
L’io non è più il soggetto attivo dell’esperienza. L’inautenticità è divenuta la condizione base dell’esistenza
Franco Di Carlo (Genzano di Roma, 1952), oltre a diversi volumi di critica (su Tasso, Leopardi, Verga, Ungaretti, Poesia abruzzese del ‘900, l’Ermetismo, Calvino, V. M. Rippo, Avanguardia e Sperimentalismo, il romanzo del secondo ‘900), saggi d’arte e musicali, ha pubblicato varie opere poetiche: Nel sogno e nella vita (1979), con prefazione di G. Bonaviri; Le stanze della memoria (1987), con prefazione di Lea Canducci e postfazione di D. Bellezza e E. Ragni: Il dono (1989), postfazione di G. Manacorda; inoltre, fra il 1990 e il 2001, numerose raccolte di poemetti: Tre poemetti; L’età della ragione; La Voce; Una Traccia; Interludi; L’invocazione; I suoni delle cose; I fantasmi; Il tramonto dell’essere; La luce discorde; nonché la silloge poetica Il nulla celeste (2002) con prefazione di G. Linguaglossa. Della sua attività letteraria si sono occupati molti critici, poeti e scrittori, tra cui: Bassani, Bigongiari, Luzi, Zanzotto, Pasolini, Sanguineti, Spagnoletti, Ramat, Barberi Squarotti, Bevilacqua, Spaziani, Siciliano, Raboni, Sapegno, Anceschi, Binni, Macrì, Asor Rosa, Pedullà, Petrocchi, Starobinski, Risi, De Santi, Pomilio, Petrucciani, E. Severino. Traduce da poeti antichi e moderni e ha pubblicato inediti di Parronchi, E. Fracassi, V. M. Rippo, M. Landi. Tra il 2003 e il 2015 vengono alla luce altre raccolte di poemetti, tra cui: Il pensiero poetante, La pietà della luce, Carme lustrale, La mutazione, Poesie per amore, Il progetto, La persuasione, Figure del desiderio, Il sentiero, Fonè, Gli occhi di Turner, Divina Mimesis, nonché la silloge Della Rivelazione (2013) con prefazione di R. Utzeri; è del 2019 La morte di Empedocle.

da sx Franco Di Carlo e Giorgio Linguaglossa, Roma, 2017
Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa
Gianni Vattimo ha affermato a metà degli anni ottanta che il post-moderno non può essere soltanto la riduzione della forma-poesia alle mode culturali, suo tratto distintivo è la tendenza «di sottrarsi alla logica del superamento, dello sviluppo e dell’innovazione. Da questo punto di vista, esso corrisponde allo sforzo heideggeriano di preparare un pensiero post-metafisico». Oggi, nell’epoca che segue il post-moderno, la tecnologia è la diretta conseguenza del dispiegamento della metafisica, ecco spiegata la ragione del grande ruolo che la «tematica» svolge nella poesia di Franco Di Carlo. Il poeta diventa pescatore di perle e di stracci, di plastiche marine e di rottami di antichi velieri. Walter Benjamin ha intuito con grande acume che il filosofo e l’artista devono diventare dei «pescatori di perle», devono soffermarsi su oggetti apparentemente non degni di attenzione, sugli «stracci», su aspetti generalmente ritenuti trascurabili e negletti dallo sguardo ufficiale degli addetti alla narrazione culturale. Questi oggetti, questi luoghi privilegiati sono i frammenti che la megalopoli globale mette in mostra nelle sue vetrine e nei suoi passages capaci di investire i passanti con continui choc percettivi. Il mondo moderno è una archeologia di traumi e di miracoli, di frammenti impazziti che sostituiscono la contemplazione statica da un punto di vista esterno con la «fruizione distratta» di un punto di vista in movimento.
Per Walter Benjamin «l’immagine è dialettica nell’immobilità», e le immagini si danno soltanto in «costellazioni» tematiche o iconografiche. Ecco spiegata la struttura iconologica della poesia di Di Carlo, una poesia fitta di stratificazioni mentali, di anelli frastici concentrici.
