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A cura di Giorgio Linguaglossa – Antologia Il rumore delle parole 28 poeti del Sud Edilet, Roma, pp. 284 € 18 (Carlo Cipparrone, Fabio Dainotti, Marco De Gemmis, Fortuna Della Porta, Giuseppina Di Leo, Francesca Diano), Commento di Laura Canciani

Antologia Il rumore delle parole (2)Antologia Il rumore delle parole 28 poeti del Sud Edilet pp. 284 € 18 (Sebastiano Adernò, Valentino Campo, Luigi Celi, Rossella Cerniglia, Maria Pina Ciancio, Carlo Cipparrone, Fabio Dainotti, Marco De Gemmis, Fortuna Della Porta, Giuseppina Di Leo, Francesca Diano, Michele Arcangelo Firinu, Maria Grazia Insinga, Abele Longo, Eugenio Lucrezi, Marco Onofrio, Aldo Onorati, Silvana Palazzo, Marisa Papa Ruggiero, Giulia Perroni, Gino Rago, Lina Salvi, Daniele Santoro, Ambra Simeone, Francesco M. Tarantino, Raffaello Utzeri, Adam Vaccaro, Pasquale Vitagliano) a cura di Giorgio Linguaglossa

Commento di Laura Canciani

Com’è noto, Tynianov si opponeva a una concezione evolutiva della letteratura, che secondo lui procede per salti e per spostamenti piuttosto che secondo uno sviluppo uniforme. Ad avviso del noto critico in ogni genere, osservato a un dato momento, si distinguono tratti fondamentali e tratti secondari: sono proprio i tratti secondari, i risultati e le deviazioni «casuali», gli errori, che producono nella storia dei generi mutamenti più cospicui da annullarne in certa misura la continuità. Si può parlare di continuità per la nozione di «estensione», che oppone le «grandi forme» (romanzo, poema, racconto lungo) alle piccole (racconto breve, poesia), e di continuità per i «fattori costruttivi» (per esempio, il ritmo nella poesia e la coerenza semantica – trama – nella prosa) o per i materiali; ciò che cambia è ben più importante per la individualità del genere: è il principio costruttivo che fa utilizzare in modi sempre nuovi i fattori costitutivi e i materiali.

Gli spostamenti all’interno di uno stesso genere, mettiamo la poesia, sono molto importanti per comprendere come a volte delle piccole novità conseguite in periferia possano avere ripercussioni, per vie sotterranee, sulle linee maggioritarie che si esprimono attorno alle due più grandi città italiane (Roma e Milano). Ecco allora la spinta al rinnovamento o la diversa funzione che la periferia viene a svolgere nel rinnovamento di un genere. Questa campionatura di autori del Sud viene incontro alla esigenza di indagare per quali vie sotterranee la poesia del Sud possa contribuire al rinnovamento del genere poesia ma non tanto per la forza specifica delle singole realtà regionali quanto per la capacità di fare, tutte insieme, massa e peso specifico.
Il Sud non è indagato solo come contenitore di diverse sensibilità linguistiche ma come momento propulsivo della ricerca di nuove vie di sviluppo della poesia italiana contemporanea. È un fatto che il Sud, dall’unità d’Italia in poi, se si fa eccezione per l’ermetismo di matrice quasimodiana, non è mai stato capace di produrre una letteratura egemone, grandi personalità sì, ma isolate, e questo vale anche per il genere poetico.

Eidetica

Eidetica

Altra importante problematica è la divaricazione che si è aperta tra Patrimonio e Modernità. Che rapporto c’è fra questi due poli? Patrimonio è ciò che appartiene al padre, Modernità è ciò che appartiene ai figli, ma la Modernità è stata caratterizzata dalla insubordinazione dei figli ai padri, che non vogliono più ereditare alcunché dai padri e abitare la casa paterna, per essi la Tradizione deve essere abbandonata e demolita. La Modernità nasce come critica della Tradizione, rifiuto e disobbedienza verso tutto ciò che il passato invece invita ad essere custodi. La Modernità viene ad essere recepita anche da questi autori antologizzati come la casa che deve essere disabitata, abbandonata, rigettata per poter costruire una casa propria, una casa comune in cui l’eredità dei padri sia stata rimossa. Con l’atto della rimozione, della abitudine all’uso e al riuso degli stilemi della Modernità e all’impossessamento del patrimonio ereditato, esso diventa trafugamento, appropriazione indebita. Con quest’atto la Modernità diventa Postmodernità. È questo, credo, il racconto che tra le righe ci fa l’Antologia Poeti del Sud.
Il nichilismo antitradizionale e anti patrimoniale delle avanguardie storiche è stato progressivo e unilineare, i surrealisti volevano abolire il passato per poter instaurare il regno del Futuro, dell’uomo nuovo della rivoluzione incombente; gli autori di questa Antologia aboliscono contemporaneamente Passato e Futuro, sono nichilisti loro malgrado, adottano il nichilismo come il loro usuale vestito dello Spirito, si muovono nel Presente, il patrimonio poetico europeo viene percepito come inabitabile e inarrivabile, vivono nell’età dell’incertezza e dell’ansia.

carlo cipparrone copertina

Carlo Cipparrone

Nei labirinti del sangue

Spesso mi prende un’ansia
segreta, una libidine.
Sorge dalle mie viscere
domina la mia mente
circola nei labirinti del sangue.

