da La campana di vetro (The Bell Jar) trad. Adriana Bottini e Anna Ravano, Mondadori, 2017, pp. 244, € 12,00
… non riuscivo a provare un bel niente. […] dovunque mi fossi trovata, sul ponte di una nave o in un caffè di Parigi o a Bangkok, sarei stata sotto la stessa campana di vetro, a respirare la mia aria mefitica.
*
Lo vedi che cosa può succedere in America, avrebbero detto. Una ragazza vive per diciannove anni in un paesello sperduto, senza nemmeno i soldi per comprarsi una rivista, poi ottiene una borsa di studio per il college, vince un premio, poi un altro e finisce che ha New York ai suoi piedi, come se fosse la padrona della città. Peccato che io non ero padrona di niente, nemmeno di me stessa. Non facevo che trottare dall’albergo al lavoro ai ricevimenti e dai ricevimenti all’albergo e di nuovo al lavoro come uno stupido filobus. Sì, credo che avrei dovuto trovarla un’esperienza eccitante, come facevano quasi tutte le mie compagne, ma non riuscivo a provare niente. Mi sentivo inerte e vuota come deve sentirsi l’occhio del ciclone: in mezzo al vortice, ma trainata passivamente.
*
Sarà anche bello mantenersi pure e poi sposare un uomo puro, ma se dopo sposati lui confessa di non esserlo, come aveva fatto Buddy Willard con me? Non sopportavo l’idea che la donna debba avere una sola vita, casta, e l’uomo invece può condurre una doppia vita, una casta e l’altra no.
*
Era uno dei motivi per cui non intendevo sposarmi. L’ultima cosa che desideravo era la «sicurezza assoluta» ed essere il punto da cui scocca la freccia dell’uomo. Io volevo novità ed esperienze esaltanti, volevo essere io una freccia che vola in tutte le direzioni.
*
… mi sentii un’incapace totale. E il guaio era che lo ero sempre stata, solo che non mi ero mai fermata a pensarci. L’unica cosa che sapevo fare bene era vincere borse di studio e premi, e anche quell’epoca stava per finire. Mi sentivo come un cavallo da corsa in un mondo senza ippodromi, o come un campione di calcio dell’università che si trova tutt’a un tratto di fronte a Wall Street e al doppiopetto grigio, i suoi giorni di gloria ridotti alle dimensioni di una piccola coppa d’oro sulla mensola, con su incisa una data, come una lapide di cimitero.
*
Vidi la mia vita diramarsi davanti a me come il verde albero di fico del racconto.
Dalla punta di ciascun ramo occhieggiava e ammiccava, come un bel fico maturo, un futuro meraviglioso. Un fico rappresentava un marito e dei figli e una vita domestica felice, un altro fico rappresentava la famosa poetessa, un altro la brillante accademica, un altro ancora era Esther Greenwood, direttrice di una prestigiosa rivista, un altro era l’Europa e l’Africa e il Sud America, un altro fico era Constantin, Socrate, Attila e tutta una schiera di amanti dai nomi bizzarri e dai mestieri anticonvenzionali, un altro fico era la campionessa olimpionica di vela, e dietro e al di sopra di questi fichi ce n’erano molti altri che non riuscivo a distinguere.
E vidi me stessa seduta sulla biforcazione dell’albero, che morivo di fame per non saper decidere quale fico cogliere. Li desideravo tutti allo stesso modo, ma sceglierne uno significava rinunciare
per sempre a tutti gli altri, e mentre me ne stavo lì, incapace di decidere, i fichi incominciarono ad avvizzire e annerire, finché, uno dopo l’altro, si spiaccicarono a terra ai miei piedi.
Non aveva senso alzarsi.
Cosa aveva da offrirmi la giornata?
*
Vidi gli anni della mia vita in fila uno dietro l’altro come pali del telefono lungo una strada, collegati insieme dai cavi. Contai uno, due, tre… diciannove pali, ma dopo il diciannovesimo i cavi spenzolavano nel vuoto, e per quanto mi sforzassi, non riuscivo a scorgere nessun altro palo.
*
E non mi ero lavata i vestiti e i capelli perché mi sembrava una cosa assurda.
