alle commedie c’era un dramma del bardo
Per imitare dei corvi le pere incenerite del loro piumaggio!
E ascoltai, paziente, se ancora era possibile udire quei due innamorati fantocci
Che ancora recitavano – già fuori di millenni! – lo stesso recidivo abbandono.
Non potevo più donare la mia carità a quei figuri… mutarli in pietra
Non era possibile – c’era già un mito per questo – pensai allora di vestirla
da Maria Stuarda, e lui da misero e coatto Amleto di periferia – e poi la loro fine!
Ma i miti sono duri a morire e non accettano le repliche,
pure, talvolta, è necessario sapere cosa c’è fra una domanda e una risposta!
E ho saputo che un’ occhio di bue diviene basedowico quando
Un gesto è sospeso più di una parola che ha un senso obliato
E vale soltanto per i passeri a cui si gettano perline di rugiada
E non di mollica… e qui esplode il flash della mia misericordia per l’attore
Privo di una parte che non avrà mai e che nel suo risentimento
S’accuccia all’ombra di una quinta ospitale,
E più non vuole essere al centro di una scena
Ah, Madre!
Così mi attraversava la città maliarda, attrice gesuitica, ogni mattino da casa a scuola
E fra vicoli e giravolte il fetore delle urine e quel quarto di romano anfiteatro
Come una latrina… un fetente orifizio sbattuto contro il cielo turchese, Volta
Celeste la madonna di cartapesta e null’altro – nella sua nicchia
Lacrimava – fu scoperta da Carmelo questa Nostra Signora.
Avanti e indietro per la villa comunale – gli sguardi esangui dei mezzibusti di pietra,
E piangevo, io, a vedere quella lupa adolescente torturata come me
Oscillante fra le sbarre – creatura vittima di un urbano simbolo
– orgoglio cittadino – che schifo!
Miravo di Giulio Cesare ogni giorno lo sguardo ateista
Il suo sdegnoso volto… nemmeno di marmo, per la madosca! –
Aspettava da me un poema! – e l’ho scritto con le sue fiamme, sotto il Rogo, infine!
Infiammati di dio e d’arte – non si sono mai incontrati.
Avevano di che chiedere soltanto stagioni d’amori mai sognate,
E la necessità retrattile di una entità metafisica !
(Parole Beate, 2016)

antonio sagredo-1971
Prove in versi
Dal viottolo se ne veniva la maschera ciondolante di un presagio di cera
che mal recitava un epitaffio mai prescritto e un necrologio non sapeva cantare.
Te ne stavi come una cariatide dismessa dalla gravità, e dietro una quinta
cartacea le tue dita torcevi, e inabile fra i serpenti eri gelosa di Atlante.
L’urlo sbandierato della risacca era lo sberleffo di un acrostico lacustre,
un refrain recitato in falsetto a malincuore da una banderuola disossata.
Miravo per te un tramonto di biacca come fosse una ciambella veneziana,
il bianco marcio di un uovo affettato come ai tempi di Boris.
Mi ricordai dei rigagnoli fetidi della mia città natale, i coriandoli
ossuti dei miei pensieri e i concreti sogni di un banale quotidiano,
come scintille di fatue effimere senz’ali! La marina attonita per il mio passo
infantile. Le rivoluzioni della Purezza nello stazzo di un cortile.
Mi opprimevano le notturne filologie di parole polari e i fonetici echi
sui lastrici rossastri dei chiassetti. Le oscene lingue boreali delle lanterne
s’accasciavano come prostitute in deliquio, e le vocali davanti ai suoni stellari
delle consonanti… ero… ero… ero ubriaco di frammenti!
Urlavano gli occhi dei legni stremati per la culla di sesse oleose:
se non c’è da creare più nulla, perché continuare a morire inutilmente!
e il mare ballava il fox-trot coi tacchi appuntiti dei marosi sui moli…
( 2017)
Feretro notturno, e scabroso
Il feretro non aveva i colori violetti dei tramonti in fuga,
soltanto gli occhi equini dei becchini nitrivano alle stelle.
Quattro angeli scesero dal carro avvinazzati dalle lacrime.
Il selciato come i tasti di un pianoforte batteva il ritmo
dei loro passi fra occhi di cartapesta, cieli turchesi e dita in frantumi.
