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PAOLO RUFFILLI, MONTALE UNO E DUE? – La crisi della civiltà borghese occidentale

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Eugenio Montale e La crisi della civiltà borghese occidentale

Fu all’uscita di Satura, nel 1971, nonostante ci fossero state già alcune sparse anticipazioni, che da più parti della critica si levò l’interrogativo nei confronti delle “novità” dell’ultima poesia di Eugenio Montale. E non mancarono, a caldo, le dichiarazioni di involuzione, di tramonto di una vocazione, di inconsapevole slittamento verso l’impasse delle forme prosastiche della poesia contemporanea. Non pochi tra i critici militanti si trovarono nell’impaccio di dover dare sistemazione a una produzione di cui non si aspettavano questi “altri” esiti e molti elusero il compito ripiegando sull’elogio retrodatato del poeta ormai codificato e definitivamente catalogato sotto l’etichetta delle sue precedenti tre raccolte di versi.

Da Ossi di seppia (1925 e 1928) a Le occasioni (1939) a La bufera e altro (1956, comprendente i testi della raccolta Finisterre del 1943) si disegna il campo poetico montaliano del “male di vivere”, dell’incomprensione del mondo e di ogni suo senso possibile, dei “fantasmi” che nonostante tutto ci salvano dal vuoto riconciliandoci sentimentalmente con la vita, e si decide definitivamente la catalogazione critica dell’esperienza di Montale nei termini di un “realismo dell’oggetto” da cui con perplessità gli addetti ai lavori hanno guardato alle prove successive del poeta. Lo stesso Contini, che meglio di tutti aveva individuato la chiave della poesia montaliana fino alla Bufera nella potenzialità infinita innescata dalla somma degli oggetti inventariati dal reale, non si era sentito di chiudere il cerchio dell’interpretazione, firmando il risvolto di copertina di Diario del ’71 e del ’72, preso nel viluppo non ancora dipanato del Montale vecchio/nuovo, primo/secondo, uno/due.

Altri critici, nel rispetto di quella etichetta ermetica-postermetica, avevano imboccato la strada della “diversità”, della “seconda stagione”. Ma la convinzione di un presunto rinnovamento radicale della poesia di Montale, a partire da Satura, ha inquinato la valutazione che della produzione successiva la critica ha dato, chiudendola in equivoci di salti e ribaltamenti.

Tra gli addetti ai lavori delle nuove generazioni, presso i quali Montale non aveva mai riscosso grandi simpatie (divisi com’erano, anche se di formazione ermetica e specificamente montaliana, tra l’impegno di un risorto canto civile e l’esperimento linguistico delle prove di avanguardia e, comunque, contro la scelta del poeta, legati più o meno direttamente alla concezione dell’intellettuale “professionale”) Satura suscitò allora più che perplessità, diffidenza e sospetto, per i territori apparentemente più avanzati nei quali l’autore sembrava avventurarsi persistendo sulla pista di un’assoluta e limpidissima tradizione.

Ricordo, per avervi partecipato polemicamente, alcuni seminari presso la facoltà di lettere dell’università di Bologna e della Statale di Milano nel 1972, dedicati alla poesia. Il Montale di Satura era uno dei bersagli ricorrenti. Da parte di molti, nella deviante prospettiva di quei momenti della “globalità” del politico, gli veniva l’accusa, in sé ingenua e addirittura assurda, di “riformismo letterario”, di “tattica dell’aggiornamento”. E del resto, a fare lo spoglio della bibliografia critica di allora, si possono rintracciare le stesse prese di posizione da parte dei recensori, giovani e meno giovani, della pubblicistica di sinistra.
Quanto poi ai fedeli lettori di Montale (tra i lettori di poesia, nel 1971, gli appassionati montaliani avevano superato tutti i quarant’anni d’età), Satura fu per loro, pur nell’adesione immediata, incertezza di valutazione complessiva e sospensione del giudizio.

Eppure c’era da aspettarsi che, insieme con le successive prove di Montale dal Diario del ’71 e del ’72 del 1973 a Quaderno di quattro anni del 1977, arrivasse l’aggiustamento di tiro da parte della critica: l’attenuazione delle pretese “novità” e il riconoscimento dei molti legami, anzi dell’assoluta corrispondenza con la precedente produzione. Si sarebbe dovuto chiarire, all’esame dei testi, che non si trattava di un “secondo” Montale, nella frettolosa definizione del momento, ma che Montale era sempre quello e che la sua stagione poetica non era ancora tramontata, solo aveva avuto naturale evoluzione e si era compiuta in modi e tempi più distesi. Invece la critica militante perseverò, nella maggioranza dei casi, nella contrapposizione di un “prima” e di un “dopo”, giungendo a consolidare una divaricazione di cui si mise a cercare le motivazioni profonde con le tecniche più raffinate e sofisticate.

La verità era un’altra. Valeva ancora una volta la constatazione che lo scrittore di qualità, varianti comprese, riscrive sempre lo stesso libro. E il “libro” di Montale si ispirava alla stessa idea di poesia, continuava ad essere il vagheggiamento di una “poesia pura”, e basterebbe leggere a questo proposito il discorso “È ancora possibile la poesia” tenuto da Montale all’Accademia di Svezia il 12 dicembre 1975, in occasione del conferimento del Premio Nobel. Una “poesia pura”, perseguita per vie più traverse e indirette (a causa del complicarsi stesso, sempre più confuso, della vita) e recuperata dall’incontro, dalla lettera, dalla notizia di giornale, da ogni occasione minima e più oscura in cui riconoscere (o tentare di riconoscere) se stessi e il proprio passato. Continua a leggere

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Mario Gabriele, Poesie scelte da In viaggio con Godot (Progetto Cultura, 2017), con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

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Ci sono state calunnie su Donovan,/ ma il vento ha pulito le piazze

Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista, ha fondato nel 1980 la rivista di critica e di poetica Nuova Letteratura. Ha pubblicato le raccolte di versi Arsura (1972); La liana (1975); Il cerchio di fuoco (1976); Astuccio da cherubino (1978); Carte della città segreta (1982), con prefazione di Domenico Rea; Il giro del lazzaretto (1985), Moviola d’inverno (1992); Le finestre di Magritte (2000); Bouquet (2002), con versione in inglese di Donatella Margiotta; Conversazione Galante (2004); Un burberry azzurro (2008); Ritratto di Signora (2014): L’erba di Stonehenge (2016), In viaggio con Godot (2017) è in corso di stampa Registro di bordo. Ha pubblicato monografie e antologie di autori italiani del Secondo Novecento tra cui: Poeti nel Molise (1981), La poesia nel Molise (1981); Il segno e la metamorfosi (1987); Poeti molisani tra rinnovamento, tradizione e trasgressione (1998); Giose Rimanelli: da Alien Cantica a Sonetti per Joseph, passando per Detroit Blues (1999); La dialettica esistenziale nella poesia classica e contemporanea (2000); Carlo Felice Colucci – Poesie – 1960/2001 (2001); La poesia di Gennaro Morra (2002); La parola negata (Rapporto sulla poesia a Napoli (2004). È presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio (1983); Progetto di curva e di volo di Domenico Cara; Poeti in Campania di G.B. Nazzaro; Le città dei poeti di Carlo Felice Colucci;  Psicoestetica di Carlo Di Lieto e in Poesia Italiana Contemporanea. Come è finita la guerra di Troia non ricordo, a cura di Giorgio Linguaglossa, (2016). Si è interessata alla sua opera la critica più qualificata: Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Domenico Rea, Gaetano Salveti, Giorgio Linguaglossa, Letizia Leone, Steven Grieco Rathgeb, Antonio Sagredo, Giuseppe Talìa, Luigi Fontanella, Ugo Piscopo, Giorgio Agnisola, Stefano Lanuzza, Sebastiano Martelli, Francesco D’Episcopo, Pasquale Alberto De Lisio, Carlo Felice Colucci, Ciro Vitiello, G.B.Nazzaro, Carlo di Lieto. Altri interventi critici sono apparsi su quotidiani e riviste: Tuttolibri, Quinta Generazione, La Repubblica, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier, Riscontri. Cura il Blog di poesia italiana e straniera Isoladeipoeti.blogspot.it

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la storia qui è ridotta a storialità, a cartoline, flash, lampeggiamenti, icone, patterns, involucri, simulacri, ready made, parole usa e getta, parole plastificate e di polistirolo

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Astorialità per eccesso di storia definirei questo ultimo lavoro di Mario Gabriele, al quale corrisponde un pluritematismo e un pluristilismo, in linea con i fondamenti della «nuova ontologia estetica». Ma la storia qui è ridotta a storialità, a cartoline, flash, lampeggiamenti, icone, patterns, involucri, simulacri, ready made, parole usa e getta, parole plastificate e di polistirolo, e parole monouso gettate nella discarica abusiva dell’epitelio semantico dove questa poesia soggiorna gratis con tanto di permesso di soggiorno e di tramonto.

Dire che nella poesia di Mario Gabriele c’è solo metalinguaggio equivale a dire che tutto è metalinguaggio, il nostro ordo idearum è fondato sul metalinguaggio, che lo stesso ordine significante è un metalinguaggio in azione, che non c’è una significazione «ultima» del linguaggio e non c’è mai stata neanche una significazione «prima», che non v’è parola né ultima né prima, la parola, e quella poetica in particolare, semmai si pone come «mancante», come non-presente. Così, genialmente, la poesia di Gabriele mostra come tutta la tradizione poetica è finita nel buco dell’ozono della propria disparizione. Al posto della parola che cercavamo troviamo altre parole, quelle usa e getta, e così via, l’una tira l’altra in un saliscendi senza fine, come al luna park. Non c’è alcun linguaggio perché tutto l’armamentario linguistico della poesia moderna è diventato metalinguaggio, cartapesta linguistica e iconica.

È il linguaggio in quanto metalinguaggio che apre nell’esistenza il vuoto entro cui la parola si dà come rifrazione di presenza-assenza, specchio duale che autoriflette il «vuoto» di cui essa è presenza. La poesia di Mario Gabriele può essere intesa alla stregua di una immensa e variegata superficie specchiante che riflette altri specchi, che vive in un gioco di rifrazioni e di rimandi semantici ed iconici. Ma si tratta di rimandi svuotati di qualsiasi simbolismo, sono specchi vuoti che riflettono il vuoto, come in una famosa poesia di Kikuo Takano. Il «viaggio», che l’autore richiama finanche nel titolo, nel nostro mondo telematico e globale è ormai diventato un viaggio turistico con tanto di accessori e di monitor, non è più possibile alcuna autenticità se non nel similoro e nel kitsch. Le poesie di oggidì che trattano con seriosità il tema del viaggio, fanno sorridere per la loro bontà perché periclitano agevolmente nel kitsch e nel piacevole, si adattano al piacevole e all’intrattenimento, sono un diversivo al gioco della canasta e della macumba.

