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SEI POESIE di Stelvio Di Spigno da “Fermata del tempo” (Marcos y Marcos 2015) con un Commento di Umberto Fiori

città tramStelvio Di Spigno vive a Napoli dove è nato nel 1975. È laureato e addottorato in Letteratura Italiana presso l’Università “l’Orientale” di Napoli. Ha scritto la monografia Le “Memorie della mia vita” di Giacomo Leopardi – Analisi psicologica cognitivo-comportamentale (L’Orientale Editrice, Napoli 2007). Ha collaborato all’annuario critico “I Limoni” con recensioni e note sotto la guida di Giuliano Manacorda. Per la poesia, ha pubblicato la silloge Il mattino della scelta in Poesia contemporanea. Settimo quaderno italiano, a cura di Franco Buffoni (Marcos y Marcos, Milano 2001), i volumi di versi Mattinale (Sometti, Mantova 2002, Premio Andes; 2a ed. accresciuta, Caramanica, Marina di Minturno 2006), Formazione del bianco, (Manni, Lecce 2007, finalista Premio Sandro Penna), La nudità (Pequod, Ancona 2010), Qualcosa di inabitato, con Carla Saracino (EDB, Milano 2013).

dalla prefazione di Umberto Fiori

Lo confesso: nomi e cognomi agiscono su di me come allarmanti radiazioni, si insinuano nel mio cervello e risuonano volta a volta come lusinghe, esorcismi, implorazioni, proclami. Quando conobbi Stelvio Di Spigno (nel 2001, alla presentazione del Settimo Quaderno Italiano di Poesia Contemporanea a cura di Franco Buffoni) le generalità di quel ventiseienne, nella mia testa, si associarono all’impressione che mi facevano i suoi versi e la sua presenza. Nel quinario petroso e allitterante mi pareva di riconoscere i caratteri della sua poesia e della sua personalità: ai miei nervi, st e sp dicevano rigidità e iattanza, i uno stridìo, gn una torsione, una dolente contrattura. Nel nome, tornanti e rupi incombevano; spigoli e spine premevano nel cognome, dove nuotava candido e superbo un cigno mallarmeano. Allucinazioni morbose, certo. Ma i testi sembravano confermarle. Oggi, a distanza di più di un decennio, in questo Fermata del tempo, la mia fantasia delirante deve ricredersi. Di Spigno è cambiato.

In questo nuovo libro, niente più spigoli e torsioni: un racconto sofferto, disarmato, senza schermi, che va incontro all’amaro a viso aperto, raccogliendo ciò che resta degli anni. La musa di Di Spigno è – classicamente – figlia della memoria. Il suo sforzo è quello di frenare o addirittura di arrestare il flusso del tempo, di illuminarne una fermata, appunto, per chiarire un’identità che rischia di perdersi, travolta dal corso caotico e inconcludente dei giorni. L’io lirico non si astrae, non si sublima: è nell’ordinario della vita e degli affetti che cerca le proprie «radici sepolte». Ecco allora i nonni, le prozie, la madre, una Napoli intima, sobria, mai convenzionale, mai trasfigurata. Ambienti e personaggi si presterebbero a un gioco crepuscolare; ma qui non c’è gioco, non c’è ironia, non c’è compiacimento: c’è invece una dolentissima serietà, che fa pensare a volte allo Sbarbaro di Pianissimo, soprattutto alle poesie dedicate al padre e alla sorella. Come Sbarbaro, Di Spigno non bara, non ammanta di letterarietà il suo personale rovello; è capace di nominare le cose senza cercare di straniarle o di nobilitarle coi magheggi e coi fiocchi del “poetico”. Tutto il libro è percorso da una religiosità mai esibita, ma anche da una collera trattenuta: collera contro il mondo inautentico, la sciatta iniquità, la banalità, la falsità corrente (leggendo, pensavo che il cognome più appropriato per questo nuovo Stelvio sarebbe Di Sdegno). Ma la collera – per quanto sacrosanta – non riesce a prevalere: alla fine, la speranza si riaffaccia. Fermata del tempo è il racconto di un passaggio dall’adolescenza all’età matura, di una iniziazione al Vero (di Leopardi Di Spigno è stato ed è studioso) che schiva alla fine l’abisso del nichilismo. Il male di vivere è là, solido e trionfante, ma la poesia sa affrontarlo ad occhi asciutti, sa addirittura cantarlo.

