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I tre periodi della poesia di Cesare Viviani da  “Poesie 1967 – 2002”  (2003) a “Dimenticato sul prato” (2023), Viviani con le opere degli anni successivi all’esordio del 1973 prende cognizione che ormai la spinta propulsiva del neosperimentalismo si è affievolita e che occorre perlustrare nuovi linguaggi, nuove dinamiche endogene ai linguaggi, nuovi lessici. Il percorso durerà più di un ventennio ma alla fine il poeta dovrà accettare il verdetto che la «poesia» non ha più nulla da dire di nuovo o di importante o di significativo, e arriva ad un testo fuori-poesia, se così possiamo dire – Sostanzialmente, l’ultimo periodo della poesia di Cesare Viviani è un linguaggio del «se così possiamo dire», un linguaggio camuffato e artefatto oltre che costruito tutto in diminuzione, in diminuendo, in dimagrimento. Ma di che cosa? È ovvio: del senso e del significato (a cura di Giorgio Linguaglossa)

Promenade notturna Collage 30x40 2023

Marie Laure Colasson Collage 30×40, Passeggiata notturna, 2023

Come con dovizia di ragioni asserisce l’autore della vasta e argomentata introduzione al volume antologico di Cesare Viviani, Enrico Testa, l’opera poetica del poeta di adozione milanese ma senese di nascita (anno 1947) si può suddividere in due periodi: il primo che va dai primi tentativi risalenti agli ultimi anni sessanta e poi pubblicati in plaquette a Parma, in parte riproposta nel 1983, da Scheiwiller, in Simmulae; Viviani esordisce con L’ostrabismo cara (Feltrinelli, 1973), seguono Piumana (Guanda, 1977), L’amore delle parti (Mondadori, 1983) e Merisi (Mondadori, 1987); il secondo periodo ha inizio nel 1990, con Preghiera del nome (Mondadori) e prosegue con L’opera lasciata sola (Mondadori), Una comunità degli animi (Mondadori, 1997), Silenzio dell’universo (Einaudi, 2000), Passanti (Mondadori, 2002), La forma della vita (2005), Credere nell’invisibile (2009). A questi due periodi aggiungerei un terzo periodo che inizia con Infinita fine (2012), passando per Osare dire (2016), Ora tocca all’imperfetto (2020), e Dimenticato sul prato (2023), opere tutte edite da Einaudi.

La poesia di Viviani trova subito, fin dai suoi esordi, l’attenzione della critica militante, ma le ragioni che hanno condotto ad una rapida accettazione della sua poesia sono tutte ascrivibili al quadro di riferimento culturale della società letteraria del tempo. Il lavoro di Viviani incontra e interpreta in modo encomiabile l’orizzonte di attesa di cui quella cultura critica forniva lo zoccolo e la chiave interpretativa. La poesia del «primo periodo» di Cesare Viviani cresce e si consolida sulla cresta d’onda di quella cultura, interpreta, nel senso migliore del termine, la cultura da cui proviene. Certo, il tema dell’incomunicabilità, dopo l’esistenzialismo francese, certo teatro del surrealismo e della  nostrana neoavanguardia diventa quasi un topos banalizzato e alla moda; ma quella cultura critica che si era fatta carico di rappresentare in Italia la tematica dell’incomunicabilità, con la poesia di Cesare Viviani attinge gli esiti tra i più complessi e maturi. Nella letteratura poetica del tardo novecento non si era ancora visto un fenomeno letterario così evidente: nasce una poesia dell’irriconoscibilità e della incomunicabilità: i personaggi sono stati soppiantati da parvenze, da voci intermittenti, da reclute implicite e criticamente cifrate che intervengono nel testo come lessemi terremotati che disgregano e disorganizzano la logicità della sintassi fin dentro le fibre semantiche del discorso poetico. Il risultato è che i testi vengono composti mediante una stratigrafia lessematica dove il «lapsus morfematico» agisce da «morfema migratorio», agisce come un virus linguistico che attacca altre cellule linguistiche che finiscono per disarticolare il testo. Non soltanto la tradizione lirica di stampo fonosimbolico viene esautorata e destabilizzata, ma anche i risultati conseguiti dalla neoavanguardia vengono stravolti e sorpassati, proprio in curva, e doppiati da Viviani che scrive sul crinale degli anni settanta e ottanta. Operazione lucidamente orientata sul sorpasso. Vengono così abilmente dribblate le istanze fonologiche e plurologiche dei coevi tentativi di quegli anni mediante un’operazione «eversiva» ancor più radicale. La versificazione diventa una sommatoria di istanze enunciativo-assertive che non intende condurre ad alcun senso ma neanche al non-senso. Nella misura in cui la prima poesia di Viviani non ricerca il non-senso, essa vi approda partendo da un altro versante: cadono sotto questo diserbamento molecolare anche le istanze della poesia gnomica, che presuppone, ancora acriticamente, che possa sopravvivere, in qualche modo, sotto la coltre di relitti e di detriti linguistici della nuova civiltà una noumenicità del senso o un fondamento purchessia di esso.

