Gino Rago, Poesie da Lettere a Ewa Lipska, con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa: la tua è una «poesia-polittico»; la grande elegia è diventata impercorribile – Dopo il Moderno

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portiamo in giro il nostro passato/ in una busta di plastica del supermercato

Gino Rago nato a Montegiordano (CS) il 2. 2. 1950, residente a Trebisacce (CS) dove, per più di trenta anni è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, ove si è laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005). È presente nelle antologie curate da Giorgio Linguaglossa Il Rumore delle parole, (2014) e Come è finita la guerra di Troia non ricordo (2016) Roma.

Caro Gino Rago,

la tua è una «poesia-polittico», hai inventato di sana pianta un nuovo genere della poesia del Dopo il Moderno. La tua «poesia-polittico» è simile ad un affresco rinascimentale dove ci sono molte e disparate cose qua e là: nelle bandelle ci sono i committenti (i poeti interlocutori), delle dame che accompagnano il trionfo di Venere e Adone, in un’altra bandella c’è una tomba nella neve con su scritto un nome: Herr Cogito, c’è del «Liquido reagente» che non si sa a cosa debba reagire; c’è un personaggio inventato da Ewa Lipska: la Signora Schubert, c’è una misteriosa «amica di Vienna», ci sono delle missive non giunte a destinazione, c’è uno scambio di vedute tra interlocutori distanti migliaia di chilometri  in un mondo ad una unica dimensione (sovranista, mediatico e populista), etc. In questo mondo globale ad unica dimensione, tu riadotti il genere della missiva per fare un monologo globale a 360 gradi, la tua poesia riprende a fare dei grandi affreschi con del ready-made, con stralci-stracci di lettere immaginarie, mai inviate e di poesie nostre e altrui, con gli stracci del nostro mondo…

«portiamo in giro il nostro passato/ in una busta di plastica del supermercato»

In un certo senso sei andato molto oltre la grande elegia del passato recente che ha in Brodskij il suo grande poeta irripetibile, ma con lui e dopo di lui l’elegia è diventata impercorribile perché una elegia per fiorire ha bisogno di una «casa»,  di una Heimat, di un «esilio», di una nostalgia… noi oggi  non abbiamo più una «casa» dove sostare e non possiamo avere neanche la nobiltà di un «esilio», e allora non rimane che la «poesia cartografia», la «poesia-polittico», la poesia che sfonda e sfocia nel futuro e nel passato ma senza alcun rammarico, come su una slitta, senza nostalgia, senza elegia, e, direi, anche senza un presente… Nella tua poesia c’è tutto: il passato, il futuro, ma, incredibile, non c’è il presente, sintomo evidente di una anomalia del nostro mondo… E se non c’è un presente non ci può essere neanche una casa del presente… non possiamo neanche uscire da una casa perché non abbiamo più una casa, una Heimat, non possiamo neanche intraprendere un viaggio, perché dove potremmo andare se siamo rimasti senza una casa alla quale ritornare? Appunto: in nessun luogo. E qui sembrerebbe che la vicenda metafisica dell’homo sapiens e della metafisica occidentale sia arrivata a compimento…

Le parole dei poeti diventano sempre più «deboli», la significazione poetica diventa «debole», le parole si sono raffreddate e indebolite… ci sono in giro delle notizie, delle percezioni circa questo ondeggiante indebolimento delle parole; anche i colori dell’odierno design (vedi il design di Lucio Mayoor Tosi) sembrano attecchiti dal medesimo indebolimento, diventano meno intensi, meno traumatici, si sbiadiscono, assumono lateralità, sembrano quasi perdere sostanza, sembrano attinti da una forza nientificante e nullificante. Non ci sono più oggi, e sarebbe impensabile, i colori formattati alla maniera della avanguardia pop degli anni Sessanta; sono lontanissimi i tempi dei colori squillanti e piatti di Andy Warhol e Roy Lichtenstein, oggi i colori dell’odierno design sono freddi e slontananti, deboli e gracili. Oggi ci muoviamo in un universo simbolico fitto di indebolimento e di cancellazione della memoria, sembra quasi impossibile riprendere il bandolo di una parola pesante, sembra uno sforzo titanico, una inutile fatica di Sisifo. Eppure, è soltanto in questa dimensione amniotica che la poesia di oggi può muoversi, non c’è altra strada che inoltrarsi in questo universo di parole slontananti, in via di indebolimento.

Oggi sarebbe impossibile scrivere una poesia come Le ceneri di Gramsci (1957) di Pasolini o come La Beltà (1968) di Zanzotto perché entrambe quelle opere presupponevano una «casa», una Heimat… oggi noi non abbiamo altro linguaggio che questo della tua lingua di ruggine di ferro, quello di Mario Gabriele fatto di frantumi di specchi di altri linguaggi, oggi abbiamo un linguaggio fatto di frantumi di specchi… ed è con questo linguaggio che dobbiamo fare i conti, chi non l’ha capito continua a fare la poesia del post-minimalismo, della retorizzazione del corpo, del privatismo… l’aveva capito bene Helle Busacca quando dà alle stampe I quanti del suicidio (1972) con quel suo linguaggio da spazzatura, vile e sordido, volutamente a-poetico o Maria Rosaria Madonna quando scrive in quel suo linguaggio di frantumi di specchi che è il neolatino di Stige (1992)  libro ripubblicato con le poesie inedite: Stige. Tutte le poesie (1990-2002) da Progetto Cultura (2018) che raccomando a tutti di leggere, uno dei capolavori della poesia del novecento italiano.

Adesso, finalmente, la poesia italiana ha ripreso a pensare in grande, a tracciare il cardo e il decumano di una «poesia polittico» che abbraccia il pensato e l’impensato, il dicibile e l’indicibile, il possibile e l’impossibile.