Stelvio Di Spigno Fermata-del-tempo Copertina
Fotografie dell’epoca assoluta

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Vittorio insieme a Bianca, Anna, Giovanni
in eterno sposato a Concetta e Giuseppina
col suo corsetto a vita di vespa nel ritratto,
non pensavo che infine tutti voi
sareste finiti lì sul secretaire
dentro cornici di ferro istoriate,
con accanto ceri, lumini, santini e preghiere,
ma niente può impedire che domani
sarà un giorno di aprile del ’40,
e tutti noi tornati ventenni e atomizzati
ci incontreremo ai Tribunali o a Piazza Borsa,
con i vostri paltò e le vostre ghette e spille,
dove un sidecar ancora misura il senso
dell’onore, del decoro, del bruciore della vita,
con l’amore che è una pergola di rose
nell’antico tesoro di una piazza napoletana,
in mezzo al fumo che sa di ritorno e baci,
di riconoscenza per esserci stati,
o più semplicemente di umiltà prenatale
rocciosa e inebetita, un salto tra i pineti
che accoglieranno tutti i nostri corpi
nel giro di valzer di un fascio di decenni,
dalla luce di casa a quella della sera,
dal silenzio del sonno a quello della fine,
dalle lacrime scioccanti alla risurrezione.

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Galleria
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Forse hai capito quale festa ti dà gioia,
se Ognissanti o Natale, mentre previeni
il vento ottuso del porto, con tutti
quei presepi di barche e budelli,
e fuori c’è l’aria secca dei palazzi, e sembra che il Vesuvio
bruci elettricità nell’atmosfera: un giorno
andammo con mio nonno a leggere le pietre
nella grande vasca della stazione,
e su di loro c’era un volto napoletano.
Città di fame immonda e solo da guardare: oggi
lavoro lontano, non posso vederti invecchiare,
hai un saluto per tutti nelle tue asole bollenti,
e passi in umiltà senza domandare
che i tuoi arrivi siano scaltri la sera, che si disfi
quella mole di infamia che ti fa nera, che una mano
infili nel fitto dei tuoi vicoli una riserva umana
di latte impiantato tra colli e caserme.
Ogni volta che hai pianto ti ho visto
perdere a dadi ogni verginità, e come
se fossi una madonna abbandonata
in una delle mille edicole di quartiere,
ho cercato la tua essenza da amare
dentro un barattolo di complimenti a ore,
sapresti regalarmi ancora un po’ di castità,
fermarti dove si passa dal diluvio alla sciagura,
essere in tempo per salvare ancora te
dalla tua storia e insieme prendermi e farmi
ancora tuo, come quando ero
uno dei tuoi fantasmi arroventati.
Stelvio Di Spigno

Stelvio Di Spigno

Il pranzo dalle zie
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Sapere che non verrò più da voi,
come facevo ogni sabato a pranzo,
ai tempi del liceo, ma anche prima e dopo,
fino a quando zia Velia scappò via
e divenne una lavagna del cielo,
ancora mi rende schiavo dell’amore
di rivedervi nella vostra casa,
con la radio, il telefono, i parati,
tutti comprati o abitati da almeno quarant’anni;
e quanto era forte il laccio che ci univa,
lo scopro ora, quando il sabato mi sveglio
contento perché so che da voi devo venire,
poi mi concentro, il sonno lascia la mente,
ricordo che non c’è più la casa,
che voi siete in Paradiso e nei ricordi,
e mi viene da piangere e vorrei
salire le scale e vedere cosa provo,
adattarmi a stare senza voi, ma non riesco,
allora tento di capire il perché del tempo,
e perché due angeli come voi
hanno lasciato sola la mia vita
a disfarsi, a dirimere la quantità
di giorni che separa la vecchiaia di tutto
dal mio presente di oggi, la nicchia
sterile dove vivo e dove ricordando
quanto è stato bello starvi accanto,
faccio di me un breve dirottamento
fino al vostro caseggiato,
e torno al mio peccato di un essere solitario
che si chiede quanto ancora ha da patire.