Il secondo periodo inizia all’incirca con Preghiera del nome (1990) e segna una poesia che alberga una restituzione di senso al senso. Ora, la poesia diventa «riconoscibile», l’eversione terroristica del primo periodo è ormai alle spalle. Del resto, Viviani prende atto, con acume e tempismo, che la «trasparenza» dello spazio mediatico è contiguo e speculare alla insondabile profondità del capitale finanziario che vi transita nel tempo di un batticiglio: il capitalismo del tardo moderno, o post-moderno che dir si voglia, ha assorbito senza scossoni il bombardamento del linguaggio umanistico della poesia, anzi, nel momento in cui il linguaggio pubblicitario si presenta come la nuova e vera avanguardia della nuova società mediatica, Viviani opera una sterzata di 180 gradi, comprende che nelle nuove condizioni del mercato globale, nel momento in cui le vecchie ideologie sono ormai infungibili e inutilizzabili, l’unica cosa che resta da fare è tentare di ricostituire il legame tra la parola poetica e il suo referente, la «riconoscibilità» della poesia ma come capovolta. Viene reintrodotto il «quotidiano», viene reintrodotta la «scena», i personaggi vengono ricostruiti e diventeranno inseguiti ed inseguitori, assassini, nemici e padroni; viene ricostruita la filigrana della sintassi, il lapsus morfematico scompare per sempre dalla scrittura dei testi. Il testo letterario ospita ora una fenomenologia sempre più «ostile» alla scrittura poetica: il linguaggio dei gesti e delle conseguenze dei gesti si sostituisce al linguaggio delle parole, ovvero, fa ingresso il metalinguaggio. È sufficiente esaminare una poesia di Preghiera del nome: Il cittadino mi vede seduto/ sulla panchina che la prima luce/ imbianca, meravigliato/ si ferma e vuole/ che gli risponda. Dice/ che sono bianco in volto”, dove l’atto di portare «bianco in volto» è la conseguenza, il risultato, il precipitato di un qualcosa che non si ha più ragione di attestare; il linguaggio poetico si limita a darne il resoconto repertale, come post mortem. In questo tipo di fenomenologia al linguaggio poetico è riservato un ruolo ben preciso: illuminare, per via indiretta, le conseguenze dei segni che hanno ormai perduto la leggibilità univoca della precedente generazione poetica e della precedente civiltà letteraria. In questo processo di de-territorializzazione del linguaggio poetico, Cesare Viviani si scopre più in avanti, sempre più in avanti rispetto a tutti gli altri poeti della sua generazione. Ma è con L’opera lasciata sola che Viviani fa un passo decisivo verso la rivoluzione copernicana del suo linguaggio poetico, che ora si presenta con una compattezza semantica inusitata: abbandona gli istituti retorici della precedente maniera per recuperare una fraseologia prosastica modulata in vista di un climax solenne, dove le retoriche convergono a rafforzare la im-potenza delle parole lasciate quasi nude e disadorne dinanzi all’ambigua indeterminazione del reale; così si riaffaccia il racconto e la parola si fa carico del vettore del pensiero impoetico. Non è un caso che la critica abbia qui segnalato «forti contiguità con la poesia di Luzi» (dalla introduzione di Enrico Testa), ma è un Luzi laicizzato e de-numinizzato; aspetto questo che sarà preponderante in specie nelle opere seguenti: Silenzio dell’universo (2000), Passanti (2002) e seguenti, dove il discorso poetico viene riconsiderato, problematizzato e investito delle responsabilità che ora incombono in modo sempre più pressante sul testo in vista della possibile imminente minaccia alla sopravvivenza della poiesis nell’epoca odierna.

Cesare Viviani Ora tocca all'imperfettoNel 1973, con il libro di esordio, L’ostrabismo cara (Feltrinelli, 1973), Viviani partecipa in prima linea al moto di decostruzione messo in atto dalla neoavanguardia, quel fenomeno che Alfonso Berardinelli definirà nel 1975 nella Introduzione alla antologia Il pubblico della poesia (1975) «l’equivoco che aveva permesso ai Novissimi di avere tanto successo: credersi ancora avanguardia e fingere di vivere mezzo secolo prima. Proporre se stessi come la soluzione più avanzata del problema dell’arte era un gioco che ancora piaceva molto, prometteva di fare un certo scalpore e ovviamente gratificava parecchio gli autori. Credersi più moderni e più attuali di ogni altro dà senza dubbio qualche soddisfazione e infatuazione».