Strilli GabrieleStrilli Gabriele Da quando daddy è andato viaMario Gabriele  intende il «viaggio», appunto, «con Godot», con questo misterioso ospite che è la nostra Ombra, il nostro irraggiungibile sosia. Siamo noi stessi Godot, per questo non potremo mai raggiungere la nostra interiorità perché essa è stata ampiamente colonizzata dall’Altro dell’Altro, non c’è più nemmeno un angolino, un ricettacolo di autenticità nel mondo disilluso e amministrato da un ordo rerum onnivoro e globale.

Non v’è più alcuna economia monetaria della dicibilità perché tutto è diventato dicibile, tutto è scambiabile in base al valore di scambio, e la parola non fa eccezione, anch’essa è finita nell’imbuto del valore di scambio, perché non può esservi una esteriorità che non sia inclusa anche nel linguaggio, ed il linguaggio è il luogo per eccellenza dell’ambiguità e del gioco semantico della significazione, di ciò che non rientra nel linguaggio: quel misterioso «di-fuori» che si chiama «mondo». È per questo che la nuova poesia di Mario Gabriele, così sofisticata da apparire ingenuamente fuori-moda, si presenta come un manufatto ultroneo, ammicca ossessivamente a questo nuovo ordine post-simbolico fitto di simulacri nel quale oggi siamo tutti immersi, dove non c’è dialogo che possa durare qualche minuto, «Il Dialogo fu di breve durata» scrive ironicamente Gabriele in una poesia della raccolta, perché non c’è più nulla di cui dialogare, le cose si capiscono benissimo nell’ambito di un’altra economia monetaria, quella dei titoli di borsa e del mondo ridotto a intrattenimento futile, un ottimo fertilizzante per le menti decorticate della società mediatica.

La tradizione metafisica, ci dice Derrida, vede nell’essere un assoluto, una sostanza impredicabile perché presente in ogni predicazione. Resta però aperta la questione che se l’essere è impredicabile, il linguaggio si trova a colmare una distanza impossibile. L’essere cioè diventa la condizione, il presupposto incluso tuttavia trascendens, il linguaggio. Dire che il «linguaggio è dimora dell’essere» (Heidegger) se da un lato esclude la possibilità che l’essere possa essere detto dal linguaggio come una referenza diretta, dall’altra tende a porre l’essere stesso in una prospettiva sfuggevole e indeterminata – l’essere si rivela come qualcosa di «pienamente indeterminato» afferma Heidegger – e, allo stesso tempo, fondativa, proprio in quanto si tratta di una indeterminazione inclusa nel linguaggio stesso.

In In viaggio con Godot, è il linguaggio stesso ad essere in «viaggio», in una traslocazione locomozione senza tregua… è il linguaggio che si sottrae a se stesso… il linguaggio cessa di essere fondazionale ma appare, si rivela, per il suo essere un rinvio continuo… il linguaggio in quanto potenza del rinvio, fame inappagata di senso per via della stessa logica differenziale che vede nel gioco dei rinvii la sua sola consistenza, si serializza in una molteplicità di sintagmi.

Nel volgere di pochi anni si è avverata la previsione di Marcuse: «è probabile che il secondo periodo di barbarie seguirà  ad un lungo periodo di civiltà». Il perdurare della povertà in presenza di una ricchezza sen­za precedenti è la più imparziale delle accuse contro lo stesso processo della civilizzazione capitalistica, l’arte e la cultura sono state ammorbidite e derubricate a sottoprodotto del prodotto, della merce. L’ideologia dello sviluppo è profondamente irrazionale, non c’è più nulla da sviluppare se non la nostra barbarie ininterrotta. In un mondo in cui dieci famiglie detengono la ricchezza di circa quattro miliardi di persone, non è più possibile fare poesia, almeno la poesia che abbiamo conosciuto. E Mario Gabriele si è regolato di conseguenza. Per questo la sua poesia spinge oggettivamente verso il «nuovo». Pur all’interno di un mare di ciarpame e di belletristica mediatica essa diventa, oggettivamente, «irriconoscibile», in quanto non-merce che assume l’apparenza di merce che Gabriele derubrica a sub-merce.

Mario Gabriele è un poeta troppo dotato per non aver tirato le conseguenze in sede estetica di questa situazione macro storica, la sua è una poesia che assume la presunta «ricchezza» delle merci e delle citazioni della cultura mondiale come specchi per le allodole, è una poesia che si assume l’onere di essere il garante e il guardasigilli della non-verità del mondo amministrato.

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Ogni felicità è frammento di tutta la felicità, che si nega agli uomini e che essi si negano.
(Th.W. Adorno)

[…]
«già l’arte è inutile per gli usi dell’autoconservazione- e la società borghese non glielo perdonerà mai del tutto – e allora deve rendersi utile mediante una specie di valore d’uso, modellato sul piacere dei sensi. Così si falsifica, allo stesso modo di come si falsifica l’arte (…) il piacere sensoriale conserva qualcosa di infantile quando si presenta nell’arte in maniera letterale, intatta. Solo nel ricordo e nella nostalgia, non come copiato e come effetto immediato, esso viene assorbito dall’arte (…)»
[…]
«All’ontologia della falsa coscienza appartengono anche quegli aspetti nei quali la borghesia, che tanto liberò lo spirito quanto lo prese alla cavezza, accetta e gode, dello spirito, proprio ciò in cui non riesce completamente a credere – maligna anche contro se stessa. Nei termini in cui corrisponde ad un bisogno socialmente presente, l’arte è divenuta in amplissima misura un’impresa guidata dal profitto: un’impresa che prosegue finché rende e con la sua perfezione aiuta a superare l’inconveniente di essere già morta».

«L’oscuramento del mondo rende razionale l’irrazionalità dell’arte: essa è la radicalmente oscurata»1].

«Nel mondo disincantato il fatto arte è… uno scandalo, riflesso dell’incanto che il mondo non tollera. Ma se l’arte accetta tutto ciò senza lasciarsi scuotere, se si pone ciecamente come incanto, allora, contro la propria pretesa di verità, si abbassa ad atto di illusione e allora veramente si scava la fossa. In mezzo al mondo disincantato anche la più remota parola di arte, spogliata di ogni edificante conforto, suona romantica».2]

1] T.W. Adorno Ästhetische Theorie, Suhrkamp Verlag, Frankfurt, trad. it di Enrico De Angelis, Teoria estetica, Einaudi, 1975 pp. 21 e segg.

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La sera ci sorprese
facendo del giorno un rapido declino.
Ti agiti, non sopporti il fumo del barbecue
della signora Polonskij.
Ti rivedo nei colori dell’arcobaleno:
rondine di altri cieli e di altri nidi!
-Qui dura ancora il turnover.
Vado all’estero, mi rifaccio una vita,
troverò un lavoro,
avrò una moglie e dei figli-, disse Simon.
Una stagione infausta si ferma
stretta dalle corde dell’autunno.
Nei vecchi bungalow si contano le ore.
La casa lungo il fiume
non ci appartiene più,
è attracco di pescatori di frodo e di conchiglie.
Max sta finendo Psicostasia politica.
Ti rivedo nel Bacio di Klimt.
Non c’é tavolozza senza il nero.
Quando Marisa tornerà da Dortmund
sarà come un lampo a ciel sereno,
chiederà le catenine di Istanbul,
prima di dire:-oh mamma, mamma,
perché sei rimasta così sola nel silenzio?

Strilli Gabriele

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Da quale rovo sei venuta?
La stagione porta trappole.
Temi le Centurie, i mesi bisestili.
Un testamento è nel Caveau.
Aspettami quando il leone e l’agnello
si saranno fermati all’ombra delle oasi.
Noè ha attaversato il Topanga Canyon.
Il frutto dell’albero è maturo.
E’ diventata cieca la tua memoria.
Una tettoia d’anni è finita sul selciato.
L’anfora è rotta, Ubaldo!
L’anfora più bella è rotta.
Sono venuti giù acqua e neve.
A tratti si è fermato l’anticiclone.
Il vecchio Osborne non se ne è accorto.
Sta a guardare il sole che nasce e muore.
Preghiamo per i nostri gelsomini.
Il Signore solleva dalla polvere il misero,
innalza il povero dalle immondizie.
Scendiamo in una valle silente
nel giorno di tristezza di Makeda.
Il gran sacerdote,
lasciò messaggi nelle crepe del Muro,
senza piccioni viaggiatori
e pagaie, azzurro-mare.
Il pony express aspetta.Tace.
Augura: Feliz Navidad.
Il cammino si accorcia,
senza il miracolo da ponente.
A Daisy non diremo nulla
che possa scuotere i rami del suo bosco,
nulla di come è fatto il lazzaretto.

Strilli Gabriele Da quando daddy è andato viaStrilli Gabriele Ci sono anni che sembrano boschi

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Caffè Notegen, Roma, via del Babuino 159 – Caffè Notegen…«Cronaca di una morte annunciata». La società letteraria di fine Novecento. La civiltà degli incontri letterari e delle riviste a cura di Gino Rago – Con poesie degli anni Novanta di Gino Rago, Giorgia Stecher, Giuseppe Pedota, Salvatore Martino e Giorgio Linguaglossa

caffè NotegenUn giorno dell’anno 1875 Giovanni (Jon) Notegen,  «il droghiere di Tschilin », un villaggio svizzero dell’Engadina, mette la strada sotto i piedi e giunge a Roma. Qui, in via Capo Le Case, a breve distanza dalla  Via Sistina e dalla Scalinata a Trinità dei Monti,  Jon Notegen apre una drogheria. Ma pochi anni dopo, nel 1880 per l’esattezza storica, il «droghiere Jon» si sposta a via del Babuino, al civico 159. Rinnova il locale e contemporaneamente ne fa  un Bar-Caffetteria, una torrefazione del caffè, una drogheria e una piccola fabbrica di marmellate speciali le quali, per la vicinanza dell’Albergo di Russia, oggi « Hôtel de Russie», subito si diffusero anche all’estero per i numerosi turisti stranieri che l’Albergo ospitava.

