foto Christer Strömholm
Donatella Costantina Giancaspero
29 settembre 2017 alle 18.09
Vorrei aggiungere una piccola annotazione, ovvero le parole che Alfredo de Palchi riporta nella sua nota a Sessioni con l’analista (1964 – 1966), in Paradigma, tutte le poesie: 1947 – 2005 (Mimesis, 2006).
Si tratta di un commento molto breve, ma non per questo meno significativo, poiché ribadisce la necessità di un approccio psicologico ai suoi testi – questi in particolare -, così come ho tentato di fare io nella mia analisi. Ed è stato indispensabile affrontare il discorso da una prospettiva lacaniana, in quanto l’impianto strutturalista della psicoanalisi di Jacques Lacan offre molti utili strumenti per l’indagine e l’interpretazione del testo poetico.
Queste le parole di Alfredo de Palchi:
Sessioni con l’analista (1964 – 1966)
Scritti di getto durante una esperienza malsana nell’estate del 1964 in Bucks County nello stato di Pennsylvania, i 23 testi formati nel presente storico, psicologicamente intercalano le esperienze personali del passato alle attuali. L’intravisto analista è un carattere emblematico e perché tale può essere un oggetto inanimato: la bottiglia, la tavola, la finestra, oppure animato: la mia gatta, la donna, il maiale. Per la cronaca, frequentai un analista dopo la pubblicazione del libro.
Insomma, qui sembra che proprio l’autore voglia indicarci la via per l’esatta comprensione dei suoi versi. Ci dice: io scrivo questo. E questo non puoi capirlo se sei ancora sottomesso alla struttura del linguaggio (per dirla con Lacan) in uso presso quella critica che tu sai, la critica miope e generica di derivazione accademica.
Donatella Costantina Giancaspero
30 settembre 2017 alle 12.46
Riprendendo il discorso… vorrei nuovamente citare Alfredo de Palchi, riportando un’altra sua testimonianza molto interessante sul contesto in cui è nata la raccolta “Sessioni con l’analista”. Scrive de Palchi nell’aprile 2014:
«Nel lontano 1964, mi segregai nella bella campagna collinare dello stato di Pennsylvania (azione di sparire per un mese o due dalla città, in luoghi disabitati, e camminare per sentieri traversati da caprioli mucche conigli fagiani etc., oppure sulle spiagge del New Jersey con neve vento e migliaia di gabbiani).
Durante i mesi estivi del 1964, nella mia casa, accompagnato dalla mia gatta parigina Gigi, indisturbato compilai di getto, in pochissimi giorni, le 23 Sessioni con l’analista (lasciate in disparte poi fino al 1966 quando decisi di revisionarle). Non avendo esperienza alcuna del paziente, cominciai a conversare, o confessare, con l’immagine dell’analista che era la mia gatta, quasi sempre sulla scrivania; quando non c’era mi rivolgevo all’albero fuori dalla finestra, e di sera alla bottiglia di vino di fronte. Ovviamente l’analista, ovvero gatta albero e bottiglia, benché mi ascoltassero attentamente, non rispondevano. Ma io continuavo a interpellare il loro muto. . . “perché”, con il mio “perché” e con il “perché” dei vari personaggi sovrapposti, così creando un narrare frammentato da trascorse e attuali situazioni e nello stesso momento da quelle che crescevano attorno, per darne un senso direi complesso. . . senso?––incomunicabile dell’io e del resto. Sicuro, “l’atto della scrittura si è de-soggettivato”.
Dalla sua riflessione finale si deduce la parola chiave per la comprensione dei testi di “Sessioni”: incomunicabilità, o meglio «(incomunicazione)», così come inizia la seconda poesia della raccolta:
(incomunicazione)
frammenti secchi singhiozzi, turbinio
interno – mi ascolti
congelando alla parete una stampa
di olmi fiume e strada
– che ho perso –
mentre con sola immaginazione parlo
al compatto vuoto del soffitto
che dici, seccamente il tuo “perché”
frantuma il silenzio dell’ufficio
– la segretaria al telefono… –
oltre l’uscio lunedì all’una
risponde e a me sabato all’una
il dottore.. incredibile,
che ne so –
il “perché” è domanda stupida
– difficile –
impossibile estrarlo, rimane una cava
paleolitica,
impossibile cauterizzarlo e ancora il tuo “perché”
non ho colpe,
altri, i complessi
del paleolitico superiore –
“che fa la segretaria”
si tratta d’isolamento
incompiutezza –
(stesura del 1964)
Ed ecco come commenta questo testo Giorgio Linguaglossa in un paragrafo della sua monografia dedicata alla poesia di Alfredo de Palchi, Quando la biografia diventa mito, (Progetto Cultura, 2016, pp. 150 € 12):
“La poesia inizia con il termine «(incomunicazione)» messo tra parentesi e finisce con la parola «incompiutezza», senza parentesi. C’è un dialogo, ma del tutto slogato, dissestato, de-territorializato, che non obbedisce più alla legislazione della sintassi. Qual è l’oggetto?, non si sa, ci sono «frammenti», «singhiozzi», compare un «mi ascolti», ma non sappiamo chi sia l’interlocutore che dovrebbe porsi in posizione di ascolto. Si progredisce nei tre quattro versi seguenti a tentoni, fino ad incontrare: «parlo al compatto vuoto del soffitto». Si cerca un «perché», si va alla ricerca di un «perché» come un commissario va alla ricerca delle tracce del delitto; nella composizione sono inseriti spezzoni di dialoghi, dialoghi espliciti e dialoghi impliciti, proposizioni implicite di un monologo pensato. C’è una «segretaria al telefono», ma non si capisce bene se sia lei ad inserirsi nel dialogo o se stia tentando di «cauterizzarlo», come si cauterizza una escrescenza. Il dialogo (o meglio il monologo) non va alla ricerca del senso, piuttosto lo fugge con tutte le sue forze, vuole divincolarsi dal legame col «senso», vuole liberarsi dalla soggezione del «senso», così come parimenti vuole liberarsi dalla «soggezione della sintassi», dal potere estraneo e impositivo della logica, suprema inerenza della sintassi”.
*
Alfredo de Palchi
2 ottobre, 2017 alle 3,33
Questa volta L’Ombra mi sorprende con una incursione analitica nel libro del 1967, Sessioni con l’analista. Cinquant’anni di silenzio critico, e di cretineria degli addetti ai lavori, si sono rivelati preziosi durante gli anni recenti con scritti di Luigi Fontanella, di Roberto Bertoldo, e Giorgio Linguaglossa a cui Roberto m’indicò. Mai dubitai dell’originalità dell’opera perché sapevo che il confessionale del prete sarebbe scaduto con la chiacchiera pseudo psicologica di P.P. Pasolini. In quell’epoca, la scelta ideologica in auge indusse la cretineria del premio Viareggio a premiare l’opera prima in combutta fino alla fine con “Sessioni con l’analista” inviata a mia insaputa da Vittorio Sereni. L’opera prima vincente era già defunta come poesia. Non per i cretini che anche al premio Prato bocciarono Sessioni con l’analista nonostante l’opera fosse sostenuta da Giorgio Caproni. In più lessi su La Nazione e La Fiera Letteraria, ridendo, una recensione che scannava il mio libro e quello vincente al Viareggio. Quando incontrai l’autore della recensione, Silvio Ramat, lo ringraziai perché era una recensione, non la presi come offesa, tanto che Ramat ed io siamo amici. Trent’anni dopo capì che la mia Grazie per il l’insolito Paganini, bellissimo. Poesia non era come l’aveva analizzata. Succede. Dunque, ora che vedo un interesse più adeguato per analizzare e sostenere il lavoro d’un poeta, ho la soddisfazione che mi mancava. Allora, come complimentare e ringraziare l’intelligente e sensitiva Donatella Costantina Giancaspero. Non so come a parole. Per l’insolito Paganini, bellissimo pezzo, ricambio con un dono pitocco ma ricchissimo di “effetti collaterali” che per anni mi hanno ispirato a scrivere tanta poesia. Per me è la migliore interpretazione del quinto concerto per pianoforte di Luigi Beethoven. E grazie a Giorgio Linguaglossa, e a coloro che commentano anche con entusiasmo. Grazie, ma sono stufo di ringraziare, meglio che vi abbracci dandovi un bacio sulla fronte, anche ad Anna Ventura, guai che menzioni il mio nome invano. . .
Giorgio Linguaglossa
30 settembre 2017 alle 18.55
Una nota di stilistica, quanto mai opportuna per la comprensione della poesia di Alfredo de Palchi.
«Cito da La vita delle parole studiata nei loro significati di Arsène Darmester, 1886.
Così, nella formazione del nome che da oggettivo passa allo stato di sostantivo; nelle restrizioni di significato che assorbono il determinante nel determinato: nelle metonimie, che trasferiscono il nome da un oggetto a un oggetto vicino unito al precedente da un rapporto costante; nelle estensioni e nelle metafore che fanno sì che si dia il nome di un primo oggetto, ben presto perso di vista, a un secondo oggetto che può essere della stessa natura ma, più generalmente di natura diversa; ovunque, condizione del cambiamento è il fatto che la mente oblia un primo termine e non considera più che il secondo.
A questo oblio i grammatici hanno dato il nome di “catacresi”, vale a dire “abuso”…».
2 ottobre alle 21.52
Volevo dire una cosa che mi è venuta in mente adesso: che in tutto il Novecento forse non c’è nessun poeta che abbia un immaginario più «povero» di quello di Alfredo de Palchi. Pensateci un attimo. Tutta la sua poesia gira da più di sessant’anni attorno ad un nucleo, sempre e solo quello. Per l’inconscio non vige il tempo lineare che regna nel sistema Conscio, per l’inconscio tutto ruota attorno ad un buco, ad un punto. Tutta la trama immaginativa di de Palchi ruota attorno a questo punto, tutto il resto è inessenziale, viene espulso dal suo sistema simbolico.
L’immaginario è sempre in lotta contro l’oblio, perché non vuole essere annientato. È forse il prodotto più alto e nobile dell’homo sapiens.
Giorgio Linguaglossa
Dal 1967 al 2017, sono passati 50 anni, 50 anni dividono il libro di esordio di Alfredo de Palchi da questa poesia di Mario Gabriele (che ho tratto dal suo blog: http://mariomgabriele.altervista.org/inedito-mario-m-gabriele-4/ ). Mezzo secolo per far passare il testimone da un maestro all’altro.
Mario Gabriele
Non è proprio una bella giornata, Edmund,
se oggi il colore bianco è uguale al nero
e il silenzio è un chiasso nel cielo di settembre.
Fuggono le Erinni,
qualcuna resiste sul picco del Matese.
Ci hanno stancato le braccia, le gambe senza osso.
Statico è l’occhio di Averna, fisso alla finestra
a guardare chi è fuori e dentro il tempo.
Forse un addio dovevamo dirlo a Sullivan
quando partì per Burkina Faso.
Se ripenso a Joyce
torna Molly Bloom,
donna pretty come in To mother di Lowell
quando ne fece un quadro underground,
così pure per Josephine Beaubarnais,
la femme militaire
sulla soglia del dolore e della dolce vita.
Pretty, ma se fosse così anche la morte
le regaleremmo un vasetto Revitalift
sulle rughe del viso.
Con queste vendette del tempo
non andiamo al di là dell’Ipermercato,
con i coupons e Postepay a comprare
tutto il buono del Paese e le valigette
con colori a cera e acquerelli,
per dipingere di nuovo il Mondo,
bianco e senza macchie,
come il picco alto di Annapurna.
Mario Gabriele
mi hai fatto un dono che non aspettavo. Grande è stato il paragone che mi ha portato a sentirmi troppo onorato. Sono anni che pubblico poesie e tutte le volte mi sembra di andare alla ricerca del Vello d’oro, di quel mistero che circonda l’umanità nel ciclo del suo destino. Questo modo di scrivere mi porta ad una definizione che di me fece lo scrittore Domenico Rea nella presentazione del mio volume:”Carte della città segreta”, definendomi un “cantastorie”. Forse è proprio in questo termine che si enuclea tutta la mia poesia che è una sorta di capitoli a puntate che si arricchiscono di eventi nuovi, di fatti, di tracce, di episodi, e di situazioni paradossali, e chi meglio di te ha saputo interpretarne le innumerevoli segnaletiche che si presentano nel corso della lettura dei miei testi poetici; basta andare a rileggere, quanto hai scritto nella presentazione del mio volume In viaggio con Godot, ora in corso di stampa. Ma forse il testimone sarebbe dovuto passare a te che scrivi versi non riscontrabili nel panorama di oggi, sempre più alla ricerca di Movida, di piccole cose “di pessimo gusto”, perché l’introiezione del Nulla in ognuno di noi è così presente da preferire lo “sballo”,il pugno assassino,la corruzione, la pedofilia, il fanatismo religioso,l’estravaganza del Potere e l’Onnipotenza su questa terra ormai in declino. E noi, paradossalmente, che facciamo? scriviamo poesie, come”pena assoluta”. Proprio oggi, Mariella Colonna mi ha mandato una e-mail chiedendomi come interpretare il tuo verso: “Il bacio è la tomba di Dio”. Difficile le ho scritto armonizzarsi con il pensiero del poeta, cercare la base che ha prodotto il truciolo diventato mistero nel mistero. Questo credo, debba essere la parte più significativa che deve avere la poesia il cui compito è ricostruire mobili e suppellettili, dare per un attimo un paravento alla pioggia. Grazie.
Giorgio Linguaglossa
Posto qui una poesia rubata dal sito di Lucio Mayoor Tosi. Sono dei pensieri fotogrammi alla maniera della nuova ontologia estetica, a metà tra l’aforismario e il rimario. Pensieri che pensano le «cose» dal punto di vista delle «cose».
Tutto è illusione. Poesia.
L’Io è guardarsi nelle cose.
Io in tutte le cose, una a una.
Più sono le cose e più la distanza
tra presente e passato si assottiglia.
Le cose si offrono, offrono loro stesse.
L’esercito dei barattoli
non perdeva una parola, uno sguardo.
Giorgio Linguaglossa
29 settembre 2017
Posto un’altra poesia di Lucio Mayoor Tosi rubata al suo sito:
La sagoma scura di tutte le cose
sta sul fondo specchiato, dentro le cartilagini
di un nero elettrodomestico.
È vita
come la potrebbe immaginare
un vecchio sacerdote che abbia perso la fede.
E si sentisse, oltretutto, ancora
in buona salute.