Viviani con le opere degli anni successivi al 1973 prende cognizione che ormai la spinta propulsiva del neosperimentalismo si è affievolita e che occorre perlustrare nuovi linguaggi, nuove dinamiche endogene ai linguaggi, nuovi lessici. Il percorso durerà più di un ventennio, ma alla fine il poeta dovrà accettare il verdetto che la «poesia» non aveva più nulla da dire di nuovo o di importante o di significativo. Viviani pensa che forse questo è il segno dei tempi, che i tempi non richiedono più una poesia che dica cose importanti o significative o comunque degne di evidenza e che forse ciò che ha da dire si può dire con parole elementari e con una sintassi semplicissima, come nella prosa, per andare, per così dire, direttamente al centro delle cose, ammesso e non concesso che quelle cose fossero lì dirimpetto, o di lato, che comunque fossero presenti in qualche modo, e consenzienti o conniventi con le esigenze della soggettività. Nel frattempo, però, in quegli anni ottanta e novanta, il peso specifico della «poesia» perde sempre più terreno e autorevolezza di fronte alla comunicazione e alla nuova società affluente che non richiede più nulla alla «poesia» e che la «poesia» non è in grado di recepire. E Viviani entra nel secondo periodo della sua produzione, una sorta di ponte di passaggio verso il futuro e i linguaggi del futuro, verso, cioè, i linguaggi che ancora non ci sono, che non hanno fatto ingresso nell’orizzonte di attesa delle poetiche. E adesso facciamo un passo in avanti saltando gli anni novanta e gli anni dieci del nuovo secolo: ci troviamo nel 2010, accade così che alla fine del secondo decennio del nuovo secolo il poeta milanese pubblica quel piccolo trattatello titolato: La poesia è finita. Diamoci pace. A meno che… (2018), una sorta di accettazione, con ammonimento condizionato, del fatto incontrovertibile dell’esaurimento della «poesia» così come l’avevamo conosciuta e frequentata e l’inizio di una «cosa» sconosciuta, del tutto differente dalla «poesia» della tradizione. È stato per Viviani un tragitto doloroso e una presa d’atto dolorosa della realtà dei fatti. Viviani non lasciava margine a dubbi, e quella dizione del titolo: «A meno che…» suonava sì un po’ retorica e di prammatica quasi per scacciare, con un gesto apotropaico, il fatto della «fine», ma era una sentenza inappellabile, passata ormai in giudicato.

Ecco come Alfonso Berardinelli descrive la situazione della poesia italiana fotografata al 1975 ma le cui conclusioni sono valide anche oggi, infatti il critico le confermerà nel 2017 quando ripubblicherà con Castelvecchi l’antica antologia Il pubblico della poesia pubblicata nel 1975. Ecco il commento del critico romano ex post:

«Dovendo descrivere questa situazione e questi fenomeni, mi convinsi che la sola cosa possibile era teorizzare non una tendenza, ma la pluralità e la compresenza di scelte e soluzioni. L’idea centrale era questa: non è vero che in ogni situazione storica esista una e una sola tendenza giusta in letteratura, come avevano creduto in fondo sia gli engagées sia gli avanguardisti. Era vero invece che nessuna situazione storica dell’arte è definibile a priori in termini di autocoscienza politico-teorica, ma che questa definizione si può ottenere (in termini comunque non univoci) solo a posteriori, leggendo gli autori che pur vivendo negli stessi anni scrivono ognuno a modo suo. L’ambivalenza che è stata subito notata nel mio saggio introduttivo. Effetti di deriva esprimeva appunto i miei dubbi, anche se nel gergo teoricistico di allora. I poeti della mia generazione erano manifestamente più liberi di andarsene ognuno per la sua strada: ma questa libertà derivava anche da una diminuita coscienza critica, da una pretesa di innocenza che minacciava di rendere troppo disinvoltamente produttivi troppi nuovi autori. La nuova poesia nasceva ormai fuori dall’autocoscienza storica (e da molti suoi eccessi soffocanti e sofistici).

Si poteva fare di tutto in poesia: inventare e ritrovare soluzioni formali moderne, premoderne, manieristiche, neoclassiche, colloquiali, di esibito esoterismo o di smaccato autobiografismo. Questo era indubbiamente (come si disse più tardi) “postmoderno” e faceva sentire più liberi di essere quello che si era senza la costrizione di adeguarsi ad un super-io ideologico o formalistico. Questa inedita libertà creativa, però, avrebbe richiesto una capacità di autocontrollo critico perfino superiore a quella che si era vista in passato. Invece avevo il sospetto che anche quando scrivevano poesie migliori di quelle di Sanguineti, Porta e Balestrini, i poeti de Il pubblico della poesia sapevano meno chiaramente quello che facevano: lo facevano a volte benissimo, ma più a caso. Come autori erano poco strutturati. Per questo proposi di intitolare l’ultima sezione dell’antologia Come credersi autori? L’intenzione era questa: indicare che i poeti più intelligenti conservavano un congruo scetticismo sulla figura pubblica dell’autore, sulla figura mitica del poeta, ma anche sulla figura professionalmente produttiva del poeta “in carriera”».