Tra le due Guerre Mondiali, la drogheria e il Bar-Caffetteria diventano un tipico punto d’incontro e di ritrovo dei più noti e celebrati artisti e intellettuali dell’epoca. Negli anni ’50 il Caffè Notegen è ormai un’istituzione e la sera, dopo lo spettacolo,  vi si fa ritorno. Non è difficile incontrarvi Carlo Levi ed Ennio Flaiano, Alfonso Gatto e Corrado Cagli, con  i più assidui frequentatori  “di casa” al  Notegen   Piero Ciampi,  Monachesi, Guttuso, Zavattini, Bertolucci, Adriano Olivetti, Corrado Alvaro, Linuccia Saba, Maria Luisa Spaziani, Milena Milani, Eva Fischer, Iosif Brodskij. Ma la crisi del Centro storico è alle porte. Teresa Mangione, a tutti nota come Teresa Notegen perché moglie di Leto, uno dei fratelli Notegen e accolto

da tutti come «amico degli Artisti», con tutta la gente della cultura, dello spettacolo, dell’arte, della poesia e con tutti gli “artigiani” gravitanti nella «vecchia Roma», ne avverte i rischi e sensibilizza appassionatamente Sovrintendenza ai Beni Culturali e Consiglio comunale capitolino per la salvaguardia del Notegen dal rischio chiusura.

piazza_ di-spagna2Nel 1988 il Caffè viene restaurato e la «saletta delle marmellate» finalmente recuperata viene destinata a colazioni, pranzi di lavoro, riunioni conviviali, incontri culturali. Sempre vivi nella memoria, non soltanto degli addetti ai lavori, i “martedì di poesia”.  Ricordo che negli anni Novanta si sono tenute qui tutte le presentazioni dello storico quadrimestrale di letteratura “Poiesis” che contava nella sua redazione Giorgio Linguaglossa, Laura Canciani, Giorgia Stecher, Giulia Perroni, Giuseppe Pedota e molti altri poeti «esterni», tra i quali lo scrivente che allora viaggiava tra Trebisacce e Roma. E come non ricordare Salvatore Martino e Luigi Celi. Forse, l’ultimo bagliore di quella antica civiltà dei caffè letterari. Poi, intorno alla fine del primo decennio di questi anni 2000, il Notegen chiude definitivamente…  Nel locale al 159 di Via del Babuino, a pochi passi da Sant’Attanasio, da Piazza di Spagna e da Piazza del Popolo, di quella vitalità oggi è rimasta forse appena un’ombra sul muro.

Indeterminazione, relatività, equazioni di Maxwell, verso libero e non libertà nel verso, metafora tridimensionale, modernismo e postmodernismo, rapporto tra  «io »poetico e «oggetto», differenza fra «oggetto» e «cosa», tempo e poesia: grandi, inquietanti questioni dibattute nella sala delle marmellate dai poeti che circolavano attorno a “Poiesis”. Forse, uno storico del passato recente potrà «ricostruire» lo stato di salute della poesia di quegli anni e dei poeti, soprattutto operanti in Roma, attraverso le vicende del Caffè Notegen…«Cronaca di una morte annunciata», realmente avvenuta nella indifferenza generale e nella inerzia dell’amministrazione dei sindaci Rutelli e Veltroni.

Gino Rago

caffè Notegen. 1jpgDue poesie di Gino Rago dal Caffè Notegen (1999)

Locandina Caffè Notegen
Via del Babuino, 159 Roma*

Noccioline americane
Ostriche australiane
The inglese
Salmone canadese
Cous-cous marocchino
Dolce tunisino
Burro danese
Whiskey irlandese
Palmito cubano
Caffè brasiliano
Colonia francese
Vongola cinese
Caviale russo
Profumi di lusso
Odori di cucina
Petrolio e benzina
Sapone e acetone
Con qualche gettone
Panini e cornetti
Riso e spaghetti
Formaggi e surgelati
Telefoni occupati
Juke-box a tutto spiano
Flipper alla mano
Tommaso sorridente
Teresa accogliente
Sempre tanta gente
Di giorno e di notte(gen)
Tra sussurri e grida
Mosul, Avati e Guida.

* N.B. La locandina è nata in una serata conviviale al Notegen su un tavolino con Giorgio Linguaglossa, Vito Riviello e Gino Rago, dopo la presentazione di due libri di poesia, nella «saletta delle marmellate». Lo scherzo piacque a Teresa e ne ricavò la «Locandina del Caffè Notegen». Era il maggio del 1999.

.

Un bergamotto sul fiato della morte
(in ricordo del Caffè Notegen)

Se il poeta sceglie da quale parte stare
il mondo trova sempre il suo tono,
il suo timbro, il suo colore. Lessico
d’alghe. Sintassi di conchiglie.
Al centocinquantanove di Via del Babuino
la sirena invita l’uomo stanco
all’ultimo sentiero di lumache.
Sotto il passo incerto di frontiera
Teresa spalma un giallo
profumato di limoni.
“Die Klage. Das Ruhmen”.
Il lamento. L’elogio. Euridice. Orfeo.
Un bergamotto sul fiato della morte.
Da quell’altana d’aria a Trinità dei Monti
chi ricorda il viola di Scilla, il tormento
della figlia eletta di Zurigo, l’enigma sul mare
a Chianalea. Chi sussurra l’estasi
d’una spadara, l’incanto della musica
sull’acqua, la sorte d’una piuma
in quel vento sul dorso della mano. (Al Caffè Notegen
di Via del Babuino bussava indarno il male
alle vetrine, né mai trovò ricetto la malinconia.
Sostava sui selci neri l’orma verde bile dell’intrigo).
Al galoppo sul niente d’una soglia nessuno tema
il viaggio al centro della notte.
Forme. Visi. Voci. Specchi. Eventi. Lontani
anche i vapori sugli attriti della carne.
Di quei palpiti vitali, di tanta joie de vivre
sì e no un’ombra oggi resta sul muro.
Ma se il viandante tace, se allenta la corsa,
se a Sant’Attanasio asseconda l’occaso
al Notegen di Via del Babuino daccapo i poeti
clessidrano il tempo, fermano in sé il respiro
degli alberi, risgabellano vantandosi
d’essere schegge dell’eternità. Torna sugli scalini
a prillare aprile. Il sangue riscorre più in fretta
del canto… E le azalee sanno fare il resto.

Giorgia Stecher volto

Due poesie di Giorgia Stecher da Altre foto per album (1996)

Il bisnonno

(dopo il terremoto del 1908)

Accorso al molo tu
chiamavi le barche: Teresa
Carmelina dove siete?
Sornione il mare ti lambiva
i piedi come mostro placato
dopo il pasto tra i resti
del banchetto e tu
a strapparti i capelli disperato.
Di te questa l’immagine
che m’hanno consegnato e a nulla
vale guardare il mezzobusto
che ti immortala grave ma quietato
sopra l’emblema inutile dell’àncora.

.
L’Altra Nonna

Di te ricordo i capelli
suddivisi in due bande da una riga
e la trappola per topi che inventasti
servendoti di un ditale e di una pentola.
Dicevano di te ch’eri una gran signora
che avevi il mestolo d’oro e molto argento,
prima della sterzata della stella.
Mi è rimasto il tuo nome soltanto
ed un ventaglio che col vento
che tira qui da noi, è superfluo
agitare, per soffiarsi.

.
Foto di Parente Sconosciuta

En souvenir de ta soeur c’è scritto giù
nell’angolo data due maggio novecentotredici
e tu stupenda contro una finestra un profilo
perfetto da cammeo, le braccia abbandonate
perfettissime, collo vestito perle
acconciatura talmente belli da sembrare
finti. Eppure sei esistita, col tuo francese
spedito ineccepibile e gli squisiti modi
da gran dama, lo diceva la Gina che sapeva
tutte le vecchie storie di famiglia.

 

Giuseppe Pedota foto anni Settanta

Giuseppe Pedota foto anni Settanta

Poesie di Giuseppe Pedota da Equazione dell’infinito (1996)

I campi dello splendore

I

De profundis o madre l’inesausta
chiara tristezza e queste lunghe lune
ti chiamano e le stanze luminose
ancora mi posseggono all’incanto
delle verdi stagioni della luce

sono tornato dall’illimite
per la felicità di nascermi da un sogno
tuo acerbo di granoverdemaggio

Lucania lucis l’eden tra la torre
normanna di Tricarico e le selve
di lupi che odoravano di neve

e falchi neri le ali di rugiada
inseminati da sapienza i venti
grand’inventori di storie e di sciarade
sulle flotte ulissiache dei sogni

e l’avida di spazi
Genzano emersa da abissali
valloni ebbri d’aglianico e di risa
scenografia arrogante per attori
cattivi contro il cielo come solo
sanno esserlo per genìe segrete
le progenie di Orazio e di Pitagora

matematica e mistica lubrica e libertà
crudele sole nostre ospiti

II

e ancora andiamo per queste strade di vento
con un frullo di stelle tra le ciglia

Lucania lucis come allora andiamo
quando ancora sottile nel tuo ventre
sentivo raggrumarsi i vaticini
delle imminenti apocalissi e glorie

ma è sublime vertigine del tempo
il grande gioco
di frantumarci nell’oblio di ciò che fummo
e che saremo

e fu storia mai sazia
di coincidenti epifanie
nascere l’anno della croce uncina
che provava i suoi artigli d’acefalia deforme
devastando i colori ed il cuore di Klee

e per quali segnali d’elezione
egli mi rese la sua scienza
di render l’invisibile visibile?

.
III

quali segni esaltanti e disperanti
protessero da intrighi
la mia stupefazione a menti aliene

perché annulla i dies irae della storia
il sonno d’un bambino

perché si aprivano le vene
di dèmoni e sibille e di profeti
tra le dita
di Michelagnolo che urlava
al suo papa i crediti mancati
dei lapislazzuli sistini

per quali segni
a pretesto di fame si compose
Amadeus il suo Requiem

e può un blu-viola distico
disperare all’abiura d’un amore?
Lucania

questo paese è lontano da ogni senso
e dagli dèi
forse
ci corre dentro nelle vene un segno
un turgore di luce
di silenzi
appartenute a un sogno di remote
civiltà stellari

la circonferenza s’è aperta
nel punto delle mie fughe
nel punto dei miei ritorni
come teorema d’amore

la mia Lucania è un’Itaca
di tutte le ombre
che mi crearono la luce
di spazi che mi allevarono
con la storia dei venti
e i lutti delle donne nero eterno
come utero di vergini

neri occhi hanno scavato ombre più vere
di chi le rifletteva

un’esca per i flutti
di giovinezze ambigue

i passi delle mie lune nere
vengono dove si attendono
che il viaggio della luce
svegli i bradi cavalli di ombre
per criniere di vento

 

Giorgio Linguaglossa al Mangiaparole 2013

Giorgio Linguaglossa al Mangiaparole, Roma 2013

Poesie di Giorgio Linguaglossa (da Paradiso, 2000)

Enigma

Per il lugubre occhio di Kore
per il funebre drappeggio dell’angelo
dal trono dove regna Proserpina
osserviamo gli uccelli cantare
dove era il laurociliegio
rumoroso di tuoni.