Dimenticato dagli angeli
e divorato dalla solitudine
osserva sui muri il fianco di uno yacht
dalle dimensioni infinite.
Il più lussuoso e inutile dei giocattoli
se ne sta ormeggiato sopra una svogliata
famigliola di pesci.
Sono le cinque del mattino.
Non si vede intorno anima viva.
Parole di sangue gli scorrono allineate
dal senso. Danzano come fili della corrente
visti dal finestrino di un treno lanciato
sulla pianura.
Una poesia di Mauro Pierno
29 settembre 2017 alle 18.09
questo movimento ondivoro.
scarto di noi onnivori.
e mi ci ritrovo, sempre tra voi, amici.
(tra queste baluginanti immagini sempre ritrovo un bandolo.
questi riflessi di poesia io,
come dire, riesco a capirla!)
è una poesia illuminante.
bellissima. abbraccio Mayoor Tosi.
sono un pesce, di quella famigliola di pesci.
(sto qui
a lanciare sassi
in uno stagno
aspettando
che qualcuno
abbocchi.)
mauro pierno
grazie Ombra.
Una poesia di Fritz Hertz (eteronimo di Francesca Dono)
– avete visto il mio Fifì? –
Sono andato a cercare nel cassetto poi
sopra la gruccia chiusa in armadio
Nessuna traccia
Neanche l’alone ruffiano di un residuo
Allora ho pensato fosse per
strada
Gli alberi nudi
La gente al supermarket assiepata tra le corsie
come un budello liscio e sottile
Qualcuno rassettava gli uccelli
nello scaffale di metallo
Sono entrato
Ho chiesto a tutti i presenti
-Avete visto il mio Fifì ?-
Ma il silenzio era più alto
del brusio
Una poesia di Mario De Rosa
U’ cafesinho
Tra rui furceddri ì ferru
sup’a’ vrescia,
jiddra giravi l’abbrusculiaturu,
chjinu ì cafè cruru r’America
cu’ tanta pacienzia
giravi puru n’ura.
Arrivetu pi’ paccu o pi’ l’amici,
n’dà nu saccucceddru
cusutu a tutti ì leti,
jieri pinzeru fattu cù l’affettu,
rà figghjiu ,maritu ,o ra nu fretu.
E jieri chjina a’ chesa ri vicini
apposta drè pì drì ri Miricheni
e appena abbrustulutu u’ cafesinhu
po’ lu facìjnu alla “napulitena”.
Cu parlatoriu,risa e cacchi lacrima
ognunu vivìj ca tassa a grazia i Diu ,
cuntentu jieri mammita ca tassa,
e a ognirunu li parlavi dri tia
Caffè dal brasile
Su due forcelle di ferro
sulla brace,
lei girava il tostacaffè,
pieno di prodotto crudo dall’America
con tanta pazienza
anche per ore.
Giunto per pacco o tramite amici,
in un sacchettino
cucito da tutti i lati,
era un regalo affettuoso :
di figlio, marito, o di fratello.
E la casa si riempiva di vicini
venuti apposta per sapere degli “americani,”
appena abbrustolito il “cafesinho”,
lo preparavano alla napoletana.
Tra confusione, risate e qualche lacrima
ognuno assaggiava quella “grazia di Dio”
Una poesia di Mariella Colonna
Berenice non è una regina
Sull’azzurro di un mare appena sognato
si specchiò la bella Berenice.
E vide sull’acqua l’ultima stella.
Ma una nuvola scura
formò un’isola d’ombra su quel mare assolato…
grandi uccelli senza fissa dimora
a stormi raggiunsero l’isola e la fanciulla.
Quattro delfini d’argento formarono
quattro cerchi di spuma sull’acqua
per farla danzare, ma gli uccelli feroci
dilaniarono la sventurata
non per divorarla, per difendere il territorio,
quell’ombra che invece era solo un’ombra.
Giravano intanto le pale dell’antico mulino
in una città dell’Europa centrale
e l’acqua scorreva lontano con rumore di pianto
mentre gli uccelli volavano via senza più memoria.
Ma nessuno ascoltava, nessuno sapeva
di quel dolore perduto nello spazio
infinito, solo il vento.
Amici del vento, poeti:
scrivete di Berenice e delle altre vittime,
scrivete del loro breve inconsapevole esistere
sotto una volta di stelle accecate di luce,
schiave del silenzio, che non sanno gridare
contro la cecità del Fato e dell’uomo.
Perché il mondo è retto da ingranaggi
e gli orologi misurano il tempo
non le ore della vita.
Ma la vita scorre come il Furens
lento e mite di verde a Saint Etienne
come i ricordi che ci dimenticano
se li dimentichiamo.
E la forza dei sogni è solo di chi non dorme
per vigilare sull’ombra dei fiori
e dei passi fugaci sulla sabbia.
Se dorme il mare… sogna Berenice.
E l’orologio segna un tempo diverso.
Tre poesie
di Alejandra Alfaro Alfieri in onore di Alfredo de Palchi
Stagnazione
Dentro il cortile c’è il sole sparso per terra, spento.
Intorno al sole spento volava una farfalla bianca
che circondava il paradiso della sua anima.
Da lontano si vede come se ne vanno l’illusione,
i ricordi della spiaggia
e di come la sabbia invitava ad uscire sempre più verso il mare
per avvicinarsi al cerchio.
Ritroveremo nel vento il lamento
e il dolore nella pioggia del cielo,
di questa vita immatura e mondana
*
L’attesa vestiva i nostri corpi.
Tu stavi in silenzio – le mie dita, la pelle della tua spalla.
Non volevo pensare. Che dovevo separare
la mia illusione dal tuo sguardo obliquo
I minuti si cercavano alla fine della mia partenza.
La sua vita tornava lontano da lei.
Invece, noi ci allontanammo da noi stessi,
non condividevamo lo stesso spazio.
La distanza non era più compresa come una misura geográfica o física,
la distanza non esisteva più.
Gli specchi non smettevano di osservarmi.
La parete era piena di quadri appesi alla rinfusa,
raggruppati secondo la corrente artistica di appartenenza.
Mi ero concentrata su come si scioglievano le mie cuffie
sulla vecchia sedia di legno, ma esse non dicevano nulla,
le canzoni blues si erano stancate di ritornare in scena,
neanche l’attesa mi chiamava.
Solo mi ricordai della volta in cui
mi infilai sotto le coperte.
*
Un circolo vizioso
Questa è la poesia dell’incertezza
l’anima nascosta
di chi porta una tigre silenziosa.
C’e il volto della gioventú nel buio dell’universo.
Tra le ginocchia l’attesa resta in sospeso.
Dall’altro lato il tempo si scioglie
dietro al paradiso, un riflesso nello specchio traguarda.
Sotto al letto, a bassa voce, una tigre
mi segnala l’ombra che dalla giungla
arriva al vuoto sottofondo. Un circolo vizioso.
Nel deserto soffiavano persi i respiri,
gli strumenti a fiato dell’attimo.
Il fiore di primavera, cosí lo ricordo,
spogliava l’indecenza.
*
Una poesia di Sabino Caronia in onore di Alfredo de Palchi
Anima mia piccina
saltellando nel ballo
e agitando la testa
nel tepore dell’aria
ti sollevi coi piedi
sopra l’erba lucente
che trascorre leggera
una bava di vento.
Una poesia di Sabino Caronia in onore di Alfredo de Palchi
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/03/dialogo-a-piu-voci-e-poesie-in-onore-di-alfredo-de-palchi-donatella-costantina-giancaspero-lucio-mayoor-tosi-mario-gabriele-mariella-colonna-gino-rago-fritz-hertz-francesca-dono-mauro-pierno/comment-page-1/#comment-24487
Anima mia piccina
saltellando nel ballo
e agitando la testa
nel tepore dell’aria
ti sollevi coi piedi
sopra l’erba lucente
che trascorre leggera
una bava di vento.
CARISSIMO SABINO,
MA QUESTA NON è UNA TUA POESIA!!! è UNA POESIA DI kAFKA, TROVATA TRA LE SUE CARTE!!! (ma anche questi giochi fanno parte della nuova ontologia estetica!!!)
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/03/dialogo-a-piu-voci-e-poesie-in-onore-di-alfredo-de-palchi-donatella-costantina-giancaspero-lucio-mayoor-tosi-mario-gabriele-mariella-colonna-gino-rago-fritz-hertz-francesca-dono-mauro-pierno/comment-page-1/#comment-24488
In ognuna di queste poesie si avverte il bisogno di stare nel viaggio introspettivo, verso la conoscenza di sé ma tra le cose; quindi con l’intento di non fermarsi alla psicanalisi ma di trovare senso ontologico nell’esistere. Al lettore non interessa quale sia la psiche del poeta, quali i suoi tormenti, gli interessa di trovarsi coinvolto nel percorso introspettivo. Si tratta infatti di una nuova dimensione, tra psicanalisi e storia, una dimensione del tutto inedita e inusuale.
Tra cent’anni, che diranno le persone di noi? Non sarà come adesso quando cerchiamo di leggere tra le rovine di civiltà passate: di noi si saprà tutto! Dagli omicidi, femminicidi, alle nevrastenie. Diranno bene ma penseranno che mancando di conoscenza introspettiva siamo come persone che si lavano poco.
L’esperienza raccolta in queste poesie sa di nuovo e pulito.
copio e incollo dal blog di Paolo Statuti:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/03/dialogo-a-piu-voci-e-poesie-in-onore-di-alfredo-de-palchi-donatella-costantina-giancaspero-lucio-mayoor-tosi-mario-gabriele-mariella-colonna-gino-rago-fritz-hertz-francesca-dono-mauro-pierno/comment-page-1/#comment-24491
Urszula Koziol
a cura di Paolo Statuti
Nel mio blog musashop.wordpress.com ho già pubblicato tempo fa diverse poesie della poetessa polacca Urszula Kozioł, mia carissima amica. Quelle che pubblico oggi nella mia versione sono le ultime da lei scritte nel 2017.
Prima del commiato
“Canto a me e alle Muse…”
(Jan Kochanowski)
Credo nelle cose che non si vedono
nella musica che non si sente
credo nelle parole non dette
che rimangono nell’ipotesi
e in quelle impensabili
anche se da qualche parte esistono
Credo nel grido del silenzio
e nella capacità di superare il limite
del tempo e del territorio
tramite un verso
che sa sollevarsi
e da una lingua a un’altra
facilmente trasferirsi con “piedi di piombo”
Credo che l’inesistente
mi trasformerà e illuminerà
perché io scompaia più silenziosa
da questo mondo
senza spaventare una farfalla
pensierosa sopra un fiore
(perché forse presto proprio essa
si tramuterà in me)
Lettere dell’alfabeto
Il mondo effettivo scompare
in mondi paralleli
io già vivo più nel virtuale
che nel reale
Non mando lettere a nessuno
invento risposte
cerco di attingere fiducia
dal fruscio degli appunti
Qua e là gironzolo ed erro
nel letamaio delle parole imbrattate
prive di senso fino ad essere lettere nude
Come riunire queste lettere di nuovo
come riordinarle
come spostarle da parola a parola
La finestra
“Solitudine – a che serve la gente, cos’è il cantore per la gente?…”
(Adam Mickiewicz)
Gli amici sono già corsi da persone più allegre
non si sognano di chiedersi come vivo
I miei morti erano affiatati
io non servo loro più a niente
Non devo affatto ritirarmi nel deserto
per riflettere sul mio destino
Il mio deserto sono queste quattro pareti
la porta alla quale nessuno bussa
il telefono muto
Il mio deserto è la città piena di frastuono
essa mi ha voltato le spalle coi grattacieli
(che mi hanno tolto l’orizzonte
ancora ieri visibile dalla finestra della cucina)
Metamorfosi
Camminando mi sorprendo
a muovere le labbra muta
ma non so che cosa
ostinatamente taccio a me stessa
e a un tratto senza preavviso
da se stesso si svincola un verso
come dalla propria crisalide
adagio e a fatica la cicala
esce buffamente un piedino dopo l’altro
un occhio dopo l’altro
alla luce
libera dai gangli le alucce
le distende
e canta subito
a gran voce col loro aiuto
Tra le linee
Le linee del cuore e della vita
sul mio palmo
si scostano tra loro
corrono come rotaie
verso un binario morto
tra loro
si è stesa l’assenza delle parole
e in ciascuna separatamente
un segno di reticenze
di irriflessioni
tra loro un grande NIENTE
ha messo radici
tra loro banchi
di sabbia fittizia
un qualunque soffio anche il più lieve
già mi versa la polvere negli occhi
non posso trovare me stessa
mi sono smarrita
Invece di una poesia
Faccio passi incerti
seguendo il moto ondulato
di sparse particelle di linguaggio
e di singole lettere
trepidamente aggomitolate
ancora non messe in ordine
né in un alfabeto
né in una parola
nessuna sa ancora
con quale altra
e in quale riga deve disporsi
secondo il suggerimento
e secondo la formazione a delta
presa in cielo da oche e gru
al momento di volare via.