Tutto m’emoziona, tutto mi turba.
Non riesco a trattenere
la mano che masturba le parole
e scrivendo provo insieme piacere
e angoscia, estasi e sofferenza
fino al parossismo dell’orgasmo.

Vivo da sempre in questo
mio paradiso e inferno
di cielo e fango, di fiori e spine,
di verità e menzogne.
Ubriaco di nettare e veleno,
approvo e rifiuto
amo e odio ciò che scrivo.

*

Con povere parole
(ostinata passione
che in me sempre risorge)
do segni d’esistenza.

Vengo da un altro gelo,
dal mistero dell’indifferenza
che ogni tanto si scioglie
e cerca vie d’uscita,
lascia segni di tentati percorsi
orme incerte sulla neve.

.
Linee di fumo

All’incrocio d’umani destini
lungo i margini della via
labili tracce d’un bivacco
segnalano il mio passaggio:
resti d’una segreta fiamma
arsa in petto, d’un fuoco
che non crepita più ma tace,
esile linea di fumo,
sparsa nebbia, residuo calore
di spenta brace sotto la cenere.

*

Ciò che ora dico
serve e non serve, conta poco;
ma si deve parlare,
correre il rischio.
Perché so tutto e niente
imprecise notizie
di cui chiedo conferma.

fabio dainotti 120x120

 

 

 

 

 

 

 

Fabio Dainotti

Otto poesie per Gina
Quando nacqui mia madre ne piangeva
(Umberto Saba)

*

Quando nacqui i parentes
mi affidarono a te, studentes-
sa a Pavia.
(nell’università che poi fu mia).
Così quando gli amici ti chiamavano:
“Usciamo, andiamo al cinema, a ballare”,
mi esibivi trionfante alla finestra:
“Ho il bambino. Non posso
Gli devo dare il latte”.

*

Poi alle elementari, a Frascarolo:
c’erano i pensierini sulla rosa
da fare, che tormento
invece di giocare!
“La rosa è…” dicevi, suggerivi.
Ma a me non veniva mai niente
in mente;
non riuscivo a integrare, completare.
“La rosa è la rosa, scusate”, pensavo.
Queste cose ho saputo da voi dopo.

*

Di quel giardino ricordo le ortensie
blu come il millecento che comprò
lo zio e ci portò tutti ad ammirarlo
nella rimessa di lamiera
dopo cena, una sera.
E tu eri contenta, ma non troppo,
della sorpresa.
– Ah, gli uomini!, pensavi
all’imprevista spesa.

*

Le gite, la domenica mattina:
aspettando che il pranzo fosse pronto,
mio zio mi portava in giro un po’,
nella sua auto nuova; sullo stradone grigio,
poi a un tratto sbucava in un sentiero
e si fermava, per stupirmi; c’era, che scorreva,
un fiume, il Po.

*

Compravo il latte, ero un bravo bambino,
mi dicevo. Guardavo in alto, in cielo:
mi apparivano i volti
dei genitori, lieti,
grandi come gli dei che distruggevano
con una mano le mura di Troia.
Era quella la loro approvazione.
Il premio: la televisione.

marco de gemmis

marco de gemmis

 

 

 

 

 

 

 

Marco De Gemmis

«Dove sia»

.
«Dove sia» inizia Porta la poesia
che ti lascio sul tavolo in cucina
e «Tu che fai stasera?» da un biglietto
ti chiedo, ma se sfogli il libro indietro
a pagina ventisei il poeta dice
«per essere felici bisogna andare lontano»

e spero questa pagina ti sfugga, esco
ma prima monto le chiare a neve,
due, aggiungo crema, mescolo
– ti faccio una cosa dolce –,
mescolo senza sbattere troppo
la testa contro il muro

 

I documenti della nostra vita

i documenti della nostra vita
stanno in briciole sul tavolo in cucina
come nel dopopranzo, quando
in mostra si sono messi i piatti
vuoti, dove le cose sono ridotte
all’osso: noi siamo intanto stesi
saturi in altre stanze e sui divani
ci sta dentro dalla testa ai piedi
un’auto spenta, senza un conduttore
che la possa riavviare e spostare
Leggendo Zanzotto
nell’auto che va
mentre parlate di cibo…