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Il distacco
a T. C.
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Hai coperto bene la paura con l’assenso,
il bruciore di un osso con una cavità entrante
e mancante nella mente, mentre spiegavi
e rispiegavi che non era il tempo, quello, buono
per l’innamoramento e intorno c’era già fruscio
di ricci e castagne e foglie di platino adamantine,
su tutta la strada ragionammo su come salvare
un amore che voleva cominciare, in mezzo
alla plastica e al niente io vedevo il tuo vestito,
il suo colore di rifiuto, le mezze scuse, le mani
che battono sul volante, e tu mi chiedevi
di uscire, di non farti del male, ma da una
vastissima distanza, una danzante valle distesa
ormai tra due silenzi, tra una fine decisa, tutta
di metallo, sentivo il freddo delle tue parole
dall’anima fino alle gengive, e questo solo
è il mio ricordo: non hai portato via niente.

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Notizie dall’estate

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Fuoco nell’aria mista a sale e a corpi terrestri
e incostanti. Pedalare, camminare, sterzare con l’auto
per Gaeta, Formia, Minturno. Una curva presa male
e ti ritrovi a Napoli o su una croce. Tutto sa di altro.
Ovunque luoghi troppo cari per passarci l’estate.
Troppo inutile l’estate per passarci la vita.
Dove i miei cari pendevano verso il fresco del mare
ora negozietti e rent car. Fine delle trasmissioni,
con la camicia sbottonata, cerco di essere
invisibile come loro, ma la parete della morte
non si fa attraversare. Loro sono oltre, io dall’altra
parte, non so se partire, restare, pregare
per una vita breve. Estate benedetta, che mi riporti
dove tutto è cominciato. Agosto torrenziale,
che mi fai vedere a figura intera i volti, i templi,
i tempi in cui tutto si è interrotto. Fuoco per ogni dove,
fuoco su di me. Sparate pure, non mi prenderete.
Non ancora, tra le rotonde e le spiagge con nomi
californiani, anche la fine perde l’orientamento.

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Ballata del giorno normale

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Il sole è alto nel cielo
come tutti i soli
da milioni di anni a questa parte.
Facciamo finta che sia
una bella giornata,
palpeggiata, accarezzata, irresoluta,
coi suoi splendidi nomi a corollario:
spiaggia, cappuccino, vento a schiera.
Si va a lavoro. Si torna a casa.
Bello l’ultimo chilometro
della solita strada. Gli stracci
della nostra coscienza,
mandati al lavatoio e raggelati,
ora sono puliti e non disperano.
Che bella brezza di mare,
uguale a tutte le brezze
e i fondotinta da qui all’eternità.
Risaliamo il ponte sulla stazione.
Qui c’è casa mia ad Anzio. Se non foste spettri,
voi che leggete queste righe,
vi inviterei a entrare. Invece
ci si vedrà domani. Buon giorno. Addio.
Amore, gioia, lutti e dispiaceri
rimangono muti nelle tasche.
Migliaia di io, dentro la mia mente,
sanno che la vita è tutta qui:
orologio, rumori, amanti devoti.
Milioni di anni sotto i piedi
e nessuno sa dirmi cosa mi aspetta.
Siamo una specie senza predizione.
E col presente non va meglio:
cos’è questo tutto che mi circonda,
quanto è larga la parola destino,
quando incontrerò qualcuno
che mi somiglia.
Anima, sole, castrazione
di ogni volontà.

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POESIE EDITE E INEDITE SUL TEMA DELL’ADDIO (Parte IV) Sabino Caronia, Gabriella Sica,Paolo Polvani, Lidia Are Caverni, Marzia Spinelli, Cristina Sparagana, Stelvio Di Spigno

Albrecht Durer ex-libris 1516

Albrecht Durer ex-libris 1516

«Il tema dell’addio. L’addio è una piccola morte. Ogni addio ci avvicina alla morte, si lascia dietro la vita e ci accorcia la vita che ci sta davanti. Forse il senso della vita è una sommatoria di addii. E forse il senso ultimo dell’esistenza è un grande, lungo, interminabile addio».

 

sabino caronia

 

 

 

 

 

 

Sabino Caronia

Adieu

Altera ti ricordo, altera e bella
passare, così passano le stelle.
Sì, ti ricordo, lo ricordo ancora
quel tuo strano, dolcissimo sorriso.

Ma a che serve un ricordo, a cosa giova
la lontana memoria di un sorriso?
Anche i ricordi non sono che mani
che non si toccano, e ogni cosa muore.