Battito d’ali
Già pensavo che per sempre
il cuore si fosse seccato
che attraverso questi aridi deserti
il verso vivo non passerà
un vento improvviso mi ha strappato
all’immobilità
mi sono aggrappata a una parola
per non cadere
adesso questa parola ha richiamato un’altra
e già entrambe insieme
chiamavano altre e altre ancora
alla fine sono riuscita a raggiungere il suolo
sotto i piedi del verso
ho toccato il fondo
e finalmente sotto i suoi piedi
ho ripreso fiato
*
Le parole hanno preso il loro posto
l’ultima della prima riga
si è unita all’ultima
della terza riga
e tra loro due
si è sparsa l’assenza di parole
bianca come un velo
o piuttosto come una benda
e da sotto questo candore improvviso
si è alzato un frullo
e invisibili ali
mi battevano sugli occhi
*
Le parole vorticarono
e una dopo l’altra con improvviso slancio
scomparvero in una nuvola lattea
e ho sentito
che mi rubavano un frammento di anima
e lo portavano non si sa dove
e non si sa dove l’hanno lasciato
e di nuovo il cuore si è seccato
non so per quanto tempo
e ho sentito gli inarrestabili piedi
di un verso che svaniva
che di nuovo mi abbandonava
e – non saprò per quanto tempo –
di nuovo mi ha strappato la penna di mano
Ai margini del crepuscolo
“L’orologio batte la mezzanotte,
scompari malinconia”
(Jan Kochanowski)
Sono annegata nelle lacrime
mi sono ubriacata di tristi momenti
non sono riuscita a ripescare
l’uomo amato
mai mi sono salvata per miracolo
sono precipitata in un burrone
mi hanno perso di vista
hanno ripreso le ricerche un anno dopo
nessuno sa con quale risultato
per questo resto nel dubbio
vivo non vivo – –
recentemente
mi sono impigliata in un fato
si è visto che non era il mio
sono finita qui per errore
ormai non stava bene ritirarsi
non provengono da ciò questi sogni
altrui che si ripetono
e non mi appartengono? –
mi sorprende la presenza nei miei sogni
di tante persone
mai viste prima
e anche di luoghi
di paesaggi nei quali
– che strano! – mi sento a casa mia
riconosco le strade, le case
so quale tram prendere
e per quale guado senza pericolo
passare dall’altra parte del fiume
i sogni bucati favoriscono
le immagini inventate
di sicuro si insinuano tra le fessure
mi stupiscono
le insolite costruzioni
nonché le vetrate in cattedrali deserte
mai essendo desta le ho incontrate così…
neanche simili persone…
Discuto con loro ma non so di che
corro corro
per non perdere il treno
benché mi invitino a restare
vogliono offrirmi qualcosa
forse ballare un po’ – –
Questo mondo parallelo chiaramente
vuole assuefarmi a sé
suscitare curiosità
anche se al tempo stesso fa tremare
perché mi è difficile conciliarmi
con lo stato così confuso della mia anima
che furtivamente da me già si allontana
verso spazi abissali
che non hanno né il lato destro
né il sinistro
né la parte bassa né quella alta
né il centro né l’estremità
e sono assolutamente
definitivamente incomprensibili
(C) by Paolo Statuti
anche con la febbre siete riusciti a catturarmi. Belle letture. Cari saluti.
Cara Francesca…sei tu a catturarci con la tua innocenza poetica che si esprime nell'”ascolto creativo. Molte persone parlano (me compresa, ma è colpa della solitudine a volte), pochissime sanno ascoltare. E il loro silenzio diventa più eloquente delle parole. Auguri, Francesca!
Mariella
Innocente? Sono una malandrina. Grazie cara. Non parli molto sono io che spesso indosso il silenzio. Ma in che senso scrivi innocente? Un caro saluto.
Come è innocente il mare…ho scritto un libro: “L’innocenza del mare”. Per capire dovresti leggerlo. Mandami l’indirizzo in privato e te lo faccio avere.
Guarisci presto e scrivi.
Mariella
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/03/dialogo-a-piu-voci-e-poesie-in-onore-di-alfredo-de-palchi-donatella-costantina-giancaspero-lucio-mayoor-tosi-mario-gabriele-mariella-colonna-gino-rago-fritz-hertz-francesca-dono-mauro-pierno/comment-page-1/#comment-24517
Una questione ricorre spesso, intrisa, nella pronuncia di chi la pone, anche di risentimento mal celato: ‘ Voi, poeti e poetesse di ciò che definite
NOE, nei vostri componimenti non nominate mai Dio… ‘
Ho in me la risposta, ma non le parole per articolarla.
Ho provato a rileggere più attentamente del solito sia il Manifesto della poesia metafisica, su Poiesis, fondata e diretta da Giorgio Linguaglossa con in Redazione anche Giuseppe Pedota, sia qualche punto de Il mattino dell’acmeismo di Mandel’stam.
Ho pensato in buona sostanza a questa, fondata su un verso mandel’stamiano che cito a memoria:
“Nomino Dio e una colomba bianca vola dal mio dal petto…”, forse verso quegli ‘spazi abissali’ senza centro, senza lato destro né sinistro di cui parla in alcuni suoi versi la Koziol, ben tradotta da Paolo Statuti?
Gino Rago
Gino caro,
se riuscirò a pubblicare il libro di poesie su cui sto lavorando…vedrai che coloro che pongono la famosa “quaestio” si ricrederanno.
Grazie per aver citato il bellissimo verso mandel’stamiano che in brevi parole mette insieme un’infinità di significati
“Nomino Dio e una colomba bianca vola dal mio dal petto…”,
Mariella Colonna
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/03/dialogo-a-piu-voci-e-poesie-in-onore-di-alfredo-de-palchi-donatella-costantina-giancaspero-lucio-mayoor-tosi-mario-gabriele-mariella-colonna-gino-rago-fritz-hertz-francesca-dono-mauro-pierno/comment-page-1/#comment-24518
____la credenza vittoriana.
I francobolli attaccati all’album colorato.
Ci troviamo nel salotto buono.
Lei_en vert silencieux . Lui nella combustione di una sigaretta.
Circa mezz’ora lo spazio
tra il televisore e la luce parallela
al ragazzo.
Va bene_ penso.
_______Loro sono un’opera d’arte. Invece
il mio corpo- miserere
e’quasi premuto dentro un astuccio affusolato
Collezioni di mani interminabili.
Rettili sotto un riflettore.
E’ un mattino del 1980. Lui si prende cura
di una bambola –avvoltoio.
Lei non smette
di cardare le stelle giudaiche nel vento vivo .
Due anni fa un cesto di rose
In ogni stagione l’abito screziato di vermi
accanto alla finestra.
Mi allungo sull’ombra affusolata.
-Come si fa a nominare Dio? Le chiedo con molta cautela.-
La nebbia è cucita.
Arca-Monte-Uccello il suono
pronunciato.
Mi allungo sull’ombra sottile
Francesca, è un capolavoro!
Francesca…questo verso è una poesia…
non posso fare a meno di citarti:
“____la credenza vittoriana.
I francobolli attaccati all’album colorato.
Ci troviamo nel salotto buono.
Lei_en vert silencieux . Lui nella combustione di una sigaretta.
Circa mezz’ora lo spazio
tra il televisore e la luce parallela
al ragazzo.
Va bene_ penso.
_______Loro sono un’opera d’arte. Invece
il mio corpo- miserere
e ‘quasi premuto dentro un astuccio affusolato
Collezioni di mani interminabili.
Rettili sotto un riflettore.
E’ un mattino del 1980. Lui si prende cura
di una bambola –avvoltoio.
Lei non smette
di cardare le stelle giudaiche nel vento vivo”
Continui a meravigliarmi! Pensa che, prima di leggere quest’ultima poesia, volevo invitarti a scrivere una poesia perché la febbre aiuta… e tu l’avevi già scritta! Molto interessante, crea un’atmosfera, anche se c’è sempre un ampio margine di mistero con cui attiri il lettore ma…poi non ti riveli. Un modo intelligente per coinvolgere…Brava!
Mariella
ho la febbre …sarà per questo Lucio
Francesca Dono con quella domanda “Come si fa a nominare Dio?”, allungata com’è “sull’ombra sottile” credo che senta Dio e l’uomo poggiati su
due piani assolutamente differenti e che, dunque, ogni risposta è traballante,
precaria, sì, ma non inutile. Il problema della ‘eternità’, poi, benché in me ardente, mi coglie totalmente smarrito. Intanto, ‘cardiamo’ le stelle giudaiche…
(Francesca, guarisci, ti vogliamo in forma, sfebbrata… )
Gino Rago
al contrario caro Gino. Non considero Dio su un piano diverso se mai ovunque nel nulla invisibile. Propro l’ombra che è sottile nel suo essere precario che chiede come si fa a nominare Dio. Ma c’e’ ancora Dio? . Siamo vivi o siamo un errore della Natura? Chi ha coscienza puo’ soltanto dubitare e per sempre e in eterno. Discorso complesso.
Grazie caro Gino. Sono malori di stagione.
La condizione della fede è proprio questa: che ci siano tante ragioni per dubitare quante per credere: quella che conta è l’esperienza che facciamo di Dio se ci lasciamo prendere per mano con fiducia. Spesso tutto sembra venirci addosso trascinarci alla deriva come durante un tremendo uragano, ci sentiamo smarriti…poi, se la paura non ci pietrifica, improvvisamente o lentamente il cammino si spiana e il sole sbuca dalle nuvole… Talvolta accade, è accaduto anche a me. Però la fiducia va rinnovata ogni giorno, ogni ora, ogni minuto.
Buonanotte carissimi amici.
Mariella
chiedo venia per gli errori
Quando io affermo con convinzione che la poesia depalchiana è la progenitrice della poesia di oggi,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/03/dialogo-a-piu-voci-e-poesie-in-onore-di-alfredo-de-palchi-donatella-costantina-giancaspero-lucio-mayoor-tosi-mario-gabriele-mariella-colonna-gino-rago-fritz-hertz-francesca-dono-mauro-pierno/comment-page-1/#comment-24525
quella migliore, intendo, alludo al fatto indicato più sopra nel commento di Lucio Mayoor Tosi:
«In ognuna di queste poesie si avverte il bisogno di stare nel viaggio introspettivo, verso la conoscenza di sé ma tra le cose; quindi con l’intento di non fermarsi alla psicanalisi ma di trovare senso ontologico nell’esistere. Al lettore non interessa quale sia la psiche del poeta, quali i suoi tormenti, gli interessa di trovarsi coinvolto nel percorso introspettivo. Si tratta infatti di una nuova dimensione, tra psicanalisi e storia, una dimensione del tutto inedita e inusuale.
Tra cent’anni, che diranno le persone di noi? Non sarà come adesso quando cerchiamo di leggere tra le rovine di civiltà passate: di noi si saprà tutto!».
Verissimo. Appunto, «di noi si saprà tutto», per questo «di noi» non si saprà niente, perché quello che al lettore del futuro interesserà sarà sapere «qualcosa» circa il funzionamento della nostra psiche, conoscere ciò che noi siamo stati capaci di rappresentare di noi stessi. Per tutto il resto ci saranno miliardi e miliardi di immagini, della televisione e di internet che lo renderanno edotto. Quello che al lettore del futuro importerà sarà conoscere «qualcosa» che non è contenuto in quelle miliardi di immagini e di informazioni che navigano nell’etere di internet. Chiaro? Di questo si occupa la «nuova ontologia estetica». Per chi ancora non ha afferrato il concetto.
L’io, dice Freud, è anche inconscio.1] Siamo di fronte a un problema cruciale. Una tale affermazione sembrerebbe a prima vista contraddire l’evidenza che l’io sia quella parte della psiche che gode della facoltà di corrispondere al pensiero cosciente. Per comprende la portata di una tale affermazione, occorre innanzitutto chiarire cosa sia l’inconscio, o almeno quale sia la sua estensione nel sistema freudiano, al fine di poter darne ragione e cogliere successivamente il luogo e lo statuto dell’io.
Inconscio è innanzitutto la sede di quei contenuti, di quelle rappresentazioni che, per via dell’azione della rimozione, non raggiungono la coscienza. Nel
sistema freudiano si distinguono rappresentazioni inconsce e rappresentazioni consce. Nella Nota sull’inconscio in psicoanalisi del 1912 Freud chiama conscia “soltanto la rappresentazione che è presente nella nostra coscienza e di cui abbiamo percezione ” 2]. L’ovvietà di una simile
definizione serve a tracciare la strada per il suo opposto, ossia per la definizione dell’inconscio:
“ Una rappresentazione inconscia è quindi una rappresentazione che non avvertiamo ma la cui esistenza siamo pronti ad ammettere in base a indizi e
prove di altro genere ”.3]
L’ esistenza dell’inconscio lo si deduce da “ indizi e prove di altro genere ”. Quali? Freud risponde: lapsus, atti mancati, motti di spirito, sogni; tutto ciò che sorprende il soggetto e lo coglie in fallo rispetto al suo voler-dire. Ed io aggiungo: poesie. Nella rappresentazione poetica coabita il paradosso che negli enunciati, nel già detto, si nasconde e viene ad evidenza il non detto, il non enunciato, il linguaggio latente, il rimosso, che distorce e deforma il linguaggio rendendolo così idoneo alle necessità della nuova significazione.
La poesia di Lucio Mayoor Tosi, come quella di Donatella Costantina Giancaspero, la mia, quella di Mario Gabriele, di Francesca Dono ma anche quella di Alfonso Cataldi, di Carlo Livia e di altri poeti della nuova ontologia estetica, è ricchissima di spunti, di referti, di lessemi, di stracci dell’inconscio il cui linguaggio è, sostanzialmente, un linguaggio onirico, visionario, allucinogeno, ma anche sommamente razionale, ordinato in una scansione logica inafferrabile ma cogente… non dico cose così bizzarre se affermo che nel nuovo indirizzo della poesia italiana un posto centrale è occupato dalla indagine sull’inconscio.
L’inconscio per Freud “comprende da un lato atti che sono meramente latenti, provvisoriamente inconsci, ma che per il resto non differiscono in nulla dagli atti consci, e dall’altro processi come quelli rimossi, che, se diventassero coscienti, si discosterebbero necessariamente, e nel modo più reciso, dai rimanenti processi consci”4].
Come è noto, l’inconscio sfocia nel sistema Preconscio, un sistema che è in contatto e in comunicazione con il sistema Conscio e con l’Inconscio sia sul piano propriamente dinamico che sul piano topologico. Sul piano geografico il sistema Inconscio si differenzia per caratteristiche peculiari che lo pongono in una dimensione di estraneità tanto dal sistema Preconscio che da quello percezione-coscienza. Assenza di contraddizione e di negazione, intemporalità, mobilità degli investimenti, e una relativa indipendenza dalla realtà esterna, sono i tratti salienti dell’inconscio.
L’Inconscio non è un abisso, non è un flusso di energia cieco. Esso è piuttosto il luogo in cui accadono eventi, in cui cadono, sotto la spinta della rimozione, le rappresentazioni di cose, le rappresentanze pulsionali, che sono investimenti, residui delle immagini mnestiche della cosa, di tracce mnestiche più lontane che derivano da quelle immagini, come asserisce Freud. L’inconscio sarebbe un sistema di tracce mnestiche, non impronte, da cui derivano rappresentazioni di cose. La differenza, adesso, tra rappresentazione inconscia e rappresentazione conscia consiste, ribadisce Freud, «in due distinte trascrizioni di uno stesso contenuto». Ecco, credo che la nuova poesia che noi stiamo indagando tratti proprio queste, diciamo così, «trascrizioni», lessico del linguaggio freudiano, wortvorstellungen, lemmi dotati di semantica e di mantica.