Benché il suo occhio sia frigido
rigide rondini tornano al sole
dal nostro nero mare all’azzurro
palazzo del re dei re, sapremo
dimenticare il sole perché
incontrarsi era desiderio.

.
L’imperatrice Teodora e la sua corte*

La melancholia dell’imperatrice Teodora
e del seguito imperiale recita
il trionfo fittizio, nomenclatura
monumentale museificata nel vetro.
L’ampia corona deposta sul capo
immobile assottiglia lo strepito
dei passi del corteo che collima
con il corteggio di tenebre.
Gli occhi di Teodora ci osservano
dalla rigidità della decorazione musiva
laddove non esiste il tendaggio
dell’inquietudine.

* Mosaico della chiesa di “San Vitale” a Ravenna

*

Vidi l’Angelo dai quattro volti
che guardava in quattro specchi il mio
sembiante riflesso, il quadruplice
barbaglio della luce incidente il profilo
araldico. L’abbaglio di otto occhi
celesti assorti nel nulla dell’oscurità.
tetagrafico, tetacriptico profilo.

Salvatore Martino da “”La fondazione di Ninive” 1977

A una distanza pari dalla giungla seguendo il filo di un
airone basso nelle correnti dell’aria Disposti a seguitare
malgrado l’oroscopo straniero verso l’alto del piano dove
spirali si rincorrono e la schiera alata dei pesci Intorno
il sentiero mostrava tracce d’un’altra carovana passata
chissà in un giorno di aprile Si avanzava per gradi
lo sguardo fisso al perimetro del dolore

but if you think of a periscopal motion
of thinghs and animals

L’arsenico nel vino i segnali del passo Dalla bocca del
capanno un grido di fucili Stormi inquieti di volatili e
il rosso cremisi delle piume alla vista dei cani
Ci spingemmo avanti senza l’appiglio delle streghe
Poi avrai notizie dagli agenti del cielo Orbite e sonde
le riprese di luna e mille crateri illuminati dalla
fiamma silicea Come sciogli il granito?
A una distanza pari dalla giungla l’anima si riduce ad una
massa che invade le finestre entra nelle cantine squarcia
i vetri e le porte precipita negli alambicchi Piombo
***
Doppiata la collina si piega il tempo per cogliere il
tracciato che scende in un azzurro paese dove laghi
s’incontrano il verde meridiano e oltre la fossa il cielo
Tradito dai sicari
Ci siamo tinte le mani con bianchissima calce
coperto i sopraccigli col sudario una flora batterica
per coltivare agavi o la demenza di chi spera
al mattino un oroscopo astuto delle carte
Non c’è comparazione col metallo quello duro e temprato!
La fossa spaventosa degli inganni precipita intatte
carovane l’oro disciolto nei crogioli l’interminabile spirale
conquista il punto Ricomincia l’ascesa a gironi più fondi
Nel Maelström attorcigliati Cibele e il corpo di Attis
ritrovato una piatta famiglia di lombrichi Sirene
calamitate a riva da un canto più del loro sinistro
Siede il giovane Orfeo la lira stanca lungo il braccio
sul cavalcante Egeo stanco dell’Ade stanco dell’Olimpo
tradito dagli amici le mani di bianchissima calce e un
vuoto contro la mezzaluce balenata in pieno dormiveglia
dalla camera accanto
Dovremmo salire E gonfiare nell’azoto
Una centuria volatile
***
Se ancora disperi di vedermi e i passi si cancellano
nella veglia a mezz’aria tra desiderio e fatica
E un’ora dopo ai piedi di una lunga valle
ti prendessero per mano quasi dicendo una preghiera
Mercoledì 8 gennaio in una valle
E ti conducessero per cerchi e rottami senza una
cruda stanchezza ch’è poi attesa di non attendere
E ti prendessero quando singhiozzano i merli con una
storia da decifrare portandoti attraverso canali di metallo
Se ancora i passi si cancellano
***

Gino Rago  nato a Montegiordano (CS) il 2. 2. 1950, residente a Trebisacce (CS) dove, per più di 30 anni è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, ove si è laureato in Chimica Ind.le presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005). Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa (Progetto Cultura, Roma, 2016). Altre poesie compaiono nella Antologia Poeti del Sud (EdiLet, Roma, 2015) sempre a cura di Giorgio Linguaglossa.

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DIECI POESIE di Domenico Alvino da “Thauma Donna Domina Domus Prima” Loffredo Editore, Napoli 2014 con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Tura Satana, Haji, Lori Williams, ossia Varla, Rosie e Billie come trasformare il deserto del Mojave nel (non) luogo del sesso come pretesto per la violenza

Tura Satana, Haji, Lori Williams, ossia Varla, Rosie e Billie come trasformare il deserto del Mojave nel (non) luogo del sesso come pretesto per la violenza

  Commento di Giorgio Linguaglossa

Domenico Alvino è nato a Luogosano (Avellino) nel 1934, vive a Roma. Nel 1992 pubblica Il suono d’ombra e, nel 1996, Dove si formano le piogge (Amadeus, prefazione di Maria Luisa Spaziani). E’ autore di numerosi saggi sulla poesia contemporanea ed è’ stato redattore diPoiesis”. Domenico Alvino è poeta del disincanto, ovvero, della indirezione. Ma tra indirezione e disincanto v’è una relazione evidente nella misura in cui la perdita dell’orientamento, e quindi della direzione, produce quella particolare attitudine psicologica e gnoseologica al disincanto. L’aria inorientata (Roma, Scettro del Re 2002) è il titolo di un’opera che porrà stabilmente Domenico Alvino tra i poeti più promettenti degli ultimi anni. Tenterò di spiegarne le ragioni. Il disorientamento è una condizione psicologica dell’uomo nel mondo moderno, non soltanto un privilegio del poeta; diciamo che il poeta ha anche a che fare con il problema delle parole instabili, anche le parole hanno perduto il loro luogo, non sanno più dove abitare e sono divenute instabili; ne segue che il poeta che voglia conquistare il suo linguaggio deve meditare per forza di cose sopra queste problematiche. Alvino tenta di dare una risposta mediante la costruzione di una poesia modernista, cioè prende le mosse dall’inizio del Novecento, dal linguaggio eburneo  del D’Annunzio, lo travasa nel magma linguistico del parlato quotidiano dell’Italia degli anni Novanta, lo agita e lo ricompone, come per magia, in un dettato asciutto e scombiccherato, dalla sintassi claudicante ma lampantemente chiaro ed efficace. Poeta modernista, Alvino abita il Moderno con la consapevolezza di un argonauta dello Shuttle. Cosciente di essere un epifenomeno dell’interminabile linea epigonica delle poetiche degli ultimi vent’anni, Domenico Alvino reagisce con vigore, descrive con inaudita circospezione la deriva fenomenica del disincanto, proprio quando il sortilegio universale imperversa, costretto e spintonato entro la linea di demarcazione dell’esaurimento delle poetiche post-sperimentali e post-orfiche del tardo novecento. Tra ironia e disincanto, dopo il diluvio dell’ipocrisia i suoi personaggi vanno avanti e indietro, vagano, si interrogano, chiedono ma tutto è chiuso, sprangato, le saracinesche abbassate, i fili tagliati. Leggiamo una sua poesia:

E’ scuro, non si vede niente qui./ Non entra mai nessuno. La vita / si svolge nelle stanze basse./ Accendi. Ma che cosa./ Hanno tagliato i fili. Tanto/ non serviva. Una finestra almeno./ Me le hanno chiuse. Murate./ Ma quando. Mah, sarà un anno / o due, o venti. Non ricordo./ Furono quelli delle tasse

  Non c’è dubbio che la sintassi franta, la composizione paratattica, le unità di articolazione quasi del tutto assenti costituiscono gli elementi fondamentali dello stile. La punteggiatura fitta ed irta, divide e taglia le unità della proposizione determinando quel caratteristico moto a singhiozzo, stop and go, l’andirivieni continuo ed asfissiante tra la retromarcia innestata dalla punteggiatura e la spinta inerziale della sintassi; senza dimenticare che il linguaggio svaria da neologismi di impianto dialettale di Luogosano a lessemi di un italiano colto ormai caduto in disuso. Il senso di disorientamento che coglie il lettore dinanzi a questo stile è del tutto giustificato. Alvino vuole rendere tattilmente, lessicalmente evidente questo spaesamento generale del linguaggio, privo ormai delle coordinate giustificatrici della tradizione. I suoi “interni” sono tutti disturbati da eventi atmosferici e da una sismografia generalizzata del lessico così da generare uno smottamento sotterraneo dei significati senza ricorrere all’ausilio di alcun gioco dei significanti. E questo è importante da sottolineare per tracciare una sicura linea di demarcazione tra le operazioni di matrice post-sperimentali e quella portata avanti da Alvino. Inoltre, gli “interni” di Alvino sono costruiti giustappunto con la tecnica del “giallo”. Il poeta di Luogosano dissemina il testo di trappole semantiche, di sviamenti, di nascondigli lessicali, di divagazioni e di sospettosità: qualcosa deve avvenire, c’è il presagio, c’è l’iter del delitto avvenuto o che sta per essere compiuto (ma da chi?). Il testo è straordinariamente tattile e duttile e straordinariamente incerto ed ambiguo. In questo compito Alvino non concede quasi mai nulla al lettore, non indulge mai alla seduzione del testo, non consegna mai laccature o cromatismi, disdegna eufuismi ed eufemismi e preferisce sempre indicare chiaramente le cose, le sue proposizioni sono dichiarative; proprio come il linguaggio giudiziario procede mediante enunciati dichiarativi quello di Alvino si dipana mediante microcitazioni dichiarative, le quali  assemblate ed assiepate le une accanto alle altre, invece di generare un testo normativo, produce, con somma sorpresa, un messaggio sommamente ambiguo proprio per l’incidentalità e la molteplicità delle informazioni in esso contenute. Qua e là affiorano relitti dello stile gnomico: “Il deserto è inoltre improvviso e violento/ e spiana foreste nel sangue e accumula pietre nell’occhio” 2), ma si tratta appunto di reperti archeologici e, per forza di cose, proprio in questi frangenti il linguaggio dell’autore si arricchisce di metafore come per  dissimulare la nostalgia per un linguaggio pienamente significante oggi inattingibile. Leggiamo ancora una poesia inedita intitolata Il banco dei pegni:

Adesso andiamo, aspetta, un momento / Solo che smetta di piovere./ Quasi non c’è più vento. E poi chi ti dice che chiude / Il Banco. Asciugati le guance. Aggiusta i capelli // Ecco. Faremo a tempo. Ha già spiovuto. C’è solo qualche goccia./ Il guaio sono le pozzanghere. Devi andare da una pietra all’altra./ Scegli le più lisce. Questa forse… o l’altra lì. Hai suole sottili (…) Vieni. Si vendono calosce, qui all’angolo. Fa piano t’inzaccheri./ Adesso è bello il tempo. Vieni. Il Banco è vicino./ Sotto quell’insegna al neon./ Spenta.