Il pensiero poetico contemporaneo sta cercando di affrontare, affidandosi al linguaggio della poesia, gli spazi che la filosofia post-moderna e la filosofia «debole» di questi ultimi decenni hanno aperto all’orizzonte come possibilità di raccontare la vicenda umana. Il linguaggio poetico di Franco Di Carlo vuole tentare le colonne d’Ercole dopo l’avvenuto «naufragio dell’essere», vuole andare «oltre la linea del fuoco… La linea della soglia…[dove c’è] un varco [di] ceneri e rovine. Detriti… valori morti… Lì ora dimora la parola. E la sua ombra». Il pensiero poetante vuole affacciarsi alle interrogazioni sulle condizioni dell’esilio dall’esistenza. L’io non è più il soggetto attivo dell’esperienza ma un io ripiegato su se stesso, che sa che «Si vede forse/ un nuovo orizzonte,/ L’ultimo./ L’inizio di un passo nel nulla…», ma è esausto per il lungo cammino intrapreso, ormai mancano le forze. La pasoliniana «libertà espressiva» è diventata «La libertà di scegliere la morte… Nel frammento./ O pure la morte del frammento. O il frammento/ della morte». È qui in questione la stessa possibilità del pensiero poetante di pensare di andare oltre la «soglia». Ma intanto la storia procede, le domande sono sempre più numerose e il pensiero poetante non riesce ad abbozzare «una» risposta.
Nell’epoca del declino dell’Essere «Tutto è dileguato ormai. L parola noetica/ e quella intuitiva e poetica», «La patria è lontana e irraggiungibile», il cerchio si è concluso «Dal Mythos al Logos. Dal Logos al Mythos». L’inautenticità è divenuta la condizione base dell’esistenza umana, e il pensiero poetante non può che naufragare nel cincischiare del si inautentico. Per Heidegger il ricordo (“Erinnerung”) della verità dell’essere «costituisce […] la radice dell’esistenza autentica […], la dimenticanza della verità dell’essere (“das Vergessen der Wahrheit des Seins”) come ricordo ed elaborazione della verità dell’ente, è lo stesso costituirsi della metafisica tradizionale nella direzione ontica dell’ontologia».1
Per Di Carlo la caduta nella certezza del Nulla è, dopotutto, confortante, il poeta di Genzano prova un abbacinante godimento nel naufragio dell’ente, nel rilassamento (Gelassenheit) che interviene un attimo prima del compiersi del naufragio, essendo l’esistenza nient’altro che questo attimo che si prolunga in vista del naufragio.
Tutto il poemetto è venato da questa sorta di spossamento e di rilassamento, quasi una resa dinanzi alla constatazione del declino della civiltà occidentale, «possiamo solo ragionare sul linguaggio» scrive Di Carlo, sulle modalità di comporre in linguaggio la questione ben più scottante del «naufragio dell’essere», che non può non coinvolgere anche il naufragio del linguaggio quale suo epifenomeno. Di qui il tono da epicedio, quasi un salmodiante incespicare dei versi, e tra i versi, irregolari e acuminati, disposti senza alcun ordito o ordine apparente.
È tutta l’impalcatura del pensiero poetante che rischia in ogni istante di periclitare e soccombere sotto la pressione di soverchianti forze divergenti che tendono a portare a dissoluzione la struttura metrica e il lessico oscillante tra le parole della metafisica filosofica e quella poetica, in una commissione graffiata e adulterata che il linguaggio del pensiero poetante trascina con sé insieme alle rovine, ai relitti e ai detriti della storia.
1 M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, Adelphi, Milano 1995, p. 84
Franco Di Carlo
Il naufragio dell’essere
Oltre la linea del fuoco.
C’è un luogo.
Tragico e sacro. Qualcosa di scritto.
E anche di detto.
La linea della soglia. Un limite. Un confine. Forse
un varco bianco.
Ceneri e rovine.
Detriti sopra l’abisso e il deserto. Valori morti.
Lasciati e finiti.
Lì ora dimora la parola. E la sua ombra.
Al termine del viaggio e della caduta. Si vede forse
un nuovo orizzonte.
L’ultimo.
L’inizio di un passo nel nulla. Un passaggio.
Lucente.
La libertà espressiva.
La libertà di scegliere la morte. Lo spavento
notturno.
Nel frammento.
O pure la morte del frammento. O il frammento
della morte.