Scrive Freud: «La rappresentazione conscia comprende la rappresentazione della cosa più la rappresentazione della parola corrispondente, mentre quella inconscia è la rappresentazione della cosa e basta. Il sistema Inconscio contiene gli investimenti che gli oggetti hanno in quanto cose, ossia i primi e autentici investimenti oggettuali; il sistema Prec nasce dal fatto che questa rappresentazione della cosa viene sovrainvestita in seguito al suo nesso con rappresentazioni verbali». 5]
1] Cfr. S. Freud, Das Ich und das Es, in Gesammelte Werke, S. Fischer Verlag, Frankfurt a/M, (18 voll.); trad. it. a cura di Musatti C., in Opere vol. 9. L’Io e l’Es e altri scritti (1917-1923), Bollati Boringhieri, Torino 1977, §. L’Io e l’Es, p. 482.
2] S. Freud, A note on the Unconscious in Psychoabalysis (1912), in Gesammelte Werke, op. cit.; trad. it. a cura di Musatti. C., in Opere vol. 6. Casi clinici e altri scritti (1906- 1912), Bollati Boringhieri, Torino 1974, Nota sull’inconscio in psicoanalisi (1912), p. 575.
3] Cfr., Nota sull’inconscio in psicoanalisi (1912), cit; p. 576
4] S. Freud., Metapsicologia, § L’inconscio, in Gesammelte Werke, op. cit.; trad. it. a cura di Musatti. C., in Opere vol. 8. Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti (1915-1917), Bollati Boringhieri, Torino 1976 (2000), Metapsicologia (1915)., p. 49.
5] Cfr., Nota sull’inconscio in psicoanalisi (1912), cit; p. 576.
Condivido Giorgio. De Palchi è l’apripista
“Dio non si nomina perché poggia su un piano totalmente diverso rispetto a quello dell’uomo, un piano che non garantisce risposte certe né definitive.
La relazione che può essere instaurata fra i due non può quindi essere di parola, ma al massimo di aspirazione, di ricerca.
Mandel’štam squarcia qui con grande umiltà il velo di trascendenze o ambizioni che fino a quel momento guidava l’uomo russo.
L’eternità è un rimpianto d’eternità, e ciò che resta all’uomo è un grigiore quotidiano, l’ardere scialbo e impercettibile nel meriggio.”
Perciò, forse, anche per i poeti e le poetesse della Nuova Ontologia Estetica, o più semplicemente per i poeti e le poetesse nella delusione di tanta poesia italiana degli ultimi 40/50 anni, come successe nella esperienza dell’acmeismo, ma con nuova e moderna sensibilità con le parole da usare come materiali concreti di costruzione, il fine è ” la sconfitta dello spazio per
imporsi sul tempo”, poeta come artifex e non come vate…
In questo senso ho detto ciò che ho detto nei precedenti brevissimi commenti.
Gino Rago
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/03/dialogo-a-piu-voci-e-poesie-in-onore-di-alfredo-de-palchi-donatella-costantina-giancaspero-lucio-mayoor-tosi-mario-gabriele-mariella-colonna-gino-rago-fritz-hertz-francesca-dono-mauro-pierno/comment-page-1/#comment-24535
“Dio non si nomina perché poggia su un piano totalmente diverso rispetto a quello dell’uomo, un piano che non garantisce risposte certe né definitive.”
Caro Gino Rago, non c’è bisogno di nominare Dio perché sia presente: E’ in tutte le cose e tutte le cose hanno senso soltanto se riferite a Lui come polo magnetico (amore) da cui si sentono e sono attratte. Meglio non chiamarlo più Dio e farlo vivere in mezzo a noi con gesti di vita con parole e con il silenzio delle parole che amiamo e che hanno origine dall’unica parola pronunziata da Dio, il Verbo. Dio non ha bisogno di parole per comunicare con noi. Siamo noi che ci dobbiamo fidare e parargli anche se non sappiamo se esista o meno, come si fa con un “amico” (presunto) o con se stessi.
La preghiera? C’è soltanto quando la vita diventa preghiera, cioè amore, a cominciare da noi stessi. Noi non amiamo noi stessi nel modo giusto (sapere quale sia il modo giusto!) Per questo ci riesce difficile amare gli altri.
Amen 🙂
Mariella Colonna
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/03/dialogo-a-piu-voci-e-poesie-in-onore-di-alfredo-de-palchi-donatella-costantina-giancaspero-lucio-mayoor-tosi-mario-gabriele-mariella-colonna-gino-rago-fritz-hertz-francesca-dono-mauro-pierno/comment-page-1/#comment-24528
Nella sala della cerimonia vidi: due cavalieri feriti, donne di marmo, un bambino addormentato, una dea in lacrime, un ricordo di giardini e rossori, un peccato, molti sospiri, notti piene di anime, fanciulle d’un tempo, un amore in vesti di glicine, un terrore tinto di corallo, il sogno d’un angelo scomparso, un’aurora malata d’ardesia, una luce eterna, un vento triste con un giuramento, un’assenza con guanti di musica, un sorriso dipinto.
Un silenzio inaudito mi sfioro’ e scomparve.
Qualcuno disse “per sempre”, due volte.
Il tempo s’inondo’ di lacrime.
Una voce, colma di cielo, pronuncio’ il mio nome.
L’ha ribloggato su RIDONDANZE.
LA POESIA ITALIANA E LA POESIA EUROPEA
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/03/dialogo-a-piu-voci-e-poesie-in-onore-di-alfredo-de-palchi-donatella-costantina-giancaspero-lucio-mayoor-tosi-mario-gabriele-mariella-colonna-gino-rago-fritz-hertz-francesca-dono-mauro-pierno/comment-page-1/#comment-24548
In questa poesia di Carlo Livia, ad esempio, abbiamo un chiarissimo esempio di «reale» molto lontano dal reale convenzionale della poesia italiana maggioritaria.
La poesia inizia con un dato concreto e nettamente definito: «Nella sala della cerimonia». Sembra dunque un enunciato di tipo realistico, e invece subito dopo ha inizio una serie di immagini in sequenza del tutto illogiche, oniriche, sovra reali, pur se tutte perfettamente definite nei minimi particolari. Ci troviamo nel mondo dell’inconscio con il poeta nelle vesti del pescatore di perle con la canna da pesca intento a cogliere i pesci e le ostrice. S’intende che tra le immagini ripescate da Carlo Livia e quelle dell’inconscio c’è sempre un abisso, non bisogna ingenuamente credere che le immagini della poesia si identifichino con le immagini dell’inconscio, l’operazione di Livia è più accorta e complessa, essa si limita a delineare delle immagini di sogno per tentare di «catturare» le rappresentazioni «cieche» dell’inconscio. È questo il punto di distinzione, ed è importante rimarcarlo.
In Tranströmer per esempio, ricorrono frequentissimamente alcune immagini simbolo: le «finestre», le «pareti bianche», «l’oblio bianco», la «casa» una «sala» dove si sta rinchiusi, dalla quale non si può uscire, «la città»…
Come quando Tranströmer scrive:
La casa assomiglia al disegno di un bambino.
Un’innocenza sostitutiva che si è sviluppata perché troppo presto qualcuno ha rinunciato all’incarico di essere bambino. Apri la porta, entra! Qui dentro c’è inquietudine nel tetto e pace nelle pareti
*
Il tema della «finestra» quale luogo o zona dalla quale si può passare da una dimensione all’altra è molto presente nella poesia di Tranströmer. Così nella poesia di Carlo Livia il tema della «grande sala», del «salone» è il tema che consente all’autore di rappresentare e immaginare cose che altrimenti sarebbero irrappresentabili.
Scrive Transtromer:
Lontano mi capita di fermarmi davanti a una delle nuove facciate.
Molte finestre che vanno a formare un’unica finestra.
la luce del cielo notturno vi è catturata e il movimento delle chiome degli alberi.
È un luogo riflettente senza onde, innalzato nella notte d’estate.
*
È doloroso passare attraverso le pareti, ci si ammala
ma è necessario.
Il mondo è uno. Ma le pareti…
E la parete è una parte di te –
uno lo sa o non lo sa ma è così per tutti
tranne che per i bambini piccoli. Per loro niente pareti.
*
Ma non sono maschere ora bensì volti
che emergono attraverso la bianca parete dell’oblio…
emergono attraverso la parete ridipinta dall’oblio
la parete bianca
scompaiono e ricompaiono.
*
Ho trascorso la notte nella casa densa di rumori.
Molti vogliono entrare attraverso le pareti
ma i più non arrivano fin là:
le loro voci sono sopraffatte dal brusio bianco dell’oblio.
Un canto anonimo sprofonda attraverso le pareti.
Ecco, da questi pochi esempi abbiamo la riprova e l’esemplificazione di quanta parte ha l’inconscio e le sue immagini nella ricerca della poesia moderna, anzi, si può dire che la parte prevalente, la più evoluta della poesia moderna europea ha a che fare con l’inconscio, con le sue inimmaginabili diramazioni e le sue complessità. Il senso di minaccia, il presentimento che «qualcosa» stia per avvenire che non avevamo previsto, ci turba e ci getta nell’angoscia:
… Qualcosa di oscuro
stava presso la soglia dei nostri cinque
sensi, senza oltrepassarla.
*
Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.
*
Più debole del fruscio di una conchiglia
si udivano suoni e voci dalla città
che volteggiavano nella stanza deserta,
sussurrando e cercando un potere.
*
Una musica si sprigionò
e avanzò nella neve vorticante
con lunghi passi.
*
Una musica abbozzata come dalla
forza dell’orchestra prima che lo spettacolo abbia inizio.
*
Quando l’oscurità scese io stavo quieto
ma la mia ombra batteva
sul tamburo dello sconforto.
Quando i colpi cominciarono ad affievolirsi
vidi l’immagine di un’immagine.
*
Spengono la lampada e il suo globo brilla
per un attimo prima di sciogliersi
come una compressa nel bicchiere dell’oscurità.
*
… l’anima /sfregava contro il paesaggio come una barca /sfrega contro il pontile a cui è ormeggiata.
*
Il vento procedeva lentamente come se spingesse davanti a sé/ una carrozzina.
*
Il sogno in cui il dormiente sta disteso
diventa trasparente. Egli si muove, comincia
a cercare a tastoni gli utensili dell’attenzione –
quasi nello spazio.
*
Rivivo un sogno. Che io sto in un cimitero
da solo. Tutt’intorno splende l’erica
a perdita d’occhio. Chi aspetto? un amico. Perché
non viene? È già qui.
*
Due verità si avvicinano l’una all’altra. Una viene da fuori
e là dove si incontrano c’è una possibilità di vedere se stesso.
*
La strada non finisce mai. L’orizzonte corre in avanti.
(T. Tranströmer)
Non scrivo quasi mai sul blog per varie ragioni ma su questo articolo vorrei fare una chiarezza per chi non ne è a conoscenza.
Prima di G. Linguaglossa scrissi un lunghissimo saggio sulle Sessioni con l’analista pubblicato sul libro di Fontanella nel 2011.
Anche la foto messa in prima piano fu scattata da una amica fotografa invitata da me quando organizza una cena per lui a cui invitai alcune persone.
Nel saggio faccio una lunga analisi sui temi qui affrontati senza mettermi in vista ma dando a lui tutto lo spazio.
Anche da lì il saggio di Linguaglossa.
Se se ne facesse riferimento in qualche modo potrebbero essere ristabiliti i fatti.
Grazie
Cara Antonella, potevi postare il tuo saggio tu stessa, non abbiamo filtri di sorta. Ecco il tuo saggio:
https://lombradelleparole.wordpress.com/?s=antonella+zagaroli+per+il+novantesimo+compleanno+di+alfredo+de+palchi
Per il novantesimo compleanno di Alfredo de Palchi, uno dei grandi poeti italiani di ieri e di oggi, nato il 13 dicembre 1926 a Legnago (Verona), la redazione de L’Ombra delle parole augura altri cento anni come questo riproponendo un saggio di Antonella Zagaroli sull’opera e la personalità del poeta italiano che vive a New York
Alfredo De Palchi potrebbe definirsi un crogiuolo di esperienze umane e artistiche, la sua poesia un unicum delle une e delle altre nonché una tantum nel panorama letterario italiano. È a mio avviso cioè una singolarità italiana che precede il pensiero occidentale contemporaneo e anche futuro.
La vita e l’espressione artistica si fondono in lui in modo indissolubile come è sempre avvenuto per ogni autentico artista spesso dai suoi contemporanei isolato, tenuto da parte perché non integrabile nella generalità che li accomuna. Sonia Raiziss sua sublime traduttrice e compagna di vita per un lungo periodo ebbe a precisarlo in modo molto netto: “With Alfredo De Palchi the poet is the man. What he has known, what is has lived, is what he writes(…) The poet is the sufferer and the experience is the metaphor closest to itself.”
Lo sottolinea bene Luigi Fontanella all’inizio di uno dei tanti saggi che il poeta e professore universitario (anch’egli diviso fra Italia e Stati Uniti) dedica a De Palchi: “credo che in pochissimi poeti della Modernità il nesso vita/poesia sia stato così stretto, così immediato, così fatalmente necessario, come in quella di De Palchi.”1
E dopo aver letto attentamente la sua opera tutta io direi che i “paradigmi” tradizionali non solo della poesia ma anche del pensiero e del comportamento soprattutto di un uomo occidentale non si addicono a De Palchi. Daniela Gioseffi lo definisce “non conformista”2, Roberto Bertoldo parla del “suo piglio unico e dell’assoluta novità di linguaggio che si faceva sentire già nei tardi anni quaranta”3. La lettura evolutiva delle sue poesie ci introducono in un viaggio temporale che arriva oltre la contemporaneità sia nei temi sia nei registri stilistici utilizzati.
De Palchi è nella vita e nell’opera un paradigma, non a caso è il titolo che lui stesso ha dato al libro che raccoglie quasi tutta la sua produzione poetica, eccetto gli scritti dal 2004 in poi. Paradigma è un titolo plurisemantico, è sì il paradigma, il modello, l’esempio che l’autore si riconosce desiderando altresì che da tale presupposto si rivolga l’attenzione alla sua poesia, contemporaneamente io lo intendo nel significato di enunciazione delle forme fondamentali del verbo (Verbo e anche forma verbale l’aspetto che dà alla scrittura il movimento), dei temi da cui derivano tutti i tempi. Non sono certa che De Palchi abbia volutamente attribuito un tal senso plurimo a tutta la sua opera poetica, sono però convinta che anche da questo punto di vista dovrebbe cominciare ad essere esaminato il suo lavoro. Dovrebbero cominciare a studiare i temi e i tempi dell’opera depalchiana quei critici seri e ascoltati che hanno la possibilità di far raggiungere la sua poesia al maggior numero di lettori possibili.