E non avevi nemmeno una gloriuzza che t’ingannava per uno squamoso
desiderio, ma hai sognato la notte e il tempo avviluppati nel tuo disappunto,
e dalle celesti quinte ti domandavi : Amore egizio, dov’è la mia destinazione?
Per il tuo disamore non mi restava che la cenere di una voce sulla viscida soglia
e la pelosa notte di Olimpia che leccava gli acuti spilli del suo cantare.
E se una straniera morte non mi è di conforto in quali labirinti io devo nascondermi?
Deforme un eco lunare da uno specchio : soltanto la Vita non ha pietà per l’uomo!
(2017)
Prove in versi
Dal viottolo se ne veniva la maschera ciondolante di un presagio di cera
che mal recitava un epitaffio mai prescritto e un necrologio non sapeva cantare.
Te ne stavi come una cariatide dismessa dalla gravità, e dietro una quinta
cartacea le tue dita torcevi, e inabile fra i serpenti eri gelosa di Atlante.
L’urlo sbandierato della risacca era lo sberleffo di un acrostico lacustre,
un refrain recitato in falsetto a malincuore da una banderuola disossata.
Miravo per te un tramonto di biacca come fosse una ciambella veneziana,
il bianco marcio di un uovo affettato come ai tempi di Boris.
Mi ricordai dei rigagnoli fetidi della mia città natale, i coriandoli
ossuti dei miei pensieri e i concreti sogni di un banale quotidiano,
come scintille di fatue effimere senz’ali! La marina attonita per il mio passo
infantile. Le rivoluzioni della Purezza nello stazzo di un cortile.
Mi opprimevano le notturne filologie di parole polari e i fonetici echi
sui lastrici rossastri dei chiassetti. Le oscene lingue boreali delle lanterne
s’accasciavano come prostitute in deliquio, e le vocali davanti ai suoni stellari
delle consonanti… ero… ero… ero ubriaco di frammenti!
Urlavano gli occhi dei legni stremati per la culla di sesse oleose:
se non c’è da creare più nulla, perché continuare a morire inutilmente!
e il mare ballava il fox-trot coi tacchi appuntiti dei marosi sui moli…
Roma/Campomarino, giugno-settembre 2017
Antonio Sagredo (Brindisi, Salento, 1945) vive a Roma. dottore in Lingue e letterature slave è un profondo conoscitore e prolifico recensore e studioso della letteratura russa del XX secolo (Majakovskij, Pasternàk, Mandel’štam, Cvetaeva, ecc.) e ceca (in particolare le opere di Josef Kostohryz, di Otákar Březina su cui scrisse la sua tesi di dottorato) – e anche della cosiddetta «Generazione della Nuova Poesia ceca (contemporanea a quella del G-27 spagnolo), di cui fanno parte anche i maggiori poeti come Vladimír Holan, Jaroslav Seifert Vitĕslav Nezval e František Halas). A Roma frequentò spesso Carmelo Bene ed è debitore dichiarato dell’insegnamento di Angelo Maria Ripellino, che dedicò alla storia del teatro del secolo XX° tanta parte della sua vita. Le poesie di Sagredo non sono state pubblicate in Italia fino al 2016 (Capricci, Roma, GSE Edizioni), ma sono state pubblicate per la prima volta in Spagna: la poesia “Nego il volo alla colomba” è apparsa nei “Fogli Creazione” di Malvís, numero 1, Madrid (1988). Nel 1991 con una presentazione del poeta Manuel Martínez Forega, il numero 17 della rivista Turia ha offerto un campionario più ampio della sua poesia e, nel 1992, con una traduzione di Inma Muro e Ángel Guinda e un’introduzione di Martínez-Forega, Lola Editorial ha presentato le sue Tartarughe nella collezione “Cancana” (n. 5, 1993). Sempre in Lola Editorial, questa volta nella sua raccolta “Libros de Berna” (nº 8, 2001), appare Poemas, la cui selezione e traduzione è stata curata da Joaquín Mateo Blanco. Infine, la traduzione in inglese della prima delle sue Legioni (1989) è apparsa negli Stati Uniti in Poemas nel 2015, traduzione di Sean Mark. Autore di diversi poemetti inclusi nei Poemas e nelle successive raccolte. Seguiranno la prosa misurata e precisa de Il Giardino (Roma, GSE Edizioni, 2018) e le poesie in La gorgiera e il delirio (Fasano, Schena Editore, 2019). E prossimamente entro il 2023 la prosa “picaresca” dell’Arrábbico.