 

a Luca Canali

E se pure di noi resta qualcosa,
oltre un nome ed un’ombra senza peso,
tu Catullo, dottissimo poeta,
d’edera cinto il giovinetto crine,
nella valle d’Eliso sorridente
vienigli incontro e tendigli la mano.

 

Gabriella Sica

Gabriella Sica

gabriella sica Le lacrime delle cose

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Gabriella Sica

2
Non altro che il tuo lento sparire
alla mia mente, polvere d’amore
al volgere pacificato delle stagioni
come verso l’Ade scivola il tempo
e al prato degli asfodeli quieti
al soffrire dei morti per la morte.

3
Separarsi è l’aprirsi di una crepa
nel terribile sentiero dei morti
è lo spirito che sporca i bei giorni
e rompe come ascia il cielo vasto
è spiluccare i dolci chicchi rubini
dischiusi nel lungo solco nero.

aprile 2004

Da Le lacrime delle cose (2009)

 

Paolo Polvani, 2013 Murge

Paolo Polvani, 2013 Murge

Patrizio Dimitri 3

 

 

 

 

 

Paolo Polvani

Assaggiare il vuoto

Accade che un giorno spalanchi la finestra e senza
consultare l’orizzonte, decidi
di assaggiare il vuoto, di sperimentare
le conseguenze delle leggi gravitazionali.

E io che cosa avrei dovuto più inventare, non basta
saper sorridere, ascoltare non è una condizione sufficiente.
Ci sono congiunture e adesso la cosa mi appare nella sua evidenza.

Spalancare la finestra e dire sì al vuoto, alla sua bocca aperta,
alla fame di te che manifesta. Erano già in riserva le lacrime
e il muro bianco d’ospedale esaurita ogni possibilità.

La bellezza non è un lasciapassare. Volevi essere accolta
hai scelto il vuoto di un cortile, lo spazio
bianco di un lenzuolo.

.

A Pino che se ne va

Così sei morto. Sul pavimento il cacciavite
aspetta le tue mani sporche di grasso e i colpi di tosse
del motore.

E’ nella stanza accanto, dice qualcuno.

Se fosse vero ci daresti un segno: una pinza
che cade, uno sportello che si chiude, una valvola
col minimo rotolio che l’accompagna.
Un colpo sulla scocca.

Ma tu sei morto e tutti ti voltano le spalle, anche i tuoi figli
non ti riconoscono, non riconoscono il tuo silenzio.

Tu continui a guardarli rigirando un sorriso
stranito tra le mani, impacciato
davanti a tanta incomprensione.

La vita ti ha condotto fin qui e adesso
non sta bene che continuiamo a parlarti

sei sceso senza domandare
sei sceso con la faccia buona
quasi chiedendo scusa

e non c’è niente da ridere
niente da ridere.

 

lidia are caverni l'anno del lupo

lidia are caverni

lidia are caverni

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lidia Are Caverni

Avresti voluto un bacile per detergere
mani dopo l’abbandono si era consumato
il sacrificio del sole la spada tratta che toglie
via la luce del giorno aprendosi alla sera
al fresco bagliore che confonde voli il lieto
sconfinare della finestra dove non penetri
ombra proveniente dai sogni dall’esalazione
incerta di notti chine per i miei respiri
lo snodarsi lento delle attese a dipanare
gli intrighi dei capelli meduse ormai relitte
sulle spiagge di mari dove i corpi si confondono
persi di ebbrezza.

*

Per non smarrire il pezzetto di cielo
vuoto ormai di voli andranno presto
altrove i rondoni nella continua ricerca
nel mirto ti confondi nascosto nell’ultimo
fiore il cuore si stringe che non vedi
gabbiano altero che cacci pulcini fra
le tegole del tetto come fossi aquila
roteante sulle cime che tutte attendono
a sovrastare il mare il guizzare lieto
dei pesci nei fondali trasparenti dove
le ghiaie si consumano per non tacere
le parole masticate a metà già colorate
d’ombra dove non mi trovi.