Per altezza di impegno edittale la tua poesia mi fa pensare a libri come Lettere alla Signora Schubert di Ewa Lipska e al ciclo di poesie de Il Signor Cogito di Zbigniew Herbert, tu ritorni al punto della vexata quaestio: il problema del nome e della cosa e se la poesia debba nominare la cosa o no, se il discorso nominante ha ancora senso o no, se il discorso nominante sia parola del destino o no: «E questo nome ora è il mio destino». La lingua diventa istanza di verità solo con la coscienza della non identità dell’espressione con il denotato, solo se la lingua accetta l’assunto secondo il quale nell’espressione nome e cosa si diversificano, tendono ad allontanarsi.

(Giorgio Linguaglossa)

gif donna in corridoio

non posso più indirizzare le mie lettere alla Signora Schubert,
un’amica di Vienna mi ha informato del suo decesso

Prima Lettera a Ewa Lipska

[Il liquido reagente]

Cara Signora Ewa Lipska,
( p.c. caro Signor Giorgio Linguaglossa )

[non posso più indirizzare le mie lettere alla Signora Schubert,
un’amica di Vienna mi ha informato del suo decesso.
La signora Schubert è morta all’improvviso. Povera e sola.
Non più di cinque persone al suo funerale,
senza pianti né fiori.]

[…]
[La mia amica di Vienna mi ha consolato.
Non più di cinque persone al funerale della Signora Schubert,
ma la Bahnhofstrasse si fermò al passaggio del carro senza fiori.
Nessuno ha bevuto vin brûlé o cioccolata calda.
La Signora Ewa Lipska gode di ottima salute.
Scrive poesie come impronte digitali e sintetiche

come fuochi d’artificio.
Con poche amiche passeggia intorno al lago artificiale.
Parla della vita, del caso, del destino]

Lei da poeta sa che i nostri versi sono cani randagi,
ululano alla poesia come i lupi alla luna.
[…]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

Lei dice che possediamo il Liquido Reagente.
Ma chi davvero svela all’Occidente l’enigma dell’Occidente?
E il messaggio di aiuto nella bottiglia?
Lei parla con saggezza del Prodotto Interno della Felicità
del fatturato della Felicità in vigore nel Butan.
Forse nel Butan era un sogno
e il rompicapo di misurare il PIF non finiva con la luna piena.
Anche Lei conosce le cene cifrate, i segreti delle scarpe
che si toccano sotto il tavolo.
Lei sa meglio d’altri
che il motore della sofferenza dei poeti gracchia sempre
nello  stesso istante del mondo
[questo mondo Lei e io lo chiamiamo “Rebus”
perché se ne infischia delle nostre domande].

Seconda Lettera a Ewa Lipska

[Il passato]

Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Linguaglossa)

portiamo in giro il nostro passato
in una busta di plastica del supermercato.
Nessuno saprà che un tempo fummo nella fabbrica dell’amore.
I testimoni che possono affermarlo sono tutti morti.
E Lei da poeta lo sa
che i morti  ai processi dei vivi
si avvalgono sempre della facoltà di non rispondere.
Il nostro amico di Cracovia si spoglia in un pied-à-terre
con la sua donna.
Aprono insieme una bottiglia di Coca-Cola,
si guardano negli occhi.
Si abbracciano come due sconosciuti sull’abisso.
[…]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

oggi Vienna fa scintille alla Paradeplatz.
Il tram all’improvviso ferma la sua corsa,
dal Belvedere arrivano gli strilli di Kokoschka
[litiga con Schiele per  «ll Bacio» di Klimt].
L’aria d’autunno si guasta,
ma un miliardesimo di miliardesimo della grandezza di un atomo
è già luce-vita dello sperma siderale […]

Gif scale e donna

Per questo forse uscendo dalla cripta della Signora Schubert
ho udito da lontano la Marcia di Radetzky

Terza Lettera a Ewa Lipska

[La clinica della folla]

Cara Signora Ewa Lipska
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

Lei si chiederà perché Le scrivo da Vienna.
Le invio le mie lettere dal centro dell’Impero d’Austria-Ungheria
per la Signora Schubert che Lei mi ha fatto amare.
Ho voluto raccogliere i segni della sua vita
nei luoghi forse a lei cari. Stefansplatz. I giardini Schönbrunner.
La ruota di lontano della Wiener Riesenrad.
[…]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signora Giorgio Linguaglossa)

Il mio amico-poeta di Roma ha scritto in un altro verso:
«La cicatrice chiamata Terra è un immenso campo santo di lapidi.»
Per questo la mia amica di Vienna mi ha detto di cercare la Signora Schubert
nella Cripta dei Cappuccini?
Ho deposto un mazzo di tulipani.
Era troppo freddo il giorno per le rose.
[…]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

Ogni Suo verso è una impronta digitale.
Io sono il lettore delle Sue impronte.
Per questo forse uscendo dalla cripta della Signora Schubert
ho udito da lontano la Marcia di Radetzky
dalle finestre aperte della Villa dei Von Trotta
[forse inciampo anch’io nella cava degli intrecci delle date,
con la mia amica di Vienna entro nella clinica della folla].

Quarta Lettera a Ewa Lipska

[La cicatrice]

Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa),

A chi confidare se non a Lei
che la flanella dell’infanzia era morbida
perché il Tempo assoluto di Newton non ci disturbava?
In sogno Lei mi ha detto:
«La Poesia è l’eco che si ascolta quando la vita è muta».
[…]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

Da quel Suo sibilo caduto nel mio dormiveglia
è Lei per me ogni notte quell’eco.
Il mio amico-poeta di Roma in un verso ha scritto:
«La notte è la tomba di Dio e il giorno la cicatrice del dolore»
[…]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

La cicatrice del dolore nel verso del mio amico
è la stessa di quella che Lei vede nel Suo specchio?
«Quale specchio?» [ Lei giustamente chiede]
«Lo specchio dove il tempo di Newton s’incrina
e su cui Greta Garbo assomiglia a Socrate…»
[…]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

Non importa se Lei non mi dà la risposta,
importante è che io mi ponga la domanda

[i versi mai discendono dall’alto,
giungono ai poeti  per limiti e cadute].