È passato il tempo di Godot e di Ionesco
Oggi non c’è più niente di significazionabile; restano soltanto situazioni, negoziazioni, giaculatorie, posiziocentrismi: si sta in attesa che avvengano delle situazioni vantaggiose; si sta in attesa di indirezioni, distopie, discronie, disfanie; si avverte la presenza di labirintiti, disforie, instabilità, fluttuazioni, situazioni.
La poiesis è nient’altro che il mostrarsi di questo daltonico situazionismo della coimplicazione
È una zona di compromissione e di coimplicazione nella quale siamo tutti coinvolti tra indifferenza e cinismo, tipica del Dopo il Moderno. La spinta delle avanguardie artistiche, dal futurismo a dada, dal surrealismo al ready made, sino al loro prolungamento nel dedalo dell’arte concettuale post-bellica si è esaurita, la provocazione è diventata una pratica remunerativa, una modalità accettata e condivisa, anzi addirittura sollecitata.
La storialità si nutre della Miseria del Simbolico.
Anni di tv commerciale e intrattenimento hanno ridotto notevolmente la nostra capacità di mantenere alta la concentrazione. il Titanic è affondato! Poesia dovrà accomodarsi in scialuppe di salvataggio, rinunciare a bagagli culturali e sentimenti che ingombrano e appesantiscono. Ma per fortuna, oggi esistono gli audiolibri – sì, quell’orrore che persone assennate non possono considerare, piuttosto farsi lunghe passeggiate – perché, e Sagredo lo dichiara, sono finiti i tempi in cui poeti giovani e meno giovani sognavano di offrire manicaretti… alla santa voce di Carmelo Bene. E io per questo suggerisco l’audiolibro, non allo scopo di facilitare la lettura a menti svagate (come la mia), ma perché questi di Antonio Sagredo, versi pregevolissimi, sembrano scritti apposta per voce recitante.
Francesco Paolo Intini
6 febbraio 2022
Porsi il problema dell’interlocutore non è di poco conto. Esso implica che in qualche modo ci sia una direzione dei propri versi, lungo la quale si muova una specie di tir col carico di significati e che alla fine dell’autostrada si trovi qualcuno a cui consegnare la merce. Penso che gran parte della poesia moderna sia riconducibile a questo schema lineare che vede le vicissitudini dell’io coincidere con le aspettative di chi legge. Ma cosa è possibile ottenere da un corto di tal genere? Quando leggo cose così provo davvero noia e un senso di fastidio incoercibile. Per questo provo a lavorare all’interno di un’ arte che sia in grado di proporsi nella regione degli scarti di calore per riportarli indietro, accoglierli in un senso che non va esattamente nella direzione degli eventi ma in quello che vede il volto nascosto della luna e con essa interloquisce. Ecco, lì mi sento a casa:
Marie Laure Colasson
6 febbraio 2022
caro Lucio,
è vero, la poetry kitchen ha smobilitato il discorso poetico, lo ha decostruito, lo decostruisce di continuo. Nessuno di noi fa più un discorso poetico, ognuno se lo fa per se stesso e se lo cuoce e se lo deglutisce. Il bello della modalità kitchen è che ciascuno può pescare nella propria soggettività (evanescente) quello che vuole, al contrario dei poeti elegiaci che partono dal principio di affidarsi alle virtù balsamiche della soggettività salvatrice.
Questa poesia è veramente felice, perché scritta con un linguaggio individualissimo, scritta durante un terremoto della 9a scala Mercalli. Sei stato per caso in Indonesia? (attento allo tsunami!). Ma sì, noi tutti facciamo poesia ma senza prenderci sul serio, della seriosità dei poeti elegiaci, si fa poesia perché è un nulla di nulla e non conta nulla, perché «l’essere svanisce nel valore di scambio» (Heidegger). Almeno questo lo diciamo, senza il «sublime» e senza le furbizie degli elegiaci, chi continua a irrorare poesia antropocentrica dimostra di essere un ingenuo.
Luce e oscurità. Nella luce scegliere tra abbaglio e chiarezza, nell’oscurità, accorgersi dei toni sacrificali con cui si sostiene l’inevitabilità della guerra – come già nel Mahābhārata, poema del I/II secolo dopo Cristo, il consiglio di Krishna ad Arjuna – Così ogni giorno i nostri telegiornali, perché guerra s’ha da fare, pure che nessuno va più a votare, adesso inquadrano sfracellamenti, affinché si capisca che a qualche rinuncia bisogna pur cedere. Ecco, fare chiarezza, come Dante, semmai.