Vedevo i giorni dell’anno come una lunga fila di scatole bianche luminose, separate l’una dall’altra dall’ombra nera del sonno. Solo che per me la lunga prospettiva di ombre che distinguevano una scatola dalla successiva si era improvvisamente spezzata, e la serie interminabile dei giorni mi si apriva davanti abbagliante come un grande viale bianco di desolazione infinita.
Mi sembrava assurdo stare a lavarmi, se poi mi toccava rifarlo di nuovo il giorno dopo.
Solo a pensarci, mi sentivo stanca.
Volevo fare le cose una volta per tutte e basta, chiuso.
Ad ogni tentativo di suicidio, il corpo di Esther, determinato a vivere, sembra ribellarsi: «la mia carne si ritrasse, vigliaccamente, da una simile morte». Quando tenta di annegare, il suo cuore ad ogni battito, fastidiosamente per Esther che vuole morire, sembra affermare la propria presenza ovvero l’esistenza stessa di Esther: «io sono io sono io sono» non è altro che la ribellione quasi naturale e istintiva alla morte e il desiderio del corpo di vivere.
Decisi di spingermi al largo finché sarei stata troppo stanca per tornare a riva. Mentre nuotavo, il battito del cuore mi rimbombava nelle orecchie ossessivo come uno stupido motore.
Io sono io sono io sono.
«Mai aveva amato tanto il proprio corpo come in questo momento nel quale il suo possesso era così precario» scrive Jack London nel capitolo 3 di Zanna Bianca e infatti ho notato una certa somiglianza tra questa parte del romanzo di Jack London e il brano qui sotto de La campana di vetro: in entrambi sembra che, essendo la propria carne in pericolo (ne La campana di vetro per via del suicidio, in Zanna Bianca la carne potrebbe essere sbranata dai lupi), ci si affeziona ad essa e così ci si attacca ancora di più alla vita.
Non so più quale filosofo romano, quando gli avevano chiesto che modo avrebbe scelto per morire, aveva risposto che si sarebbe aperto le vene in una vasca di acqua tiepida. Sembrava facile: sdraiarmi nella vasca e guardare il rosso che sbocciava dai polsi, un fiotto dietro l’altro nell’acqua trasparente, fino ad affondare nel sonno sotto una superficie sgargiante come un campo di papaveri.
Ma al momento buono, la pelle dei polsi sembrava così bianca e indifesa che non me l’ero sentita. Era come se la cosa che volevo uccidere non fosse in quella pelle e nella sottile vena azzurra che sentivo pulsare forte sotto il mio dito, ma altrove, in un luogo più profondo, più segreto, e molto più difficile da raggiungere.
Alla fine del romanzo, l’aria metifica lascia il posto ad un’aria più rarefatta, la campana vetro non rinchiude più al suo interno Esther.
La campana di vetro stava sospesa qualche spanna sopra la mia testa e l’aria circolava liberamente intorno.
*
Ma non era detto. Non era affatto detto. Chi mi assicurava che un giorno – al college, in Europa, chissà dove, dovunque – la campana di vetro non sarebbe scesa di nuovo, con le sue soffocanti distorsioni.
*
Un brutto sogno.
Per chi è chiuso sotto una campana di vetro, vuoto e bloccato come un bambino nato morto, il brutto sogno è il mondo. Un brutto sogno.
Io ricordavo tutto.
Ricordavo i cadaveri, Doreen, la storia dell’albero di fico, il brillante di Marco, il marinaio del Common, l’infermiera strabica del dottor Gordon, i termometri in frantumi, il negro con i suoi due tipi di fagioli, i dieci chili messi su per l’insulina, lo scoglio rotondo tra cielo e mare simile a un teschio grigio.
Forse l’oblio, come una neve gentile, avrebbe dovuto attutire e coprire tutto.
Ma quelle cose facevano parte di me. Erano il mio paesaggio.
*.
La cucitura delle calze era dritta, le scarpe nere screpolate ma lucide, e il tailleur rosso di lana era smagliante come i miei progetti. Qualcosa di vecchio, qualcosa di nuovo…
Ma io non andavo a sposarmi. Dovrebbe esistere un rito, pensai, per celebrare la seconda nascita – per quando si è stati rattoppati, ricostruiti e omologati per la strada.
*
Feci un profondo respiro e ascoltai il mio cuore ripetere l’antica vanteria.
Io sono, io sono, io sono.