Gif-cool-occhiali

Quinta lettera a Ewa Lipska

[Il Dopo]

Cara signora Ewa Lipska
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

dove andremo ad abitare ‘Dopo’?
Dopo. Cioè là dove prima c’era una fabbrica
che produceva la vita d’oltretomba,
inquinava le menti, avvelenava il mondo.
Ha riconosciuto la mia scrittura?
Sì. Sono io. Sono io l’artefice di tutte le lettere.
Non si chiede più dove andremo ad abitare ‘Dopo’?
Senza timori vada
al Quartier Generale dell’Aldilà.
Al numero civico 777, piano terzo, scala D,
attigua alla abitazione di Dio.
Al Quartier Generale tutti e tutte lo sanno,
il ‘Dopo’ è tra ciò che non abbiamo fatto
e ciò che non faremo più.

[…]

Cara signora Ewa Lipska
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

al Quartier Generale dell’Aldilà ben sanno
che l’onda d’urto dell’Oscurità
assale i poeti alla stessa ora del mondo.
[…]
Cara Signora Ewa Lipska
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

la vita è un negozio di ferramenta.
E Dio è un meccanico supino
che stringe i lenti bulloni del mondo.
Al Quartier Generale dell’Aldilà
l’acqua si beve in bicchieri di plastica.
E non si fa poesia coi tacchi a spillo.
[Un caicco taglia il blu della laguna. Il cielo è fermo,
non interessano più a nessuno
i moti dell’alta e della bassa marea].
[…]
Cara Signora Ewa Lipska
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

Lei chiede all’Occidente: «E l’utopia…?»
È il foulard che il mio amico-poeta di Roma
si avvolge intorno al collo quando parla di poesia.

Sesta Lettera a Ewa Lipska

[Il Destino]

Cara Signora Ewa Lipska
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)
Lei pensa al destino e si chiede:
«Perché soltanto adesso e non prima?
Perché proprio dopo la svolta a destra
e non dopo la svolta a sinistra?
Perché deve o perché non deve?»
[…]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

non incalzi il destino,
non lo inciti , non lo alletti, non lo invogli.
«Perché ?», Lei mi chiede, «Mi dica perché…».
«Perché il destino è un proprietario terriero.
Accumula beni e amore, fuoco e morti senza distinzione,
e non conti sul fatto che prima o poi il destino
andrà fuori corso, il destino è un cambiavalute,
in un modo o nell’altro, si accomoderà al nuovo corso.
[…]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

anche Antipatro di Sidone disse:
«Il destino non diventerà mai moneta inutile,
non perderà mai, vincerà ogni sconfitta».
«Perché? Mi dica perché…»
[Lei giustamente insiste]
«Perché,
[ed è così per Lei, per me, per Giorgio Linguaglossa]
il destino accosta sempre all’orecchio le domande per il futuro».

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la nostra comune amica di Vienna mi parla spesso di Lei

Settima Lettera a Ewa Lipska

[Le Città, Il Tempo]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

la nostra comune amica di Vienna mi parla spesso di Lei.
Mi dice che Lei, Signora Lipska, non sta affatto bene.
Mi perdoni se La affatico ma ho bisogno di scriverLe
[come pochi Lei conosce il fluire del tempo che distrugge
i moti dell’animo umano].
Con Lei potrei parlare delle ostilità dell’esistenza,
degli enigmi della vita, dei suoi labirinti
[per esempio, alla fiera degli stracci un rabbino parla di Lilith.
E tanti intorno fanno finta di credergli.
Una suora più in là vende calendari di frate Indovino].
[…]
Cara Signora Ewa Lipska,
(p.c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)

ieri ho fermato quell’uomo che mi tormenta.
Passa da qui ogni mercoledì
[mi fissa negli occhi e prosegue]:«Chi sei? Cosa porti nella borsa?»
«Sono un poeta. Nella borsa porto il mio destino
per indirizzi ignoti, letti d’alberghi, strade spaventate.
Anch’io avevo un nome ma non lo ricordo più,
il destino ha lasciato quel nome sull’acqua del fiume.
Nei caffè di Varsavia ora tutti mi chiamano
“il-poeta-santo-bevitore”.
E questo nome ora è il mio destino».
[…]
Cara  Signora Ewa Lipska,
(p..c. Caro Signor Giorgio Linguaglossa)
se non a Lei a chi potrei dire
che le città che lasciammo ci inseguono?

Prima Lettera da Cracovia di Jolanda W.
[il dio dei nani e dei poeti]

Caro Signor G.R.,

Sono Jolanda W., l’amica di Cracovia della Signora Lipska.
Curo le sue carte quando Ewa è assente,
è sempre in giro. La chiamano dappertutto.
Va e viene dalle Capitali di Europa
[conferenze, letture di poesie, presentazioni di libri].
Prima di lasciare di nuovo Cracovia
per un altro giro di incontri con critici, accademici, poeti
ha lasciato per Lei questo appunto:
«Bisogna far sapere al Suo amico-poeta di Roma
che i protagonisti dei romanzi spesso si ribellano agli autori,
seguono altre vie, accettano altri destini.
Così è stato anche per la protagonista del suo racconto.
Il Suo amico-poeta di Roma ha scritto in una lettera alla Signora Schubert
[l’ ho ricevuta da Vienna]:
“[…]oggi lei non rimpiange nulla, perché nulla è reale,
ha amato Herr Cogito quando amare era diventato problematico,
lui non aveva avuto il tempo per ricambiare il suo amore
e così teneva la sua foto nella tasca interna della giacca,
ogni tanto la tirava fuori per ammirare
i suoi riccioli biondi, mentre viaggiava con la valigetta diplomatica.”
[…]
“poi anche quella guerra finì come finiscono tutte le guerre,
i soldati ritornarono alle loro case
e ritornò anche Cogito…”
»