.
[“… le crode del Pedrè. Ebbene, se sono tornato a parlare di questo posto, dove si andava in gita scolastica quando ero bambino, è perché in quel luogo fisico c´è una volontà di resistere, anche se contraddetta da pulsazioni opposte e oscure, che è omologa alla terra e all´uomo…”]

.
voglio dirvi una cosa
ma non c’entra:
le crode del Pedrè
esplorate a ottobre
per capire lui
dove passeggia
e dove prende la poesia:
devo dirvi una cosa
che mi apparve:

acquattata pure lì
c’era la peste:
dentro le colline
stillava gocce
che salivano spedite
quasi si fosse invertito
il senso delle cose
che non c’è alcun perché
per come stanno andando

come anche lui saprà
non conviene più fermarsi
in nessun luogo

 

Libere poesiole

l’inverno che invochi
e giochi a far la pioggia
con la bocca, il ticchìo
sullo zinco al ritmo
delle gocce; o l’estate
che pensi in cagnesco
e giochi sbuffando
a sventagliarti preziosa
bestiola da salotto;
o senza stagione alcuna
(ché il tempo ormai
è cessato) come ora
che stai dormentata
e giochi la giornata
così: posso lasciarti
sola, posso lasciarmi
da solo scrivere
libere poesiole?

Fortuna Della Porta

Fortuna Della Porta

Fortuna Della Porta

Non ho incontrato la rivelazione

da: Inferno

L’orgia della notte rivela ossessione di morte.
Lacci e tridenti artigliano caviglie convulse.
L’inferno ha chiamato avvelenando i pozzi
il respiro accoglie arsenico tra i denti gialli.
Le gomene si sono tarlate.
Fino alla soglia del cielo
schioccano fiamme sulfuree:
l’ubriaco che sciacqua il vomito
al mascherone di pietra
la puttana che appiglia il reggiseno
alla catena di piombo…
Le creature delle tenebre fragili e oscene
col ventre che espelle la vita goccia a goccia
le cosce che spasimano un amante qualsiasi
l’innocenza fulminata per caso ai margini della ragione
per caso ogni miseria sembra uno sparo.

*

Se tu venissi temerario per selve forestiche
per sentieri spinosi, per zanne affilate di lonze lupi e leoni
ti accorgeresti che le strade di oggi
non portano eroi.
Mutile statue, Virgilio agonizza sul colle
braccia spolpate e nudità.
L’erba è marcia per gli amplessi rubati o saldati
per il sangue dei deportati
dalle cornee fosforescenti e i palmi di latte.
Nello Stige melmoso l’anima di pietra si torce
la città dannata rinuncia.
Marmoreo, solo il re che bara la sorte
«Scacco matto!», tripudia.
Tutt’intorno la zizzania avvilisce le onde
gli strazi delle periferie palpitano.
Non mi riconosceresti.

*

I miei genitori vissero da muratori.
Con piglio gentile costruirono scale
saggezza di ponti e scuole verdeggianti
perché all’impazienza delle idee
fosse destinato un sentiero.
Così nel mio tenerissimo tempo
a braccia spalancate e fuoco di profezia
gazzelle di chimere a testimonio
«posso», dissi fiera, ma quando il Muro crollò
prosperarono altri divisori.
Ci siamo persi. Abbiamo consentito.
La nostra saliva ha cristallizzato sale
e oggi la luna galleggia.
Così, mentre il chiarore abbandona la riva
a ridosso di rupi e preda di lupi
la lealtà dell’acqua è macchiata da rigurgiti
che infestano l’Arcadia perduta.
Nel buio le finestre pudiche vorrebbero tacitare la tv.
Nemmeno i colori abbiamo scampato
per lasciarli al futuro
e non si sa come pentirsi o rimediare.

francesca diano

francesca diano

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Francesca Diano

Congedi. Viatico in undici stazioni

I

L’esclusa

Andavo per strade coperte di polvere
L’orlo della mia gonna sfilacciato
Non si curava di fango o sterco
I piedi scalzi – segnati dal rifiuto persino della terra.
Signori o plebei – non facevo alcuna differenza
Nessuna presenza era presenza
Ed ogni assenza – assenza.
Mi dolevano le ossa – ero una casa diroccata
Disabitata persino da me stessa
Preda di predatori e depredata di me.
Ero povera – di quella povertà che non conosce
Nemmeno il nome di miseria
Perché al mondo non c’era creatura
Che mi guardasse se non come sgualdrina.