(inediti, da Brividi di tempo 2007)

 

 

Marzia Spinelli

Marzia Spinelli

marzia spinelli cop

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Marzia Spinelli

Come addii

Non hanno fine le parole degli addii,
le vorremmo perfette come sembravano le cose.
Parlavano ai giorni,
sapendo quanto imperfetto l’avvenire.
Parlano ancora
sciupate in un via vai frenetico,
teso l’orecchio all’oblio. Continua a leggere

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POESIE EDITE E INEDITE SUL TEMA DEL VIAGGIO E DELL’ESTRANEITA’ (Parte III) Adam Vaccaro, Salvatore Martino, Stelvio Di Spigno, Gian Piero Stefanoni, Antonio Coppola, Matteo Veronesi, Domenico Alvino

buenos aires

buenos aires

 grattacieli-di-vetro-riflettenti-manhattan-new-york.

grattacieli-di-vetro-riflettenti-manhattan-new-york.

I poeti, come ha scritto Adam Zagajevski, spesso dimorano in una strettoia «tra Atene e Gerusalemme», «tra la verità mai pienamente raggiungibile e il bello, tra il pensiero e l’ispirazione». «Tale viaggio – continua Zagajevski – può essere descritto nel modo migliore con un concetto preso in prestito da Platone – metaxy: essere “tra”, tra la nostra terra, il nostro ambiente ben noto (tale almeno lo riteniamo), concreto, materiale, e la trascendenza, il mistero. Metaxy definisce la situazione dell’uomo quale essere che si trova irrimediabilmente “a metà strada”». Metaxy, deriva dal platonico métechein, che significa «prender parte», «mezzo dove gli opposti trovano mediazione».

 

adam vaccaro

adam vaccaro

    adam vaccaro Fronte SeedsAdam Vaccaro

Carovana

Carovana giungeva da chissà dove andando verso
chissà dove – attento non avvicinarti troppo che
ti portano via, dicevano trepide le madri – in quel
accampamento accanto alla fontana dal nome che
sonava quasi onomatopeico – scintillante Ciciliano! –

in concerto con pentole e voci di bambini e urla di
volti scuri, baffi e occhi neri, cercine e zinali chini
intorno a fuochi pentole fumanti e assi traballanti
di farina impastata dalle mani volteggianti di una
maga che – con occhi spiritati s’un dente unico re

duce rimasto al centro della bocca come punzone –
fissandomi mi disse, tu hai nel nome il destino di
– di cosa? dissi spiritando gl’occhi a specchio – di
andare fuori e essere contro – e contro cosa?, ilare
e curioso chiesi – occhi fissi negli occhi di carbone

della bambina attaccata al magico manto del suo zinale –
mentre lei rideva ridiventata con noi bambina tra asini
cavalli e tende delle allegrie accampate, ma mi forava
per sempre anima e memoria un sibilo dal suo punzone:
oh piccolino mio, ma contro tutto il bel mondo che c’è!

(Inedita)
27 febbraio 2014

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L’ala sottile

Quell’ala sottile che ci raggiunge
e si apre come una vela sull’infinito
non è l’ultimo vento che ti aprirà le mani
ché l‘universo è pregno di mille altri universi
che tu ancora non sai

(inedita)
18.12.2012

COPERTINA SALVATORE MARTINO sonetto  salvatore martino

Salvatore Martino

IX

Sopra un cavallo rosso s’avventura
all’incontro temuto e così forte
il più invocato quello della morte
ma il cavaliere va senza paura

Farnetica una strana congettura
di scardinare le temute porte
il bastione invocato tante volte
domestico rifugio di sventura

Il viaggio della vita è così breve
e così lunga la dimenticanza
la cenere che plasma i nostri corpi

Nel bozzolo di seta siamo avvolti
dal tempo e così privi di speranza
ma il cavallo nel vento è così lieve

XV

Il viaggio che sarà dopo la morte
l’unico attraversato da una mèta
è immagine per noi già consueta
del dio che ha scardinato le tue porte

Tutte le vanità saranno accolte
come polvere fredda di cometa
dentro un ossario azzurro che ci vieta
di esorcizzarlo il furto della sorte

Chissà se lo potremo rimandare
l’incontro da nessuno stabilito
il treno che attendeva il suo binario

Se anche questo viaggio è immaginario
persino l’illusione ci ha mentito
il Nulla attende il nostro naufragare

Da Nella prigione azzurra del sonetto 2009

stelvio di spigno   stelvio-di-spigno-la-nudita
Stelvio Di Spigno

Marca

Quando gli uomini del bar del Crocifisso
rincasarono per le ore troppo piccole
un’auto perse il gusto del paesaggio
perché la notte quando viene è per tutti

e io che guidavo mi girai per vedere
quanto era rimasto nel bagagliaio o sul sedile
da snocciolare agli amici di Fermo:

c’era sempre un triangolo tra Gaeta Formia e Iripinia
mentre partivo da un luogo in cui credevo fermamente
e volevo cambiare strada, ininterrottamente,

ma c’era quel bagaglio che pesava
e inoltre era una notte di pensieri in cantilena
con davanti un futuro di colline e di mare
e un chiosco per chi batte strade nuove e si vuole salvare,

poi ci aiutammo a capire esattamente
che era solo libertà con i suoi neon, può mettere paura
se la incontri per prima,
ma alla fine niente va perduto e ciò che avanza
è tutto amore di una terra in pace.