Cesare Viviani è giunto alla medesima conclusione alle quali siamo giunti noi dell’Ombra in un libretto pubblicato da il melangolo nel 2014: La poesia è finita. La differenza è che noi dell’Ombra abbiamo preso atto della «fine» e ne abbiamo tratto le conseguenze, abbiamo percorso e stiamo percorrendo un sentiero di profondo rinnovamento della forma-poesia e del linguaggio poetico. La poesia di Viviani, questa ultimissima, è la spia segnaletica della fine di un intero linguaggio poetico, l’ultima spiaggia dove c’è rannicchiata e disteso sull’amaca a prendere il sole il ceto poetico che si è autocandidato nei decenni recenti a ceto maggioritario.

Cesare Viviani parte dal principio che il reale si dà nella forma ipoveritativa e non è rappresentabile se non nella forma di frammento, ma in lui il frammento è a monte dell’opera che verrà, non è un risultato ma una petitio principii. Già prima di nascere la poesia del terzo periodo di Viviani viene alla luce nella forma di frammento pieno di fermento. Per questo motivo la causa agente della sua poiesis è il dubbio programmatico, lo scetticismo che tutto aggredisce come una ruggine il metallo, il dubbio che il tutto non sia in quel che appare e che anche la migliore poesia è un epifenomeno del nulla. La sua poiesis afferma perentoriamente: «ingannare il tempo». E di qui prosegue la sua corsa a dirotto tra le stazioni del nulla (parola che inutilmente cercherete nella sua opera), cioè l’indicibile e l’impensabile. Ecco perché la veste formale di questa poiesis è l’aforisma e il pensiero «imperfetto», per amore dell’onestà intellettuale verso quella cosa, la poesia, che, come recita il titolo di uno dei suoi libri di riflessione di poetica: «la poesia è finita», che, esattamente non è un enunciato negativo, perché nel pensiero di Viviani la poesia può anche finire, può assentarsi per anni o per decenni, per poi magari, all’improvviso, ripresentarsi senza alcuna ragione apparente con una nuova veste formale ed espressiva, senza che fosse stata richiesta o cercata.
La poesia per Viviani non è un «falso» né un «vero», né un «positivo» o un «negativo», è semplicemente l’evento di un assentarsi dai luoghi frequentati dalle parole scostumate del nostro tempo. Lo scetticismo ipoveritativo della poiesis di Viviani dà luogo a una poesia che fa della imperfezione e della provvisorietà il proprio punto di forza, capovolgendo in tal modo la propria debolezza in forza. Parrebbe che la logica della disgregazione del mondo amministrato sia giunta a tal punto di profondità da non lasciare alla poiesis alcuna chance di ripresa. Il frammentismo trascendentale di Viviani si nutre proprio di quella disgregazione (Logik des Zerfalls – Adorno) del mondo divenuto globale, ne è ad un tempo, riflesso e prodotto, «mosaico dorato» che è «fuori dalla natura». Quel dubbio e quello scetticismo radicale giunge, alla fin fine, a ristabilire un qualche valore alla poiesis, anche se in modo transitorio e periclitante. Un dispositivo destituente sembra in opera in questo tipo di scrittura, un abbassare il livello comunicazionale per adire un sublivello, una sub-comunicazione. La cultura che si è positivizzata dà luogo all’anti positivo della prassi poietica, sembrerebbe questa la conclusione cui è giunto Cesare Viviani. Quindi, il non-chiudere è per definizione l’ultima possibilità che resta alla prassi dopo l’assunzione che «la poesia è finita». Continuare a scrivere «poesia» anche dopo che «la poesia è finita».

Cesare Viviani Dimenticato sul prato

«Idea della poesia» (Cesare Viviani, da a poesia è finita. Diamoci pace. A meno che…, il melangolo,2014) 2014)

«L’essenza della poesia, che la fa distinguere da ogni altra scrittura, non risiede ovviamente nei dati caratteristici esteriori, quali metrica, prosodia, rima, lessico e figure retoriche. E nemmeno, passando a realtà interiori, risiede nel modo del rispecchiamento, quando il lettore crede di vedere rispecchiate nella poesia le proprie emozioni, i propri stati d’animo.

L’essenza della poesia, la sua straordinaria energia, è qualcosa che sfugge a ogni definizione e oggettivazione: nessuno ha mai definito l’essenza, la peculiarità della poesia, nessuno è mai riuscito a definirla, a codificarla, così che non si possono misurare o confrontare due testi, per sapere quale è il più dotato di poesia, e nemmeno al limite stabilire se un testo è o non è poesia, se è poesia o un tentativo non riuscito. Non c’è oggettivazione possibile di valori, se non una moltitudine di lettori che concordano ma pur sempre su esperienze di lettura non oggettivabili, su elementi di valore non definibili. L’essenza della poesia è una vertigine, la vertigine che si prova di fronte all’abisso del vuoto…
Allora se l’essenza della poesia è inafferrabile, si può ben dire che l’essenza della poesia è l’esperienza del limite delle capacità umane di afferrare, capire, definire, sistemare: è l’esperienza del limite.