E non trattare la gente come bambini ignoranti e indisciplinati. Qui è l’oscurità.
caro Lucio,
che cosa significa la frase di Lacan: «Io mi identifico nel linguaggio, ma solo perdendomici come un oggetto»?
Nelle tue composizioni instant, ad esempio, noto una resistenza dell’io con evidenti esternazioni di quell’io che ha preso alloggio nella tua poesia. Lo capisco, non è semplice trasformarsi in un oggetto e perdersi nel linguaggio. Io, ad esempio, confesso che la poesia che trascrivo qui sotto ho dovuto faticare alcuni mesi e almeno dieci revisioni per raggiungere un discreto stato di perdizione come oggetto nel linguaggio:
Il capotreno ha sparato nel mucchio di lavatrici “Indesit”
Ne è uscito fuori un ometto con i baffetti alla Putler
che ha preso a scodinzolare dietro le natiche di Ilona Staller sul set del porno movie “Io sono Ilona” sussurrandole «Ja liubliù»
All’epoca il corvo giocava a scacchi con le bretelle del mago Woland
ma non ci fu un ritorno
La gallina Nanin ha preso un tè alla menta con il Sig. Euclide
Esclama:
«Dobbiamo fare piena luce sul teorema di Pitagora!»
Diomede si sedette sulla vasca idromassaggio e cominciò a radersi la barba
La torre Eiffel prese a tossire
Fu allora che Madame de Sevigné ficcò la testa nel casco della permanente
Così, il canto delle tamerici si confuse con il meriggiare pallido e assorto del poeta Montale assiso sul sofà all’Hotel Excelsior di Venezia
«Questa notte è venuto a mancare quel cornuto di mio marito»,
mormorò la Signora Lollobrigida
L’esattore delle tasse Woland si presentò al Ministero della Verità dicendo che il poeta che da anni leggeva solo se stesso venne in seguito deposto dal re longobardo Alboino
Ma non ci fu nessun armistizio
L’ho scritto, in questo instant:
In poesia, il posto della significazione è negli strumenti.
Sarà perché mi giudico inetto, se ammiro le persone intraprendenti?
Hai voglia. Guarda le tortore.
Sull’ego, sull’Io, in Foglie autunnali.
LMT
Appare e scompare, l’Io, come ogni altra cosa. Quindi do ragione a Lacan. Ma anche a me infastidisce, quando sorge è per debolezza e di solito me ne sbarazzo. Ma più spesso è maschera… Per questo, mi sono detto, l’Io, come anche la significazione, sono strumenti, quasi figure retoriche. Poi dipende dall’autore, dai suoi interessi e qualità: nel corso dei pensieri che generano poesia, a sorpresa, la significazione giunge come rivelazione… che può farsi dialogo, citazione, o solo essere nominata. Insomma, massima ma attenta libertà. Nelle poesie totalmente estroverse, che parlano delle cose del mondo, può venir meno l’aspetto ontologico. In questi casi viene in mente Ezra Pound, che, ne sono sicuro, in altra forma tornerà prima o poi alla ribalta. Perché nulla, in futuro, verrà dimenticato.
Inoltre le mie frecce sono rivolte a Basho, quattrocento anni dopo. Così mi piace pensare;)
Sono di accordo cone Mayoor nel suo primo intervento, e con l’audiovisivo mi ricorda i primi anni miei ’70 quando la poesia visiva era di moda, ma guardavo con prudenza, poi mi sono do viuto un po’ ricredere.
Poi per essere di accordo ancora con Te ringrazio per i “versi pregevolissimi”, di cui sono il primo estimatore: e quanto riguarda il buon Carmelo dici cose buone: chi lavorò con lui i primi diaci anni, come lo scenografo Vendittelli ultranovantenne (fine anni ’50 fino alla metà circa degli anni ’60) lo definisce un “gran bastardo”, ma IN POSITIVO, poiché il sommo regista, come era nel carattere salentino, era anche maestro di brutti scherzi, ma in fondo perdonati.
buon lavoro caro Mayoor, e stai in attesa del mio nuovo libro!
ciao, antonio