Sospesa in una terra di nessuno
Dove il giorno non vira nella luce e le notti
Sono il delirio di un lebbroso.
Il loro sguardo mi sfiorava col disgusto
Di chi è avvezzo soltanto alla bellezza
Delicata che si rispetta perché consacrata
Dalla legge di Dio e degli uomini.
Io ero buona solo per sfogare la rabbia
L’istinto che si tace nel letto coniugale.
Con la rabbia impotente di uomini malati
D’onnipotenza – sapienti o rozzi contadini
Signori o poveracci – io ero buona per voi
Ma non per me. Non abbastanza
Da avere casa nel vostro cuore.
Avevate forse cuore per me?
Cagna reietta nell’istante stesso
In cui mi possedeva la vostra carne.
Ogni volta eravate assassini
Ogni volta morivo un po’ di più
Finché il mio corpo si disfece
– me viva ancora –
Non vi perdono la disperazione
Vostra sola elemosina per me
Il solo soldo con cui mi pagavate.
Poi venne lui. Mentre stavo morendo.
Lo sguardo dei suoi occhi
non lo dimentico nemmeno ora.
Quel corpo martoriato dalla vita
Lui me lo fece amare
Donandomi il perdono per me stessa.
Sul pagliericcio fetido – che accoglieva la morte
Scintillò la bellezza luminosa
Che lessi nei suoi occhi
Capaci di vedere oltre le piaghe.
E mi diede la pace.

II

Steppa

Non ero che un bambino e tu un adulto.
Ti temevo. Temevo il tuo sorriso
Come una lama sfoderata a colpire
Senza guardarti in faccia.
La tua jurta era grande e molto solida
Però a te non bastava. Eri feroce
Nella tua sete di potere.
Quell’anno fu gelido l’inverno
Più dei passati e il fuoco non bastava.
La nostra gente – gente guerriera
Soffriva il freddo.
Predatori eravamo e predavamo.
Tu più di tutti.
Io non potei evitare che mio padre
Mi abbandonasse nella steppa
Lasciandomi bambino a sostenere
Il peso di un potere non voluto.
Mi piegava le spalle e mi schiantava.
Lo subivo il potere e con che gioia
A te lo avrei ceduto.
Dunque – quando quel giorno con un’ascia
Mi aggredisti alle spalle e mi spezzasti
Le vertebre e la vita – senza guardarmi in faccia
– non eri coraggioso – io non potei capire.
Ma avresti visto – per sempre congelata
Nei miei occhi la sorpresa e l’orrore.
Cadendo altro non vidi che terra congelata
E i licheni – come ricami di trine verdegrigie
A riempire lo spazio breve del mio viso.
I tuoi occhi una steppa – morta – immota.
Non ero che un bambino e tu un adulto.

 

giuseppina di leo

giuseppina di leo

 

 

 

 

 

 

 

 

Giuseppina Di Leo

A nonno Leonardo

Su materassi di paglia dormivo da bambina
accanto la voce amata. Su due piedi possibili
il tempo sosta in attesa fino all’ultimo,
un piolo per volta, fino alla lunga stanza;
il pavimento in cemento lo scorgevi infine,
proscenio della camera dalle due finestre.
E sulla scena, l’odore delle pesche sotto il letto.

*

[Le quattro pietre]

Le quattro pietre ancorate al mare sembrano sorelle,
quattro dita in tutto afferrano il mare. Così, se tu temi
la luce vorrebbe dire dover lasciare l’uscio chiuso per
troppo ancora. Rimanda la paura. A dopo. E intanto
siediti. Resta. Con un gesto del piede allontana dunque
il pensiero dalla fronte, troppi angoli mostra il prisma,
troppi colori conta l’arcobaleno, nel sole i raggi,
tanti quanti i visi. Lontano dagli sguardi serba il seme
per piantarlo all’uso del lunario, e di quel che resta
a me basterà l’odore delle cotogne e della paglia.

*

L’uomo onda

All’inizio fu il silenzio e la terra era feconda
foreste lussureggianti racchiudevano suoni di vento
e nel mare era nascosta la voce profonda di un amore
sarebbe arrivato sulla riva nelle vesti di uomo scolpito
dal flusso delle onde, sarebbe salito sulla parte alta
e avrebbe poi urlato al silenzio il suo segreto.

«Dalle tasche del mare altri suoni arriveranno», disse al giovane fiore
e così parlando pensò lo avrebbe colto nel sonno di un’estasi.
«Si giunge lontano stando fermi», gli rispose allora il fiore
«nessuno tra noi due sa chi per primo cederà il suo stelo
al vento». Non si sa se fu lo stato di paura, irrazionale quanto basta
foriero e preannuncio di ogni altro eco terrifico a portarlo via
ma a quel dire colpì dapprima la terra sollevandola
con le mani aperte rivoltò più volte la zolla, afferrò poi
il bastone potente del comando e percosse con quello
stelo a stelo ogni singolo filo d’erba; ogni singolo gambo
si abbassò diventando tutt’uno con la terra
afferrò nuovamente con due mani la spada
l’elsa della forza lo istigò a tracciare scavi profondi nelle viscere
la terra rimasticava le sue radici d’oro e la farfalla si tramontò
in bruco e il bruco in terra, mentre l’uomo continuava a far
marcire nel sonno il silenzio prezioso di un tempo. La parola attesa
si trasformò in bestemmia, la bestemmia in rancore
fino a quando il fiore del silenzio si aperse in rosa di sangue
con due ali sui fianchi scese nell’imbuto del tempo
fino a che insieme al tempo non si squarciò il dolore.