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Partire, tornare

Spalle alla poppa del traghetto, nel mare
non c’è altra vita che non sia la nostra.

Spalle alla nave che ci salva, ma la mia mente
è ancora ferma sul treno che mi ha portato qui,
e non c’è niente che la possa distrarre
da quel gemere di binari e ferraglie,
che è giusto il rumore di un viaggio.

Il profilo di Napoli scompare nella sua distruzione,
ma stavolta sono io a girare la testa, per non vedere
quanto intatto resta in me,
mentre con gioia e tradimento lo abbandono.

Come andrei, dove andrei, se potessi
far sparire queste macchie solari
che affondano la retina nel buio del nonsenso,
cancellare la nausea di ogni luogo conosciuto,
o soltanto intravisto o immaginato,
perché basta così poco per fare una scoperta…

Ma ancora non so se è più dolce partire o tornare,
mentre gli spruzzi di un mare forza tre
portano il sale del mondo fino al fondo delle labbra,
aspettando che smuova le cose come sono
fino a dove possiamo ancora indovinarle;
perché è questo che si cerca dal mare,
questo aspetta ogni vero navigante.

Mentre il nostro, di mare, mia donna,
si ferma fino a Procida e ritorno.

gian piero stefanoni  gian piero stefanoni copertina
 

 

 

 

 

 

 

 

Gian Piero Stefanoni

La prima cosa

(su alcuni versi di Seferis)
La prima cosa fu il viaggio,
e la casa ed il cane invecchiato che aspetta
per morire il ritorno.

Ma il respiro ed il freddo
che vennero dopo
all’inizio non furono dati;
col cammino tenne dietro il ricordo,
nella navigazione, nel passo
il valico lasciato alle spalle, il carico
sempre più ingombro di rimostranze e paure.

Per questo forse qualcuno
cedette all’attesa segnata sullo scudo
dalle pelli del nemico battuto:
imprese e nomi somiglianti alla propria cacciata
rosa nel volto dai colpi del vento.

(Da Quaderno di Grecia, LaRecherche.it, 2011)

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Corte

Sei Tu Signore
le mie meraviglie,
il mio viaggio nei luoghi
della Tua incarnazione.

Per quali foreste
mi porterai oggi,
per quale letto di foglie?

Fammi solo essere
e dammi solo un posto
per pregare e renderTi grazie
nelle tue gole, nelle tue rive
in questa terra in cui ancora risuona
e per sempre Santa la Tua scrittura.

Corte- Golfo d’Ajaccio, giugno 2010

(Da Roma delle distanze, Joker, 2011)

antonio coppola

antonio coppola

 

I fiori del male rivista di letteratura

I fiori del male rivista di letteratura

 Antonio Coppola

Un viaggio trasversale

Un viaggio trasversale lo facciamo da anni
con una frequenza insolita, da uomini rupestri;
ci aspetta l’altro viaggio non itinerante, cupo
guidato da un’ala di zolfo d’angelo gay.
Aspettaci in quel buio sordido a spandere
il fiato lungo sugli omeri tra teschi quello di tuo padre
è in prima fila parato a festa per incontri plurimi.
Forsennato e ambiguo giostra nei misteriosi anfratti
dei pianeti a cercare i figli degeneri quaggiù protetti.
Il pianeta è un’orgia di mani, di smorfie mascherate
dove la luce dei candelabri si schianta su visi stravolti.
Il figlio degenere se la spassa menandosela manualmente.