Questa retorizzazione è il prodotto del carattere non vincolante degli enunciati legati/separati dalla categoria dell’inferenza. Ogni enunciato porta con sé l’alterità, si presenta come flusso in divenire del sistema degli enunciati. Essi rimandano, in ultima istanza, mimicamente e mimeticamente, annunciano, sornionamente e lacanianamente al fatto che anche l’inferenza finirà un giorno per indebolirsi a causa della presa d’atto della non-identità e della propria costitutiva paradossalità. Poesia intimamente drammatica questa di Alvino per questa invasione della paratassi, per questo azzoppamento sintattico e semantico, per questa deglutizione del flusso dichiarativo dentro il buco nero della significazione.

Ursula Andress in La decima vittima directed by Elio Petri, 1965

Ursula Andress in La decima vittima directed by Elio Petri, 1965

 Indice

Tra ombre annunziando l’alba
Di notte incontra una sconosciuta. 17

Con qualche filo di nebbia
case forse o frantumi
silenziosi precipitavano
restando fitti in piedi:
mi sorpresi a camminare in fretta
sotto le stelle impallidite
tra ombre annunziando l’alba
venivi piccola da parere altra
cosa ammantata d’alba
o del risveglio di luci
assopite per le vie del sole:
ma eri chioma e mantello
neanche un po’ di volto
lontano
avvicinandoti poi
sotto le ciglia candore
che solo uno sguardo feriva o filo
di sospetto forse:
ma io raccoglievo frantumi
di desiderio
intorno all’ambio sinuoso
non altro in quell’ultimo lembo
di notte che moriva
e di cielo.

.
(Anni Sessanta).

Tu eri
Per la stessa: nostalgia. 27

Oh, dove
sei
tu eri e le cose no
la strada, il silenzio del vento
sotto il mio essere quel momento
tu
eri in quel mentre lì d’allora.

Mercoledì 27 ottobre 2010.

 by the meg-booby Tura Satana. I love how she looks in the film - all huge tits, huge arse with teeny wee waist, clad in black high waisted jeans and leather gloves.

by the meg-booby Tura Satana. I love how she looks in the film – all huge tits, huge arse with teeny wee waist, clad in black high waisted jeans and leather gloves.

Fulmine e lampo perduto
Di Adamo ed Eva, appena lì nell’Eden,
che si dicono di sé. 28

Che c’eravamo
un cercare l’un nell’altro
un tempo
vuoto
da compiere dell’altro
l’uno
e nessuno
c’era in quel noi
lì assetato di presenza
per anni
il pensiero s’era calato in alture
altre da quelle dove noi
lampi
ci eravamo
nel nostro fulmine
accesi
che ancora
Mnemosine protraeva
nel mare del possibile
tenuto aperto
in noi.
Eccolo di nuovo ora
che
l’un venuto all’altro
l’uno è dell’altro il lampo
e siamo
unicamente siamo
un solo eterno lampo
sopra il nulla
sùbito…
e…
spentosi
forse l’un nell’altro
non ci quieteremo
nella nostra voglia eterna
inadempiuta
ché avrà la nostra carne
senza il pensiero attinto
e perduto
ch’è un lampo
la vita.

Roma, 25 giugno 2011.

Lontananze
Tra sogno e dicerie. 34

Ci sono luoghi
a Bologna o altrove
ristoranti o salotti o sale di conferenze
o di ballo o spiagge
anche lì fra terra e luce
dove arrivando una donna
manda intorno un po’ di sguardo in cerca.
E trova
che l’aspettava
uno come un cieco smarrito
una mano
che lo indirizzi.
Vi lega una ministoria
fatta di cenni e sguardi
una stretta, un sorriso
un affaccio l’uno dentro l’altra
un annuso d’incavi,
di secrete
come una volta da ragazzo
nella falegnameria
stando al buio
e lei tutta offerta in luce
d’una ministoria
portata via dall’ombre
come altre poi
fatte miseramente
cadere.

I presenti intanto
se ne sono andati uno ad uno.
Il locale sta per chiudere.

Roma, 26 gennaio 2006

Faster, Pussycat! Kill! Kill! Russ Meyer's cult sexploitation movie inspired Cullinan Richards' trip to Scunthorpe Photograph Everett Collection  Rex Features Everett Collection

Faster, Pussycat! Kill! Kill! Russ Meyer’s cult sexploitation movie inspired Cullinan Richards’ trip to Scunthorpe Photograph Everett Collection Rex Features Everett Collection

Tra i capelli ritinti
De bicodulis femininis. 110

Un vento è
tra i capelli che tingi
pezzi di buio ne cadono
d’attorno i sorrisi al serpe che sorride.
Come può succedere
che metta un piede
sul capo di chi le onora
come
lo accarezzano mentre
dicono amore
a chi di coltello cercano nelle viscere
il punto della vita
come
così ridenti che
angeli prigionieri
vi svolazzano e poi ecco
la loro letizia smuore
e vogliono la fuga…

Novembre 2011

Dolore
Parole da dirsi dall’innamorato all’amata che lo ricusa. 131

Questo dolore
edificato
un me edificato
con un terrazzo senz’aria
finestre appena murate
e oblò che dicono di mare chiuso
con l’aria che si chiude il respiro appresso
questo dolore calotta
esposta
alla canicola
questo dolore con fondamenta
dure
sale rampe ripide
poi di lassù s’insacca quale
anima di ferro
in cemento
in cemento
questo dolore
di te.

Roma, 6 ottobre 2011.

Domenico Alvino

Domenico Alvino

Amore che presta ali
Idem eidem de eodem. 132

Se lo fai uscire poi
tutto crolla
sta un po’ in caduta
sospeso
altissimo
e poi precipita che non lo raccogli
di secolo in secolo che sarai
pensiero
d’uno o di alcuno
maculato di tale desiderio,
di te stesso
abbandono a tale
reiezione…
Ma quale
crepuscolo di idee ora ti abbruna
verso quale buio
che non vedi o riconosci più
amore
che ci presta ali.

Roma, 6 ottobre 2011.

.
Il giorno dei morti
È lei che attiva e disattiva la vita. 158

È finito il tempo
disse al mattino seduta sulla sponda
è finito
il tempo. Io
non dissi niente
mi alzai e me ne andai
e smisero gli uccelli
mi uscirono dalle vene
dei morti
mi morivano ancora
nei polsi
i vivi non avevano un respiro
solo
morti nomi giù
nei tèndini
me ne andai
alla deriva
per dimenticanze.

Roma, 26 aprile 2004

domenico alvino

Sotto il biancore di pelle

Dov’eri
che non ti vedevo
sotto il biancore di pelle
il lampo d’occhi azzurri
o neri
sotto
i fianchi melodiosi
i capelli, la bocca
dove morivo
annebbiandomi in tremori.
Dunque eri lì nascosta che non
ti vedevo
e fuggivo via
e nessuna mi trovava.
Ora sono qui orfano e
vedovo e
monco e fiato senza
un getto.
E invece tu ancora
dove sei
forse su una stella persa
che non mi senti.
Anzi la voglia ti è passata
e punti a un Dio
che si cancella
e ti cancelli.

Roma, 25 dicembre 2007

Sera sul piede
Dante, in sospetto, a Beatrice, o Petrarca a Laura, 168
come fosse Nino a Semiramis, “che a vizio di lussuria fu sì rotta…”

Io e te da soli mai
fu che avvenne l’alba
e poi giù sera
sul piede
oltre la soglia
era il cuore oltre il muro
tu nel chiuso lì
lontana
quanto stella persa
tra satelliti
cupidi
rantoli
io ne sentivo
di parole e gemiti…
Negli occhi
mi si alzava grande
un letto
in uno specchio
nudi
diavoli
proni
avanti altri a battere ad arieti
e tu maestra indotta
a ridere sotto i colpi
o da parte lì schiusa
al tuo rantolo
fino
al culmine lancinante.

Roma 29 ottobre 2011.

Domenico Alvino nativo di Luogosano (AV), ha insegnato lingua e letteratura italiana e latina nei licei della Capitale, dove risiede, ed ora svolge attività di poeta, scrittore, saggista e critico letterario. Ha fatto esperienze teatrali da studioso, autore, interprete e regista. Nel 1973 è stato recensore letterario del quotidiano «L’Unità». Ha elaborato un dispositivo di analisi critica, denominato “critica operazionale”, il cui saggio fondativo, col titolo Poesia e riscrittura di poesia: un modello teorico, è pubblicato su «Aufidus», rivista di scienza e didattica della cultura classica, anno XIII, n. 39, Kepos Edizioni, Roma, dicembre 1999.Ha tenuto conferenze in varie sedi universitarie italiane ed estere su problemi di teoria, storia e critica letteraria, di politica scolastica e di didattica applicata agli studi classici.
Da critico militante, è stato redattore della rivista “Pòiesis”. Suoi testi (recensioni, saggi e opere di poesia) sono altresì apparsi su diverse riviste e quotidiani, quali «Otto-Novecento», «Critica letteraria», «Gradiva», «Riscontri»; «La Mosca di Milano»; «Galleria»; «Fermenti»; «Cartevive», «Ambra», «Altro Parnaso», «Atene e Roma», «Nuova Secondaria», «Il Tempo». Oltre a vari componimenti apparsi occasionalmente su riviste, i libri di poesia pubblicati sono: Il suono d’ombra, Ragusa, Cultura Duemila Editrice, 1992, con prefazione di Concetta Fiore; Dove si formano le piogge, Cittadella (PD), Nuove Amadeus Edizioni, 1996, con prefazione di M. L. Spaziani; L’aria inorientata, Roma, Lo Scettro del Re, 2001; Thauma Donna Domina Domus Prima, Loffredo Editore, Napoli 2014, prefazione di Giangiacomo Amoretti. Dei critici che si sono occupati della sua produzione letteraria si segnalano: G. Capocefalo, M. Petrucciani, D. Pisana, S. Saluzzi, F. Ulivi, S. Gros Pietro, G. Gangemi,L. Nanni, Giorgio Linguaglossa e Donata De Bartolomeo. Membro del Cenacolo dell’Associazione culturale Rossella Mancini, nel 2004 ha tenuto un corso sulla critica operazionale, di cui ha dato conto in due saggi, Concetti base della critica poetica operazionale e Critica operazionale: prove applicative sull’elocutio, pubblicati sul sito dello stesso Cenacolo. Ivi è possibile leggere anche uno studio su Intelletto ed emozione in poesia, ed un altro dal titolo Il problema del linguaggio in poesia. Molti suoi componimenti, in lingua e in dialetto, sono apparsi in rete, dove sono tuttora leggibili.