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POESIE EDITE E INEDITE SUL TEMA DELLA MUSICA O SUGLI STRUMENTI MUSICALI di Adam Zagajevski, Giorgio Linguaglossa, Domenico Alvino, Francesco De Girolamo, Franco Dionesalvi, Fortuna Della Porta, Terry Olivi, Laura Cantelmo

musica tra gli egiziani Adam Zagajevski

Adam Zagajevski

Il violoncello

Dicono i detrattori: è solo
un violino che, mutata la voce,
è stato espulso dal coro.
non è così.
Il violoncello ha molti segreti,
ma non piange mai,
canta solo a voce bassa.
Non tutto però si muta
in canto. Talvolta si può udire
un sussurro o un fruscio:
sono solo,
ma non posso prender sonno.

(trad. di Krystyna Jaworska)

picasso astratto musica

picasso astratto musica

 

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

 

 

 

 

 

Giorgio Linguaglossa

Il Signor K. era là

Aveva appuntato, Cogito, l’indirizzo della Signora Marlene
su un foglietto di carta che teneva in fondo alla tasca interna della giacca.
Voleva congedarsi. Prese il foglietto in mano.

Intanto, i premorienti si affollano nei vagoni merci.
Gendarmi portano al guinzaglio i mastini,
rovistano in ogni angolo della Zentralbahnhof,
perlustrano i binari.
Nella sala d’aspetto, c’è chi gioca con i serpenti,
chi pettina i capelli alle bambole,
chi suona il violoncello.
Tchiajkovski strimpella il pianoforte,
più in là Vermeer dipinge di profilo una ragazza.

La luce si spense sul lastricato. Nella Kammerspiel
color fucsia la bella Marlene canta al pianoforte
il Lied della morte e della nostalgia.

Il Signor Cogito ama questo luogo di pace,
non saprebbe farne a meno.
Berlino. Anni Trenta.
Sulle ciglia, sulla pelliccia, sui guanti grigi
del Signor Cogito adesso cade una neve soffice.

Il lampionista si voltò, vicino a noi accese un lampione
e si mise a fischiare un’aria di Mozart.
I soldati scrivono cartoline alle fidanzate.
«Che epoca è questa?», chiede Cogito
alla bella Marlene nel salotto color fucsia.
Salieri fuma una sigaretta nel divano scarlatto,
ufficiali della Wermacht giocano a whist nel reservoir.
«Signor Cogito lei è un vero umorista», gli risponde
la Signora Marlene dall’antichambre.
C’è chi gioca con i décolleté, chi con la vedova nera,
c’è chi gioca con i serpenti, chi pettina i capelli alle bambole.
Una neve soffice si posa sulla pelliccia di Cogito
che si affaccia a una finestra. È quasi inverno.

Il cigolio meccanico degli usignoli si arrestò.
Il Signor K. era ancora là, tra lo stipite e la porta.
«Gutentag Herr Cogito…».

Un lampadario veneziano brilla nella Kammerspiel

Un lampadario veneziano brilla nella Kammerspiel color fucsia.
Una maîtresse si trucca davanti allo specchio
con la cornice dorata. La bella Marlene
canta un Lied di nostalgia e di addio.
I treni sono carichi di soldati.
Ufficiali della Wermacht dicono «Gutentag und Gutenabend».
Il Signor K. indossa una parrucca argentata.
Il Signor Cogito inforca gli occhiali.
“Il signor Retro estrae l’orologio da tasca,
lo carica –
ascolta il ticchettio del meccanismo,
che impassibile spinge avanti
le lancette e i secondi
(come fermare l’istante, questa goccia di eternità?)”.*
Il Signor Retro ripone l’orologio sul tavolo
e dice: «auf Wiedersehen».
Il Signor Cogito si toglie gli occhiali.
Il Signor K. si toglie il guanto sinistro.
Getta una manciata di gioielli,
(smeraldi, perle, diamanti, rubini)
sulla toeletta; il tutto, così, alla rinfusa.
L’innominato indossa una redingote
nera, lucida, lisa, occhiali di tartaruga
con le stanghette dorate.
Gli uccelli sugli alberi emettono un singulto metallico.
Marlene singhiozza il Lied della nostalgia.
I soldati sono partiti nei treni carichi di morti viventi.
Si alzano in volo col muso ad uncino i pipistrelli.
Sette corvi beccano il mangime nel letamaio.
Nella Kammerspiel è entrato il fruscio degli astri.
Il Signor K. si mette in posa nel corridoio.
«Dov’è?».
«Cosa?».
«Il quaderno nero».
* versi di Marek Baterovicz