C. Escher colomba

C. Escher colomba

 Matteo-VeronesiMatteo Veronesi

I Elegia della memoria e del viaggio

Non è che memoria ogni viaggio

Diviene
solo immagine pura, soltanto
un fantasma tremante ogni meta
come un’Itaca opaca, un’isola
svanente, appena
toccata, e abbandonata –
così è ogni viaggio, già
tracciato e concluso, partenza
e ritorno, nel giro del pensiero –
così ogni vita, ogni respiro, il verso
che lacera lo spazio come lama
e poi di nuovo regredisce al bianco
lunare deserto dell’origine

E tutto è parola, visione che vibra
e vacilla nel suono che la suscita –
picchi lontani, luminìo di acque
tenui parole affidate alle foglie
e sorrisi specchiati dalla neve –
e ogni viaggio non è che memoria Continua a leggere

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ANTOLOGIA IV PER IL PARNASO – Roberto Maggiani, Giuseppe Panetta, Chiara Moimas, Sabino Caronia, Giuseppina Di Leo, Marzia Spinelli, Davide Cortese, Stelvio Di Spigno

Parnaso 1

roberto maggiani

roberto maggiani

Roberto Maggiani

La paura

È un qualunque mattino di serenità:
il sole alto sull’orizzonte marino
la nuvola bianchissima nell’azzurro subtropicale
la palma ondeggiante lungomare
il frastuono dell’onda sulle pietre.

Minuti sospesi
sul baratro dell’inesistenza –
ma noi di questo non ci preoccupiamo.
Nell’Universo dal vuoto metastabile
(potrebbe disintegrarsi da un momento all’altro)
qualcuno si spaventa per una sirena

un incendio improvviso nel bosco
un forte vento.

La paura
è solo un momento in cui vediamo
riflessa nel mondo
la precarietà
della rete che ci sostiene.

 

rene_magritte-les_deux_mysteres1966-1300px[1]

Giuseppe Panetta

Il cuore assente per il troppo battito
gli occhi riversi nel bagliore di compassione
e la luce del lavacro torbido di Giove prono nella galassia
antigene del Potere asfittico pronipote di Venere distributrice
di bevande nell’aferesi della prima spremitura di nube con la sorte
della grappetta dei fogli pidocchiosi d’inchiostro dall’alto del satellite cieco
il profilo del malaffare planetario pesca nell’idolatria rinsecchita del dio denaro
in rivoli di melma di una qualsiasi povertà che vìola e recide la protostella al nascere
della galassia del vivere nell’infrarosso interagente nel libertinaggio masturbatore
d’ogni fibra oftalmica avvelenatrice del rimpatrio delle stelle dell’orsa maggiore
che guidano i disperanti nel mare nostrum della sera con diaspore di sconforto
di speranza nei frangiflutti delle luci morte delle supernove che come fari
d’ogive e distruzione di gas e polveri in luogo del seme rifuggono
nel procellarum muto l’oscurità il riassetto del mondo per mano
d’uomo e in questo primo quarto il nulla a-cosmico
come un corno d’Africa porta fortuna

Chiara Moimas

Chiara Moimas

Chiara Moimas

Preziosamente

Zaffiri stemperano il cielo e l’orizzonte,
acquamarina fresca zampilla dalla fonte,
rossi rubini a coprir l’occiduo sole
e d’ ametista i petali delle nascoste viole.

Smeraldi intensi sopra i pendii e sui prati,
coralli e lapislazzuli son fiori profumati,
stille di diamanti paion gocce di rugiada
e sopra le tue palpebre il pallore della giada.

La notte si accende, son topazi le stelle,
ed è d’ambra dorata la tua pelle,
boccioli di corniola i pruni del tuo seno
racchiusi nel cristallo i colori del baleno.

Bisso prezioso e casto a ripararti il pube
e incenso conturbante che avvolge in una nube.
Un’ostrica ho divelto per cullare il tuo riposo;
opalescente perla, che toccar non oso.

untitled

Sabino Caronia

da Diario di un’assenza

È il vuoto che mi lasci la mia vita.
No, non manca la sedia ma il tuo posto
e più manca la voce e più il silenzio
dell’averti qui accanto, di quei grandi
occhi perduti che lasciano il mondo.
Anche la chiara luna su nel cielo
solitaria di te nel buio splende.
Tutto intorno è il diario di un’assenza.

A distanza

A distanza, dai luoghi che traversa
l’ansia d’averti, come sai, ti chiamo
ed una gioia sento in me diversa
a cui m’arrendo come pesce all’amo.

Tutta la vita in fondo è cosa persa,
l’inganno di un inutile richiamo,
la filastrocca bella e un po’ perversa
che ci seduce con il suo “ti amo”.