Così è per tutta l’arte. E come non c’è differenza tra linguaggi pittorici (figurativi e astratti), così non c’è differenza tra linguaggi realisti ed ermetici: sia gli uni che gli altri sono strumenti, apparati, modi tangibili, e diventano poesia solo in quanto realizzano l’esperienza del limite, la vertigine del vuoto, lo smacco della separazione e della perdita, la spoliazione degli strumenti umani, la fine del sapere, del controllo e dell’orientamento.

Allora la poesia, la parola della poesia, non deve preoccuparsi di comunicare, di farsi capire, di ottenere effetti, di conquistare lettori, di raggiungere finalità, di collegarsi ai contesti, di dare valore alla società, all’etica, ai contenuti esistenziali, ai valori. La parola della poesia deve avere a cuore l’esperienza del limite, del vuoto, della separazione, della perdita. La parola della poesia ha valore in sé in quanto offre al lettore la possibilità dell’esperienza del limite ed è sempre “poesia pura”, anche quando gronda di contenuti: essa non ha bisogno di niente e con questa autonomia irriducibile costringe il lettore all’esperienza del limite di decifrabilità e di interpretazione, alla perdita di scienza e coscienza, di controllo razionale ed emozionale, al vuoto di concetti e alla scomparsa del senso. Costringe il lettore all’esperienza del limite delle sue capacità di acquisizione e di intervento, di potere e di dominio.

È una vera, profonda vertigine: è l’esperienza vertiginosa della spoliazione e della nudità.»

Fondamentale per l’arte

C’è un elemento a mio avviso fondamentale, un elemento base, essenziale, costituzionale, senza il quale l’arte non esisterebbe: è la discontinuità. Prendiamo ad esempio la poesia (ma questo discorso vale per ogni altra espressione artistica): la scrittura della poesia nasce da una frattura dei significati abituali del sentire e del pensare, nasce da una discontinuità dell’esperienza e del pensiero. C’è un’immersione nell’ascolto, un ascolto assoluto nella scrittura della poesia, nel quale l’organizzazione dell’io scompare, scompaiono il buon senso e il giudizio, così come ogni valutazione normale, quotidiana delle cose, scompare l’ambiente ordinato intorno a noi, e c’è solo quest’ascolto assoluto, vertiginoso della parola che diventa la protagonista nell’esperienza del poeta. Anche il linguaggio può rompere con le tradizionali regole della grammatica e della sintassi, anche il senso si interrompe ed entra in circolazione a pari merito il non senso. Insomma l’inizio di ogni evento artistico è la discontinuità.

E anche nella lettura della poesia, così come nel rapporto con ogni altra arte, è necessaria la discontinuità. L’ammirazione che prende il lettore di poesia, o l’osservatore di un quadro, o l’ascoltatore di una musica, è un sentimento intenso, quasi indefinibile, insensato e disinteressato, gratuito, che distanzia e distacca il lettore, o spettatore o ascoltatore, dall’ambiente circostante, dai pensieri e dalle emozioni che provava fino a un momento prima – i «suoi» pensieri e le «sue» emozioni – e lo immerge in una condizione impersonale di scoperta, di creatività, di vertiginosa apertura e novità.

(L’ammirazione è sbilanciamento, disorientamento, è instabile e discontinua, imprevedibile e incalcolabile: se fosse stabile e prevedibile, continua e abituale, sarebbe un assetto rassicurante, una garanzia di seduzione e di conquista, un disinvolto e sfacciato utilizzo del’esperienza).»

Interpretazione

L’interpretazione è la forma maggiore di perversione. È la più forte e la più frequente espressione di dominio.» 1

*

È accaduto così che Viviani abbia ereditato in pieno tutta la leggerezza, la gassosità, la sproblematizzazione, la inadeguatezza intellettuale e la falsa coscienza delle soggettività nelle  democrazie parlamentari dell’Occidente (nell’epoca del Covid e della guerra in Ucraina), dell’indebolimento definitivo delle poetiche un tempo «forti» (la poesia di Mario Lunetta e Maria Rosaria Madonna). La poesia debole e de-responsabilizzata ha così finito per egemonizzare il panorama della poesia italiana del tardo novecento e di questi ultimi due decenni: e siamo arrivati al  post-sperimentalismo indebolito e impoverito, le poetiche neo-gotiche e privatistiche, le ex poetiche dei quotidianisti dell’area lombarda e i mix di disformismi vari: quotidiano + privato + post-sperimentalismo.