Poesie di Sylvia Plath
Io sono verticale
Ma preferirei essere orizzontale.
Non sono un albero con radici nel suolo
che succhia minerali e amore materno
così da poter brillare di foglie a ogni marzo,
né sono la beltà di un’aiuola
ultradipinta che susciti grida di meraviglia,
senza sapere che presto dovrò perdere i miei petali.
Confronto a me, un albero è immortale
e la cima di un fiore, non alta, ma più clamorosa:
dell’uno la lunga vita, dell’altra mi manca l’audacia.
Stasera, all’infinitesimo lume delle stelle,
alberi e fiori hanno sparso i loro freddi profumi.
Ci passo in mezzo ma nessuno di loro ci fa caso.
A volte penso che mentre dormo
forse assomiglio a loro nel modo più perfetto –
i miei pensieri finiti in nebbia.
Stare sdraiata è per me più naturale.
Allora il cielo ed io siamo in aperto colloquio,
e sarò utile il giorno quando starò sdraiata per sempre:
Allora gli alberi potranno toccarmi, i fiori avranno tempo per me.
I am Vertical
But I would rather be horizontal.
I am not a tree with my root in the soil
Sucking up minerals and motherly love
So that each March I may gleam into leaf,
Nor am I the beauty of a garden bed
Attracting my share of Ahs and spectacularly painted,
Unknowing I must soon unpetal.
Compared with me, a tree is immortal
And a flower-head not tall, but more startling,
And I want the one’s longevity and the other’s daring.
Tonight, in the infinitesimal light of the stars,
The trees and the flowers have been strewing their cool odors.
I walk among them, but none of them are noticing.
Sometimes I think that when I am sleeping
I must most perfectly resemble them —
Thoughts gone dim.
It is more natural to me, lying down.
Then the sky and I are in open conversation,
And I shall be useful when I lie down finally:
Then the trees may touch me for once, and the flowers have time for me.
Tulipani
Guarda com’è tutto bianco, com’è quieto, coperto di neve.
Imparo la tranquillità, mentendo da sola in silenzio
Mentre la luce giace su queste pareti bianche, su questo letto, su queste mani.
Non sono nessuno; Non ho niente a che fare con le esplosioni.
Ho dato il mio nome e il mio abbigliamento da giorno alle infermiere
E la mia storia all’anestesista e il mio corpo ai chirurghi.
Mi hanno appoggiato la testa tra il cuscino e il risvolto del lenzuolo
Come un occhio tra due palpebre bianche che non si chiudono.
Stupida allieva, deve assorbire tutto.
Le infermiere passano e passano, non danno fastidio,
Passano nel modo in cui i gabbiani attraversano l’entroterra con i loro berretti bianchi,
Fare le cose con le mani, una uguale all’altra,
Quindi è impossibile dire quanti sono.
Il mio corpo è un sassolino per loro, lo curano come l’acqua
Tende ai ciottoli su cui deve scorrere, li leviga delicatamente.
Mi portano intorpidimento nei loro aghi luminosi, mi portano il sonno.
Ora mi sono persa, sono stanca dei bagagli
——
La mia custodia per la notte in vernice come un portapillole nero,
Mio marito e mio figlio sorridono dalla foto di famiglia;
I loro sorrisi si attaccano alla mia pelle, piccoli ganci sorridenti.
Ho lasciato scivolare le cose, un mercantile di trent’anni
tenacemente aggrappato al mio nome e indirizzo.
Mi hanno ripulito dalle mie amorose associazioni.
Spaventata e nuda sul carrello verde con cuscini di plastica
Ho guardato il mio set da tè, i miei uffici di biancheria, i miei libri
Affondano fuori dalla vista e l’acqua mi è passata sopra la testa.
Sono una suora adesso, non sono mai stata così pura.
Non volevo fiori, volevo solo
Stare sdraiata con le mani alzate ed essere completamente vuoto.
Quanto è gratuito, non hai idea di quanto sia libero
——
La tranquillità è così grande che ti stordisce,
E non chiede nulla, un’etichetta con il nome, alcuni ninnoli.
È ciò su cui si avvicinano i morti, finalmente; Li immagino
Ci chiudono la bocca sopra, come una tavoletta da Comunione.
I tulipani sono troppo rossi in primo luogo, mi fanno male.
