«Il tema dell’addio. L’addio è una piccola morte. Ogni addio ci avvicina alla morte, si lascia dietro la vita e ci accorcia la vita che ci sta davanti. Forse il senso della vita è una sommatoria di addii. E forse il senso ultimo dell’esistenza è un grande, lungo, interminabile addio».
Sabino Caronia
Adieu
Altera ti ricordo, altera e bella
passare, così passano le stelle.
Sì, ti ricordo, lo ricordo ancora
quel tuo strano, dolcissimo sorriso.
Ma a che serve un ricordo, a cosa giova
la lontana memoria di un sorriso?
Anche i ricordi non sono che mani
che non si toccano, e ogni cosa muore.
a Luca Canali
E se pure di noi resta qualcosa,
oltre un nome ed un’ombra senza peso,
tu Catullo, dottissimo poeta,
d’edera cinto il giovinetto crine,
nella valle d’Eliso sorridente
vienigli incontro e tendigli la mano.
Gabriella Sica
2
Non altro che il tuo lento sparire
alla mia mente, polvere d’amore
al volgere pacificato delle stagioni
come verso l’Ade scivola il tempo
e al prato degli asfodeli quieti
al soffrire dei morti per la morte.
3
Separarsi è l’aprirsi di una crepa
nel terribile sentiero dei morti
è lo spirito che sporca i bei giorni
e rompe come ascia il cielo vasto
è spiluccare i dolci chicchi rubini
dischiusi nel lungo solco nero.
aprile 2004
Da Le lacrime delle cose (2009)
Paolo Polvani
Assaggiare il vuoto
Accade che un giorno spalanchi la finestra e senza
consultare l’orizzonte, decidi
di assaggiare il vuoto, di sperimentare
le conseguenze delle leggi gravitazionali.
E io che cosa avrei dovuto più inventare, non basta
saper sorridere, ascoltare non è una condizione sufficiente.
Ci sono congiunture e adesso la cosa mi appare nella sua evidenza.
Spalancare la finestra e dire sì al vuoto, alla sua bocca aperta,
alla fame di te che manifesta. Erano già in riserva le lacrime
e il muro bianco d’ospedale esaurita ogni possibilità.
La bellezza non è un lasciapassare. Volevi essere accolta
hai scelto il vuoto di un cortile, lo spazio
bianco di un lenzuolo.
.
A Pino che se ne va
Così sei morto. Sul pavimento il cacciavite
aspetta le tue mani sporche di grasso e i colpi di tosse
del motore.
E’ nella stanza accanto, dice qualcuno.
Se fosse vero ci daresti un segno: una pinza
che cade, uno sportello che si chiude, una valvola
col minimo rotolio che l’accompagna.
Un colpo sulla scocca.
Ma tu sei morto e tutti ti voltano le spalle, anche i tuoi figli
non ti riconoscono, non riconoscono il tuo silenzio.
Tu continui a guardarli rigirando un sorriso
stranito tra le mani, impacciato
davanti a tanta incomprensione.
La vita ti ha condotto fin qui e adesso
non sta bene che continuiamo a parlarti
sei sceso senza domandare
sei sceso con la faccia buona
quasi chiedendo scusa
e non c’è niente da ridere
niente da ridere.
Lidia Are Caverni
Avresti voluto un bacile per detergere
mani dopo l’abbandono si era consumato
il sacrificio del sole la spada tratta che toglie
via la luce del giorno aprendosi alla sera
al fresco bagliore che confonde voli il lieto
sconfinare della finestra dove non penetri
ombra proveniente dai sogni dall’esalazione
incerta di notti chine per i miei respiri
lo snodarsi lento delle attese a dipanare
gli intrighi dei capelli meduse ormai relitte
sulle spiagge di mari dove i corpi si confondono
persi di ebbrezza.
*
Per non smarrire il pezzetto di cielo
vuoto ormai di voli andranno presto
altrove i rondoni nella continua ricerca
nel mirto ti confondi nascosto nell’ultimo
fiore il cuore si stringe che non vedi
gabbiano altero che cacci pulcini fra
le tegole del tetto come fossi aquila
roteante sulle cime che tutte attendono
a sovrastare il mare il guizzare lieto
dei pesci nei fondali trasparenti dove
le ghiaie si consumano per non tacere
le parole masticate a metà già colorate
d’ombra dove non mi trovi.