Dimenticato sul prato è opera scritta «tra i primi mesi del 2018 e il settembre del 2019» annota l’autore; il fatto poi che Viviani risieda da sempre a Milano, pur non essendo milanese, si è rivelato, per lui, senz’altro un vantaggio nella misura in cui la presa di distanza dalle ex poetiche «quotidianiste» ha accresciuto il potenziale non-belligerante del «terzo» e ultimo periodo del suo linguaggio poetico. Inoltre, il punto a vantaggio-svantaggio (a seconda dell’opposto punto di vista) di Viviani è che abbia accettato di scrivere nella lingua della tribù nella forma della «nuda lingua», una lingua disertata dal politico con una sintassi elementare  e una prosodia afona, atonica. E questo perché il poeta milanese si esprime nel linguaggio della «ruminazione», che è un linguaggio «interno» non etero-diretto e neanche soggetto-diretto ma che si situa in una via di mezzo tra i linguaggi dell’esterno e il linguaggi dell’interno senza essere niente di tutto ciò, niente che voglia apparire come intenzionale e significazionale, quindi un linguaggio essenziale e funzionale (ma non alla comunicazione), ma nemmeno niente di inessenziale, e neanche di idoneo alla comunicazione; un linguaggio, appunto, non puro ma spurio, di mera modalità, di mera postura, che non ha nulla del sensazionale e del significazionale e nulla della mimesi, un linguaggio che è diventato neutro, afono e atonico per impossibilità di essere oggettivo e/o soggettivo, linguaggio di brevi «ruminazioni» che appaiono e scompaiono negli orli della psiche, che non sono diretti alla comunicazione, ma, sostanzialmente, sono diretti verso la «in comunicazione», un tentativo di circoscrivere il linguaggio poetico dotandolo di una potenzialità non-espressiva, non-comunicazionale. Un linguaggio costruito sugli effetti di deriva dei linguaggi. Eppure, basterebbe un soffio, cambiare appena una vocale o una consonante per mutare questo linguaggio in… poetry kitchen. Alcuni esempi?

Da sempre la necessità
lotta con l’amore,
da un lato la maternità
dall’altro il predatore
(c.v.)

*

Dice di un pensiero antico
«Se desideri avere un amico
e lo vai cercando,
desideri Dio»
(c.v.)

*

L’anima è prostituta,
perché si unisce a ogni genere
di ragioni, energie e armonie,
e unica riesce, distaccandosi da tutto,
a diventare pura,
a innalzarsi fino a una certa
perfezione.
(c.v.)

*

Fare diventare un’asserzione
verità
non è mistificazione,
è necessità
e perché quest’assoluto?
Perché la vita non è altro che vera.
Non è altro Continua a leggere

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Archiviato in poesia italiana contemporanea

Ieri mi è arrivato per posta un libretto di Cesare Viviani, La poesia è finita. Diamoci pace. A meno che… il melangolo, 2018, pp. 76 € 7 pp. 45 e segg. – Risposta di Alfonso Berardinelli, da Poesia non poesia, Einaudi, 2008 

Si è detto che la poesia è anche, immancabilmente, esperienza del limite, limite che è già inizio dell’estraneità, e quindi illeggibile, insuperabile, non c’è parola, intuizione, simbolo o immaginazione capaci di farlo nostro o di ridurlo. È l’equivalente del limite ultimo della vita: in questo senso la poesia è vita, e non limitazione di essa.

Vorrei che fossero altro questi sedicenti poeti, giovanissimi e giovani, che in qualche occasione pubblica mi guardano storto, loro che non hanno letto niente dei libri che ho scritto, e mi salutano appena, forse per fare contento il loro tutore che non mi ama, o forse perché io non sono mai riuscito a elogiare i loro versi.

La poesia è finita. Prima era essere che aveva le vertigini di fronte ai suoi limiti, era essere e non essere. Oggi è un intruglio bastardo di essere e superessere.

Diranno in coro: sarà finita la tua poesia, ma la nostra no!
Ma non è questione di mia o vostra. Insisto: forse non vi accorgete che la poesia non trova più ascolto. Non c’è più spazio per la poesia. Il troppo pieno, la parola piena, la comunicazione continua hanno sepolto i migliori poeti del secondo Novecento: non si leggono più, non hanno più la considerazione che prima, trenta anni fa, si dava loro. Tra vent’anni nessuno saprà più che erano Saba, Erba, Giudici, Luzi, Zanzotto, Sereni, Raboni, Porta… Solo qualche solitario ricercatore universitario… ma saranno pochissimi studiosi. La poesia sarà irrilevante, sarà scomparsa.