Anche attraverso la carta regalo li sentivo respirare
Con leggerezza, attraverso le loro fasce bianche, come un bambino orribile.
Il loro rossore parla alla mia ferita, corrisponde.
Sono sottili: sembrano galleggiare, sebbene mi appesantiscano,
Sconvolgendomi con le loro lingue improvvise e il loro colore,
Una dozzina di piombi di piombo rosso intorno al mio collo.
Nessuno mi ha guardata prima, ora sono osservata.
I tulipani si girano verso di me e la finestra dietro di me
Dove una volta al giorno la luce si allarga lentamente e si assottiglia lentamente,
E mi vedo, piatta, ridicola, un’ombra di carta ritagliata
Tra l’occhio del sole e gli occhi dei tulipani,
E non ho faccia, ho voluto cancellarmi.
I tulipani vividi mangiano il mio ossigeno.
Prima che arrivassero l’aria era abbastanza calma,
Andare e venire, respiro dopo respiro, senza problemi.
Poi i tulipani lo riempirono come un forte rumore.
Ora l’aria si impiglia e vortica intorno a loro come un fiume
Impacchi e vortici attorno a un motore rosso ruggine affondato.
Concentrano la mia attenzione, ero felice
Giocare e riposare senza impegnarsi.
Anche le pareti sembrano riscaldarsi.
I tulipani dovrebbero essere dietro le sbarre come animali pericolosi;
Si stanno aprendo come la bocca di un grande gatto africano,
E sono consapevole del mio cuore: si apre e si chiude
La sua ciotola di fiori rossi sboccia per puro amore per me.
L’acqua che assaggio è calda e salata, come il mare,
E viene da un paese lontano come la salute. Continua a leggere
.
La macchia è la «materia-immagine» della disintegrazione, l’idea della de-figurazione stessa del soggetto e dell’oggetto nel testo, tanto che a realizzare opere di de-figurazione attraverso una lingua-corpo è stato anche il già Antonin Artaud, in testi e disegni dove la de-figurazione non è una banale lacerazione sanguinante né un puro e semplice annientamento della figura. Al contrario, essa è la forza di destabilizzazione che intacca la figura, la forza che mette la figura in movimento e le imprime una rotazione vertiginosa, un ilinx, che è la risposta alla percezione che vede germinare sciami di corpuscoli e striature laddove dovrebbe esistere un solo volto, una sola riconoscibile figura. Ci sono in atto delle forze, invisibili alla percezione quotidiana, che minano alle fondamenta la figuralità della immagine e la distorcono in macchia abnorme. Si tratta delle forze storiche della de-figurazione che agiscono nel profondo dell’inconscio del capitalismo cognitivo e dell’inconscio di ogni individuo, esse sono in azione da un bel pezzo, sono le forze della de-valorizzazione e della de-figurazione.
.
«La storia è un libro di ricette. I dittatori sono i cuochi.
I filosofi quelli che scrivono il menu.
I preti sono i camerieri. I militari i buttafuori.
Il canto che sentite sono i poeti che lavano i piatti in cucina»
(Charles Simic)
Charles Simic
The world doesn’t end (Il mondo non finisce)
Part I
We were so poor I had to take the place of the bait in the mousetrap. All alone in the cellar, I could hear them pacing upstairs, tossing and turning in their beds. “These are dark and evil days,” the mouse told me as he nibbled my ear. Years passed. My mother wore a cat-fur collar which she stroked until its sparks lit up the cellar.
*
The flies in the Arctic Circle all come from my sleepless nights. This is how they travel: The wind takes them from butcher to butcher; then the cows’ tails get busy at milking time.
At night in the northern woods they listen to the moose, the lion… The summer there is so brief, they barely have time to count their legs.
“Brave as a postage stamp crossing the ocean,” they drone and sigh, and already it’s time to make snowballs, the little gray ones with stones in them.
Parte I
Eravamo così poveri che ho dovuto prendere il posto dell’esca nella trappola per topi. Tutto solo in cantina, li sentivo camminare su e giù per le scale, rigirandosi e rigirandosi nei loro letti. “Questi sono giorni bui e malvagi”, mi disse il topo mentre mi mordicchiava l’orecchio. Passarono gli anni. Mia madre portava un collare di pelliccia di gatto che accarezzava finché le sue scintille non illuminavano la cantina.