La poesia di De Palchi affonda profondamente nelle radici, nell’essenza di ogni essere umano, è una poesia terrestre per i temi e sublime per l’anelito, il gusto, il desiderio che lascia dentro chi la legge facendolo sentire accomunato al poeta e anche meno solo. Non è questo il sentire che stimola da sempre la grande poesia?
I tempi dell’evoluzione di pensiero, di scrittura e di esperienza personale li srotola lo stesso autore ponendo puntigliosamente, direi, ogni data precisa dopo ogni poesia.
De Palchi, che già dalla fine degli anni ‘40 ha coniato il neologismo “s-centrato”, è proprio uno di quegli artisti che si nutre del punto focale di sé stesso e da questo fa scaturire la sua poesia. Come dirò in seguito il neologismo ha un significato tutt’altro che schizoide. In polemica con coloro che hanno parlato di eccessivo autobiografismo nella sua opera vorrei rilevare che ogni artista potente è stato ed è per forza di cose autobiografico. Coincidono cioè in lui/lei il movimento ideale e concreto che caratterizza il personale stile di vita, le sue scelte e quanto esprime tramite e nella propria arte. A questo proposito mi piace spesso citare una grande pittrice Frida Khalo, a cui sono molto legata. La Khalo a chi le chiedeva perché dipingeva essenzialmente autoritratti rispondeva che era spesso sola e se stessa era la cosa che conosceva meglio. Questo il punto, si scrive, si dipinge, si compone musica, si progettano sculture e architetture, si dirigono film partendo dalle cose che più si conosce. Che poi queste diventino patrimonio comune dipende dalla ricerca severa delle modalità che ogni creatore dovrebbe proporsi per raggiungere al meglio ciò che lo muove nell’azione espressiva.
Credo non esistano creatori autentici scissi da se stessi, possono essere separati, isolati dal contesto sociale perché troppo avanti (nella storia della cultura tutta quasi sempre è accaduto) ma non dal loro centro personale. L’arte e la cultura prodotte nell’ottica della scissione, cioè “cosa faccio di me è cosa diversa da quello che realizzo”, possono vivere il fuoco fatuo del successo, della fama in vita, delle vittorie, ma appartengono più al potere. La cultura è stratificazione di scoperta continua, di ricerca instancabile nella quale si intravede, si intuisce la visione dell’insieme. Un artista autentico non parte dall’idea di canonizzarsi e quindi segue il canone formatosi nei secoli, un artista autentico segue la spinta interna e cerca di realizzarla al meglio se poi ciò accadrà in vita o meno dipende anche dalla sua fortuna individuale (di solito legata al carattere), ma anche dalle difficoltà concrete (come accade per i tanti creatori perseguitati dal potere durante tutta la loro esistenza in passato come nel presente) e soprattutto dal coraggio di scavare senza remore ciò che vuole profondamente e di restituirlo senza ambiguità agli altri. Entra così nel canone, nel flusso ondulatorio, cioè, in cui gli esseri viventi sono immersi sapendo che “ è inutile pretendere, ognuno / è per se stesso / e sta in se stesso.” 4 come scrive De Palchi.
A questo proposito nell’ intervista che Bertoldo pone come preliminare della raccolta di saggi dedicati a De Palchi l’autore dice espressamente: “La poesia è vera, non quando la si narra o la si descrive a vuoto, ma soltanto se c’è del vissuto che si svela in immagini saltellanti sulla pagina” Il senso paradigmatico del verbo cui facevo riferimento sta proprio in questo saltellare delle parole, è lì il loro movimento.
Ho saltellato anch’io lungo questa mia prima analisi della sua poesia così variegata.
Il criterio che ho seguito è quello tematico (seguendo soprattutto ciò che mi è affine e per esperienza e per poetica) e non cronologico. La buia danza di scorpione e Un ricordo del 1945 li ho trattati non con grande approfondimento, certo non per disinteresse o perché a me poco attinenti, tutt’altro, soltanto perché molti critici sono partiti o hanno centrato la loro analisi proprio su questi due testi, evidenziandone sia l’importanza poetica rispetto a scritti di altri poeti coevi, sia la matrice profonda da cui deriva tutta la poesia depalchiana e io volevo differenziarmi nel mio primo contributo critico a De Palchi.
Ho deciso di affrontare la complessità della sua poesia secondo un criterio personalissimo, soffermarmi o su testi che sono stati affrontati dalla critica in modo forse troppo tradizionale anche se profondo, come Sessioni con l’analista, o su tematiche ricorrenti in molte raccolte che ho tentato di ricomporre in un puzzle unitario: la desolazione e l’alienazione dell’individuo in tutto il novecento fino ai primi anni del nuovo millennio, la vita resa sacra dalla “terraqueità” della donna, dal sesso, l’incontro-scontro con l’ultimo lembo dell’essere terragni, ciò che forse ossessiona di più la contemporaneità, il rapporto con la Morte.
La poesia di De Palchi è composta dal sangue suo e di quanti sono stati coinvolti nelle sue esperienze ma è il sangue, la materia, la mente che ha scoperto dentro di sé, materia complessa che poi lo lega, collega a tutto il resto.
Sono
—– questo il punto / idea connettivo.
l’unto dell’acqua l’insettivoro petrolio
sigillato da eruzioni
pozzi sotto il fondale, l’oceano grasso
di corpuscoli, plancton che funziona
con premura per i crostacei
per il pesce cui serve ad altro pesce
e avanti secondo l’inevitabile alimento
e grossezza ¬¬- coriaceo predatore, secco
rogo di pinne dorsali e pettorali
su peduncoli e trampoli
da suggerire tracce di membra
e la spina un tubo
di cartilagine: il coelacanth
non estinto.
Parto da questa poesia proprio perché è la chiave del rapporto dell’autore con tutto ciò che lo circonda, una raggiunta consapevolezza esistenziale che ha inizio dagli anni della detenzione e poi dell’espatrio dall’Italia rivissuti e ricostruiti interiormente e artisticamente nel poemetto Sessioni con l’analista pubblicato in Italia con Mondadori nel 1967 e finalista al premio Viareggio dello stesso anno. È fondamentale ricordarsi questa data per capire il passo in avanti di De Palchi come autore rispetto al contesto letterario italiano e non.
In Sessioni con l’analista egli entra nel racconto poetico del percorso di scandaglio interiore proprio della psicoterapia quando la cultura italiana era ancora in gran parte digiuna dell’importanza della conoscenza e dell’approfondimento personale base della crescita interiore e artistica. Anzi questo percorso è stato molto spesso snobbato dalla cultura letteraria italiana non soltanto degli anni sessanta e settanta ma anche successivamente.
E cosa fa letterariamente De Palchi nella sua opera, anticipando qualsiasi successivo tentativo simile?
Il testo è una sorta di nuovo percorso dantesco, prende forma dalla necessità di un uomo di 40 anni “nel mezzo del cammin” della vita per gli uomini e le donne del XX e XXI secolo, che ripercorre l’inferno e il purgatorio delle esperienze esterne e più intime affrontate senza inibizioni dall’uomo e dall’artista De Palchi. Una delle prime indicazione della cifra di questo autore è proprio il coraggio, la non necessità personale di affidarsi a comode finalità editoriali che seguano la moda del tempo.
Sessioni con l’analista anticipatorie e più compatte di tanto sperimentalismo italiano appartengono, a mio avviso, allo stesso fiume creativo innovativo di The sound and the fury di W. Faulkner, di alcuni momenti dello Ulysses di J. Joyce. Come in quelle operazioni narrative nel poemetto di De Palchi vengono proposti stilemi linguistici consoni alla struttura evolutiva di una comunicazione interiore stravolta dal disagio emotivo. De Palchi percepisce dentro di sé una situazione intrapsichica che si diffonderà sempre più consapevolmente nelle persone più sensibili dal secondo dopoguerra in poi. Sono gli anni in cui l’essere umano, ancora immerso in un contesto frantumato che propaga schegge continue, quasi in modo esponenziale si rende conto dell’isolamento, dell’alienazione a stesso e agli altri, all’altro. Per inciso la realtà attuale è impregnata di questo sentire nonostante il new deal degli ultimi 50 anni essenzialmente tecnologico e di facciata.
Sessioni con l’analista per chi, come me, abbia avuto esperienze professionali e/o personali di terapia (anche se De Palchi al momento della scrittura non ne aveva avute, come racconta in molte sue interviste) sa bene che l’accavallarsi di pensieri fra ricordi diversi e momenti presenti, la ricerca della parola che aiuti a dipanare i nodi che si aggrovigliano in colui/colei che si trova in uno stato di disagio esistenziale, di malessere continuo che lo blocca in ogni azione, è esattamente il momento in cui si arriva a chiedere un aiuto psicoterapeutico.
Così cominciano le Sessioni e De Palchi in 23 momenti riporta poeticamente tutta l’evoluzione linguistica propria del processo terapeutico.
La prima sessione comincia con “ – difficile – / dico ” e prosegue con una sorta di elenco di oggetti seguiti da un aggettivo “pietrificato / quanti milioni di anni? -”, questo è proprio lo stato d’animo iniziale di chi comincia un percorso di consapevolezza psicologica. Ogni paziente comincia con parole che esprimono lo stato di difficoltà in cui si trova. Ci si guarda intorno nella banalità quotidiana, ci si scopre rigidi, pietrificati. La volontà di chi è spinto a cercare un aiuto psicologico è proprio quella di muoversi dalla fissità, dallo stallo emotivo e fisico, dalla impossibilità di trovare modi di essere diversi da quelli che fanno star male.
E la prima sessione continua con
“non so come, da quale mia geologica età
cominciare: estrarre il magma;
impossibile
cominciare il gergo inconcluso
attorcigliato…….”
Queste sono quasi esattamente le parole di chiunque comincia un iter di consapevolezza interiore. Fantastico l‘aggettivo “impossibile” voluto solitario nel bianco della pagina. Ogni paziente sente che ciò che vuole fare è difficile e va avanti si ferma e poi si dice e dice che è “impossibile” continuare. Il linguaggio dei pazienti in analisi si struttura in un andirivieni fra l’avere coraggio di proseguire per scoprire che si hanno altre possibilità per se stessi e che è proprio quel blocco “bianco….difficile….gelido” che non fa trasformare le parole in un “gergo udibile”.
La seconda sessione dispiega il paradosso dell’ “ (incomunicazione) ” e del produrre “frammenti”, termina con un’altra parola preceduta dal prefisso in “incompiutezza”. È tale parola la prima goccia dello scioglimento del “gelido” e compare qui anche un’altra chiave comunicativa di ogni paziente: “perché”. “Perché” torna più volte in tutte le 23 sessioni, come torna “la segretaria”, il personaggio pseudo interlocutore delle sessioni. “Perché” è indice del tormento, dell’ossessiva ricerca di una spiegazione che non viene data e che il paziente stesso non si dà.
Nella terza sessione il ghiaccio si è rotto e comincia la narrazione terapeutica dei fatti. Si parte dal passato più lontano, dall’infanzia: “ragazzo timido, chiuso” e poi, ad “esempio”, racconta un episodio chiave per la lettura della persona, l’uccisione non realizzata completamente di un coniglio. Analiticamente parlando il paziente comincia a svelare se stesso. “——- anni dopo il coniglio (dicembre 1944)”.
Nella ottava e nona sessione l’autore arriva al momento iniziale della consapevolezza: “oggi”, “—incomunicabile—-” entrambi isolati nella pagina bianca. È l’essere umano De Palchi che si svela e il poeta De Palchi evidenzia la significazione profonda col suo stile unico di parole isolate costituenti un unico verso e contenute da linee continue.
Nella nona il “che significa, devo sapere, poi…—–” all’ultimo verso crea la continuità dell’azione e il desiderio di sapere di più e in lui e nel lettore.
I frammenti degli episodi si collegano nella decima e undicesima sessione fino alla tredicesima con “sesto senso” “attendo il sesto che unisce il tutto” “in unisono—–”, il sesto senso dell’unicità in De Palchi fino alle opere successive è quello dell’incontro, della comunicazione, dell’unione con la donna.
Nella quindicesima i ripetuti “non capisco” e “non capisci” rivolti alla sua gatta analista ma anche a se stesso e poi “difficile capire” e “non capisci che una parte di me / è oltre la realtà (…)” indicano esattamente il momento terapeutico in cui il paziente inizia ad andare oltre le sue ossessioni e la propria immobilità. Sta finalmente accettandosi così com’è, nella difficoltà di comprendere tutto.
Da qui comincia a reinserirsi nel mondo anche se con “—–la testa ad uovo/ e il corpo a pesce—-”
Nella diciottesima viene indicato quale può essere il legame fra i frammenti, “il libro” e arriva la dichiarazione: “la mia comunicazione è stabile—–”. La comunicazione stabile è dunque la scrittura e viene apertamente dichiarata anche al lettore.
La chiusura analitica inizia dalla diciannovesima sessione con i tre versi finali:
“non è ch’io voglia essere capito, nessuno
capisce nessuno: voglio me
in me stesso, il perché del tuo “perché”
Credo che ogni psicanalista o psicoterapeuta vorrebbe un tale consapevole paziente e ogni poeta vorrebbe far coincidere nelle parole scelte il sentire profondo suo che coincide con quello d’ogni essere umano, anche se De Palchi in molte sue interviste nega la volontà di partecipazione ai problemi degli altri esseri umani. Ma De Palchi nella sua esasperata autenticità conferma la chiave di ciò che lo lega agli altri e lo rende esemplare artista. Se si parte dal se stesso profondo, dal focus personale che crea il movimento in vita, non preoccupandosi mentalmente di voler arrivare agli altri, proprio allora ci si mette in comunicazione, anche nostro malgrado, con chi ci ha preceduto, ci seguirà o è a noi contemporaneo. De Palchi uomo non si proclama amante dell’umanità anche se la sua poesia propone situazioni, espressioni, sentimenti che coinvolgono l’umanità e non soltanto nelle poesie erotiche come più volte sottolineato da molti critici.
Dalla ventesima alla ventitreesima delle Sessioni con l’analista la consapevolezza entra anche nella storia di sé ricomposta:
(il barcone della ghiaia
nell’Adige: corpo
primordiale che mi narra:
lievita la scia in cui divento
una lisca
ex pesce——questo
paesaggio d’apocalisse
acqua
pietra
è crudezza essenziale
e il fiume / prima speranza/
non sente non
sa della mia naufraga esistenza
non sente
non sa dell’arcaico presente)——-
nella ventiduesima scrive:“non mi occorrono radici per sapermi / sentirmi esistere(…)”.