L’amore per l’arte e un eros dispiegato e amichevole.
L’enorme diviene normale.
E la regola l’abnorme.
Resistenza contiene le déréglement du néant.
E il suo avanzare.
Strappi. Residui.
Lacerazioni. Resti. Pezzi. Rottami. Rimanenze.
Discordie e Dissonanze.
La parola si muove in questa vicinanza nostalgica.
Ormai quasi distrutta.
Prossima alla fine.
Pensiero e poesia cercano diverse forme. Espressioni
nuove.
Nell’Epoché divisa.
Nel taglio del tempo che spezza e separa.
Vie diverse tra sentieri
ininterrotti o semplici segnali. Troia è ormai
bruciata. E Odisseo
e Enea non torneranno più
per fondare o ritrovare
città morte.
La patria è lontana e irraggiungibile.
Dal Mythos al Logos. Dal Logos al Mythos.
Tra scorie e scarti. Schegge.
E non nasceranno più
nuovi regni (dell’esilio). La mente non può
più rappresentare il nulla.
Né l’antico. Né il passato.
L’Essere è frantumato. Fatto a pezzi.
Incenerito.
Come l’io e il soggetto. Dimidiati. Spezzati.
Separati. Divisi.
Tutto è dileguato ormai. La parola noetica
e quella intuitiva e poetica.
Mitica.
La conoscenza immaginativa e la sua idea concettuale.
E il Mito inespresso (finché è vivente).
E l’ansia postuma del Post-moderno.
È necessario
un pensiero radicale che va al di là dell’idea
manieristica del nulla.
E dei modi e delle mode del Moderno ormai morto.
E della sua cadaverica copia post-moderna ormai annebbiata.
Del male e del Caos.
È inevitabile effettuare una sosta.
una riflessione. Una pausa. Un cammino lento.
Nel nulla.
Qualcosa di scritto. Un’orma. Una traccia.
Non si può più solo ricordare l’Essere.
Ma dimenticarlo.
E creare una forma diversa.
oltrepassare il recinto e il confine.
Attraversare il Nulla. E l’Essere
del Nulla.
Il passo e il passaggio oltre
il limite dell’essenza del linguaggio.
Il luogo (spaziale) dell’Essere e del suo Principio
ontologico. L’istante metafisico.
L’essere nichilistico. E quello positivo.
E il suo spazio temporale. Il taglio
teso. L’immagine temeraria.
Dell’Inizio.
Come intese Platone: l’Immagine mobile
dell’Eterno e del cielo.
Andare oltre l’Aion e abbandonare l’Ospite
e se stessi.
Lasciarli naufragare e sommergere dal mare.
La procronia. Il tempo primo.
Dell’origine. Che tutto precede.
O prima del tempo. Il primo tempo.
Il cammino è continuo. Senza fine. E pieno
di rischi e sassi
sotto i passi.
Non conosce riposo o quiete.
Né addomesticamenti o svaghi o motti di spirito.
Solo durata e lunghezza.
Senza illusioni.
Di arrivo o di una meta.
Comunque seguendo sempre il Progetto. Il Mistero
della luce lenta e discorde.
Dell’essere del Nulla.
Possiamo solo ragionare sul linguaggio.
Programmare il Segreto del Mysterium.
Non scriverlo né dirlo.
Nuove Forme Diverse.
Cercare il Sentiero e la Via.
Il percorso diverso nel bosco della Metafisica.
Verso l’Origine (dell’Essere).
E la sua fine.
È morta definitivamente la simbiosi tra Anima
E Natura. E Cose.
Tra Pulchrum Verum Bonum et Iustum.
Ma l’essere è franto, fragile e vinto.
Decentrato. Smarrito.
Fatto di frammenti e frantumi. Macerie e avanzi.
Ruderi e sconnessioni.
E avvicinarsi al linguaggio diviene impossibile.
E pericoloso.
Un Logos sconnesso, distratto, distrutto.
Frantumato.
Un passo verso al sua grigia Ombra.
La parola diversa diviene
però Fonè e insieme Logos. Voce. Discorso.
Parola di poesia che parla e ragiona.
Con tutti e di tutto.
Con la quotidianità e la melanconia. Dolore e Gentilezza.