[…]
Caro Signor G. R.,

tornando presto in Italia lo dica come un bisbiglio
al Suo amico-poeta di Roma.
La protagonista del suo romanzo si è ribellata all’autore.
Herr Cogito giace sulla riva del Don sotto una betulla.”
[…]
In calce all’appunto della Signora Lipska:
«Il Dio dei poeti è come il Dio dei nani.
Gli stanno accanto le cose d’ogni giorno.
Dota il popolo dei nani e dei poeti di felicità piccole.
Nelle loro case di grande c’è soltanto il tavolo di famiglia»

Gif gemelli

la Signora Lipska non è a tutt’oggi presente a Cracovia/ [ha l’ossessione dei refusi. Li considera come virus

Seconda Lettera da Cracovia di Jolanda W.

[le domande]

Caro Signor G.R.,
Sono Jolanda W. Le scrivo ancora io,
la Signora Lipska non è a tutt’oggi presente a Cracovia
[ha l’ossessione dei refusi. Li considera come virus.
Attraversano le pagine scritte, attaccano le parole,
ne contagiano il senso].
Da quando ha conosciuto quella donna che pensava di essere una data
Ewa non è più quella di prima.
[…]
Qui è giunta l’eco delle invettive del Suo amico-poeta [di Roma]
contro quelli che ancora non sanno che la paura può perdere l’udito,
che il Tempo si può distrarre, che l’incendio è esperto di termochimica,
che gli indirizzi delle città che lasciammo possono inseguirci.
E che ogni guerra si può desiderare dalla testa ai piedi.
[…]
Le invettive del Suo amico-poeta [di Roma] sono desiderio di parole
di carne-ossa-cervello-apparato respiratorio-cuore.
Sono ansia di parole vive
[chi dei poeti ricorda la pupilla che Venezia dilata
sul blu-di-Prussia della laguna, le offese del bianco sul nero a Manhattan,
le voci dei cesari nei gorghi del fiume?]
[…]
Caro Signor G. R.,

parlerò di Lei e del Suo amico-poeta [di Roma] alla Signora Lipska
[ora Ewa  porta in giro la sua vita in un baule]
e non smetta mai di chiedersi:
«Chi erediterà questo mondo?»

 

 

21 commenti

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21 risposte a “Gino Rago, Poesie da Lettere a Ewa Lipska, con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa: la tua è una «poesia-polittico»; la grande elegia è diventata impercorribile – Dopo il Moderno

  1. gabriella cinti

    Elegia antilirica dell’irreale, cosmologia della microstoria, in cui brilla l’ultima fiaccola di consistenza ontologica nella generale deiezione. La vita passa il testimone alla parola, che la scardina e ne immortala un diverso, cubista ordito. Il cielo della Poesia, tre metri dentro Berlino o Vienna che sia…

  2. A proposito del «frammento» in poesia e della spaziatura tra le strofe la questione era stata messa a punto da Jurij Tynianov più di un secolo fa.
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/06/07/gino-rago-poesie-da-lettere-a-ewa-lipska-con-una-ermeneutica-di-giorgio-linguaglossa-la-tua-e-una-poesia-polittico-la-grande-elegia-e-diventata-impercorribile-dopo-il-moderno/comment-page-1/#comment-35529
    Il «frammento» coinvolge il problema della «pausa» insieme a quello del «frammento», nonché il problema degli «equivalenti», degli isoritmi, cioè di quelle proposizioni di equivalente lunghezza timbrica e fonica. Gli «equivalenti» nella poesia moderna sono stati usati da tutti i poeti, non è un segreto per nessuno, ma è utile capire come e in quale modo gli «equivalenti» possono essere impiegati, cioè dis-locati all’interno di ogni singola proposizione. A rigore, ogni verso proposizionale è un «equivalente» di qualcos’altro, sta accanto e/o contro qualcos’altro. Nella poesia di Tranströmer ogni proposizione è un «equivalente» separato dall’altro e in attrito simbolico e iconico prima che semantico.

    In Tomas Tranströmer
    la semantica va in secondo piano. È lo slittamento semasiologico simbolico che assume un ruolo assolutamente preponderante. Chi non comprende questo punto non può fare, a mio avviso, poesia moderna. Farà ovviamente della rispettabilissima letteratura.

    Riprendo una riflessione da Jurij Tynjanov:

    «La pausa è un elemento omogeneo del discorso, in cui occupa solo un posto che è suo, mentre l’equivalente è un elemento eterogeneo, che si differenzia per le sue stesse funzioni dagli elementi in cui viene introdotto. Questo spiega la non coincidenza dei fattori di equivalenza con l’impostazione acustica del verso:

    l’equivalente non ha espressione acustica; acusticamente si esprime solo la pausa. In qualsiasi modo siano pronunciati i frammenti attigui, qualsiasi pausa venga a sottolineare lo spazio vuoto, il frammento resta appunto frammento: ma la pausa non ha significato di strofa, resta pur sempre una pausa che non occupa nessun posto altrui, a parte il fatto che essa non ha il potere di esprimere la quantità dei periodi metrici e dunque nemmeno il ruolo costruttivo di equivalente».1]

    Grammont
    nel suo trattato sul verso francese, per esempio, «dichiara illegittimi, erronei, tutti i casi di ritmo non motivato. Perciò egli considera, per esempio, errore tutto il vers libre moderno, in quanto le variazioni dei gruppi ritmici non coincidono in esso con altrettante variazioni semantiche.