Nel corso dell’ultimo appuntamento con “l’analista” il lettore è indotto ad autoanalizzarsi attraverso il poeta, i versi in essa contenuti, infatti, potrebbero costituire una lunga grande domanda-risposta per ognuno di noi davanti alla realtà interna ed esterna. E potremmo tutti dire alla fine del percorso “—-solo, incomunicato, incomunicabile—-”.
De Palchi non termina il suo inferno-purgatorio come Dante in una visione paradisiaca, ci riconduce nel mondo occidentale che dalla metà del novecento arriva fino al nuovo millennio. L’incomunicabilità, la solitudine, luoghi emotivi e fisici della poesia depalchiana, sono anche i paesaggi dell’attuale era globale, virtuale, in cui la comunicazione autentica e veritiera è ancora apparente anzi può spaventare se diventa trasparenza.
Trovo che l’atmosfera di molta parte della poesia di De Palchi è l’ideale proseguimento della The waste land di T. S. Eliot, a sua volta erede delle visioni di W. Blake e della concretezza marcia di A. Rimbaud. Con la rabbia di F. Villon, a lui molto caro e del quale si riconosce erede, De Palchi, non cercandolo fuori accademicamente ma esclusivamente attraverso l’esperienza personale entra nel mondo del “Thunder rolled by the rolling stars / Simulates triumphal cars/ Deployed costellated wars / Scorpion fights against Sun” eliottiano. Quasi presi a caso dalla rilettura di The waste land in questi due versi ritroviamo due titoli delle opere di De Palchi, La buia danza di scorpione e Costellazione Anonima. Quest’ultima soprattutto e Reportage (New York 1957) riportano la mente alla prima parte di East Coker e alla seconda parte di Little Gidding dell’opera di Eliot.
In Reportage De Palchi scrive:
“sul pietrificato fra macchine autocarri
autobus (sudaticcio afrore
di crematorio) fumo di benzina
nera polvere granulosa
osservo
la elettro-
esecuzione dei colombi che piovono dalle finestre
(…)
la desolazione piatta delle muraglie di vetro
tralicci impalcature
barboni con bottiglia all’ascella
stravaccati su carta di giornale”
(…)
si apre l’industria religiosa:
il mercato è saturo
non c’è spazio
troppa gente vi partecipa
per sociale prestigio
o paura di guerre:
prestigio
guerre
ottimi affari——e voci al megafono:”
In Costellazione Anonima torna quasi ossessiva tutta la polvere di Eliot:
“Polvere dovunque su tutto polvere su ciascuno
su me un cadavere continuo di polvere dal soffitto
sul letto tappeti bottiglie dalle pareti
che mi serrano nella morsa del mio futuro cadavere
già sepolto sotto il cumulo di polvere di questa
polvere che rassodata nello spazio gira su se stessa
e intorno il sistema termonucleare come me cadavere
che rigiro su me stesso e spostato di quel tanto
dal mio centro intorno me stesso:
costellazione anonima.”
La distruzione delle macerie del mondo creato dall’uomo ha già invaso e del tutto distrutto la natura:
“la sequenza di agitazioni distrugge
a catena le forme compatte:
la foglia arsa o verde
tarlata d’insetti sbilancia l’albero che oscilla
crostaceo o in torbo rigoglio all’aria”
(…)
scogli atolli continenti
in tumulto di uccelli e animali senza scampo
nelle nevi e siepi di orizzonti
dei gelidi groppi di abitati
arresi alla non-ragione”
In questi versi anche la musicalità è aspra, piena di suoni sonoramente duri usciti da una gola piena di dolore e rabbia. È una musicalità teutonica, ricorda la musica tedesca del settecento e del novecento ma che ha, altresì, alcune assonanze con la musica dodecafonia. Sì, gran parte della poesia di De Palchi non ha il ritmo delle sdolcinature linguistiche italiane, nonostante sia scritta in italiano. Anche questo rende singolare l’opera poetica di De Palchi.
La voce della desolazione, della rabbia, dell’impotenza nei confronti del potere che ha devastato l’uomo e la natura, assume a volte la forza di Urlo di Munch 5perché diventa l’urgenza di esistere comunque differenziandosi dal contesto o comunque tentando di rimanere appartato dallo sfacelo del mondo moderno. In che modo? Sempre “spostato di quel tanto” fino a descriversi con chiarezza dolente e non assuefatta nella poesia con l’esplicito riferimento al termine eliottiano:
“e più oltre,
vedo me, uomo
la sua agonia di animale
di sentore mortale
di mente s-centrata
che in una stretta si uncina e sulla sabbia
flotta il “Verbo” semplice,
gira sul proprio sangue e si inginocchia
a vedere la finale malevolenza
di sé, uomo sbilanciato dalla voragine
desolata della terra promessa”.
L’attributo “s-centrato” utilizzato per sé in tutta la sua opera sembra operare un tentativo di auto salvazione anche se ammette amaramente:
“——-adottato dalla bruttura
e violenza ora
la collera della mia età è uno strappo
di vesti / è l’essenza
entro me lacerato.”
Ecco allora che l’opera nata con una Premessa scritta a Parigi nel 1953 posta ad invettiva e dichiarazione di visione del suo tempo6 si trasforma in una galleria di visioni apocalittiche.
Altro punto cardine della poesia di Alfredo De Palchi è il rapporto col sacro e con l’idea cristica.
La figura di Cristo per De Palchi è la matrice che si frammenta nella consistenza di un uomo. Cristo, vero e proprio perché umano, è nominato più e più volte nelle sua poesia fino al riconoscimento alla consacrazione di se stesso in lui.
Mi
immedesimo in te, Cristo,
spirito incolume della mia religione
carnalmente di bestia umana—- la mia comunione sacra
è la manifestazione di quanto esprimi spezzando il pane
“prendete, mangiate, questo è il mio corpo”
e porgendo vino
“bevete, questo è il mio sangue”.
Mi spezzo, come il pane della cena,
e dissanguo, come offerta di vino—simbolo del sangue
prezioso; sono il carnivoro
il cannibale che lingueggiando divora il suo corpo
e beve il sangue della ferita
perché si ricordi di me;
I versi di questa poesia stigmatizzano il senso dell’esistenza stessa di De Palchi come uomo e come artista. Qui si esprime compiutamente anche da un punto di vista filosofico. Questa poesia è una dichiarazione quasi lapidaria di consapevolezza. L’essere umano cristico, uomo o donna che sia, è isolato dai suoi simili, da lui troppo distanti soprattutto per sensibilità. Perché è indubbiamente complesso, faticoso, soprattutto in un momento storico in cui tutto è delegato alla egoistica visibilità che illude di elevarsi a onnipotenti, scendere dentro se stessi fino a comprendere l’essenza che rende vivi.
E De Palchi può scrivere tali versi proprio perché è passato dall’esperienza personale e poetica del guardarsi dentro: La buia danza di scorpione, Un ricordo del 1945, Sessioni con l’analista e guardarsi intorno con occhio “s/centrato“ di Costellazione Anonima, Reportage.
Ma per il poeta il sacro non è nella religione, che in alcuni momenti anzi si arrischia a sfidare, al contrario di molti poeti che invecchiando si sono avvicinati alla consolazione di una fede. De Palchi fino agli ultimi scritti del 2009 rimane legato alla religione della natura, della materia, ma non nel senso politico del termine.
Nel Preliminare a Paradigma scritto nel 1950 si succedono fonemi e sintagmi da nascita del mondo:
“ la genesi—-materia
rivolgimenti indurimenti centrifughi di polvere
gas il fuoco liquefa glaciali rocce
e ancora rassodamenti vapori
una goccia la genesi lunga nella goccia
(…)
genesi senza punto evoluzione senza punto
solo materia—–la nemesi”
Nella poesia da cui trae il titolo dell’opera singola Paradigma, De Palchi utilizza un linguaggio quasi filosofico, ci riporta all’uovo primordiale, al senso della conoscenza insito nella metafora del serpente ma anche, forse, dell’ ourobus dell’Opera alchemica.
“l’occhio della serpe è un qualsiasi dio—-
(….) e con la spirale centripeta spazza
il quotidiano lasciano al raso
il reale più fecondo”
(…)
testa piatta a triangolo a stemma
di religione—-(…)
Ogni uovo di serpe contiene compatto un uomo
qualsiasi, l’uragano è la realtà che fabbrica
il piede: la mano stupenda—–il paradigma”
I suoi versi qui, scritti nel 1964, ricordano l’atmosfera di un testo di difficile interpretazione, Favola di W. Goethe.
Fin dall’inizio e poi negli ultimi scritti il sacro di De Palchi si concretizza nella terra, nella donna come origine del tutto. La sua religione si propaga dentro e fuori il corpo femminile. Il percorso linguistico di Essenza Carnale, ad esempio, è costellato di parole che raccontano gestualità tratte dalla religione, anche se il poeta sembra riscrivere questa religione rendendola umana.
“ aprimi la cerniera, infila la mano
e come all’altare in ginocchio immergi
il viso acceso di sangue nella cesura
adescando abilmente il pesce simbolico a guizzare
nella cognizione della tua bocca che si affida
alla mia profezia:
la messa continua della mensa.”
L’amplesso e la congiunzione religiosa sono emblematiche in tutte le poesie degli anni 2000:
“nella tua esistenza di Maddalena in amore
del mio risveglio in un corpo di Cristo” ;
“sono il tuo sacrificio l’agnello”.
Le sue donne carnali e ideali, intuite in profondità oltreché amate per la loro reale presenza, sono, a mio avviso, il tramite che lo conchiude e lo riconduce alla nascita. In questo senso la sua religione personale, nonostante sia uomo vissuto appieno e nel centro del novecento occidentale, lo può far avvicinare a idee e filosofie tipiche dell’oriente, dell’India soprattutto.
“potessi scatenarti nella spiritualità del tuo corpo”;
“religione della tua fluttuazione,
sostenenza dell’ostia splendente sulla mia faccia”;
“avvolgi nell’ideare il mio calvario infiammato
vinto con la religione della tua essenza
carnale—-(…)
riempiti del tuo salvatore” ;
“uguale al serpe ti assorbo intera
e tu da madre terraquea
chiami alla nascita il mio ritorno nell’aurora
del grembo, la dimora
di ascendente devozione per lo spirito in frammenti.”
Qui la donna è sì concreta ma anche madre, forse la Grande Madre che contiene la natura e gli esseri umani e che lascia traccia di se stessa in modo più visibile nella femminilità.
Come non avere la sensazione dopo aver letto i versi precedenti che per De Palchi ogni donna reale, che può essere anche stata amata dal poeta, è poi trascesa proprio attraverso la sua carnalità? È trascesa ma non per essere angelicata, come avrebbe inteso un epigone della poesia petrarchesca di cui la poesia italiana ancor oggi rigurgita preferendo quello stile alla crudezza, a volte anche blasfema di Dante.
Con gli anni la visione della donna nella poesia di De Palchi è diventata l’ostia necessaria all’uomo per sentirsi più umano. Già nelle Viziose avversioni scritte fino al 1996 la sua idea della donna era chiara, “ogni oggetto inanimato o animato è donna,”, anche se spesso con immagini ambigue e negative. Successivamente la femminilità si amplifica diventa Essenza Carnale perché la compagna donna che De Palchi recita è il suo stesso femminile, la sua sensibilità stordita dalla morte del coniglio nel ricordo iniziale delle Sessioni con l’analista, poi da “il tonfo del gatto”, dal pudore che deflagra all’interno di se stesso “Spasimo scoppio / erompo sesso in aria / rimanendo zitto.”
La donna diventa l’anima sangue da ingurgitare, da lasciarsi ingurgitare per diventare più totale.
Questa è forse la chiave per comprendere i versi erotici depalchiani che non sono mai volgari nemmeno quando descrive amplessi e ricorre a parole vividamente comuni. Le sue costruzioni poetiche erotiche sono fiumi in piena di anima, sangue, cervello dell’uomo De Palchi.
Tremando entro la circonferenza dell’amplesso
esponi lo spirito acceso
a bocca che ansima; mi prendi nella sua cavità, vuoi
che la scopi e raggiunga
il profondo della sua gola; vuoi
che il tuo sesso sia scavato
quando dici “sfondami tutta, completami
—– il colloquio reciproco è il gioco
utile per invigorirti del tuo stesso assioma.
Mi piace citare a questo proposito quanto scrive il critico John Taylor, lettore e studioso acuto dell’opera di De Palchi: “De Palchi’s erotic vision nearly always goes beyond the corporal per se. Present in his erotic poems is a cosmic dimension, an experience of amorous union and the epiphanies of pleasure surely, but also a yearning for the primeval, the primordial, the ab-original.”7
Aspetto fondamentale per comprendere Foemina Tellus, l’ultima opera al momento pubblicata, è il rapporto di interscambiabilità fra donna e terra già presente in Essenza Carnale:
“la luminescenza in evoluzione del sole scoperchia
e alimenta di energie le radici terragne
quanto la trasparenza coniugale della tua vena
con luminosità accecante mi contatta nutrendo la radice
concretamente buia——
séguita a custodire ogni
senso di sensualità che ci possiede insieme
nella derisione nella melma nella depurazione
ed infine nell’intimo sconvolgimento con la coscienza
di che si ha e di che si è;”.
Se ci si addentra nella lettura delle poesie di Essenza Carnale e poi di Foemina Tellus sembra di entrare in una galleria di quadri di Tiziano, di Courbet, anzi soprattutto di quest’ultimo. Come il corpo femminile indagato da Courbet possiede una componente erotica tanto marcata da scuotere la sensibilità della classe benpensante del suo tempo ma anche di ora (emblematico L’Origine du monde), così le poesie della passione amorosa depalchiana scuotono la morale ma anche l’abitudine dei critici perché mostrano l’essenza terrestre, lo scontro incontro sessuale non scissi ma integrati verso una ricercata spiritualità. Il sesso è rappresentato naturale, sublime e innocente, origine del desiderio della vita.
Averti come sei—-
lo straccio addosso con spigliatezza
e gioielli di avena
con il papavero che infuoca le spighe
attorno le forme collinari e le valli
qui oso fermarmi
sgolo di potenza
e tu mi raccogli nella ramaglia
o nel vorticare intorno
a quella vulva che ingoia
crescite e pianeti
e sprofonda il tremore terrestre
nell’ovulazione del tuo ventre.