Diabolico e divino.
Con la polis e la storia. La morte e i morti.
La bellezza e la verità.
Amore e libertà. Con la realtà del Mito.
Il tempo. La memoria.
Con la stessa poesia. E la filosofia.
Il nulla e il vuoto. L’essere e il mistero.
Con l’epoca e il sacro.
Liberazione e consolazione e rivoluzione.
Altezze e cadute.
Una diversa visione del mondo e delle cose.
Ma sopra tutto con chi scrive e chi legge.
I libri infatti parlano
tra di loro. Se non nelle biblioteche, nella mente
di chi li apre per entrarvi.
Il poeta scrive e descrive.
Parole tese e attive conoscitive. Di pensiero
e di realtà.
Parole intransitive e sincroniche.
Che vivono in un’unica forma di spazio.
(geometrico). Compatto.
E di tempo, fatto di parti di cristalli.
Perfettamente presente.
Spazi e tempi centrifughi e sempre mobili e cangianti.
un metro di attimi anonimi. E istantanei.
un tempo spazializzato.
Relativo e soggettivo.
Di polveri e atomi.
uno spazio poliedrico e cristallizzato.
E temporalizzato. Di rombi e cerchi.
È l’Essere che la parola declina. In tempi
irregolari e pulviscolari.
in spazi fatti di istanti e decentrati.
Memorie e perdite. Oblìo.
Dispersi e invisibili nell’ombra lunare
del Nulla.
L’ontologia metafisica e predicativa delle parole.
E delle Cose.
Res non sunt nomina.
Dimensione progettuale gettata fuori.
Nella poesia in-attuale.
E nel suo racconto.
Diverso.
Lux discors et aeterna.
Che è lontana.
E distante. E va verso.
L’Oltre.
Dove anche gli dei non sono vicini.
di Domenica Giaco posto un suo componimento in stile pseudo haiku:
In quell’ agonia di petali
conobbe
la mano innocente
Avevo dimenticato di dire che con questo poemetto Franco Di Carlo muove un passo importante verso la configurazione di una «nuova poesia», e lo fa perché ha rinunciato a compattare il metro e la strofa in «sistemi chiusi» ed è riuscito a disarticolare sia il metro che la strofa… fino a porre il fine verso in modo «casuale» o, cmq, fuori norma, o fuori scuola. Dalla disarticolazione alla decostruzione totale del metro e delle strofe c’è ancora un percorso ma il poeta di Genzano è in cammino, avanza con passo deciso in quella direzione…
Se dovessi gettarmi con il paracadute da un aeroplano, quota 8000, anch’io mi darei tempo per fare qualche considerazione. Lassù, come per Di Carlo, nell’avventura già iniziata. – Dire del volo è perdersi la parte migliore – Porre fine ai tentennamenti, e via-da sé! In modo che siano le parole, se non le parole le immagini. Comunque fare un passettino verso l’inconscio, oltrepassare l’invisibile. Altrimenti è torre di controllo: è tutto a posto – volo libero e paracadute di agile frammentazione; tempo sereno ma ventoso…
A quota 8000 è difficile distinguere le nazioni, le razze, l’amore, l’angoscia… periferie e spiagge del Millionaire…
Franco Di Carlo, qui proposto dall’amico Giorgio Linguaglossa con una coltissima nota critica, a me pare che abbia dato uno scossone (definitivo…?)
al suo consueto fare poetico e ai lettori offre un poemetto linguisticamente e ritmicamente omogeneo il quale poemetto, anche per la perentorietà della punteggiatura fondata sull’impiego secco dei punti, è alto esempio di “poesia pensante” e di, ricordando l’affermazione finale del nostro Linguaglossa, di “pensiero poetante”. Credo che andrò a cercare in alcuni capitoli di quel capolavoro che è “L’uomo senza contenuto” di Giorgio Agamben alcune risposte sui tanti motivi laceranti che Franco Di Carlo pone, o im-pone, alla nostra coscienza, precisamente sul versante dell’auto-annientamento dell’arte in generale e della poesia in particolare, alla nostra coscienza di occidentali che, come serpeggia nella ermeneutica di Giorgio Linguaglossa sui versi dicarliani, che hanno smarrito i legami con il passato e non riescono a ritrovare se stessi nella storia, perché uomini
“Dispersi e invisibili nell’ombra lunare
del Nulla.”
