Ut pictura poesis. E Leonardo ha scritto: «La pittura è una poesia muta e la poesia è una pittura muta». Ogni natura morta ci parla, parla di noi, che siamo fuori quadro. Essa è assenza che attende la presenza umana, o meglio, è una presenza umana che è scomparsa, ed è rimasta l’assenza. E l’assenza ci parla con il proprio apparire, il proprio essere là.
Anna Ventura
Il coniglio bianco
C’è un coniglio bianco
sulla mia scrivania. Mentre,con la destra,
scrivo, con la sinistra
mi accerto
che il coniglio stia sempre al posto suo:
c’è.
Perché è di coccio,
pesante come un sasso, e nulla
lo smuoverebbe dalle cose
che tiene ferme col suo peso. Perché
questo è il suo compito:
tenere ferme le cose. Un giorno
avvenne un incantesimo:
il coniglio aveva cambiato consistenza:il pelo
era vero,
bianco, morbido e setoso, la codina
si muoveva.
Ci guardammo negli occhi,
io e il coniglio:
eravamo entrambi vivi,ma
non avevamo sconfitta la paura.
Frida
Quando ti hanno estratta dal forno,
Frida,
intatta come se stessi dormendo,
tutte le tue scimmiette
si sono messe a ridere.
Perché è questo,
il loro modo di piangere.
Lidia Are Caverni “L’albero di pietra”
(febbraio 2010)
L’albero di pietra non germogliava
foglie né fiori lungo il viale solo
le radici vivevano abbarbicate al suolo
linfa che penetrava il cuore dilatava
le vene da troppo tempo spente arrossava
le guance ridando giovinezza come in una nuova
emozione potevano le mani protendersi rami
d’improvviso ricoperti di verde l’osmosi
era compiuta mancavano gli uccelli
il tenero levarsi del nido.
*
L’albero di pietra recava ferite
le rughe del tempo troppo aveva
vissuto al margine del bosco
sfidato il vento la pioggia folte chiome
fiorite in primavera ambito dagli insetti
colmo di frutti in estate cercato dagli uccelli
era sceso l’oblio la calcificazione del cuore
si era arrestata la linfa che lo rendeva
leggiadro dure cortecce custodivano
il tronco restavano radici il lento ingravidarsi
di terra.
*
L’albero di pietra sfidava il tempo
tacevano gli umori dei rami i nodi che
generavano germogli protendendolo al cielo
non aveva più occhi per guardare
lo svolgere dei giorni le notti fredde
irrorate di stelle gli insetti andavano
altrove il becchettio degli uccelli o nidi
per teneri scoiattoli denti che foravano
boscaglie macchine calpestavano radici
ignorando il suo vivere lo spento fluire di vita.
*
Sull’albero di pietra erano stati
tracciati nomi che il tempo non
cancellava piccoli cuori trafitti
ricordo di antichi amori gelosamente
li custodiva come fosse teca che nel ventre
ospita il frutto da lasciar cadere in estate
perché il suo essere restasse a guardare
radici il timido affiorare del germoglio
che gli avrebbe donato vita silenzioso
scorrendo nel suolo lucido serpente che
la sua preda cerca.
Paolo Polvani
Mela e bottiglia negli occhi di un gatto
Certi giorni la casa approda a un’immobilità perfetta.
Sul tavolo il gatto naufragato nel sonno dischiude
l’incandescenza dello sguardo e nelle pupille nasce
la mela addormentata nel rosso; affoga
dentro un vuoto di parole, un velluto di quiete;
divampa un verde di bottiglia ormeggiato sopra la tovaglia
in un porto privo di suono, muto di onde,
che affonda in una tranquilla polvere.
La casa si nutre del suo silenzio. Angelo
custode è un gatto.
Cosa accade alla casa
quando esco sbattendo la porta
Ci sono parole che ancora volteggiano nell’aria
prima che i loro vuoti involucri si adagino
in un residuo di polvere lungo le pareti.
Piccoli insetti diventano padroni del silenzio.
La poltrona trattiene il vuoto della forma, i quadri
mantengono un rigido riserbo.
Sul pavimento lucido un filo parla la lingua dell’esilio.
La finestra registra il profilo delle nuvole.
Il frigorifero senza preavviso si mette a borbottare.
Si assiste alla declinazione degli oggetti
durante la parabola del sole. Nella luce
si affaccia una pantofola, cerbiatta
timida prossima alla consunzione.
Il suono del postino irrompe nel vuoto della casa,
lo riempie di uno splendido interrogativo.
Il clamore del traffico accarezza le sedie in cucina.
Nei bagni le tubature se ne infischiano delle voci
dei vicini ed emettono brevi gorgoglii, guaiti
appena pronunciati, sospiri, soffi.
Forse risuonano dei passi, forse una vecchia paura
ancora aleggia nelle stanze.
Le tovaglie conservano i loro vividi colori.
Ci sono dita che si attorcigliano all’attesa.
Eugenio Lucrezi
Turner alla Tate Britain
In un punto centrale del tragitto
tra il molle autoritratto a ventiquattro
anni e la maschera secca che lo ferma
morto anni dopo e dopo molti venti,
nebbie e tempeste, un acquarello
ritrae due tinche, un persico e una trota
composte in lieto stile e in armonia
di cose morte che sono state vive.
Chiaroscuro aggraziato, quasi non
reminds the gap che esiste tra i due stati.
Ofelia (campanula)
Théodore Agrippa D’Aubrigné, Que de douceurs d’une douleur!
Dopo la brina, dentro la rugiada,
fai capolino, timida campanula,
spunti, reclini il capo e muori, cadi
vivida ancora e vai nella corrente,
povero San Giovanni decollato,
povera Ofelia senza la corona,
non sei bella da morta, né decente,
nessun pittore ravviva la tua grazia,
nessun serto di spine sul tuo capo,
povero fiore, povera campanula!
Franco Fresi
Dopo la tempesta.
…e come contraltare
allo scampato pericolo,
il piccolo equipaggio della Roma
80 un freddo sorseggia
torbatino algherese al bar del porto.
Borbotta il mare scampoli di risacca
contro la banchina di ponente.
Non è buono il mare. Né cattivo.
Non pensa. Ci si può innamorare
perdutamente, ma non fidarsene.
Anima ermafrodita lo fa instabile.
Calmo,
può essere felice e generoso,
ma nell’ira il mare è solitario.
Non vuole testimoni alla sua lotta
con il vento, nemico e cantastorie.
Non sopporta
che uomo o elemento
turbi la sua regale indifferenza.
Efisio di Villacidro
li ha dipinti sulla vela
quella paura livida e quel tuono
d’onda. Ne ho colto
di trascorse bonacce il pentimento
e d’altri tùrbini furibonda minaccia.
L’anima vegetale dei colori
Nel ricordo di un’ora di tramonto
il sole rosso come la tua bocca
t’insanguina il sorriso mentre stacchi
dal ramo spoglio l’ultima albicocca. Continua a leggere