In questa poesia ci sono i due passaggi concentrici della spiritualità di De Palchi: dalla terra, “i gioielli d’avena”, il papavero, le spighe, le colline e le valli, alla donna carnale che concentra su di sé il centro del mondo “o nel vorticare intorno / a quella vulva che ingoia / crescite e pianeti”,
“e sprofonda il tremore terrestre / nell’ovulazione del tuo ventre.
L’amplesso con la donna è la messa e la mensa e soltanto il maschio-uomo, consapevole della sua cristicità non fideistica, tramite questo rito può diventare parte di una religione tutta al femminile in cui continua a vivere la Grande Dea dal cui ventre nascono il mondo, le religioni.
In Foemina Tellus il poeta dispiega completamente il suo credo: “il leitmotiv mi accompagna al ventre / accogliente di Kundry: / vita terra spirito Cristo.”
Il verso “all’ape /del miele che sei”della poesia a pagina 49 sintetizza in modo unico una donna frutto essa stessa di quella terra espressa qui con la metafora dell’ape.
In questo libro le poesie più direttamente legate alle donne hanno anche un chiaro profilo di aspra ironia sempre presente in tutta l’opera di De Palchi.
“Cane fedele
ti seguo con le infedeltà
mentali, corpo vivo
nel tuo sorretto dalla costola
che non ti ho dato”
In più mi sembra di scorgere qui una sorta di rifiuto ad aderire completamente al loro potere che coinvolge il suo desiderio.
L’ironia e la rabbia, la crudezza, non certo la rozzezza caratterizza la poesia di De Palchi e assume, infine, una connotazione evidente nei testi in cui il poeta si permette di dialogare con l’ultima grande femmina che attende uomini e donne, la Morte.
E qui intendo parlare proprio di dialogo nel senso etimologico greco del termine -parlare restando separati – e non di colloquio – parlare per cercare un punto in comune – termine con cui il poeta stesso aveva espresso il suo rapporto con la donna.
Una delle poesie di Foemina Tellus in cui viene dichiaratamente espressa la singolare cristicità della sua religione tanto carnale ma oramai proprio per la carnalità, quasi rabbiosa, è quella di pagina 51, una sorta di iscrizione tombale del calvario dell’uomo Cristo. Qui il poeta diventa il commosso soccorritore dell’agonia di Cristo “con la scodella ti lenisco / la lingua tra il rottame nella bocca(…)” e il crudele osservatore di donne Maddalene, “capre nere che espiano la trasgressione / per avere la passione / profana di essere.”
La rabbia ha il linguaggio tipico di tutta la poesia di De Palchi ma è una rabbia che include una volontà di purificazione. Il verbo spurgare ritorna più volta nel libro: “ per spurgare il seme reietto / e il salivare schifoso” a pagina 38 e “bestia umana(… )/ storia che spurga in rantolo” a pagina 51.
La stessa rabbia si indirizza poi, definitivamente, ad un mondo oltre, l’inferno costruito da De Palchi per tutti i suoi persecutori contenuti nella sezione Le déluge, e alla morte a cui dedica due sezioni del libro, Contro la mia morte I e Contro la mia morte II.
Il poeta si lega alla morte in assoluta privazione di sé e con gli stessi sentimenti che l’avevano visto in giovinezza gridare contro il mondo anche se spesso qui utilizza un autorevole armonioso sarcasmo.
Si rivolge alla “passionaria” con: “il mio corpo, per te / mai abbastanza freddo da leccare”; “hai ossi sgangherati / l’odio indifferente della falce / alle mie gambe rapidissime”; la vulva diventa “chiavica”e lui arriva a dirle “ma ti corteggio con la promessa / che nel lontano futuro sarò tuo”.
La morte è “ospite non gradito”eppure verso la fine la rabbia contro di lei sembra placarsi:
“sono tutti defunti
davanti alla tua tenace bruttura
che dalle quinte opera
la potente libidine,
una brezza che ondeggia il vestito
tra le cosce e traccia il rilievo
della tomba sacrilega
che attrae
e mi distrae verso….”
Uomo e donna in tutta la poesia di de Palchi pur incontrandosi mettendo a nudo ogni particella del loro essere natura umana e animale dispiegano le loro peculiarità concrete ma difficilmente i particolari hanno a che fare con la specificità, direi con l‘unicità di una donna se non per ragioni di scrittura. Ogni donna per De Palchi rinnova l’incontro col suo eterno foeminino e in Foemina Tellus egli esprime il femminile maturo all’interno di un uomo maschio. Qui lo scontro, la lotta, la volontà di combattimento fra natura maschile e natura femminile si tramuta poi del tutto all’indirizzo della Morte.
Ma qual è l’origine di questo complesso paradigma De Palchi?
Io ho avuto la fortuna di conoscerlo, di condividere corrispondenza, conversazioni a telefono, a qualche tavolo di ristorante, seduti in qualche salotto o passeggiando insieme e poi di diventarne amica. In queste occasioni Alfredo mi ha più volte ripetuto che “la poesia esce dalla realtà delle nostre prime intuizioni di famiglia”, che “occorre l‘immaginazione in poesia ma senza l‘esperienza delle varie vicissitudini la poesia è arida”. Io aggiungerei che l’artista autentico non si pone il problema di fare la storia della cultura, l’artista autentico sente profondamente ciò che fa, segue le proprie esperienze di vita non le predispone. È nel suo tempo ed è protagonista di se stesso. Più profondamente e intensamente sono avvertite le esperienze più la comunicazione verso gli altri non rientra nei limiti temporali della sua vita.
Per De Palchi, allora, non è possibile non ricordare e collegare la sua opera alla prigionia vissuta fra adolescenza e giovinezza, alla nascita da una donna nubile.
Le poesie dalla prigione contenute ne La buia danza di scorpione, sono poesie che toccano il nerbo vitale dell’esistenza umana.
Ogni donna abusata, stuprata fuori o all’interno della famiglia, ogni bambino lesionato da ferite fisiche e psichiche, ogni donna o uomo perseguitato per ragioni politiche, religiose o comunque di diversità all’interno dell’organizzazione sociale, non può non sentire suo il senso della ribellione e dell’impotenza con parole simili a quello scritte a vent‘anni da Alfredo De Palchi :
Mi condannate
mi spaccate le ossa ma non riuscite
a toccare quello che penso di voi:
gelosi dell’intelligenza e del neutro
coraggio aggredito dal cono infesto
delle cimici
——-io, ricco pasto per voi insetti,
oltre l’ispida luce
vi crollo addosso il pugno
Chiunque sia passato da una esperienza di segregazione causa l’abuso di potere degli altri o anche solo se l’avverte empaticamente in chi si trova in quella situazione, ha vivo il senso profondo di questi versi che definirei di nudità mente-corpo:
Fra le quattro ali di muro
circolo straniero a pugno
serrato—-non ho amicizie
non mischio occasionali smanie
con chi le persiste
e siccome ognuno impone
il proprio mondo a chi perde
non si chieda cosa avviene:
la parola è nella bocca dei forti
È questo sentire che gli permette di auto considerarsi Villon redivivo, utilizzato a epigrafe di ogni opera poetica, “solo c’è luogo / nel cranio di Villon”.
De Palchi prigioniero: “Arso dalle azioni di chiunque(…)” impara che la vita “disfa la vita fruga / interpreta le ragioni forma e scombina / codici irrazionali”.
È qui e così che comincia la scrittura poetica e sul muro:
Si decentra la notte sul muro si decentra
michelangiolesca
la lesione d’occhio
la cella costringe silenzio
si spacca il silenzio alle sbarre e il trauma
è combustione
——-io
groviglio di piedi e mani
prevenendomi
farnetico perfezione
urlo al muro il muro
assorbe da me l’eco risponde
alla sagoma straniera
Mentre leggevo questi versi ho avvertito immediato il ricordo di altre parole di dolorosa impotenza, quelle del Nobel C. Kavafis nella poesia I muri “Senza riguardo senza pietà senza pudore / mi drizzarono contro grossi muri (…) / murato fuori dal mondo e non vi feci caso”8.
In cella l’isolamento, il sentirsi “s/centrato” rispetto alla comunità umana consente a De Palchi l’approfondimento interiore ed artistico.
I suoi scritti di prigionia parlano agli abusati ai violati di ogni epoca, il suo vocabolo s/centrarsi mi ricorda “lo sguardo estraneo” di cui ha parlato H. Muller la Nobel 2009. Anche quest’artista esule, violata di continuo nel privato attraverso i servizi segreti della sua nazione, accusata soltanto per la sua onestà di donna e artista, racconta di aver acquisito un modo di rivolgersi al mondo che sollecita a non considerare soltanto proprio degli artisti “una sorta di tecnica che distingue chi scrive da non scrive”9. Nello stesso poco più avanti precisa“Col fatto di scrivere lo sguardo estraneo non c’entra niente, c’entra con la storia personale” “Per me estraneo non è il contrario di noto è il contrario di familiare”. Lo sguardo estraneo “è un atteggiamento provocatorio” acquisito dalle situazioni dolorose e che presuppone uno stato di difesa continua.
Questo atteggiamento di difesa e provocazione è proprio, a mio avviso, l’atteggiamento di De Palchi uomo e artista.
De Palchi ha attraversato tutto il secondo novecento sia storico che letterario e ha vissuto in prima persona tutte le sue assurdità, offese, deliri. Le ha poi superate attraverso il vivere fuori dal luogo d’origine, in un mondo da lui scelto ma dentro il quale si è continuato a sentire s/centrato. Il suo sguardo in poesia è uno sguardo lancinante, estremo, lucido, sensuale, potentemente tagliente. C’è la spada e a momenti anche l’ambrosia nella sua poesia.
La sua sensibilità gli ha fatto approfondire ogni aspetto della vita, foglie, pietre, acque. Nata dal dolore e nel dolore De Palchi già in cella attraverso ore e ore di lettura e poi di scrittura ha trasformato la sua vita di fuori in un grande muro su cui incidere se stesso.
Vagabondo notturno nelle vie di Parigi quando arriva a New York, sua residenza definitiva, anche se inframmezzata da anni in Spagna e dalle frequenti visite in Italia, De Palchi entra nel pieno brusio, formicolio della consolidata moderna civiltà occidentale captando l’essenza materiale che lo circonda, l’atmosfera di alienazione, di confusione “Brulica la spiaggia / si condensa di cicche, fumetti / carta velina unta, ossi succhiati di pollo / mezzi panini bottiglie lattine/ centinaia di canestri vuoti”; “come si può accettare la storia, la storia / quotidiana, assuefarsi ai grandi e piccoli / insulti”.
Nella vita e nella poetica egli ha ricostruito la propria seconda adolescenza murata viva e lo ha fatto attraverso l’aria, la terra, la donna. La sua poesia si è riempita degli incontri notturni con i clochard, con le bottiglie di plastica sulle spiagge, delle offese ai neri di New York, ma anche degli incontri con gli intellettuali milanesi degli anni ‘50 e ‘60.
De Palchi ha ricucito le cicatrici ancora oggi tipiche del mondo moderno, l’immigrazione, la detenzione, la difficoltà esistenziale di un mondo desolato e desolante sia personalmente che socialmente. È il mondo di un’umanità troppo maschilizzata nel suo modo di essere, maschilizzata come principio che purtroppo è diventato vivo anche in molte donne. Un’umanità che non dovrebbe più avere la necessità di violentare la donna e la terra ma di rientrare, immergersi in essa per ridestarsi rinnovata nel suo ventre. Esattamente il principio ispiratore della poesia di Essenza Carnale e in parte di Foemina Tellus. È l’acqua che comincia i suoi scritti, “l’Adige” che li accompagna in mille forme fino agli ultimi anni, è il pesce, i pesci, i molluschi nel quale si identifica, è l’acqua delle vagine femminili nella e con la quale gli sembra di poter rinascere.
De Palchi ha guardato e continua a guardare se stesso e il mondo tutto in disparte. Anche la scelta di utilizzare la lingua d’origine nonostante viva da più di cinquant’anni negli Stati Uniti è una scelta da eterno estraneo ovunque. In poesia continua a osservare, riflettere, elaborare da s/centrato rispetto al modus letterario italiano. Sì perché la nettezza naturale, il lindore scevro da intellettualismi, tipico di gran parte della poesia composta nell’Italia contemporanea concepita spesso con intenti autoreferenziali o peggio per logiche di potere culturale e politico, nascono anche dal vivere fuori da questi circoli. Il nostro “apolide anarchico” artista De Palchi ha vissuto così il destino comune di molti grandi poeti troppo a lungo dimenticati, evitati dalla diffusione editoriale come Dino Campana e Lorenzo Calogero, o famosi come Ungaretti, Quasimodo, Caproni, letti per anni e poi abbandonati senza amore preferendoli ai deserti poetici dei giorni nostri.
De Palchi ha una forza letteraria, un’etica e una poetica non espropriabile da nessuno. La forza artistica è intimamente connessa a quella che gli è derivata proprio da chi a lui ha dato la nascita e lo ha formato ai fili esistenziali fondamentali, alle radici della vita, sua madre.
Non può essere compreso appieno il suo rapporto col femminile, con la Donna, la terra, la religione di “un cristo” fra gli altri se non si risale come lui stesso ha detto “alle prime intuizioni in famiglia”.
La madre nubile di De Palchi (supportata da un nonno atipico per l’epoca) è colei che ha lottato contro la mentalità del tempo per tenerlo in vita fisicamente e che l’ha nutrito ad una scala di valori forse più appartenente al futuro che ai primi del novecento.
Vorrei concludere con le parole a me scritte da De Palchi in una delle prime lettere della nostra corrispondenza. Sono parole che confermano quella che chiamo la sua avanguardia mentale in tema femminile:
“La famiglia con il potere del capo famiglia si sta sgretolando per sparire. Rimarrà ancora per secoli in quelle nazioni primitive o medievali. Il capofamiglia, contadino, operaio, borghese o signorile si esprimeva, chiedeva il potere del comando, spesso con la frusta in mano; la donna con le chiavi degli armadi comandava in casa ma non poteva uscire, era considerata proprietà riservata, col trascorrere degli anni si trasformava in donna disamata, strega vecchia anzitempo e impotentemente cattiva verso i figli che tacitamente erano accusati di aver distrutto la sua giovinezza, la bellezza, il suo potere di donna. Le donne intelligenti amorose, capaci e con l’idea del potere femminile erano le cosiddette concubine, le mogli morganatiche, le bellezze dei salotti soprattutto letterari e quelle considerate puttane. Le donne oggi sono professioniste, hanno capacità professionali da farsi invidiare dagli uomini, hanno la bellezza folgorante ben in vista, non si nascondono, eppure, nonostante il progresso delle varie società, gli uomini le giudicano leggere se non puttane” .