*
Le mosche nel Circolo Polare Artico provengono tutte dalle mie notti insonni. Ecco come viaggiano: il vento li porta da macellaio in macellaio; poi le code delle mucche si danno da fare al momento della mungitura.
Di notte nei boschi del nord ascoltano l’alce, il leone… Lì l’estate è così breve che hanno appena il tempo di contare le gambe.
“Coraggioso come un francobollo che attraversa l’oceano”, borbottano e sospirano, ed è già ora di fare le palle di neve, quelle piccole grigie con i sassi dentro.
Part II
A poem about sitting on a New York rooftop on a chill autumn evening, drinking red wine, surrounded by tall buildings, the little kids running dangerously to the edge, the beautiful girl everyone’s secretly in love with sitting by herself. She will die young but we don’t know that yet. She has a hole in her black stocking, big toe showing, toe painted red…And the skyscrapers… in the failing light… like new Chaldeans, pythonesses, Cassandras…because of their many blind windows.
*
Dear Friedrich, the world’s still false, cruel and beautiful…
Earlier tonight, I watched the Chinese laundryman, who doesn’t read or write our language, turn the pages of a book left behind by a costumer in a hurry. That made me happy. I wanted it to be a dreambook, or a volume of foolishly sentimental verses, but I didn’t look closely.
It’s almost midnight now, and his light is still on. He has a daughter who brings him dinner, who wears short skirts and walk with long strides. She’s late, very late, so he has stopped ironing and watches the street.
If not for the two of us, there’d be only spiders hanging their webs between the street lights and the dark trees.
*
The dead man steps down from the scaffold. He holds his bloody head under his arm.
The apple trees are in flower. He’s making his way to the village tavern with everybody watching. There, he takes a seat at one of the tables and orders two beers, one for him and one for his head. My mother wipes her hands on her apron and serves him.
It’s so quiet in the world. One can hear the old river, which in its confusion forgets and flows backwards.
*
My guardian angel is afraid of the dark. He pretends he’s not, sends me ahead, tells me he’ll be along in a moment. Pretty soon I can’t see a thing. “This must be the darkest corner of heaven,’ someone whispers behind my back. It turns out her guardian angel is missing too. “It’s an outrage,” I tell her. “The dirty little cowards leaving us alone,” she whispers. And of course, for all we know, I might be a hundred years old already, and she’s just a sleepy little girl with glasses.
*
Once I knew, then I forgot. It was as if I had fallen asleep in a field only to discover at waking that a grove of trees had grown up around me.
“Doubt nothing, believe everything,” was my friends idea of metaphysics, although his brother ran away with his wife. He still bought her a rose every day, sat in the empty house for the next twenty years talking to her about the weather.
I was already dozing off in the shade, dreaming that the rustling trees were my many selves explaining themselves all at the same time so that I could not make out a single word. My life was a beautiful mystery on the verge of understanding, always on the verge! Think of it!
My friend’s empty house with every one of its windows lit. The dark trees multiplying all around it.
Parte II
Una poesia circa il sedersi su un tetto di New York in una fredda sera d’autunno, mentre beviamo vino rosso, circondato da edifici alti, i bambini che corrono pericolosamente al limite, la bella ragazza di cui tutti sono segretamente innamorati seduti da sola. Morirà giovane, ma non lo sappiamo ancora. Ha un buco nella calza nera, l’alluce in vista, la punta dipinta di rosso… E i grattacieli… nella luce fioca… come nuovi caldei, pitone, cassandre… a causa delle loro numerose finestre cieche.
*
Caro Friedrich, il mondo è ancora falso, crudele e bello…
Stanotte ho visto il lavandaio cinese, che non legge né scrive la nostra lingua, girare le pagine di un libro lasciato da un cliente in fretta e furia. Questo mi ha reso felice. Volevo che fosse un libro dei sogni, o un volume di versi stupidamente sentimentali, ma non ho guardato da vicino.
È quasi mezzanotte ormai e la sua luce è ancora accesa. Ha una figlia che gli porta la cena, che indossa gonne corte e cammina a grandi falcate. È in ritardo, molto in ritardo, quindi ha smesso di stirare e guarda la strada.
Se non fosse per noi due, ci sarebbero solo ragni che appendono le loro tele tra i lampioni e gli alberi scuri.
*
Il morto scende dal patibolo. Tiene la testa insanguinata sotto il braccio.