violino_Barroco

violino_Barroco

 Domenico Alvino

Domenico Alvino

Domenico Alvino

La cantante cieca

È una cieca ora l’accompagnano
resta dietro pupille grandi.
Cerca un bandolo là sotto
medita la sua canzone al buio
dentro un buio chiuso
a lampi
aduna
corde
lorde
parole salgono a grappoli
alle note
lega
una valanga
giocata a pigli scosse luride luminose
vengon fuori anime secolari
affollano e diradano
a respiri e ad ansimi
a balzi
e poi giù ricadute
piene di salti
roteanti riverberi in sé stessi
rientri
nel buio chiuso
essi e la cieca ricurva all’applauso
infinito
di tutti
lì in piedi
annusa il loro sguardo
dietro
le loro bocche spalancate.

(Roma, venerdì, 27 luglio 2007)

La musica: il morire

Nella tua spessa ombra
tu pensi
ch’io entri
come d’un pezzo passando cellule
atomi
fra atomi
io ombra
in un corpo-ombra?
O che un non-spirito
entri in un non-spirito
ove né valva né vulva ti apri
tu spirito così addensato d’ombra
che esaurisci il dentro
tanto che i molti io e tu ed egli tutti
schiodati fuori?
Il noi – dice – è però da dentro.
Ma è un dentro vuoto
senza il tu e l’io certi
a ben vedere
anche il tu e il voi e l’egli
e il loro e l’essi
sono altri dentro
spesso anch’essi
vuoti
avidi
sfumanti in fuori
e vedi quanti fuori vuoti
adesso astri
che si girano
lenti
l’uno guarda fuori
l’altro
l’essere, io penso, non ha dove
sta a guardare a lato
scoppi
attende
crepe
nella materia obdura
fin che ne si sciolga
un dentro…
Lascio la musica lì
nel nulla
essa non entra
nella morte
bisogna andarci soli.

(inediti, Roma, 6 aprile 2001)

musica sassofono

 Francesco De Girolamo

Francesco De Girolamo

Cammina e canta

Cammina e canta
e insegui molti amori
impossibili e fieri
e disvela misteri e nascondi
i tuoi sogni ai veleni del giorno
livido e freddo e uguale.
Troppe bocche senza ansia di fiamma
bisbigliano il coro dell’ombra
alla folla disabitata.
E tu, sii il seme di un’alba
remota, mai sorta;
appartieniti, proteggiti
dalla vita già morta
che incalza; sii il cucciolo inerme
della tua rinnegata eternità.

Metamorfosi

Non è molto quel ramo dietro i vetri
per sapere che fuori impera il niente;
ma è tutto ciò che scorgi e che non vedi
che lo trasforma in una gemma ardente.
Che lo trasforma in una calda rosa
che accende il limitare dello sguardo
della sua sete indomita e operosa;
e ritrasfonde in musica il tuo pianto

Francesco De Girolamo da Paradigma Lietocolle, 2010

musica rinascimento

 Franco Dionesalvi

Franco Dionesalvi

La fragola e il pianoforte

Il lembo vellutato
del vestito a macchie di fragola
si acquattava sul cranio pallido
del maestro francese
al pianoforte.

L’ansia distratta di lei
raccoglieva
silenzi mielosi margherite di raso
nel pubblico a cappelli
raccogliticcio
dalla valanga appena sventata
di là dalla finestra
per nuovi messia
intagliati nell’alba;
girava le spalle nude
accostava la parete
si poggiava sul davanzale di neve
concepiva nella sua mente
il nano della montagna.

musica

 Fortuna Della Porta

Fortuna Della Porta

Musica di pentagramma,
infuriano le dita sui tasti.
La Moldava, come la vita,
me la svelò mia madre,
con appena tre note, l’udito lacunoso.
L’oboe delle ellittiche,
in movimento di danza,
l’appresi di notte
malgrado i corni latranti dei cani.
In spirito millimetrico, rispettoso,
ninnavano il sonno i cerchi di Saturno
con andamento adagio, molto cantabile
e al fondo, sempre udibile,
la grancassa in fff del big bang
favilla di prestoria
dove il prima e il dopo
convissero in un fulmine.
In perfezione di suoni
la legge di sassi e comete.
Al flauto delle tempeste solari
fibrillano i violini del fiume
le cui ripe in concerto
sbocciano a un giro di do.
Arpeggia lo spartito armonico
col sigillo -da sfinire- di scale avulse.