Questa è la visione che De Palchi ha delle donne e degli uomini di ieri e di oggi.
In un ideale colloquio mentale con Alfredo aggiungerei alle sue parole: “purtroppo, caro Alfredo, molte donne hanno preso a comportarsi esattamente come i maschi sia a livello personale che sociale, all’amore carnale e psichico hanno preferito e preferiscono il potere anche in forma di assoggettamento momentaneo al maschio. Sta ad alcune di noi, né concubine, né mogli morganatiche, né puttane, ma essenzialmente vere femmine di una terra che è anche maschio, amplificare quello spirito complesso della comunione maschile-femminile da te ricercato, in parte forse vissuto, involontariamente insegnato a uomini e donne attraverso la tua vita personale e la tua arte. Chissà, forse queste nuove donne già concrete ma in ombra e/o immaginate da cervelli di uomini come te potranno distillare le acque stagnanti in cui l’umanità è sprofondata”.
Gennaio 2011
La giusta consistenza
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/03/dialogo-a-piu-voci-e-poesie-in-onore-di-alfredo-de-palchi-donatella-costantina-giancaspero-lucio-mayoor-tosi-mario-gabriele-mariella-colonna-gino-rago-fritz-hertz-francesca-dono-mauro-pierno/comment-page-1/#comment-24550
Non è rimasta pelle da mostrare,
un alveo impenitente l’ha sedotta.
Ricoperta con perizia. Aderente. Senza segni.
La giusta consistenza per le carnagioni flambé.
Al Cafè de Paris la prima Suzette incanta il principe del Galles.
L’aroma della Belle Époque si adagia sui volti.
Scampate a ben due guerre
ci sfumiamo ancora nelle ciprie di LeClerc
incapaci di seguire il riarmo delle fibre.
Aggredite da batteri di ultima generazione
si perderanno le impressioni che non stanno nella pelle.
“Gino Carissimo,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/03/dialogo-a-piu-voci-e-poesie-in-onore-di-alfredo-de-palchi-donatella-costantina-giancaspero-lucio-mayoor-tosi-mario-gabriele-mariella-colonna-gino-rago-fritz-hertz-francesca-dono-mauro-pierno/comment-page-1/#comment-24552
ho visto di corsa la terza puntata, Giorgio e voi ragazzi e ragazze mi sorprendete piacevolmente con poesie in mio onore. Tutto ciò fa bene alla salute mentale, la quale mi aiuta a spiazzare tutte le rogne fisiche che mi sono venute addosso negli ultimi cinque anni.
La natura mi tratta come fossi un vecchio albero.
Io ti ringrazio per il tuo entusiastico: “Sei poeta”. Sarò poeta però senza quel potere di cui mi elogi. Uno dei prossimi giorni stamperò la terza puntata per leggerla senza sbucciarmi gli occhi––l’occhio che funziona un pochino.
Un abbraccio.
Alfredo ”
E’ il messaggio di Alfredo de Palchi da me ricevuto sulla mia e-mail;
ho considerato di renderlo pubblico per quel passaggio, davvero delicato,
a Giorgio e a tutti noi rivolto ( “Giorgio e voi ragazzi e ragazze mi sorprendete piacevolmente…”) denso di gratitudine e di attenzione a quanto si agita e lievita intorno alla sua poesia e al suo modo di stare in poesia.
Eccellente il saggio della Zagaroli.
Gino Rago
Per Alfredo De Palchi. Caro Alfredo, le poesie in tuo omaggio sono nate a Roma, nell’ambito di un gruppo di lavoro ben consolidato.Purtroppo ,io vivo a Montesilvano, affacciata su un lembo di Mediterraneo,per cui le vicende romane, spesso, mi sfuggono,nè posso pretendere più degli spazi che Linguaglossa, generosamente, mi concede.Sai quanto stimo la tua persona, la tua poesia, le tua viva presenza nelle realtà più profonda(storica e culturale),Il passare del tempo mi sta logorando, ma resisto nelle spirito e nella partecipazione sincera all’attività delle persone che stimo e amo; tra le quali tu hai un posto importante e stabile.Un bacio e un augurio di bene, Anna Ventura
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/03/dialogo-a-piu-voci-e-poesie-in-onore-di-alfredo-de-palchi-donatella-costantina-giancaspero-lucio-mayoor-tosi-mario-gabriele-mariella-colonna-gino-rago-fritz-hertz-francesca-dono-mauro-pierno/comment-page-1/#comment-24566
Per Alfredo DePalchi :la mia assenza (innocente) dai tributi poetici offerti dagli amici romani,potrà essere colmata da una poesia, scritta per te oggi,che così dice:
Forse è ora di perdere,
definitivamente,la cognizione del tempo,
è ora di andare a mettersi là,
su quella nuvola vagante,
dove nulla ci aspetta,
se non il ricordo
di chi abbiamo amato.Ricordo remoto,
una remota dolcezza:
Anche la forza del pensiero
si spezza,
se nessuno la raccoglie. Ma noi
vogliamo essere ottimisti,perciò
tenacemente invitiamo gli amici
a salire sulla nostra nuvola,
senza temere il sovrappeso.
ANNA VENTURA
Carissima Anna Ventura,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/03/dialogo-a-piu-voci-e-poesie-in-onore-di-alfredo-de-palchi-donatella-costantina-giancaspero-lucio-mayoor-tosi-mario-gabriele-mariella-colonna-gino-rago-fritz-hertz-francesca-dono-mauro-pierno/comment-page-1/#comment-24567
io verrei molto volentieri sulla tua nuvola, ma se vuoi venire sulla mia, anche io ho una casa in via delle nuvole, quando appare Venere vai subito a destra e ci sei. Attenta a voltare il momento giusto! Comunque vorrei tanto leggerti sempre e che tu leggessi le mie poesie. Ho bisogno di capirle attraverso gli altri poeti, quelli che ritagliano qualche minuto del loro tempo per leggere le immagini e i pensieri degli amici!
ANCHE AL GRANDE de PALCHI UN GRAZIE DAVVERO COLMO DI RICONOSCENZA PERCHE’ CHI VIVE COME LUI DA POETA SA SCOPRIRE LE TRACCE MISTERIOSE DI DIO e invita a seguirle tutti coloro che hanno la fortuna di leggerlo.
Mariella Colonna
Mi scuso per la ripetizione, ma c’è un fantasmino nella rivista: avevo già postato…ed è ricomparso il sesto prima della postazione, cioè non pubblicato…quello pubblicato non c’era più. Poi sotto il mio sguardo meravigliato sono apparsi due miei commenti identici STAMPATI. Se è possibile che qualcuno della Redazione ne cancelli uno, bene… se no restano in due e si fanno compagnia. (di solito i miei commenti soffrono di solitudine, salvo rare volte).
Il “testo” non il sesto, sorry!
Cara Mariella, volentieri ti invio qualche mio libro, ma devi farmi pervenire il tuo indirizzo postale.Anche le nuvole hanno necessità terrene.Un caro saluto, Anna Ventura
e per finire………………………………………..
———————————————————————–
a Alfredo De Palchi
Da un martirio all’altro detesti il mio carapace e il supplizio
del trionfo e la giostra dei piaceri inattuali… la carne ricucita
accusa le cicatrici dell’armonia per un atto mio blasfemo
che genera una eresia carnale e circoncisa.
Non hai che strumenti in avaria e un’orchestra che registra
suoni mai uditi – Non hai nemmeno la lingua, una parola,
un senso che rifiuta il cicaleccio infame di chi in quel giorno
d’aprile di 84 anni fa uno sparo deviò la destinazione.
È la natura che corrompe la nostra intelligenza, e empietà
e oltraggio non servono ad un “indovino segretato che non sostiene
più il morso” e sul tenero rogo quel grido gigliaceo “Cari amici, andiamo
a morire allegramente”… la sua cenere fu più che una pluralità di mondi!
Non so se nel tragitto equino, Alfredo, il calvario s’era già compiuto in apnea,
se il pesce crudo della nostra mente fu geloso del crematorio, ma dove il tuo
cuore di medusa inquisì l’abbecedario della conversione c’è un obitorio!
Perfino Saul sa che a Damasco non successe nulla, e che le fandonie
sono il sale dei tribunali di un qualsiasi, purissimo, Torquemada!
Antonio Sagredo
Gran Sasso d’Italia (Assergi), 14 venerdì di marzo 2014
C’è scritto dopo ogni commento: RISPONDI. però ho notato…che quasi soltanto le donne-poeta si rispondono. Anche Giorgio L., Gino Rago e Mario Gabriele (raramente Lucio T.).Antonio Sagredo: MAI (a me).
Forse non mi consideri un’interlocutrice, Sagredo? Guarda che non sono offesa, tutt’altro! Solo il tuo pensiero vola verso altre terre, altri lidi e altri tempi! Comunque io so aspettare… Grazie a tutti per esserci.
Mariella
Carissima Onda e del Tempo,
non sono offeso affatto, e qualora ci fossero motivazioni oggettive non mi offenderei egualmente. L’offesa è una vanità, ed io sono affetto da SVANITA’.
Comunque, visto che dici di me : ” verso altre terre” Ti invio ( a chi vuol leggermi e a chi non vuole per nulla, dato le difficoltà che impongono i miei concetti più che i versi) questa composizione:
——————-
Portavo la mia immagine per la città come un retrattile vessillo.
Il tripudio dei miei passi scavava un sentiero di note austere,
non avevo con me una reliquia da barattare con la santità
e nemmeno una nicchia mi era data per un conforto da accattone.
Gli svolazzi della mia mente erano capricci di stiletti spuntati a malincuore,
da una accidia di laguna vedevo un puntino azzurro come tanti da Saturno
– era la Terra che miravo! – e non sapevo il suo millennio quel giorno estivo
di lei che mi sorrise con Cassini. Quale gioia la conoscenza che compresi
dai miei occhi, e come Dio fosse a sua volta una creazione della Rota,
l’emorragia di una clessidra ai tempi della mia innocente trasparenza.
Le contrade come una sinfonia d’infanzia in quel sarcofago: tabernacolo pinto da epitaffi e necrologi… per fissare, in una partitura, gli anelli della
Storia.
antonio sagredo
Roma,
all’ora terza del 29 gennaio 2014
e 3/01
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* la sonda cassini è stata umanamente distrutta dall’uomo: aveva secondo gli scienziati terminato il suo compito; ma essa si era resa indipendente dall’uomo, e voleva per suo conto ancora…. vivere!
A questo punto di tratta di un “assassinio siderale o astrale”, se desiderate.
E amen.
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….ma dovrei lamentarmi se mai io, che nessuno commenta i miei versi, e il commentare è una risposta vana, poiché la sollecito da anni da chicchessia – non dai soliti due o tre – non so cosa temono; p.e. lo Squarotti-Barberi morto da poco si arrestava alla superficie delle mie parole, e per ben 13 lettere cartacee non faceva altro che dire: “sublime, sublime…” e aveva ragione, solo che ero già stufo.
Ennio Abate è uno dei pochi che invece ha saputo commentarmi, puoi vedere sul suo Blog.
adieu mia Onda con-Tempo-ranea
a.s.
Carissimo Sagredo,
sono contenta perché mi hai finalmente risposto! Dunque tu dici che nessuno ti risponde: non è un’impresa facile, sei una persona complesso e le tue poesie sono come te. Comunque sono d’accordo con Anna Ventura: c’è una nota dolorosa in te, un sarcasmo da cui trapela sofferenza a cui reagisci con l’esplosione da pagliaccio, o meglio “giullaresca” sottolineata da Giorgio. Ma ho letto una tua poesia su “il bambino mai nato” (forse non ricordo il titolo) dedicata a Chiara Catapano… che mi ha mosso qualcosa dentro l’anima, in profondità. Quelle manine che volevano vivere…(ricordo male?).Bellissima poesia che ho anche commentato. D’altra parte…non ho mai visto un pagliaccio allegro o un giullare che non rimpiangesse qualcosa di molto caro: per esempio la donna amata o il buon vino!
Spero che, da oggi in poi, cominciamo a conoscerci meglio e a risponderci a vicenda con simpatia!
Mariella Colonna, tempodiunonda
caro Antonio Sagredo,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/10/03/dialogo-a-piu-voci-e-poesie-in-onore-di-alfredo-de-palchi-donatella-costantina-giancaspero-lucio-mayoor-tosi-mario-gabriele-mariella-colonna-gino-rago-fritz-hertz-francesca-dono-mauro-pierno/comment-page-1/#comment-24600
la tua poesia è come assistere ad uno spettacolo di luna park, una giostra con all’interno la Ruota Grande, il Vascello dei pirati, il Tunnel degli orrori, la Postazione spara e cogli il bersaglio, la Pista delle auto scontro. Tu sei un giullare e la tua poesia è giullaresca nel senso più candido e colto del termine, in una tradizione letteraria come la nostra affetta da fumosità da orbace e pretenziosità di epigoni, tu brilli per totale assideramento; sei un gran giullare e un fool di un dramma shakesperiano, sei Arlecchino e Pierrot insieme, sei anche, tuo malgrado, drammaticamente serio e bugiardo e faceto, non una sola sillaba del tuo repertorio artistico-poetico deve essere presa seriamente perché non viene richiesta alcuna serietà. Il tuo unico comandamento è: l’ilarità e la leggerezza… In questo, lo ammetto, non hai rivali…
già Squarotti mi scriveva sempre tra l’altro… “sei ilare”
Mi permetto di dissentire ,parzialmente, a proposito della poesia di Sagredo, di pareri di critici molto più autorevoli di me ;Io ci avverto una nota drammatica, dolente, forse retaggio dell’insanabile ansia della gente del Sud.Che è un’ansia per una pienezza mai raggiunta, per un approdo che si allontana quando credevi di averlo conquistato.Lo hanno detto, bene anche i grandi prosatori de Sud,primo tra tutti Giovanni Verga.
ovviamente e certamente, Anna!
Ero all’estero Giorgio e leggo ora la tua citazione di uno dei miei saggi su Alfredo.
Ti ringrazio per la precisazione e auguro a tutti buon lavoro.
Antonella