I meli sono in fiore. Si sta dirigendo verso la taverna del villaggio con tutti a guardare. Lì si siede a uno dei tavoli e ordina due birre, una per lui e una per la testa. Mia madre si asciuga le mani sul grembiule e lo serve.
È così tranquillo nel mondo. Si può sentire il vecchio fiume che nella sua confusione dimentica e scorre all’indietro.
*
Il mio angelo custode ha paura del buio. Fa finta di no, mi manda avanti, mi dice che arriverà tra un momento. Ben presto non riesco a vedere nulla. “Questo deve essere l’angolo più buio del paradiso”, sussurra qualcuno alle mie spalle. Si scopre che anche il suo angelo custode è scomparso. “È un oltraggio”, le dico. “I piccoli sporchi codardi che ci lasciano soli”, sussurra. E ovviamente, per quanto ne sappiamo, potrei avere già cent’anni, e lei è solo una bambina assonnata con gli occhiali.
*
Una volta che lo sapevo, poi l’ho dimenticato. Era come se mi fossi addormentato in un campo solo per scoprire al risveglio che un boschetto di alberi era cresciuto intorno a me.
“Non dubitare, credi a tutto”, era l’idea della metafisica dei miei amici, anche se suo fratello era scappato con sua moglie. Le comprava ancora una rosa ogni giorno, rimase seduto nella casa vuota per i successivi vent’anni a parlarle del tempo.
Stavo già sonnecchiando all’ombra, sognando che gli alberi fruscianti erano i miei tanti io che si spiegavano tutti insieme in modo da non riuscire a distinguere una sola parola. La mia vita era un bellissimo mistero sul punto di capire, sempre sull’orlo! Pensaci!
La casa vuota del mio amico con tutte le finestre illuminate. Gli alberi scuri che si moltiplicano tutt’intorno.
Part III
The time of minor poets is coming. Good-by Whitman, Dickinson, Frost. Welcome you whose fame will never reach beyond your closest family, and perhaps one or two good friends gathered after dinner over a jug of fierce red wine… while the children are falling asleep and complaining about the noise you’re making as you rummage through the closets for your old poems, afraid your wife might’ve thrown them out with last spring’s cleaning.
It’s snowing, says someone who has peeked into the dark night, and then he, too, turns toward you as you prepare yourself to read, in a manner somewhat theatrical and with a face turning red, the long rambling love poem whose final stanza (unknown to you) is hopelessly missing.
After Aleksandar Ristović
O the great God of Theory, he’s just a pencil stub, a chewed stub with a worn eraser at the end of a huge scribble.
Parte III
Il tempo dei poeti minori sta arrivando. Arrivederci Whitman, Dickinson, Frost. Ti diamo il benvenuto la cui fama non andrà mai oltre la tua famiglia più vicina, e forse uno o due buoni amici si sono riuniti dopo cena davanti a una brocca di vino rosso feroce… mentre i bambini si addormentano e si lamentano del rumore che fai mentre frughi nel armadi per le tue vecchie poesie, temendo che tua moglie possa averle buttate via con le pulizie della scorsa primavera.
Nevica, dice qualcuno che ha sbirciato nella notte oscura, e poi anche lui si volta verso di te mentre ti prepari a leggere, in maniera un po’ teatrale e con il viso che diventa rosso, la lunga e sconclusionata poesia d’amore la cui strofa finale (a te sconosciuto) manca irrimediabilmente.
Dopo Aleksandar Ristović
O il grande Dio della teoria, è solo un mozzicone di matita, un mozzicone masticato con una gomma consumata alla fine di un enorme scarabocchio.
Aforismi
da Il mostro ama il suo labirinto, Monster Loves His Labyrinth 2008
Dove il conformismo è considerato un ideale, la poesia non è la benvenuta.
Faccio parte di quella minoranza che si rifiuta di far parte di qualsiasi minoranza ufficialmente definita.
Gli orrori del nostro tempo ci faranno provare nostalgia di quelli del passato. Non credo in Dio, però evito di aprire l’ombrello in casa.
I nostri ricchi sono più bravi a rubare dei nostri ladri comuni.
Il miglior argomento a favore del vino, del tabacco, del sesso e dei discorsi a vanvera consiste nel fatto che ogni maggioranza cosiddetta morale li condanna.