(inediti, da Brividi di tempo 2007)
Marzia Spinelli
Come addii
Non hanno fine le parole degli addii,
le vorremmo perfette come sembravano le cose.
Parlavano ai giorni,
sapendo quanto imperfetto l’avvenire.
Parlano ancora
sciupate in un via vai frenetico,
teso l’orecchio all’oblio.
(da Fare e disfare, LietoColle ed. 2009)
Cristina Sparagana
La vita
a Pepa
Sentiremo latrati, caldi, vivi,
come un suono di bomba appena esplosa,
come l’arida miccia della luna,
come un’auto ambulanza, come un fiore
trascinato al corallo, la deriva
delle braccia conserte, i piedi uniti.
Sarà un suono di vita, sarà un suono
come quando si sogna d’esser morti
per destarsi a un crepuscolo di cose,
e indietreggiano i volti, e il buio spala
un solaio per loro, un grande vuoto
ove unire soprabiti e respiri.
Sentiremo latrati come l’oro
di una piccola tromba, come il grido
d’un gabbiano sospeso sulla vela
di una nave che affonda, e andremo,
andremo
a cercarli tra pascoli di seta,
un paniere sul fianco, un braccio in aria.
Tu verrai nel silenzio, o breve posa
della terra e degli argini, regalo
sotto un verde d’abete, corsa lieve.
E il silenzio sarà la partitura
di una musica fradicia, una mano
che attraversa la guancia come un bosco
dove piangono larici di pietra.
Tu,
mia tenera orchestra d’ossa scese
al midollo spaurito, alle campane,
sarai come la notte, notte china,
tracimata, sospinta, lacerata
da un ronzare di stelle, dal pesare
della canapa e il balzo, sarai viva
ma soltanto finché l’umida tibia
non recida la linea d’oltremare.
Sentiremo latrati, oh, quanti, amari,
uno appeso a un ciliegio, uno al franare
di una clinica chiusa, uno alla brina
sul guardiano dei treni, uno alla diga
ove viene a bagnarsi, grano a grano,
il rosario piegato sui polmoni.
Il tuo sonno sarà così lontano
che la lepre nutrita di lichene
avrà modo di urlare sul traguardo
come mai lepre ha urlato sino ad ora.
Io sarò quel traguardo, sarò solo
una curvarsi di tiglio, il laccio scuro
di una scarpa smarrita, una bandiera
ove stinge la nebbia delle ali.
Oh, mio dolce, mio nero, mio gentile
quadrilatero bianco, oh, mio soffiare
nella bocca bruciata di un vagone.
A fra poco vedremo lungo il muro
un viavai di feroci ombre cinesi
agitarsi sul tenue capezzale.
Premeremo le punte delle dita
sul lenzuolo gualcito e tu, da sola,
t’alzerai, con indosso la figura
che più freme e più trema, tu, garbata,
rientrerai nella calce, tu,
mia sola.
Stelvio Di Spigno
Congedo vitale
Aspettavo che il sole mi ghermisse
coi suoi raggi nell’umano splendore,
e che il dono del cuore disfacesse
le catene che legano al tormento
di non sapere amare.
Tra le creature al mondo,
una legge d’amore,
che sciogliesse come l’arnia il suo miele,
la roccia d’uomo che credette eterno
e santo ogni suo gesto.
E discendere un giorno alle segrete
del cuore moribondo,
e trovarvi la mano che innamora,
la silice che ridiventa sangue,
la mite virtù d’ore custodite
nell’ebbrezza dei fiati,
nelle mani che scambiano il morire
reciproco, con l’identica gioia.
Ma la festa ora sperde nei canali
i flussi d’allegria del giorno andato:
è svanito l’amore e me con esso.
Ed ora luminarie, cavi, scorie,
ricoprono il sentiero che portava
all’erta navicella del tuo cuore,
che sempre traghettando
verso me ogni tuo cenno,
ritrovava me stesso ad ogni approdo.
Tutti autori decisamente in gran forma nelle opere presentate. Su tutte, senza nulla togliere agli altri bravissimi autori, la poesia di Marzia Spinelli, concisa, tagliente, tutta giocata sul filo dell’emotività: difficile non cadere nel banale, eppure qui di banale non ce n’è.