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Giulia Perroni –  testi tratti dal POEMA La tribù dell’Eclisse (2015) con un Commento di Giorgio Linguaglossa e una Lettera di Luigi Celi

 saturno EclisseGiulia Perroni, nata a Milazzo (Me), vive a Roma stabilmente dal 1972. Unisce alla sua attività poetica un impegno di organizzatrice culturale e di attrice. Sue raccolte: La libertà negata prefata da Attilio Bertolucci, ediz. Il Ventaglio,1986; Il grido e il canto, prefazione di Paolo Lagazzi, 1993; La musica e il nulla, prefazione di Maria Luisa Spaziani, 1996, Neve sui tetti, 1999, La cognizione del sublime, 2001, Stelle in giardino, 2002, Dall’immobile tempo, 2004 (tutti testi pubblicati da Campanotto di Udine); Lo scoiattolo e l’ermellino edizioni del Leone, 2009, con postfazione di Donato Di Stasi e Quarta di copertina di Renato Minore. Nel gennaio 2012, quasi contemporaneamente, vengono pubblicati una “Antologia di percorso”, La scommessa dell’Infinito, introdotta da un commento critico di Plinio Perilli, per le edizioni Passigli, e il poema Tre Vulcani e la Neve, prefato da Marcello Carlino, Manni editori. L’ultimo libro, La tribù dell’eclisse, edizioni Passigli, marzo 2015, ha la prefazione di Marcello Carlino.

Presente in antologie e riviste in Italia, U.S.A, Giappone e Francia, numerose recensioni le sono state dedicate su importanti riviste nazionali – anche on-line, come le Reti di Dedalus – e internazionali: Gradiva, a New York, Il Fuoco della Conchiglia, in Giappone, Les Citadelles, a Parigi. Di lei si è interessato anche il grande poeta giapponese Kikuo Takano, che le ha dedicato il suo ultimo libro, Per Incontrare. Suoi testi sono stati musicati e portati in tournée in diverse università canadesi da Paola Pistono dell’Accademia Santa Cecilia di Roma. Vincitrice di molti premi, tra cui il Montale, il San Domenichino, il Contini Bonaccossi, R. Nobili al Campidoglio, Omaggio a Baudelaire, il premio Cordici  per la poesia mistica e religiosa, il premio Europa Piediluco 2014. È stata invitata nel 2012 per La scommessa dell’Infinito al Festival Internazionale della Letteratura di Mantova. Giorgio Linguaglossa ha scritto, in “ Appunti critici”Roma 2002, per lei un saggio e ancora in “Poiesis (n. 23-24) scrive su “ La cognizione del sublime”. Dante Maffia, le dedica a sua volta un saggio su Poeti italiani verso il nuovo millennio, Roma 2002. Rosalma Salina Borrello, in La maschera e il vuoto, Aracne 2005  e in Tra esotismo ed esoterismo, Armando Curcio editore, 2007. Luca Benassi su La Mosca di Milano nel 2009. Paolo Lagazzi su La Gazzetta di Parma. I suoi libri sono stati presentati in Campidoglio e in altri luoghi prestigiosi di Roma e del territorio nazionale; ultimamente a Villa Piccolo, centro mitico della cultura siciliana. Ha gestito l’attività letteraria al Teatro al Borgo, al Café Notegen, al Teatro Cavalieri. Con il poeta Luigi Celi organizza dal 2000 presentazione di libri, incontri di arte, letteratura e teatro al Circolo culturale Aleph nel cuore di Trastevere.

cinese drago Si racconta che nei tempi antichi, in Cina, quando arrivava un'eclissi di sole, si usasse battere i tamburi per cacciar via il dragone che si stava ...

cinese drago Si racconta che nei tempi antichi, in Cina, quando arrivava un’eclissi di sole, si usasse battere i tamburi per cacciar via il dragone che si stava …

 Commento di Giorgio Linguaglossa

 Siamo ancora dentro una Civiltà di tipo 0, secondo la tipologia indicata dal fisico teorico Michio Kaku, una civiltà che trae energia da elementi che trova già pronti in natura (il carbone, il petrolio, l’uranio etc.). È quello che ci vuole dire Giulia Perroni con questo bizzarro titolo, apparteniamo ancora alla «tribù dell’eclisse», siamo simili a quegli arcaici che assistevano con spavento alla eclisse come ad un evento taumaturgico e divino. Tutta la variegata «sostanza» del discorso poetico di Giulia Perroni ha qualcosa di arcaico e di moderno insieme, è costituita da immagini e substrati di immagini, di metafore e di substrati di metafora, di schegge di immagini, di voli spericolati tra le immagini, di capovolgimenti di tempi e di spazi. Poema che si estende per 170 pagine senza un attimo di tregua, con un ritmo percussivo ed avvolgente che vuole irretire il lettore nelle proprie spire. Come sappiamo dagli studi di un sinologo come Ernest Fenollosa, le parole astratte, incalzate dall’indagine etimologica, ci svelano le loro antiche radici affondate nell’azione; e forse il dinamismo della poesia della Perroni è un lontano parente del dinamismo universale che un tempo animava le lingue primitive; della lingua primordiale l’autrice eredita la capacità di creare universi paralleli e «mondità». Come sappiamo, non è da un arbitrario intento soggettivo che nacquero le  primitive metafore, esse seguono la matrice delle relazioni che accadono in natura, la natura ci fornisce le sue chiavi, e il linguaggio recepisce questa matrice che si trova in natura. Giulia Perroni è convinta che il mondo sia pieno di omologie, simpatie, identità, affinità e che sia compito della poesia catturare i segreti di queste relazioni interne tra le «cose». La metafora è la vera sostanza della poesia, l’universo è un orizzonte di miti sedimentatisi; la bellezza del mondo visibile è impregnata di arte, è quest’ultima che crea la bellezza della vita; la poesia fa coscientemente ciò che i primitivi fecero inconsciamente, e la poesia di Giulia Perroni non fa altro che riesplorare e rielaborare i miti e le imagery della civiltà del Mediterraneo, getta ponti che si estendono tra il visibile e l’invisibile, attraverso il tempo e lo spazio, il lessico prosaico e quello ricercato. È questa la poetica di Giulia Perroni, leggere la sua poesia significa accettare questa impostazione di vita e del modo di concepire l’arte poetica; ma nella sua poesia c’è anche il gusto del gioco, l’allegria degli spazi, la gioia del ritrovarsi nell’universo, l’ironisme, l’istrionisme. C’è altro, c’è la «mondità», un riepilogo e una accelerazione del mondo di fuori e del mondo di dentro.

Giulia Perroni e Yasuko Matsumoto

Giulia Perroni e Yasuko Matsumoto

 Caro Giorgio,

ti faccio i complimenti per la tua interpretazione della poesia di Giulia, una poesia non facile da accogliere, fuori, com’è, dai parametri stantii e prosastici di buona parte dei linguaggi poetici contemporanei. La poesia di Giulia è un’esplosione di metafore. Per il grande poeta giapponese Kikuo Takano – che Giulia ed io abbiamo fatto conoscere in Italia, lavorando sinergicamente con Yasuko Matsumoto -: “Nella nostra anima esiste una innegabile sete che può essere soddisfatta soltanto dalla metafora”, La “metafora – scriveva – è ciò che trasporta”… Essa trasporta il “Risveglio”… “più di una volta e lo fa più volte fino al punto in cui le cose si risvegliano”; e tuttavia: “scrivere poesie vuol dire anzitutto soffermarmi con uno stupore profondamente fresco di fronte a ciò che esiste, accettare insieme la molteplicità e la continuità degli esseri, fissare su di loro lo sguardo fino a quando svaniscono. La poesia era per me l’unica via per incontrare il senso e la bellezza misteriosa dei legami tra gli esseri, legami che più fissavo e più perdevo (ma tutto intanto diventava limpido)”. Certo, la poesia di Giulia si svolge, si avvolge, si dipana obbedendo al ritmo di una musicalità che mira a connettere e ad amplificare consonanze e dissonanze della Natura e della Storia.