Il nazionalismo è amore per l’odore della nostra merda collettiva.
Il poeta vede quello che il filosofo pensa.
L’ambizione segreta di ogni opera letteraria è quella di obbligare dèi e diavoli ad accorgersi di lei.
L’utopia: una sostanziosa torta al cioccolato protetta dalle mosche sotto una campana di vetro.
La bellezza di un attimo fuggente è eterna.
La gentilezza di un essere umano verso un altro in tempi di odio e violenza di massa merita maggior rispetto delle prediche di tutte le chiese dall’inizio del tempo.
La stupidità sta conoscendo un revival nazionale. Basta accendere la TV per vedere il suo largo bonario sorriso.
Le fotografie ci mostrano quello che non abbiamo le parole per dire.
Notte d’autunno fredda e ventosa. Sull’angolo, una barbona parla con Dio; lui, come al solito, non ha niente da dire.
Qualunque cosa è uno specchio, a guardarla abbastanza a lungo.
Qualunque ideologia o fede che non sia insaporita dall’odio non ha alcuna possibilità di successo popolare. Per essere veri credenti bisogna essere campioni d’odio.
Reading di poesia. I quattro poeti continuarono a urlare per tutta la sera: «Il mio dolore è più grande del tuo».
Tra la verità che si sente dire e la verità che si vede, preferisco la verità silenziosa di ciò che viene visto
.
Charles Simic è nato a Belgrado nel 1938. Nel 1990 è stato insignito del premio Nobel. Dal 1953 risiede negli Stati Uniti, dove insegna Letteratura inglese all’università del New Hampshire. Nel 1967 è apparsa la sua prima raccolta di poesie, What the Grass Says. Da allora ha pubblicato un cospicuo numero di opere fra cui ricordiamo Prose Poems (1990), che gli è valso il Premio Pulitzer, e Jackstraws (1999), insignito dal «New York Times» del titolo di «Notable Book of the Year». Ha tradotto in inglese poeti serbi, croati, macedoni, sloveni, francesi.
.
In una intervista Simic dichiara:
“A pagina uno del mio libro dei sogni/ è sempre sera/ in un paese occupato./ L’ora prima del coprifuoco./ Una cittadina di provincia./ Le case tutte al buio./ I negozi sventrati”. Ricordi certo non nostalgici. Quando aveva tre anni giocava alla guerra come tutti i ragazzini quando all’improvviso fu sbalzato da una bomba tedesca; “Le mie agenzie di viaggio sono state Hitler e Stalin” ha dichiarato, caustico, parlando del suo arrivo in America. “I tedeschi e gli alleati mi bombardavano a turno, mentre giocavo, sul pavimento della mia stanza, con la mia collezione di soldatini”. Un’immagine che è finita in una sua poesia: “Giocavamo alla guerra durante la guerra,/ Margaret. I soldatini erano molto richiesti,/il tipo in terracotta./ Quelli di piombo finivano sciolti a far pallottole,/ immagino”. Humor balcanico?
Domanda:
A proposito della lingua serba, lei spesso racconta un aneddoto divertente e surreale. Di quando, con suo zio Boris, mentre discutevate animatamente in un bar americano, una signora si è avvicinata per chiedere in che lingua parlavate. E voi…
Risposta:
“Noi abbiamo risposto che eravamo gli unici due superstiti di una tribù di africani bianchi, che parlava una lingua ormai estinta. Ci ha creduto. Gli americani del resto hanno un’idea molto vaga della geografia mondiale, nonché della storia, quindi sono sempre tentato di prenderli in giro. Una volta – ero su un treno che attraversava l’Ohio – ho raccontato a una giovane donna che ero un principe russo in esilio, e le ho descritto, minuziosamente, tutti i palazzi che possedeva un tempo la mia famiglia. Lei era incantata”.
il linguaggio di Celan sorge quando il linguaggio di Heidegger muore,
volendo dire che il linguaggio della poesia – della ‘nuova’ poesia –
può sorgere soltanto con il morire del linguaggio tradizionale
che la filosofia ha fatto suo, o – forse – che si è impadronito della filosofia.