Stradivari 1681

Stradivari 1681

 

Terry Olivi

Terry Olivi

 

 

 

 

 

 

Terry Olivi

Blues all’Alberone

.
Occhi succosi estate
la cantante
ha un vestito rosso
sul palco gli acuti
i bassi
uno swing? so sad
tonight
una disperazione
così dolce così tacita
too bad

tonight

il plenilunio è
ancora lontano
l’oceano mi è testimone
una zattera insegue l’onda
una culla
la ragazza sulla zattera
nel suo vestito rosso
canta microfono in mano
è solo per il mare
per il vento per le instabili nuvole
per l’ampio cielo intorno.
Un’armonica risponde
così pura così lontana.

Eppure
svaniscono piano piano
so sad so sad so sad
tonight….

Roma 30 dic. 2011

Giuliana Lucchini violoncellista

 Laura Cantelmo

Laura Cantelmo

Laura Cantelmo

Papillons*

A Mirna amante dell’armonia

Nel coro turchino dei grilli coglie
l’allodola semi e granaglie
con le prime note del mattino.
Ha vegliato la notte di collina,
paventando fantasmi della Selva
Nera, ciclopiche illusioni
dell’Egeo cipriota con i venti
della steppa turbinanti sopra
una tastiera di farfalle. Le note
si fanno immateriali trilli
di cutrettola vibrante con le piume
che gonfiano leggere le frasi
di spartito.
Poi appare Leda, abbandonata
all’assoluta gioia d’un amore
divino, ignara dell’infimo
destino mortale.

*Robert Schumann, composizione per pianoforte Op. 2

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POESIE INEDITE SUL TEMA DELLA NATURA MORTA di Anna Ventura, Lidia Are Caverni, Paolo Polvani, Eugenio Lucrezi, Franco Fresi, Fortuna Della Porta, Giuseppe Panetta, Corrado Bagnoli, Antonio Spagnuolo, Raffaele Urraro

Magritte elective affinities 1933

Magritte elective affinities 1933

 anna_ventura

Ut pictura poesis. E Leonardo ha scritto: «La pittura è una poesia muta e la poesia è una pittura muta». Ogni natura morta ci parla, parla di noi, che siamo fuori quadro. Essa è assenza che attende la presenza umana, o meglio, è una presenza umana che è scomparsa, ed è rimasta l’assenza. E l’assenza ci parla con il proprio apparire, il proprio essere là.

Anna Ventura

Anna Ventura

Anna Ventura

Il coniglio bianco

C’è un coniglio bianco
sulla mia scrivania. Mentre,con la destra,
scrivo, con la sinistra
mi accerto
che il coniglio stia sempre al posto suo:
c’è.
Perché è di coccio,
pesante come un sasso, e nulla
lo smuoverebbe dalle cose
che tiene ferme col suo peso. Perché
questo è il suo compito:
tenere ferme le cose. Un giorno
avvenne un incantesimo:
il coniglio aveva cambiato consistenza:il pelo
era vero,
bianco, morbido e setoso, la codina
si muoveva.
Ci guardammo negli occhi,
io e il coniglio:
eravamo entrambi vivi,ma
non avevamo sconfitta la paura.

Frida

Quando ti hanno estratta dal forno,
Frida,
intatta come se stessi dormendo,
tutte le tue scimmiette
si sono messe a ridere.
Perché è questo,
il loro modo di piangere.

lidia are caverni l'anno del lupo

lidia are caverni

lidia are caverni

 

Lidia Are Caverni “L’albero di pietra”

(febbraio 2010)

L’albero di pietra non germogliava
foglie né fiori lungo il viale solo
le radici vivevano abbarbicate al suolo
linfa che penetrava il cuore dilatava
le vene da troppo tempo spente arrossava
le guance ridando giovinezza come in una nuova
emozione potevano le mani protendersi rami
d’improvviso ricoperti di verde l’osmosi
era compiuta mancavano gli uccelli
il tenero levarsi del nido.

*

L’albero di pietra recava ferite
le rughe del tempo troppo aveva
vissuto al margine del bosco
sfidato il vento la pioggia folte chiome
fiorite in primavera ambito dagli insetti
colmo di frutti in estate cercato dagli uccelli
era sceso l’oblio la calcificazione del cuore
si era arrestata la linfa che lo rendeva
leggiadro dure cortecce custodivano
il tronco restavano radici il lento ingravidarsi
di terra.