Giulia Perroni

Giulia Perroni

Proprio come tu dici, caro Giorgio, sviluppando un pensiero di Ernest Fenollosa: “Le parole astratte, incalzate dall’indagine etimologica, ci svelano le loro antiche radici affondate nell’azione; e il dinamismo della poesia della Perroni è un lontano parente del dinamismo universale”… E la metafora – che Giulia utilizza moltissimo – è colta da te nel rapporto ancestrale, genetico, “con le relazioni che esistono in natura”. È come se Giulia volesse riconquistare “omologie, simpatie, identità, affinità … i segreti delle relazioni interne tra le ‘cose’, riesplorando anche i miti e le imagery della civiltà del Mediterraneo, gettando ponti tra il visibile e l’invisibile”. Non si potevano cogliere più profondamente le caratteristiche di questo misterioso poema, che avvolge e trascina nei suoi incalzanti ritmi e nel camaleontico iconismo del suo narrato. Non trascurerei i continui rimandi storici che costituiscono un filone sotterraneo, per certi versi un filo d’Arianna di questa labirintica scrittura, che procede generalmente in maniera eccentrica rispetto a qualsiasi significato logicamente predeterminato e unificando senso e non senso. L’istinto poetico della Perroni privilegia, certo, le possibilità innovative della sua neo-lingua; un linguaggio a volte destrutturato, intessuto da stilemi desueti, ma altre volte più collegabile alla tradizione per l’uso dell’endecasillabo e delle sottostrutture metriche dello stesso, per le assonanze, le allitterazioni, le rime. L’istinto musicale, a mio avviso, affinato nel tempo e nella lunga pratica della versificazione, è sicuro e consapevole anche delle possibilità inesplorate della sua lingua poetica e, filosoficamente, sembra ricostituirsi in una cifra ontologica e metafisica, nei suoi analogici rimandi alla trascendenza; tutto ciò in contrasto con il tempo della povertà, in cui il linguaggio ha cessato di essere “casa dell’essere”, per l’avvenuto rovesciamento dell’ontologia nel nihilismo. Se si collegasse la poesia di Giulia all’anomalismo dei linguaggi sperimentali sarebbe facile apprezzare la pratica del contrappasso ad ogni significato, e ancora potrebbe essere ritrovato in questa poesia una qualche ascendenza surrealista. In realtà Giulia si esprime – come ha notato Marcello Carlino – per ossimori. Questa poesia, nel suo anomalismo strutturale opera una riconsacrazione ludica e insieme metafilosofica del significato; se si guarda oltre gli aspetti di dettaglio, essa fa ciò mentre coniuga per contrasto – ripeto – senso e non senso. Questa poesia è nel continuum un aneddoto, simile al Kōan zen di cui Moreno Montanari – ne Il Tao di Nietzsche – scriveva che viene proposto all’apprendista o al lettore, perché dopo essersi sbarazzato da ogni volontà di razionalizzazione, giunga attraverso un suo personale interrogare e peregrinare nelle domande ad una nuova non-logica chiarezza, che “trasformerà il suo modo di essere e di concepire la vita”. R. Barthes, vedeva nel Kōan zen “un aneddoto che viene proposto dal maestro: non di risolverlo, come se avesse un senso, e nemmeno di afferrare la sua assurdità (che sarebbe ancora un senso) , ma di rimasticarlo ‘sino a che casca il dente’ “. Questi versi collegano le contraddizioni e li fanno coesistere senza superarli; gli audaci e a volte anche improbabili accostamenti di parole e di iconismi, svelano e nascondono le lacerazioni dolorosissime della storia e della vita, senza però mai cedere al nihilismo e alla disperazione. La caleidoscopica accensione dei versi, nella pratica ossimorica di oscurità formali e di luminose trasparenze, mira alla gioia, al godimento della bellezza. Anche un barocchismo dei versi che fa pensare a Lucio Piccolo si coniuga all’esperienza della ferace natura siciliana, alle primaverili esplosioni sinestesiche di colori, odori, sapori, al sensuale rifiorire del mondo dopo ogni inverno di violenza e sopraffazione. Tutto ha risonanza anche come Memoria ancestrale, primigenia. Qui ci troviamo d’accordo con ciò che tu scrivi sui miti mediterranei sedimentati.

Tribù di eclissi è verso della Dickinson… Qui l’eclisse, però, è forse mancanza di memoria mitica e storica; il mito serve a conoscere l’inconscio, la storia è funzionale alla coscienza. In ogni caso si raggiunge un’inedita consapevolezza attraverso l’arte, la poesia, che non danno risposte razionali. Pochi sanno dire qualcosa negando l’immediatamente traducibile in senso del significante, come fa Giulia… Tuttavia, i rimandi storici fanno di questa poesia un calembour di notizie e di particolarità non da tutti conosciute per quel che attiene la storia d’Italia, del Meridione e della Sicilia. Giulia opera ancora con una scaltrita capacità d’individuare in maniera sguincia questioni sociali anche contemporanee. C’è inoltre una filosofica consapevolezza della natura conflittuale delle relazioni umane, dei tradimenti delle attese e di aspettative antropologiche e sociali rimaste inevase.

 Luigi Celi, Roma 28 aprile 2015

giuseppe pedota acrilico su persplex anni Novanta

giuseppe pedota acrilico su persplex anni Novanta

Giulia Perroni da La tribù dell’Eclisse Passigli, Firenze, 2015 pp. 170 € 20

Timido viene il canto
il cappio ha un contatto preciso
il raggio riporta il sereno
dove è fuggita l’anima

Peraltro si fa titubante
il passo che unisce la trave
a forma di antichi narrati
lì dove gridano i morti

Tuppete qua tuppete là
gira la foglia la verità
tenta la vita un giro a mezzo
il mare sogna la sua cavezza
un alto monte seduce il mare
non ha la spuma per navigare
sotto le chiome sta Carolina
ma fugge il vento dalla collina
e tutto quanto già s’addormenta
il bene e il male nessuno sente
solo la pioggia sta sui limoni
come l’avviso dei lucumoni
tante certezze un solo inciso
rimane l’oro sulle camicie
rimane tutto nel suo silenzio
nel tempo d’ocra di Sua Eccellenza
non tuona il mare né più il sovrano
anche le teste nessun ricorda
rimane il mare rimane il monte
una dolcezza una ansietà.
Tuppete qua tuppete là

E nel giardino scoiattola il bimbo
tessera franca sono i guardiani
di là si stinge persino il mare
di un suo bisogno di verità

Tuppete qua tuppete là

Trallallallero trallallallà

Incustodita la luna fugge
non c’è guardiano sopra il mistero
né sulla guglia di mezzanotte
la luce bianca o il fuoco nero

Giulia Perroni La tribù dell'eclisse cop

Trallallallero trallallallà
fuori chi parla senno se no
bruca l’ampolla
ghirighigò

Non c’è parola per il silenzio

Incrociano i gigli la fresca notte
la rosa è come una margherita
bianca nel volto ma sulle dita
come un rossore di vanità

Bianca e sognante: m’ama non m’ama
urge al tramonto la sua campana
è tutto un gioco come la vita
la folle foglia di margherita

Interessante senno sennò
bruca la foglia
ghirighigò

Questa è la vita che altro vuoi
la guglia ha fretta di rami d’oro
ha fretta il sangue delle mattine
per dove passa la birichina

Senno di luce senno sennò
bruca la terra
ghirighigò.

Giulia Perroni

Giulia Perroni

Bellissimo barone fastoso
anche tu hai parlato di danaro
sotto lo squallido scalone
risuscitato dallo sfarzo

Sono tornate in su le torrette
e i lillà infuocati di giglio
come fu che l’ardente cipiglio
bisticciò con le lodi?

La guerra fece cucù dai rami
e il sogno si ritirò dal cancello
in una tana di pioggia serrata
per lasciare fuggire la stella

Saffo non voglio sapere
né di tuo fratello, né della prigione
mi basta il fascino delle viole
che hai lasciato quaggiù sulla terra

Barone Wolff non so nulla di te
ma il ritratto è di un grande bell’uomo
non distruggere la visione onorata
che lascia trapelare i canti

Saffo e il barone
l’ammucchiata delle folli corse
nelle macchine al gran premio di Rally
che vanno per funghi e per boschi

Fecero man bassa i delitti
sulle stuoie di languidi araldi
un arco lontano e difficile
preparò la festa agli intrugli

Ma se da dietro a un cappello
un giardino fa capolino
io tendo alla rapida gogna
il profumo che mi fa secca

Erano alberi alti
e la villa non aveva finestre
un sogno masticato di giallo
nella vendetta sicura

Ed anche chi rovistava le stelle
aveva fama di gattopardo
macellaio di spade pesanti
in un paradiso che perdeva le braghe

Lungo la Senna con alberi lunghi
e ombrellini di rame a passeggio

Ed anche in Lettonia o in Ispagna

Fecero rami pazzi martiri e santi
che urlavano come contralti
quando la vita aveva ancora altro da aggiungere

E per favore niente bocche storte

Non mi parlate di angeli scarabocchiati
che con tenaci lanterne rasentano
lungo muri scrostati i pisciatoi delle stelle

I padri a volte seviziano le virtù delle fanciulle
e la santità delle terre
che non appartengono a nessuno

Solo il tempo agita con armi di corallo
la primavera che ha baciato in bocca
la chiesa-madre affollata

Giulia Perroni con Luigi Celi

Giulia Perroni con Luigi Celi

Ed era vera la grandiosa licenza del guardare la sponda liberata
il granellino del contrasto dei semi, il terribile amico sonnecchiava
tra i rami della pioggia verso d’oro che si faceva bianco gelsomino
quando spuntava l’alba

Chiedo a Babington una luce come fossi Maria Stuarda
e lo pregai una volta (occhialino aggiustato sul naso)
che inoltrasse le gambe o il fango delle strade
nel rubinetto d’oro della folla e rimanessi intatta
nel mio collo di splendida figura

Fu la terra un segnale di bimbo
fu la terra pestata e illuminata in fondo a un cuore
da vessazioni inutili

Mi accodo a tutto questo

Tutto quel mare sussiegoso e tranquillo
in ogni specchio delle favole antiche

E mia cugina in visconti di numeri
affannati nei quattro salti della torre
affida ad un quaderno tutti i suoi ricordi

Le notizie del padre di suo nonno

Del tempo birichino e incriminato

Lasciato come spegnere

Anche questi morirono in un giorno e tutto fu silenzio

Anche la vita macchiata dal suo sangue

Se potessi fuggire la mannaia!

La sua suocera era addimandata
da tempesta di grilli e si scusava
d’essere così astuta
così grata al dio delle farfalle

Si scusava della follia incipiente
e donava misura e fiori d’oro
al buco stretto di un linguaggio

E chiamava la terra a testimone della vicenda avita

Ora è finita ogni tenue riscossa

Si, la terra

Innocente e sublime in un androne di foglie rosse
quanto più il cammino è vergine veggente
e sdilinquito in rabbie musicali
con l’accento donato ai puri

La terra, connestabile e astrale

Il mio giardino nel fumo di scintille

E Euridice sussulta

Sono morti anche quelli che uccisero

L’ingaggio fece bum bum tra i rami

E si accasciarono venti fanciulli nella neve

La ducea degli inglesi

E mia cugina che sventaglia la luna

E quella villa nel cuore della notte

Quando nessuno può ascoltarne il silenzio

C’è luna piena ancora?

La ricordo

Uno Stuart sposò quella antenata
(signora della villa e del silenzio)
nel nostro sangue si è incarnato lo scettro
siamo pari all’albagia dei numeri
sempre arditi quando soffia una musica
immortali perduti in un viaggio
e stupiti per il male nel mondo

Sempre adusi alle veneri scialbe
nella luce della bellezza urgente

Potessi ancora vivere!