(Vincenzo Vitiello)
Glossa di Giorgio Linguaglossa
Non sorprende che Charles Simic, poeta intellettualissimo ma che ama presentarsi al pubblico come illetterato, se non trasandato, abbia sostenuto che «il vero poeta è specializzato in una sorta di metafisica della camera da letto e della cucina» e che il poeta è «il mistico della padella e dei piedi rosa del [suo] amore». Il suo gusto per i dettagli è legato all’apprezzamento per la semplicità e la brevità della poesia che non deve mai superare per lunghezza una pagina e non più di sedici versi. «I musicisti blues sanno che poche note giustamente posizionate toccano l’anima, e anche i poeti lirici». Simic, da poeta post-lirico, si è espresso anche mediante la metafora culinaria: «L’idea è che è possibile preparare piatti sorprendentemente gustosi con gli ingredienti più semplici». Alcuni dei migliori cuochi lo hanno osannato. Escoffier ha preso come motto la sua frase «Faites simple», un’ingiunzione che è anche un principio compositivo.
La dizione e la sintassi sono quelle dell’inglese di base. Si legge sulla sovracoperta di un suo libro che «il suo lavoro è apparso in traduzione in tutto il mondo». Un altro retro di copertina ci dice che il libro «evocherà una varietà di ambientazioni e immagini… [e] soggetti», ma in realtà le sue poesie trattano una serie di motivi strettamente correlati: l’oscurità, i senzatetto, impiegati, cinesi, slums, edifici vuoti e fatiscenti, macelli, pompe funebri, cimiteri… È la varia umanità del capitalismo che popola le sue poesie, senza etichette, senza sovraesposizioni ideologiche né retorica, il lessico ed il tono sono crudi, diretti, come se si dovessero dire cose impellenti ma non importanti.
La poesia è una forma d’arte anteriore alla alfabetizzazione. Nelle civiltà pre-letterate, la poesia era impiegata come mezzo di registrazione di storia orale, narrazione, ovvero, poesia epica. Le svariate forme di espressione presso le società moderne sono sempre state trattate tramite la prosa. Il Ramayana, un poema epico in sanscrito, fu probabilmente scritto nel 3 ° secolo a.C. in un linguaggio descritto da William Jones come “più perfetto del latino, più abbondante del greco e più squisitamente raffinato di entrambi.” La poesia nasce e si sviluppa con la liturgia presso le civiltà arcaiche pre-letterarie, in quanto la natura formale della poesia la rende più facile da ricordare sotto forma di incantesimi sacerdotali o di profezie. La maggior parte delle scritture sacre in tutte le antiche civiltà sono rese tramite la poesia piuttosto che tramite la prosa.
Dispositivi retorici come similitudine e metafora sono frequentemente utilizzate in poesia fin dai tempi più antichi. Infatti, Aristotele scrisse nella sua Poetica che “la cosa più grande in assoluto è quella di essere un maestro della metafora”. Tuttavia, in particolare dopo l’ascesa del modernismo, alcuni poeti hanno optato per l’uso ridotto di questi dispositivi, preferendo piuttosto di tentare la presentazione diretta delle cose e delle esperienze. Altri poeti del XX e XXI secolo, tuttavia, in particolare i surrealisti, hanno spinto i dispositivi retorici ai loro limiti, facendo uso frequente di catacresi.
Non mi meraviglia dunque che un poeta del tardo modernismo come Charles Simic utilizzi il verso libero come strumento chirurgico per veicolare il suo peculiarissimo parlato misto a perifrasi gnomiche nel bel mezzo della forma-racconto; in tal modo rivitalizza la forma-racconto della poesia. È paradossale ma vero che oggi la poesia nelle civiltà tecnologicamente evolute se vuole sopravvivere a se stessa debba riprodurre in qualche modo le forme di espressione delle antiche civiltà pre-letterarie. La forma-racconto in poesia aveva già mostrato tutti i suoi limiti ne La ragazza Carla (1959) di Pagliarani, il lungo poema narrativo con epicentro la dattilografa Carla alla lunga mostra tutti i suoi punti deboli. La forma-poesia della più evoluta poesia di oggi non può fare a meno di riappropriarsi delle forme di espressione del parlato, con annesso tutto il bagaglio de il colloquiale, il soliloquio, il monologo, il dialogo, il non detto, i pensieri inespressi, i retro pensieri, il linguaggio dell’inconscio.
La forma-poesia della più evoluta poesia di oggi è questa di cui stiamo parlando.