    In base ad una siffatta impostazione del problema è naturale che il ritmo poetico venga già in partenza investito di funzioni che gli sono proprie solo su un piano comune di discorso (emozionalità e comunicatività)».2]

    È ovvio che Grammont non rileva l’espressività del ritmo in se stesso, ma intende il ritmo in quanto giustificato semanticamente. Se Grammont leggesse una poesia di Tranströmer, non c’è dubbio che la liquiderebbe con l’annotazione di: «errata corrige». Sfugge a Grammont il fatto che l’equivalente spezza l’automatismo del metro. Questo è un punto decisivo per la poesia moderna del Dopo Grammont, direi; cioè il fatto di comprendere che la poesia contemporanea è da tempo indirizzata a rompere le equivalenze metriche e a dissolverle in una nuvola gassosa di «frammenti» in stato di agitazione.

    Si tenga presente l’interessante annotazione di Tynjanov
    a proposito di una strofa di Puskin: «L’incompiutezza diventa in questo caso un fatto estetico», e commenta: «ancora più evidente appare qui l’insufficienza di una spiegazione acustica degli equivalenti». In una parola, fare una poesia di «frammenti» è cosa alquanto diversa dal fare una poesia «frammentaria», come da più parti mi si è rimproverato da chi non capiva il mio discorso.
    Qui, mi sembra stia un punto decisivo per comprendere la migliore poesia moderna.

    Sempre da Tynjanov: «la dinamica della forma è una continua trasgressione dell’automatismo, un continuo porre in risalto il fattore costruttivo, con la conseguente deformazione dei fattori subordinati.
    L’antinomicità della forma risiede, in questo caso, nella continuità stessa della sua interazione (ossia della lotta) con l’uniformità dello svolgimento che ne autorizza la forza. Perciò il cambiamento del rapporto fra il fattore costruttivo e gli altri fattori è una delle esigenze imprescindibili di una
    forma dinamica. Sotto tale aspetto la forma è un continuo montaggio di equivalenti diversi che incrementa il dinamismo dell’insieme».3
    Un altro degli spunti di Tynjanov che mi sentirei di sottoscrivere in pieno è il seguente:

    «Sul significato dinamico degli equivalenti può essere basato in parte il significato artistico del “frammento” come genere».
    È ammirevole la lucidità e l’acutezza di questa osservazione: qui il critico russo definisce il «frammento» come genere», anticipando di cento anni circa le nostre conclusioni sulle funzioni del «frammento» nell’ambito della poesia moderna.

    Ed ecco il passo decisivo con il quale il critico formalista liquida la questione del «metro»:

    «Il metro, come sistema regolatore di accenti, può anche non esservi: esso trova infatti fondamento non tanto nella presenza del sistema quanto piuttosto in quella del suo principio. Il principio del metro consiste nel raggruppamento dinamico del materiale del discorso in base agli accenti. E dunque la cosa più semplice e fondamentale sarà la designazione di un qualsiasi gruppo metrico come unità; questa designazione è nel tempo stesso anche l’anticipazione dinamica di un gruppo seguente e analogo (non identico, ma precisamente analogo); se l’anticipazione metrica arriva a compimento, ecco che abbiamo un sistema metrico; il raggruppamento metrico passa attraverso:

    1) l’anticipazione dinamica della successione metrica e,
    2) la resoluzione metrica dinamico-simultanea, che unifica le unità metriche in gruppi superiori o interi metrici.

    La prima costituirà evidentemente un elemento di propulsione progressivo del raggruppamento, mentre la seconda agirà in senso regressivo. anticipazione e resoluzione (e insieme ad esse anche unificazione) possono andare in profondità dividendo le unità in parti (cesure, piedi); oppure possono operare anche su gruppi d’ordine superiore e portare al riconoscimento della forma metrica (il sonetto, il rondò, ecc., in quanto forme metriche). Questa caratteristica ritmica progressivo-regressiva del metro è una delle cause per cui esso è una delle componenti principali del ritmo […] un verso siffatto sarà metricamente libero, vers libre, vers irreguliers: il metro come sistema viene sostituito dal metro come principio dinamico, come orientamento sul metro, come equivalente del metro».4]

    Dirò di più: il «metro», inteso come unità di misura di rapporti stabili di durata che uniscono fra loro suoni di varia provenienza e in gruppi diversi, il «metro» inteso come il prodotto di una «durata», e quindi con un concetto di rigidità di tali rapporti, non esiste più da tempo. Non è da confondere con il concetto di «dinamica» inteso dalla poesia di un Tranströmer, cioè non più semplicemente come una serie di suoni in un dato tempo, ma come un campo di forze in continuo movimento e in perenne instabilità suscettibile di perdite di equilibrio e di dis-continuità. In questo contesto di pensiero la «pausa» morta del metro rigido tradizionale non c’è più e bisogna sostituirla con un nuovo concetto di «pausa dinamica» che si muove in «tempi differenti» e in «spazi differenti». La «pausa» cessa così di essere un tempo irrazionale vuoto utilizzata in funzione separatoria di proposizioni eufoniche, e diventa un elemento attivo che entra all’interno delle determinazioni frastiche dinamiche. Non si hanno più nella poesia moderna gruppi fonici ma «campi fonici in perpetuo cinetismo». In questo nuovo contesto di pensiero, mi rendo conto che ci stiamo avviando verso un tipo di poesia che non conoscevamo e che non abbiamo ancora conosciuto.

    E riporto una annotazione geniale di Tynjanov a pag. 35 del medesimo libro:
    «il metro, come regolare sistema di accenti, può anche non esservi».
    È agevole capire da questi pochi accenni come qui stia sorgendo un nuovo modo di concepire e scrivere poesia.

    1 J. Tynjanov, Saggi di arte e letteratura, Il Saggiatore, Torino, 1968, pp. 29, 30.
    2 Ibidem, p. 57.
    3 Ibidem, p. 32, 33.
    4 Ibidem, p. 36.

  3. gino rago

    Ringrazio vivamente Gabriella Cinti per il suo commento.