Se nel castello inciampa l’arma bassa delle nevi del giglio

In primavera
quando ancora non ci sono spifferi
cento tazze di succo della mela
nell’inverno appena sbocciato

Fui regina di Francia lo sapete?
liquidata da Caterina come una domestica
per una grave mancanza
e la mancanza era il giovane sposo

Scelsi di traghettare come tutti verso le radici
anche se era il cuore del freddo

Ho un broccato di foglie chiedo unita al dio che mi perseguita
il mio canto di folle dicitura era scritto come un diadema
sulla fronte che su di me nascessero le voglie prone all’armi incredibili
più regina di fastosi miraggi, di convivi
fatti sulla mia pelle

Sono fuori
non mi si lascerà morire tanto spesso lungo viali di magnolie
avranno necessità di nuvole albeggianti sulla stanca corona
del cervello e le sciancate sopravvivono per arrendersi con tutti
i fiumi del passato lungo i porti dell’Everest o le fronde
del deserto dei Tartari in quella nube della trascendenza
che tanto mi fastidia

Fate come non fossi né riguardo per il collare né per l’ignominia
la disapprovazione dei regnanti lo sconcerto dei popoli
il bruciore sotto le ascelle

L’Inghilterra avrà altri maneggi altre pecore al pascolo
Dio non voglia
caricarsi dell’unico arboscello che tanti giochi ha fatto

Altri miracoli sono pronti sugli alberi

Altre sere dove bevuta luna orchestra un ballo
nella villa che si trasforma

Altre serate bevono

Altri tomi brilleranno ruggendo dentro sale
che non hanno ricordi

La prigione scuoterà i suoi diari
e altre mani faranno doni ai bimbi

Altri dolori cresceranno immancabili

Siate seri io non voglio rimorsi

Uscite piano senza fare rumore

Benedico tanti spiragli …

Giulia Perroni la scommessa dell'infinito cop

Omero avrà una tomba sotto la melodia degli uccelli
anche quando Venezia turberà la sua musica
e quando la formella non dipingerà più il suo impeto
l’istinto sa che ci si incontrerà nella vibrazione della frivolezza
nell’occhio dato di sbieco al foglio che rovina il mandato
per una buccia esausta di desiderio

Io ricordo un viale
e un fiacre fermo nel viale
e mia zia morta giovane in quella carrozza
eternamente immobile nel silenzio dell’ora
e quasi pioggia nel cielo

Nell’acronia si incontrano le forme i personaggi il sole
la nebbia iridescente in cui si ignora anche quelli che vissero

Come sei alto e candido e in quanto inconoscibile
come amico del vento e del mio cuore!

Venivi ed eri tutto eri le specie che sussurravi
quando nel mio letto sentivo nel silenzio la campagna
eri tutto per me e sempre sei l’azzurro nell’ordito
del pensiero al di là di ogni cosa e di parole.

Sei alto e inconoscibile e per questo alto mio Dio sei Tutto
il greto il fiume la rugiada d’oro che nel sole si spegne

Io sono una bambina in ordine sparso
Dio come è profondo l’abisso!

Lotto tra le pupille per dire che ci sei
raso di mille lune abbarbicato alle gomène

Un’altra civiltà appoggerà la schiena
nel piccolo sonno delle finzioni
la nostalgia ripara l’eccesso
la buia cornice le ruote

E per tutto l’ingresso dell’inverno
e tutte le visioni addormentate
fuoco rovina l’alba
e il suo dolore
fuoco per rami inventa

Talismani di tenebra

Consiglio
Vergine muta

Attanagliata al verde

Contessina degli esuli affannata
nei quattro solchi d’ebano

Tendo le mani al tuo cavallo d’aria
criniera inaccessibile e superba
Le navi inglesi erano di fronte al golfo…
Oh città nello spettrale della luce!

Il parlamento inorridì per le notizie
ma quanta strada aveva fatto insieme!

E fu il Britannia a venire dentro al porto
come a Palermo nella notte buia
il vascello ha un destino silenzioso
nel correre a un agguato
Ora la finestra lascia sbalordire gli uragani
chi non vorrebbe partire ha sempre un albero che si contorce
ci prepariamo alla guerra con una mano sulle valige
nella murata memoria di ogni apprendista stregone

Alto è il cammeo nel brivido

Raccolgo le mie cose è tempo di partire

La pace ha ordito i suoi merletti
nel punto più alto della cattedrale
nel quasi irraggiungibile
della notte che si dissolve

L’importante è che il cerchio si chiuda
nella perfezione assoluta della sua ruota

Anche i calessini si macchiano.

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LE DUE STORIE DEL RITRATTO di PICASSO a MARIA LUISA SPAZIANI di Giorgio Linguaglossa

spaziani-montale-e-la-volpeSpaziani Montale http://www.fotografarefacile.it/002014_roma-ritratti-di-poesia-anche-fotografici-al-tempio-di-adriano/

 A fine gennaio del 2012 mi recai alla sesta edizione dei “Ritratti di poesia” al Tempio di Adriano curata da Vincenzo Mascolo per la Fondazione Roma dove erano esposti i ritratti fotografici di 12 poeti realizzati da Dino Ignani. La mia attenzione fu subito attratta dalla foto che ritraeva la poetessa Maria Luisa Spaziani della quale si vedeva soltanto la testa sovrastata da un grande disegno, il tutto sommerso da scaffali carichi di libri. Per caso, passando accanto a Dino Ignani che colloquiava con Romano Maria Levante, udii che il fotografo asseriva che il disegno era di Picasso. D’istinto, guardai il ritratto. Ignani stava dicendo che il pittore lo aveva disegnato, in miniatura, su un tovagliolino di carta di un ristorante, e che quello era il ritratto di Picasso successivamente ingrandito.

Questo l’antefatto.

M.L.  Spaziani foto di dino ignani

M.L. Spaziani foto di dino ignani

In questi giorni, 7 e 8 giugno a Roma, al Ninfeo di Villa Giulia, e il 15 giugno alle Terme di Traiano a Civitavecchia, si sta tenendo un festival di poesia femminile dal titolo “Eros e Kairos” nel quale è esposto il ritratto fotografico della poetessa Maria Luisa Spaziani dove appare in evidenza, alle sue spalle, una litografia. Poche righe sottili che incorniciano un volto ovale. Bello, non c’è dubbio, si riconosce la maestria del tocco di Picasso.

Torno a casa e, come colto da un’improvvisa ispirazione, guardo la mia libreria dove sono accatastati migliaia di volumi in un terribile disordine e mi capita sotto gli occhi il libro di memorie della Spaziani dal titolo “Montale e la Volpe”, edito da Mondadori,  dove lei parla della sua vita, lo apro a caso alle pagine 87-88 e leggo il passo nel quale racconta la storia della nascita del “ritratto” che l’autrice fa risalire al 1955:

«…raggiunsi Aix-en-Provence dove mi aspettava l’amico egiziano Aziz Izzet… Abitavamo nella “torre di Cézanne” e da lì ogni giorno si facevano visite ai pittori e prati di lavanda. Un giorno Aziz mi dice, come se niente fosse: “Perché non andiamo a trovare Picasso?”. “Ma perché no?” dissi ridendo. Sapevamo delle difficoltà che i miei amici giornalisti avevano più volte incontrato chiedendo un’intervista al pittore più famoso del mondo. “Proviamo” dice Aziz. “Qui siamo a Parigi. Non tutti sanno che ogni tanto scappa a Vallauris tutto sol, senza telefono, a fare le sue amate ceramiche.” Andiamo, nessuno al cancello dell’orto, la porta dell’atelier è aperta. Picasso ci vede, grida comunque un suo buongiorno e s’informa se siamo giornalisti. “Ma no, siamo poeti!” “Allora entrate e servitevi, c’è dell’acqua e del vino di Malaga, ditemi quello che avete da dire ma non interrompete il mio lavoro” Ci avviciniamo. Lui alza il braccio destro forse per mostrarci la mano sporca di creta, e così facendo gli casca dai fianchi una specie di perizoma o asciugamano, per cui rimane completamente nudo. Con disinvoltura si china, raccoglie quell’unico drappo, e lentamente, senza scusarsi, se lo annoda intorno ai fianchi dicendo, chissà perché, “Rubens è il più grande” con il tono assolutorio e conclusivo con cui in ambito diverso si sarebbe detto “Allah è grande” o “a tutto c’è rimedio”. Poi mi guarda di profilo, decide che sono “un bel tipo di spagnola”, e mi fa quell’abbozzo di ritratto che doveva poi comparire sulla copertina di un mio “Oscar” Mondadori».

Foto manichino con vestiti su stampelle

Ma una diversa storia del ritratto è raccontata dal figlio del barbiere di Picasso, di nome Eugenio Arias, intimo e fraterno amico del pittore, il quale rivela che la litografia, dal titolo “La Espagnola” fu messa in vendita nel 1960 a Parigi per aiutare gli esuli spagnoli. Il ritratto, secondo la versione datane da Eugenio Arias rappresenta la madre di Arias la quale impersonava, secondo Picasso, la donna tipicamente spagnola (edizione limitata, litografia originale, numerati a mano 500 esemplari) datata ottobre 1960, litografia su carta Fabriano mm 690×520, es. 37×141 Editore e Stampatore il Bisonte Edizioni d’Arte – Firenze.

http://hapenas.com/shopping/shopping/shopping/picasso-p-litog-orig-assinatura-numer-hand-femme-c14-i28454-d.aspx

A pochi chilometri da Madrid sorge oggi il Museo Picasso che espone le opere regalate dal pittore al suo barbiere ed amico Eugenio Arias. Da lui prende il nome l’intera collezione che comprende 71 opere tra dipinti, porcellane e libri realizzati dall’artista tra il 1948 e il 1972. Le opere sono state successivamente donate da Arias alla Comunità Autonoma di Madrid nel 1982. Visitando il museo si può osservare anche il ritratto “La Espagnola” della madre di Eugenio Arias.

Queste sono le due versioni, certamente molto diverse, sull’origine del “ritratto” di Picasso alla poetessa Maria Luisa Spaziani (secondo una versione) e del “ritratto” alla madre del barbiere di Picasso, Eugenio Arias, esposta al museo Picasso (secondo la seconda versione). Per mia parte, mi sono limitato, diciamo, per pari opportunità, a presentarle entrambe al lettore affinché si faccia una propria opinione in proposito.

In proposito c’è anche un appunto di Renato Minore il quale riferisce il “racconto” della Spaziani secondo questa versione nel 1955 Picasso le avrebbe fatto in margine a un pacchetto di sigarette un ritratto… e che poi, «dieci anni più tardi l’ho trovato riprodotto in una litografia alla libreria Einaudi di Roma. L’ho comprato per 50.000 lire». (tratto da “La promessa della notte”, pag. 207, cap.  Maria Luisa Spaziani una parola che non mente. di Renato Minore. Donzelli).

Il che sarebbe una variante del “racconto” principale.

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