(gino rago)
Franco Di Carlo, qui proposto dall’amico Giorgio Linguaglossa con una coltissima nota critica, a me pare che abbia dato uno scossone (definitivo…?) al suo consueto fare poetico e ai lettori offre un poemetto linguisticamente e ritmicamente omogeneo il quale poemetto, anche per la perentorietà della punteggiatura fondata sull’impiego secco dei punti, è alto esempio di “poesia pensante” e di, ricordando l’affermazione finale del nostro Linguaglossa, di “pensiero poetante”.
Credo che andrò a cercare in alcuni capitoli di quel capolavoro che è “L’uomo senza contenuto” di Giorgio Agamben alcune risposte sui tanti motivi laceranti che Franco Di Carlo pone, o im-pone, alla nostra coscienza, precisamente sul versante dell’auto-annientamento dell’arte in generale e della poesia in particolare, alla nostra coscienza di occidentali che, come serpeggia nella ermeneutica di Giorgio Linguaglossa sui versi dicarliani, hanno smarrito i legami con il passato e non riescono a ritrovare se stessi nella storia, perché uomini
“Dispersi e invisibili nell’ombra lunare
del Nulla
Franco Di Carlo, nei suoi versi, e Giorgio Linguaglossa nella dotta nota critica, conoscono assai bene la differenza fra memoria ‘ banalizzante’ e memoria ‘sacralizzante’, da rigorosi studiosi delle idee quali ho da anni avuto modo di verificare e di apprezzare.
Per questo vorrei integrare il mio commento con questo pensiero di Todorov:
“Per disfarsi di un’ideologia manichea, erede delle dottrine totalitarie, che divide l’umanità in due metà ermetiche, i buoni e i cattivi, noi e gli altri, la cosa migliore è non divenire a propria volta manichei. Un precetto per il prossimo secolo potrebbe essere: iniziare a combattere non il male in nome del bene, ma la sicurezza di quelli che pretendono di sapere sempre dove si trovano bene e male; non il diavolo ma ciò che lo rende possibile: il pensiero manicheo stesso”.
(gino rago)
Fredric Jameson nel 1984 pubblica un esile libro, Postmodernism, or the Cultural Logik of Late Capitalism. Ecco l’incipit:
«Questi ultimi anni sono stati caratterizzati da un millenarismo alla rovescia, in cui le premonizioni del futuro, catastrofiche o redentive, hanno lasciato il posto al senso della fine di questo o quello (la fine dell’ideologia, dell’arte o delle classi sociali; le “crisi” del leninismo, della socialdemocrazia o del welfare state, ecc, ecc.); considerati complessivamente, tutti questi fenomeni costituiscono forse ciò che sempre più spesso viene chiamato postmoderno. La sua esistenza dipende dall’ipotesi di una rottura radicale o coupure, che viene per lo più fatta risalire agli ultimi anni Cinquanta o ai primi anni Sessanta.
Come suggerisce la parola stessa, questa rottura è riferita il più delle volte ai concetti di eclisse o di estinzione del centenario movimento moderno (o al suo rifiuto ideologico o estetico). Così, l’espressionismo astratto in pittura, l’esistenzialismo nella filosofia, le ultime forme di rappresentazione nel romanzo, i film d’autore, o la scuola poetica modernista (così com’è istituzionalizzata e canonizzata nelle opere di Wallace Stevens), sono tutte manifestazioni considerate ora come l’ultima, straordinaria fioritura di un rigoglio tardo-moderno, che si è concluso ed esaurito con esse. Un elenco di ciò che viene immediatamente dopo si fa empirico, caotico ed eterogeneo: Andy Warhol e la pop art, ma anche l’iperrealismo e, più tardi, il “nuovo espressionismo”; nella musica John Cage, ma anche la sintesi di classico e “popolare” in compositori come Phil Glass e Terry Riley, e il punk e il rock new wave (di questa tradizione più recente e in rapida evoluzione i Beatles e i Rolling Stones rappresentano il momento del moderno-avanzato); nel cinema, Godard, post-Godard, video e cinema sperimentali, ma anche un genere completamente nuovo di film commerciale…; Burroughs, Phynchon o Ishmael Reed da un lato, il nouveau roman francese e i suoi eredi dall’altro, insieme a nuovi e allarmanti generi di critica letteraria basati su una nuova estetica della testualità o écriture…
L’elenco potrebbe continuare a lungo; ma ora bisogna domandarsi se tutto ciò implichi una rottura o un mutamento più radicali dei periodici cambiamenti di stile e di moda determinati da un precedente imperativo moderno-avanzato di innovazione stilistica».