    Da questi due versi di “Ars poetica? “di Czeslaw Milosz ho ricevuto le prime spinte verso un modo ‘altro’ di fare poesia [poi, i dibattiti condotti da L’Ombra delle Parole da almeno 3/4 anni a questa parte hanno, giorno dopo giorno, cominciato a fare il resto, verso i tentativi di approdo alla NOE]:

    ‘Sempre ho desiderato una forma più capiente,
    che non fosse né troppo poesia né troppo prosa’

    Czesław Miłosz, Poesie, Milano, Adelphi, 1983, p. 118 [traduzione di Pietro Marchesani]

    GR

  4. Giuseppe Talia

    Con questa silloge di lettere mai spedite, Rago si colloca nella triade NOE del frammentismo, dopo Linguaglossa e Mario M. Gabriele. Rago ha trovato un sentiero parallelo alla strada maestra, con una propria destinazione. Un po’ appesantiscono tutte quelle e p.c. a Linguaglossa, ma la trovata geniale di indirizzare lettere-poesie che mai saranno ricevute dal destinatario è una novità che ha comunque dei precedenti: lettere mai spedite di un soldato romano, per esempio.
    Vi sono versi che attestano un presente recentissimo: “poesie come impronte digitali”, “laghi artificiali” e altri che rimandano a un passato lontano come l’impero d’Austria, altri ancora proprietari di un futuro “ il destino è un cambiavalute”.
    Unica nota che personalmente mi disturba, personalmente dico, è quel continuo riferimento al Poeta: sempre personalmente penso che oramai sullla figura del poeta come di Dio si è già detto tutto.

    • caro Gino,
      l’intervento di Giuseppe Tallia è ineccepibile per gli appunti fatti emergere sui testi pubblicati. Accoglilo come consiglio di un buon padre di famiglia, senza alcuna disapprovazione. D’altronde ti ha promosso membro della NOE. Se rimetti mano a ciò che dice vedrai che le poesie risulteranno più scorrevoli. Credimi, quando Giorgio mi disse di intervenire sui distici per creare maggiori spazi, ho subito provveduto a creare tale effetto intervenendo su tutti gli inediti di Registro di Bordo.A volte certe cose, possono sfuggire ai nostri occhi. Bene, allora, per chi interviene e ci onora della sua presenza ausiliare.

  5. gino rago

    Per Giuseppe Talia e per Mario Gabriele,

    molto in me è cambiato nella idea di poesia, e di farla, o di tentare di farla, da quando ho letto e riletto, accostandola agli svariati inteventi di Giorgio Linguaglossa, e in particolare vostri, apparsi su L’Ombra delle Parole negli ultimi anni in direzione della NOE, questa chiosa di Alfonso Berardinelli su “Trattato poetico” [Adelphi] di Milosz:

    “[…]Contro una poetica che era sembrata dominante, ma che non esauriva certo le potenzialità dello stile moderno, Miłosz abolisce i confini tematici e linguistici della poesia[…]” E continua:
    […]Nella rappresentazione di un’intera epoca, Trattato poetico è un ossimoro, sovrappone e fonde due generi letterari distanti, disparati, facendo uscire la poesia dai suoi confini più convenzionali[…]”

    Ecco cari Giuseppe e Mario ciò verso cui tendiamo come NOE: fare uscire la poesia dai suoi confini più convenzionali lavorando sì sulla forma poesia ma soprattutto sul linguaggio poetico da sentire come strumento conoscitivo ed espressivo non meno efficace di quello della saggistica o della narrativa.

    Questa è la cifra che vorrei venisse colta nella mia recentissima esperienza poetica e che Giorgio Linguaglossa mostra d’avere individuato nella sua nota critica.

    Per il resto, i tuoi rilievi, caro Giuseppe Talia, sono accoglibili. Tant’è che la forma in cui sono state oggi pubblicate dal nostro Giorgio è quella di mesi addietro. Ed essendo un lavoro in divenire, già nelle altre 29 missive in prosa d’arte alla Signora EW sono intervenuto proprio sui punti, caro Giuseppe, che addirittura ti disturbano.

    Grazie Giuseppe, grazie Mario: la vostra lettura, educata ai valori della poesia, credetemi mi onora.

    Gino Rago

  6. gino rago

    [Caro Giuseppe Talia, caro Mario Gabriele,
    ecco una delle ‘nuove’ missive, che dovevo postare nel commento precedente, ma ho sbagliato nel copia-incolla]

    Gino Rago
    Dodicesima Lettera a Ewa Lipska
    [acque di parole minerali]

    Cara Signora Ewa Lipska,

    al Buffet della Signora Schubert
    l’uomo che qui chiamavano «il-poeta-della-rivoluzione-gentile»
    dice ancora alle mie spalle qualche verso.
    Ho saputo da una donna in fondo al «Blumenstraße»
    il perché di quel nome:
    «Quel poeta cambiava la poesia d’Austria senza proclami, senza manifesti.
    Cantava da solo i suoi versi e in cielo danzavano le stelle.
    Gli anziani col monocolo diventavano ballerini.
    Il clown macrocefalo smetteva di far ridere.
    Gli zingari lasciavano i loro accampamenti fra il bosco e la palude.
    I cacciatori smontavano le tende e prendevano i violini…»
    […]
    Andrò con la mia amica di Vienna
    a bere acque di parole minerali alle Terme dell’Impero
    [sotto il ritratto dell’Imperatore con l’Eroe di Solferino].

    GR

    • Ottimo testo. A me piace così. Bravo Gino! Sei più sintetico e meglio organizzato nella struttura.

      • Ottimi testi. Soprattutto l’ultimo,caro Gino. Per fortuna tutti dobbiamo imparare.Nessuno escluso…..

        • Giuseppe Talia

          Caro Gino, alcuni versi delle poesie di La Musa Last Minute sono stati scritti direttamente da Giorgio, ed io ho accolto in toto i sui suggerimenti, tanto che per alcuni componimenti si potrebbe benissimo dire che li abbiamo scritti a quattro mani. Nel qual caso Giorgio si è dimostrato ancor più penetrante di quanto io abbia mai osato fare.