*

L’albero di pietra sfidava il tempo
tacevano gli umori dei rami i nodi che
generavano germogli protendendolo al cielo
non aveva più occhi per guardare
lo svolgere dei giorni le notti fredde
irrorate di stelle gli insetti andavano
altrove il becchettio degli uccelli o nidi
per teneri scoiattoli denti che foravano
boscaglie macchine calpestavano radici
ignorando il suo vivere lo spento fluire di vita.

*

Sull’albero di pietra erano stati
tracciati nomi che il tempo non
cancellava piccoli cuori trafitti
ricordo di antichi amori gelosamente
li custodiva come fosse teca che nel ventre
ospita il frutto da lasciar cadere in estate
perché il suo essere restasse a guardare
radici il timido affiorare del germoglio
che gli avrebbe donato vita silenzioso
scorrendo nel suolo lucido serpente che
la sua preda cerca.

Wallace Stevens Coffee Oranges 

Paolo Polvani

Paolo Polvani

Paolo Polvani

Mela e bottiglia negli occhi di un gatto

Certi giorni la casa approda a un’immobilità perfetta.
Sul tavolo il gatto naufragato nel sonno dischiude
l’incandescenza dello sguardo e nelle pupille nasce
la mela addormentata nel rosso; affoga
dentro un vuoto di parole, un velluto di quiete;
divampa un verde di bottiglia ormeggiato sopra la tovaglia
in un porto privo di suono, muto di onde,
che affonda in una tranquilla polvere.
La casa si nutre del suo silenzio. Angelo
custode è un gatto.

Cosa accade alla casa
quando esco sbattendo la porta

Ci sono parole che ancora volteggiano nell’aria
prima che i loro vuoti involucri si adagino
in un residuo di polvere lungo le pareti.

Piccoli insetti diventano padroni del silenzio.
La poltrona trattiene il vuoto della forma, i quadri
mantengono un rigido riserbo.
Sul pavimento lucido un filo parla la lingua dell’esilio.
La finestra registra il profilo delle nuvole.
Il frigorifero senza preavviso si mette a borbottare.

Si assiste alla declinazione degli oggetti
durante la parabola del sole. Nella luce
si affaccia una pantofola, cerbiatta
timida prossima alla consunzione.

Il suono del postino irrompe nel vuoto della casa,
lo riempie di uno splendido interrogativo.
Il clamore del traffico accarezza le sedie in cucina.

Nei bagni le tubature se ne infischiano delle voci
dei vicini ed emettono brevi gorgoglii, guaiti
appena pronunciati, sospiri, soffi.

Forse risuonano dei passi, forse una vecchia paura
ancora aleggia nelle stanze.
Le tovaglie conservano i loro vividi colori.
Ci sono dita che si attorcigliano all’attesa.

 

Eugenio Lucrezi

Turner alla Tate Britain

In un punto centrale del tragitto
tra il molle autoritratto a ventiquattro
anni e la maschera secca che lo ferma
morto anni dopo e dopo molti venti,
nebbie e tempeste, un acquarello
ritrae due tinche, un persico e una trota
composte in lieto stile e in armonia
di cose morte che sono state vive.
Chiaroscuro aggraziato, quasi non
reminds the gap che esiste tra i due stati.

Ofelia (campanula)

Théodore Agrippa D’Aubrigné, Que de douceurs d’une douleur!

Dopo la brina, dentro la rugiada,
fai capolino, timida campanula,
spunti, reclini il capo e muori, cadi
vivida ancora e vai nella corrente,
povero San Giovanni decollato,
povera Ofelia senza la corona,
non sei bella da morta, né decente,
nessun pittore ravviva la tua grazia,
nessun serto di spine sul tuo capo,
povero fiore, povera campanula!

wallace stevens harmonium 1

Franco Fresi

Franco Fresi

Franco Fresi

Dopo la tempesta.

…e come contraltare
allo scampato pericolo,
il piccolo equipaggio della Roma
80 un freddo sorseggia
torbatino algherese al bar del porto.

Borbotta il mare scampoli di risacca
contro la banchina di ponente.
Non è buono il mare. Né cattivo.
Non pensa. Ci si può innamorare
perdutamente, ma non fidarsene.
Anima ermafrodita lo fa instabile.
Calmo,
può essere felice e generoso,
ma nell’ira il mare è solitario.
Non vuole testimoni alla sua lotta
con il vento, nemico e cantastorie.
Non sopporta
che uomo o elemento
turbi la sua regale indifferenza.

Efisio di Villacidro
li ha dipinti sulla vela
quella paura livida e quel tuono
d’onda. Ne ho colto
di trascorse bonacce il pentimento
e d’altri tùrbini furibonda minaccia.

L’anima vegetale dei colori

Nel ricordo di un’ora di tramonto
il sole rosso come la tua bocca
t’insanguina il sorriso mentre stacchi
dal ramo spoglio l’ultima albicocca. Continua a leggere

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