Si è detto: la quantità ha spento la qualità. La quantità di internet, della ipercomunicazione pubblicitaria, dei supermercati, dei centri commerciali e di ogni tipo di esposizione e di vendita. Uno dei tanti effetti di distruzione provocata dall’alluvione continua della quantità è la scomparsa (o quasi) di quella sensibilità che faceva distinguere la poesia dalle composizioni in versi (non poesia). Chiediamoci: come faceva Raboni (tanto per fare il migliore esempio) a scegliere i testi da pubblicare (nelle collane da lui curate) o far pubblicare? Si affidava a quella sensibilità ricca di grande talento, di esperienza finissima di lettore, e di una percezione che riassume in sé smisurata cultura e mirabile intelletto e fa riconoscere l’oro tra tanto similoro.

La poesia non può essere affabile, accattivante, popolare, attraente l’immediata emotività: perché la scrittura che ha queste caratteristiche è cattivo giornalismo in versi.

Questo libretto non sarà bene accolto dai poeti giovani e meno giovani. Guai a toccare il narcisismo dei poeti, e di coloro che li limitano scrivendo versi! […]
Beati coloro che credono che la poesia oggi attraversi un periodo di rigoglio e di espansione, di vigore e di qualità, una rinascita. Beati i giornalisti che scrivono, non sapendo cosa scrivere, che la poesia va. beati i poeti che oggi sono i primi perché domani saranno gli ultimi. […]

Il matrimonio dell’invadenza del linguaggio mediatico, superficiale e utilitaristico, con l’opportunismo delle relazioni personali (scambio di favori, protezione come segno di potere, bisogno di seguaci) annienta la poesia.

Prima i poeti che mostravano notevoli qualità riconosciute erano cinque o sei per generazione. Adesso sono cinquanta, tutti meritevoli della stessa attenzione. Altro che livellamento, altro che appiattimento! Non si vuole più distinguere tra poesia e versificazione. È il sottobosco (così lo si chiamava) che si è costruito fusti e rami alti e spaziosi!

Qualcuno ha creduto che l’abbraccio con la dimensione dello spettacolo o con il mondo della rete non fosse mortale per la poesia. Si è sbagliato. Il principio della selezione guida poesia e poeti, principio che è negato da internet e molto spesso anche dallo spettacolo.

La parola di internet è parola abusata. Internet è il luogo dell’abuso della parola. Per essere ancora più chiari: parola violentata, stuprata.

Ora si parla di «contaminazione» possibile tra poesia e canzoni di musica leggera. ma per carità! Come si fa a discutere di una sciocchezza simile? Le due realtà sono una l’opposto dell’altra. la poesia pone questioni grandi sull’esistenza, sul nostro essere al mondo, sui limiti del nostro percepire e sentire, e dunque si rivolge all’irrappresentabile e davanti a esso di ferma.
Le canzoni sono splendidi conforti alle nostre emozioni tristi e nostalgiche e al tempo stesso sono una spinta alla socializzazione.

Rimane a più osservatori oscuro e inspiegabile il risentimento con cui Berardinelli, a partire dal 1981, ha tante volte parlato della poesia italiana del secondo Novecento. Amarezza, asprezza, delusione? Chissà! Eppure anche lui, per un breve periodo, alla fine degli anni Settanta, ha provato a scrivere poesia.

La poesia è come una tessitura finissima e traforata (penso a un merletto, a un pizzo, a una trina) nella quale non è il pieno (i fili) che sostiene i vuoti (i fiori), ma sono i vuoti che sostengono i fili.

Con il proliferare di scriventi versi tutti bravi, può venire a un poeta la tentazione di guidarne un manipolo, di avere un seguito di ammiratori aspiranti a collocazioni pubbliche più alte, visto che quasi sempre non basta loro l’autodesignazione di poeta. Ma questa corrispondenza costerebbe cara al poeta: diventerebbe un principe, o un re, del sottobosco.

Il critico della poesia deve ogni volta coniugare il proprio pensiero con il testo in questione, matrimonio di volta in volta difficile nelle sue particolarità non generalizzabili, e invece non deve ricorrere per tutti i testi alle stesse definizioni, alle stesse formule.

Allora ricapitoliamo le condizioni sfavorevoli alla poesia di oggi: la prima è la pretesa di numerosi giovani (e di alcuni meno giovani) di diventare poeta per grazia sovrannaturale, per miracolo.

Invece bisogna leggere tanta poesia, finché entri nel sangue. e si tratta di leggere le opere dei poeti.

L’imitazione è assolutamente da evitare, quando è consapevole e furba. Quando è inconsapevole (e può succedere spesso ai giovani scrittori anche promettenti), c’è da augurarsi che ci se ne accorga presto.

C’è poi un altro pericolo, l’invadenza e la suggestione dei linguaggi mediatici e pubblicitari. Al tempo stesso c’è l’ambizione di raggiungere i risultati senza abbandonare la pigrizia, col minimo sforzo, con l’autopromozione e l’autodefinizione di «poeta».

