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Luigi Fontanella estratti dal romanzo, Il Dio di New York (Passigli, 2017 pp.276 € 19) New York 1910: Pasquale D’Angelo, un giovane sedicenne di origine abruzzese, sbarca a Ellis Island

foto New York City

Ho scritto questo romanzo ispirandomi, in parte, alla struttura di La notte della cometa dell’amico Sebastiano Vassalli, e in parte all’autobiografia (Son of Italy) di Pascal D’Angelo, da lui scritta in inglese e pubblicata nel 1924 a New York.  Nato a Introdacqua (L’Aquila) nel 1894, Pascal emigrò in America nel 1910 e morì a Brooklyn, in estrema solitudine e indigenza, nel 1932.  I fatti narrati nella prima parte sono realmente avvenuti, come realmente esistiti sono alcuni personaggi di questa storia, compaesani di Pascal che condivisero la sua vicenda di emigrato. Vari altri episodi descritti nel romanzo sono puramente immaginati sulla base della documentazione biografica da me raccolta e sulla base della temperie socio-storica della New York degli anni Venti.

In Italia, tra i pochissimi che si sono occupati di D’Angelo, occorre, di fatto, menzionare proprio Vassalli, il quale richiamò l’attenzione su questo sventurato quanto visionario  “poeta italiano che volle essere americano” (paragonandolo a Dino Campana), in uno dei suoi Improvvisi sul “Corriere della Sera”  (21 novembre 2001), in occasione dell’uscita di Canti di luce, un libriccino di poesie di D’Angelo da me curato per un coraggioso editore salernitano (Ed. Il Grappolo), lo stesso che due anni prima aveva pubblicato, per la prima volta in Italia, Son of Italy.

La lettera di D’Angelo, riportata in italiano nel penultimo capitolo, è la traduzione letterale di quella che lui scrisse effettivamente il 2 gennaio 1922 a Carl Van Doren, l’allora direttore di The Nation, il cui archivio presso l’università di Princeto conserva i fogli originali che usò Pascal nel batterla a macchina.

(Luigi Fontanella)

Luigi Fontanella Il Dio di New York coverscheda del romanzo

New York 1910: Pasquale D’Angelo, un giovane sedicenne di origine abruzzese, sbarca a Ellis Island insieme con il padre e un gruppo di suoi compaesani in cerca di fortuna. L’impatto con il “nuovo mondo” è durissimo, fra i più traumatici tramandati dai nostri emigrati, e allo stesso tempo, per Pasquale – divenuto ben presto “Pascal” –,  magnetico ed elettrizzante.  A differenza dei suoi compagni, la cui principale aspirazione è di migliorare le proprie condizioni di vita e fornire un aiuto ai familiari rimasti in Italia, Pascal matura l’ideale di diventare scrittore e poeta americano. Per questo ideale  studierà accanitamente l’inglese notte e giorno, approfittando di ogni frammento di tempo libero che gli concede il suo massacrante lavoro di spaccapietre, di manovale, di pick and shovel man. Con perseveranza titanica, e una fede incrollabile nella poesia, Pascal percorrerà fino in fondo il tunnel del suo calvario. Il giovane si sentirà man mano investito come di una missione suprema, palingenetica, con il dovere di obbedire alla sua voce interna, a dispetto delle tremende difficoltà ambientali, degli innumerevoli sacrifici ai limiti dell’umano, di una lingua nova imparata con l’aiuto di un Webster sempre più sbrindellato, e l’insegnamento di maestri sublimi come Keats e Shelley; maestri che illuminano il suo cammino accidentato e gli danno la forza necessaria a resistere. Sarà una lotta prometeica, gravata da un’assediante indigenza, che porterà il giovane  spaccapietre ad abbandonare i suoi compagni dopo una logorante e lunga  esperienza di manovalanza, e a ritirarsi infine in una misera topaia di Brooklyn per lanciare da lì  la sua sfida alla città di New York e al Dio “spietato” che la governa.

Luigi Fontanella, saggista e poeta fra i più significativi della sua generazione, ha raccolto documenti e materiali di vario genere su questa vicenda vissuta cento anni fa da un nostro connazionale in America, traendone un romanzo “storico” avvincente e commovente, seguendone tutta la traiettoria, dal suo inizio sconvolgente fino al tragico e glorioso epilogo.

Luigi Fontanella vive tra New York e Firenze. Ordinario di Letteratura Italiana e direttore del Dipartimento di Lingue e Letterature Europee presso la State University di New York, ha pubblicato libri di poesia, narrativa e saggistica. Tra i titoli più recenti Pasolini rilegge Pasolini (Archinto, 2005, tradotto in più lingue); L’angelo della neve (Mondadori, 2009); Bertgang (Moretti & Vitali, 2012, Premio Prata, Premio I Murazzi); Migrating Words. Italian Writers in the United States (Bordighera Press, 2012); Disunita ombra (Archinto, 2013, Premio Frascati alla Carriera); L’adolescenza e la notte (Passigli, 2015, Premio Pascoli, Premio Giuria-Viareggio, uscito anche in francese: L’adolescence et la nuit,  tr. by P. Démeron, Éditions RAZ, 2017); Lo scialle rosso. Poemetti e racconti in versi (Moretti & Vitali, 2017) . Per la narrativa ha pubblicato i romanzi Hot Dog (Bulzoni, 1986, tradotto anche in inglese e pubblicato da Soleil nel 1998) e Controfigura (Marsilio, 2009). Dirige per la casa editrice Olschki la rivista internazionale di poesia e poetologia italiana “Gradiva”, ed è critico letterario di “America Oggi”.