Pure resta un ricordo: l’usignolo
che cantava nel bosco ed era solo
e l’ombra che scendeva nella sera

dalle ciglia, materna ombra severa,
e gli angoli incurvava della bella
bocca altera e distante come stella.

 FOTO G. DI LEO

Giuseppina Di Leo

Un uomo dai quattro occhi ho guardato
due li aveva nel petto sotto la camicia
ronzavano alla maniera di un animaletto
ali le ciglia sbattevano segretamente
senza esser visti divoravano
l’eccesso del cuore facendolo sterile
gli occhi del viso erano gioiosi
si posavano curiosamente
sui platani dal bordo castano
stimme verde arancio o di morfea
nella morfallassi di un tempo intero
avanzavamo a scoprire genesi e genere
a un’età dove riposto è già ogni sgomento
con altri occhi somiglianze non ve n’erano
mai ne avevo visti di così belli;
ma i due occhi nel petto
non mi fu possibile guardare
né mi preoccupai invero di scoprirli
segreti ammorbavano chiarori in lampi
e, allontanandomi, essi trafissero il dolore.

*
C. M. E.

La cenere nuota nell’acqua
di un bicchiere mezzo vuoto.
Una cicca di primo mattino.
Qualche scatto assestato per bene
tra piccoli fiori coltivati ad arte
nel piccolo giardino davanti
l’alloggio, e se puoi dimmi
al risveglio cosa ricordi
se il bacio sulle labbra
a quale parola associare.

Aria fresca e avvio di un motore
un pensiero anche
apertosi tremando
come noi tremiamo.

Spinelli foto

Marzia Spinelli

Ti ho cercato in ogni deserto
per le strade di questa odorosa
amorosa città
ho scavato nella terra
e abbracciato la carne
disegnando un sorriso
un suono della tua voce
un profumo tuo
nel giorno
che continua il sogno di te
della notte, di notte qualcosa di te
ho immaginato
la tua lucente armatura d’eroe
e il mio abito di fanciulla perduta
per entrambi
in un trasparente corpuscolo
nella grana ruvida delle stelle
nell’aurora una nuova sembianza di noi.

(inedito)

davide corteseDavide Cortese

Vomito boschi dalle erbe odorose,
unicorni dalle storie millenarie.
Con un solo filo dei miei pensieri
giovani marinai dimenticano il mondo
intrecciando con dita di scheletro
gasse degli amanti e nodi dai nomi
che i loro figli mai nati
non smettono ancora di inventare.
Ciò che si muove nel mio ventre
è l’intero mondo,
bagnato fradicio, fino al cuore di fuoco,
dalla pioggia splendente della vita.
Ma sarò solo una gabbia d’ossa
se ora tu non verrai ad amarmi.
Sarò il cimitero dei miei popoli iridati,
degli arcani baciatori,
dei miei incendiari poeti.
Sarò maestoso nubifragio di tristezze
se solo tu ora non verrai.

(da “Anuda” Aletti 2011)

Elvio Di Spigno

Stelvio Di Spigno

Barcarola della fortuna

A Stefania Buonofiglio

Fai brillare i cavalli al tuo treno perché
è soltanto miseria il nostro mondo, anche se
si affaccia a rincuorarti mentre cammini
ai bordi di una foto, su Positano inusitata
di colori e di acacie, e a lungo la faccia che hai
perde il verde del suolo primitivo.

Brevettammo universo e allegria, come a metà
del Novecento i nostri avi, entrambi contadini,
ma su due facce di cielo distanti in fascine,
poi vennero i giorni di caduta, ora ricordo
che fosti incinta di me come una madre,
mi curavi e cercavi, mi adottavi e viravi

la tua barchetta molle delle astuzie marine
verso un’isola dove restasti sola, drammatica,
a morire di sghembo, senza essere chiamata,
più da nessuno da quel giorno, dolcezza,
signora, amore, pietà, larghezza amata.
Restano tra i vivi gli olivi calabresi,

il filmino della casa, l’anno 2006, la mente andata,
e ogni nuovo volto è un dolore che affoga:
popolammo il motore della fine, quando
tutto cominciò, in un giorno di carta, ere fa,
nessuno ancora l’ha scritto o l’ha tradito,
perché a ogni fatica noi affondammo insieme.

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