          Mi verrebbe da dire che Dio esiste solo quando non viene nominato, così anche il Poeta.

          La dodicesima lettera mi piace di più.

  7. Voglio morire alunna.
    Ma non voglio morire zitta.

    Gentile Gino Rago, accetto con vero onore ciò che mi scrive invitandomi alla lettura del link del blog di oggi su L’Ombra delle parole, “Va da sé: Suo commento su Ombra sarebbe assai gradito…”.
    Perché, come lei sa, io non sono un critico letterario, non sono una studiosa della poesia, ma, volendo morire alunna, apprezzo molto lo sforzo che, a cominciare dal suo fondatore Giorgio Linguaglossa che stimo, viene fatto dagli abitanti del NOE nella loro interessante ricerca.
    Sono (non seguendo assolutamente il consiglio di Steven Grieco Rathgeb nel Blog Ombra 13/03/2017 che mi dice: – Quindi, ottimo, cara Luciana, prendi pure tutti i tuoi strumenti e gettali dalla finestra -.) solo un architetto-ginnasta che, a un certo punto della sua vita e delle sue scelte, decide di comunicare, riversare sul foglio ciò che le palpita dentro, non più contenibile. Come architetto si trova ad arredare lo spazio interiore con le parole; come ginnasta fa, sempre con lo scrivere, capriole e salti mortali che, bambina e adolescente, aveva imparato ad eseguire con il corpo.
    Il metodo non è poi così differente.
    Si dice che il lettore, soprattutto se attento, diventi coautore. Infatti non è infrequente, scorrendo con lo sguardo fra gli interstizi delle parole, che quel vuoto, in realtà importantissimo luogo del non detto, suggerisca il pieno che vi aggiunge chi legge, soprattutto se viene contaminato dallo scritto.
    Perché un “sé distante”, algido, terrà a distanza anche il lettore, non gli riuscirà di bagnarsi di immagini e suggestioni che deriva solo da intense emozioni e sensazioni che chi scrive, autenticamente, se le prova, riesce a trasmettere.
    Quante volte ci distraiamo dalla pagina, non per allontanarci bensì per inoltrarci con il nostro sé (parlo del sé non dell’IO, sempre ipertrofico e autoreferenziale, niente di simpatico!).
    Trovo molto bello quando questo avviene e con Lei mi è successo già due volte. Un piccolo raro miracolo nelle pagine del Blog. La prima ascoltando la sua significativa “Favola del Colibrì”; la seconda alla lettura della sua poesia “Testamento” che così commentavo: – Davvero bella! Grazie.
    Nell’ora notturna che invita alle confessioni, in tutta sincerità, anche perché io non riesco ad essere altrimenti, degli aderenti al NOE è una poesia che, finalmente, mi rimane addosso, della quale in me resterà memoria.
    Risulta chiaro: ho bisogno di vibrare, per scrivere. Ho bisogno di vibrare per sentirmi coinvolta, quando leggo. Questo il mio punto di vista, senza togliere nulla e rispettando chi ne abbia altri. Nessuno reca danno all’altro.
    E così ho letto TUTTO, fino all’ultima virgola, del suo ”Poemetto Lettere” con l’Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa.
    Ho trovato l’insieme molto interessante, ma, ahimè, questa volta non mi ha fatto vibrare.
    Ciò non toglie che molte sono state le riflessioni, di testa non di stomaco, sulle sue lettere, in prosa, su un piano irreale e surreale che fa di loro un piccolo mistero e suscita curiosità, e quindi, però, non sempre comprensibili.
    Sicuramente un mio limite, ma ciò che non si capisce non si può amare.
    “Frammenti”, tenuti distanti fra loro da un alternarsi di parentesi quadre – molto più autorevoli e rigide delle tonde, già la forma lo suggerisce – con puntini di sospensione all’interno. Un disegno matematico, ma quale?!?
    Spiega bene Giorgio Linguaglossa (mentre in altri punti l’ho trovato alquanto criptico e complesso) quando parla di POLITTICO. Nell’arte: elementi giustapposti, vari pannelli a volte incernierati. Nella letteratura: diverse parti relativamente autonome ma in qualche modo correlate.
    Molto cerebrale, impegnativo per il lettore. A meno che esso non abbia voglia di faticare, si rassegni a non elucubrare, si lasci dardeggiare, si abbandoni e… sia quel che sia! Colpirà, o scivolerà senza penetrare nella carne?
    Ecco stanotte La sento così.
    Luciana Vasile

    • Giuseppe Talia

      In Toscana si dice “avere il ruzzo”, non facile da tradurre in italiano: scherzare, capriccio, attaccare briga… ,boh dietro al ruzzo c’è un mondo, per cui, con ruzzo dico, non capisco questa affermazione di Luciana Vasile: “Perché, come lei sa, io non sono un critico letterario, non sono una studiosa della poesia”.

  8. Un Appunto sul concetto di «tempo» e di «frammento» nella «nuova ontologia estetica»
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/06/07/gino-rago-poesie-da-lettere-a-ewa-lipska-con-una-ermeneutica-di-giorgio-linguaglossa-la-tua-e-una-poesia-polittico-la-grande-elegia-e-diventata-impercorribile-dopo-il-moderno/comment-page-1/#comment-35564
    Scriveva più di cento anni fa Tynjanov: «La pausa è un elemento omogeneo del discorso» (e qui ci siamo) mentre «l’equivalente è un elemento eterogeneo del verso»1] (e qui non ci siamo: che cosa voleva dire il critico russo?).

    Ecco, direi che Gino Rago nella sua poesia compone mediante degli «equivalenti», cioè degli «elementi eterogenei» collegati insieme. E questo è il metodo tipico della procedura della «nuova ontologia estetica»: l’inserimento degli «equivalenti», cioè degli «elementi eterogenei» in un discorso connotato dagli «isoritmi» dalle isofonie, come avveniva nella poesia melodica della tradizione di un certo novecento, crea una dissonanza non più semantica ma iconica, simbolica, crea una estraneazione, un Unheimlich, fa cioè ingresso l’estraneo.