  Prologo

 New York, 31 dicembre 1921

Un uomo sta dirigendosi verso Times Square dopo aver trascorso l’intera giornata nella sala di lettura della New York Public Library.

Arrivato al botteghino della metropolitana, infila meccanicamente una mano nella tasca del logoro cappotto ma non trova i pochi spiccioli che gli servono per il biglietto. Di colpo si rende conto che qualcuno glieli ha rubati in biblioteca approfittando di una sua momentanea assenza dalla sala di lettura.

C’è un momento d’imbarazzo da parte di quest’uomo (un giovanottone di quasi 28 anni, ma già segnato da una vita piena di stenti e ristrettezze) di fronte all’impassibile bigliettaia, la quale, di fronte al suo smarrimento, svogliatamente si limita a dirgli che la BRT (Brooklyn Rapid Transit) non fa opere di beneficenza. L’uomo accenna a un mezzo sorriso; senza dire una parola risale le scale e si riporta sulla strada. Sono le otto di sera. Dà un’occhiata al cielo senza stelle come a interrogarlo sul tempo. In fondo – pensa – che fretta c’è a rientrare a casa, in quel minuscolo, gelido tugurio dove vivo tutto solo?

Si raccoglie nel suo cappotto e si avvia verso la Quinta Avenue, improvvisamente schiaffeggiata da furiose folate di vento. È una rigida sera del 31 dicembre 1921.

Va avanti per più di un’ora, senza fermarsi, fino ad arrivare nei pressi di Union Square. Ancora poche traverse, ed eccolo immettersi su Broadway. Ma proprio qui si scatena il finimondo: un misto di neve, grandine e pioggia ghiacciata lo investono da tutte le parti, senza dargli scampo.

Indeciso sul da farsi, l’uomo ripara sotto il cornicione di un palazzo. Ma è solo per una manciata di secondi.  Riprende la sua marcia e arriva a Canal Street. Sa che, da Canal, potrà imboccare molto presto Forsyth Street e da lì c’è il Manhattan Bridge che collega la City a Brooklyn, dove si trova la sua abitazione.

Arrivato di fronte al ponte, violenti fiocchi di neve gli sferzano la faccia. In pochi istanti il soprabito si copre di un luccichio diffuso, ma l’uomo non si ferma anche perché oramai ha di fronte a sé soltanto questo ponte e non c’è un posto ove ripararsi dalla furia degli elementi.

Attraversa come un automa il Manhattan Bridge, lungo due chilometri, mentre neve e pioggia ghiacciata gli stanno inzuppando i vestiti fino alle ossa. Sbircia incurante sotto di sé l’East River, le cui acque scure schiumano impetuose.

Arrivato infine alla stazione di Flatbush, l’uomo sosta per un po’ dentro la saletta d’ingresso per riprendere fiato dopo oltre due ore di marcia. Dalla grande vetrata guarda, paralizzato dal freddo, stanco e affamato, la neve che continua a scendere implacabile. Socchiude gli occhi e come trasognato pensa al tozzo di pane raffermo che ha lasciato sotto il suo letto. In questo momento la sua fatiscente stanzetta, un tempo usata come sgabuzzino per la legna, gli sembra di gran lunga migliore di questo androne dove non c’è un’anima viva.

Si fa coraggio, e rasentando i muri di sporadiche costruzioni, palazzi fatiscenti, catapecchie e umili magazzini, prosegue il suo cammino lungo l’interminabile Flatbush Avenue, che agli inizi degli anni Venti era un semplice rettilineo della periferia newyorchese.

Eccolo arrivare finalmente alla quarta Avenue.  Un tempo era l’estremo sobborgo di Brooklyn.  Per lui, divenuto poco più di un’ombra, ci sono ancora da percorrere un paio di chilometri nel buio della notte.  Quindicesima strada, sedicesima strada, Prospect Avenue, diciassettesima, diciottesima, diciannovesima…, l’uomo arriva infine alla ventesima, dove al numero civico 210 è situata la sua abitazione.

È quasi mezzanotte.

Per entrare nella sua stanzetta deve passare attraverso un gabinetto, usato da altre  famiglie che vivono in quel caseggiato.  Da questa latrina in comune spesso ci sono perdite d’acqua sporca e lordure di ogni genere che s’infiltrano sotto la porta del suo  alloggio. Questa notte, per la pioggia e la neve, oltre che per le frequenti perdite d’acqua, si sono formate alcune chiazze semighiacciate.

L’uomo apre la porta del suo tugurio e, nel buio, affonda i piedi in una pozzanghera.  La finestra è spalancata e la neve è penetrata a folate, e continua a penetrarvi in un turbinio feroce.  Una parte del letto è bagnata e ugualmente allagato è il pavimento su cui sono impiastricciati fogli di carta, i suoi pochi libri, qualche umile suppellettile.  Tutto bagnato o inzaccherato.  Insudiciati anche un paio di pantaloni e alcuni panni di ricambio che lui generalmente tiene sotto la branda.  Il pane, intriso d’acqua e di sporco, emana un tale fetore che lo rende immangiabile.

Infreddolito, tremante, stanco morto per l’immane fatica, l’uomo chiude la finestra, si rannicchia nella parte del letto ancora asciutta e si avvoltola nel cappotto che gli fa anche da coperta. Chiude gli occhi e va col pensiero ai suoi anni infantili, quando abitava con la sua famiglia in uno sperduto paesino dell’Abruzzo.

Quest’uomo si chiama Pascal D’Angelo.  Mio nonno, finché visse, gli fu amico fraterno, e io oggi voglio raccontarne la storia, così come lui me la raccontò in modo tanto appassionato, e così come io ho potuto ricostruirla grazie alle mie ricerche.

 

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