Altra condizione sfavorevole per la poesia dei nostri giorni è la critica militante: sempre più occupata dai libri dei narratori seri o improvvisati, sempre meno interessata alla poesia. del resto la logica mercantile si impone su case editrici e giornali, per cui si privilegia ciò che offre più lettori e più vendite.
Ma il problema della critica è l’incontro con la poesia: si dovrebbe illuminare la specificità di ogni testo poetico e invece, come si è detto, è sempre più frequente (salvo qualche bella eccezione) l’uso delle stesse definizioni e frasi, ormai formule di repertorio, per tutti i libri recensiti.

Altra condizione sfavorevole alla poesia riguarda la pubblicazione (l’editoria è entrata in una strettoia). L’editore gradisce e valorizza il libro di narrativa o di poesia che venda molto (è raro che sia la poesia), che abbia un pubblico di acquirenti e lettori numeroso: in tal caso il libro diventa alimento economico per la casa editrice, reddito. Il suo autore sarà trattato con particolare gentilezza e cura. inconsapevolmente anche le persone più limpide e acute, più colte e sensibili subiscono l’effetto di valore del libro che vende molto.

[…]

Ai miei tempi le cose andavano diversamente: nel 1981 e nel 1990 i miei libri di poesia (Mondadori) vinsero due bei premi, e l’editore fece uscire una pubblicità di notevoli dimensioni su “la repubblica”, riproducendovi la copertina del libro (il secondo fu anche ristampato e fascettato col nome del premio), libri che certamente non vendettero più di 1500 o 2000 copie.

Aspirare a un numero elevato di lettori di poesia è un errore…

Esiste la «nuova» poesia, la poesia del Duemila? Non è mai esistita la «nuova» poesia: la poesia è sempre stata la stessa, se è sempre stato indefinibile il suo nucleo essenziale. È pur vero che ogni volta la poesia è nata dalla tradizione… per poi cercare un’originalità di forme e di espressioni. E questa poesia del Duemila, giovane o meno giovane, ha ignorato la tradizione, ha mancato la nascita, non è nata. Si è riempita di parole, frasi, idiomi, suggestioni circolante e corrive, pubblicitarie ed efficaci, mutuate da ogni emittente. Questa poesia non è poesia.

Oggi, nello scrivere versi, si tenta un’operazione analoga a quella delle installazioni nell’arte: un linguaggio interessante, suggestivo, attraente, ben organizzato con belle apparenze, artefatto.

Cari giovani poeti,
vi mando un caro saluto e una raccomandazione: quella di non adirarvi e non angosciarvi se qualcuno critica le vostre poesie e le considera solo scritture in versi. Pur nella relatività di ogni lettura, le critiche possono essere necessarie e salutari proprio per passare dai versi alla poesia.
E noi anziani dobbiamo scusarci con voi e riconoscere che siamo stati colpevoli di alcune bugie per cosiddetta bontà o viltà.

Chi ama la poesia, prima di scriverla, ne leggerà tanta: prima di amare la propria, amerà quella scritta dai poeti che, nei secoli, hanno fatto conoscere la loro opera. Chi scrive versi senza aver prima smisuratamente amato la poesia è un povero naufrago nel mare del narcisismo.

Il miglior consiglio che si può dare a chi si avvicina alla scrittura della poesia… è quello di evitare gli insegnamenti. e quindi: non frequentare scuole di scrittura o di poesia.

Uno che sa tutto, saccente, non sarà un poeta. Uno che pensa di potere tutto, arrogante, e si compiace della propria abilità non sarà un poeta. La misura di sé non è un rispecchiamento compiaciuto («quanto sono bravo»). Misura di sé è qualcosa che non ha niente a che fare con le tentazioni dell’infinito: è cosa finita, è percezione netta, nuda e cruda, dei limiti (della misura), dei limiti superabili e poi, necessariamente, anche di quelli insuperabili.

Se tutte le frasi pensate, se tutti i pensieri cominciano o contengono il pronome “io”, e se l’interesse personale occupa tutto lo spazio dell’immaginazione e dell’emozione, allora in questo caso siamo lontani dalla poesia… se l’io invade e domina anche lo spazio delle relazioni affettive e dei pensieri rivolti all’umanità e alla società… allora con questo io sovrano sarà impossibile arrivare a scrivere poesia.

( La vita presenta a volte strane coincidenze. e sono davvero strane coincidenze – non c’è malizia. Per esempio, una che mi è capitata: finché si è pensato che potessi avere un qualche potere editoriale o recensorio, il telefono squillava ogni giorno con voci amiche e gentili. Quando si è capito che non ho nessun potere, nessuno più mi ha chiamato né è venuto a farmi visita. Così come un’altra casualità: se ad un giornale collabora un recensore che ha un cattivo rapporto personale con un poeta, possono verificarsi casuali effetti di allineamento degli altri recensori, e va a finire che su quel foglio nessuno scriverà di quel poeta. Ma allora, tutto il mondo è paese?)

Risposta di Alfonso Berardinelli, da Poesia non poesia, Einaudi, 2008 pp. 4 e segg. Continua a leggere

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