Ed ecco la conclusione del filosofo americano:
«La concezione del postmoderno qui delineata è una concezione storica piuttosto che meramente stilistica. Non sottolineerò mai abbastanza la distinzione radicale tra coloro che considerano il postmoderno uno degli stili (opzionali) tra molti altri disponibili, e chi invece si sforza di vedervi la dominante culturale della logica del tardo capitalismo: le due prospettive generano infatti due modi molto diversi di concettualizzare il fenomeno nel suo insieme; da un lato si ha a che fare con giudizi morali (ed è indifferente che siano positivi o negativi), dall’altro con un tentativo genuinamente dialettico di pensare il nostro presente nella Storia».1
Prendo lo spunto da quest’ultima considerazione di Jameson per dire che un fenomeno come la nuova ontologia estetica si colloca nella presa d’atto degli esiti dello sviluppo del capitalismo globale che ha avuto luogo in modo sempre più evidente in questi ultimi due decenni e delle sue logiche interne che hanno guidato e governano lo sviluppo delle cosiddette sovrastrutture. L’evidenza più evidente di quanto vado dicendo è che la NOE non è più uno stile tra altri stili, non è soltanto un modo di considerare tutti gli stili come contemporanei e compresenti, come accadeva nel post-moderno (che presupponeva una indistinzione dei e tra i valori estetici e non), ma è un nuovo modo di stabilire la nuova ontologia dei fatti estetici, e quindi anche una nuova loro fenomenologia. È l’episteme che, generata da una nuova ontologia, replica all’ontologia modificandola, stabilendo una nuova ontologia più avanzata. E qui siamo all’interno della ontologia meta stabile, dove l’Essere è ciò che si dice. Siamo agli antipodi della concezione heideggeriana dell’essere che è ciò che non si dice.
La nuova ontologia estetica si colloca con convinzione nella nuova situazione determinata dal capitalismo globale internazionale, ovvero, Dopo il Moderno e il Post-moderno. Abbiamo varcato le colonne d’Ercole dell’antico capitalismo ancora locale e siamo entrati in un nuovo capitalismo sempre più globale e onnifago. È il nuovo capitalismo globale che ha liquidato gli stili del post-modernismo e del modernismo rendendoli obsoleti e inadeguati ad esprimere il nuovo mondo.
1] F. Jameson, trad it. Il Postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo, Garzanti, 1989, p.86
è chiarissimo ora…. ‘io nn sono contro la poesia del 900 ne sono fuori ‘… è pure una prova di linea di quanto le dicevo Linguaglossa ma nn arriva nessun segnale, devo rifarmi alla rete x leggere l’ombra confermo, risulto già iscritto. nn se ne viene a capo. Riguardo il poema di Franco Di Carlo ma a ‘sto punto è una parola obsoleta pure poema, troppo epica e neo-futurista assieme, è una fotosintesi clorofilliana.
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È quel mistero che si chiama vita e che ingloba in sé anche la morte che continua ad affascinarci come in ogni altra epoca . Cambiano le coordinate del pensiero ma quelle dell’anima sono sempre le stesse . È la patina di umano di cui siamo plasmati che riaffiora ogni volta che i vari nichilismi ricorrenti si riaffacciano nella nostra storia e la coscienza si risveglia facendoci sentire la nostra essenza che travalica l’immanente anche se ormai, calati nel metodo scientifico, vorremmo ttovare la quadra nell’esperimento …. ma l’anima non si lascia catturare dalla ragione anche se si fa sentire in tutta la sua immensa dimensione. E la Poesia in alcuni istanti riesce ad afferrare quell’emozione che si sente nel profondo quando ci lasciamo sfiorare dall’immensa bellezza in cui si manifesta !