    Poiché solo all’apparire del “perturbante” si dileguano gli idoli. Exeunt simulacra».

    Escono i simulacra della poesia tradizionale, quella fondata sulla partitura musical-semantica, ed entrano degli Estranei, degli «equivalenti eterogenei» che prendono posto nella nuova partitura iconica.

    Che cosa sono le «icone»? Sono delle «tessere» che prendono il proprio posto all’interno di un mosaico; sono delle «immagini», dei riflessi di vetri spezzati, dei «frammenti»…

    La «nuova ontologia estetica» si dà soltanto se si entra nella percezione di una «nuova partitura musicale» non più fondata sul valore semantico e simbolico delle parole così come la tradizione del novecento (da Laborintus, 1957, a Composita solvantur, 1995) ce l’ha consegnata. La poesia che è venuta dopo Composita solvantur è fondata sul medesimo rapporto: significante/simbolo, è una variante, una variazione di quel medesimo rapporto.

    Nella «nuova ontologia estetica» quel rapporto ha cessato di funzionare quale rapporto privilegiato, unico, ed è stato sostituito dal rapporto icona/frammento. È molto semplice, ma si tratta di una vera rivoluzione che non tutti possono capire o mostrano di aver compreso (capisco bene questa incomprensione). Lo spartito musicale semantico ha cessato di funzionare quale regolo del discorso poetico, ed è stato sostituito da uno spartito non musicale, freddo, atonico, a-fonico. E mi rendo conto come possa non piacere affatto una poesia della «nuova ontologia estetica», perché essa viene percepita e recepita come fredda, estranea, slontanante…

    In fin dei conti: che cos’è un metro?

    Il metro è nient’altro che l’unità di misura del tempo. Il «metro», inteso come unità di misura di rapporti stabili di durata che uniscono fra loro suoni di varia provenienza e in gruppi diversi, il «metro» inteso come il prodotto di una «durata», e quindi con un concetto di rigidità di tali rapporti, non esiste più da tempo.

    È ovvio che se cambia il metro cambia anche lo scorrere del tempo all’interno del verso. Chiaro?

    Nella poesia di Gino Rago, di Mario Gabriele, di Steven Grieco Rathgeb, di Donatella Costantina Giancaspero e degli altri autori che sono indirizzati in questa direzione di pensiero poetico, scorre un «tempo» diverso; non è più il «tempo» che scorre nella partitura musical-pittorica di un Sandro Penna, ma è un altro «tempo», il tempo della poesia di un Tranströmer, il «tempo» di una nuova partitura non più musical-pittorica, o almeno, non più il «tempo» scandito da quel tipo di orologio ma di un altro «tempo» per il quale occorrerà un nuovo strumento di misurazione.

    1] J. Tynjanov, Saggi di arte e letteratura, Il Saggiatore, Torino, 1968 pp. 29, 30

  9. L’ha ribloggato su RIDONDANZEe ha commentato:
    GINO RAGO

  10. Scrive Walter Benjamin:
    .
    «Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione. In altre parole: immagine è dialettica nell’immobilità. Poiché, mentre la relazione del presente con il passato è puramente temporale, continua, la relazione tra ciò che è stato e l’ora è dialettica: non è un decorso ma un’immagine discontinua, a salti. – Solo le immagini dialettiche sono autentiche immagini (cioè non arcaiche); e il luogo, in cui le si incontra, è il linguaggio».1]

    Il concetto di «costellazione» è importantissimo anche per la NOE., le immagini si danno soltanto in “costellazioni”, in mosaici. Alessandro Alfieri in un saggio afferma acutamente che l’immagine dialettica si oppone alla epoché fenomenologica, è una diversa modalità di percepire gli oggetti attraverso la «fruizione distratta». La «contemplazione» del soggetto eterodiretto, e la «percezione distratta» sono fenomeni tipici della modernità che la poesia di Baudelaire tenne ben presente all’alba della poesia del Moderno.
    Dal punto di vista della NOE, il ripristino e la valorizzazione delle benjaminiane «percezione distratta» e della immagine come «dialettica della immobilità», sono elementi concettuali importantissimi per comprendere un certo tipo di operazione estetica della poesia e del romanzo moderni: Salman Rushdie, OrhanPamuk, Mario Gabriele, Tomas Tranströmer, Kjell Espmark e, più in generale la poesia della NOE, non sarebbero comprensibili senza tener conto della rivoluzione molecolare della percezione in atto dall’alba del Moderno ad oggi.
    Tanto più oggi che viviamo in mezzo ad una rivoluzione molecolare permanente (quella della proliferazione delle emittenti linguistiche… anche le immagini sono percepite dall’occhio come icone segniche, immagini linguistiche, lampegggiamenti segnici e semaforici…), oggi la percezione distratta è diventata il nostro modo normale di interagire con il mondo, anzi, il mondo si dà a noi sub specie di immagine in movimento, frammento, processualità di dettagli… con buona pace di chi pensa ancora la poesia con schemi concettuali pre-baudeleriani…

    1] W. Benjamin I “passages” di Parigi, Einaudi, Torino 2007, p. 516

  11. Aprono insieme una bottiglia di Coca-Cola
    Sto ancora in questa immagine atemporale e leggo sempre dopo l’Ermeneutica.
    Da principio,
    riprendersi il fiato delle parole.Delle cose.
    La contraddizione in un solo particolare.
    Gli oggetti di Tosi.Quella caffettiera o forse un bricco, colorati di warhol.
    La memoria disturba, la mia.
    Questo pensiero vortica. Prof: Rago come la Catapano!.Respiro di sponde da rive lontane.
    A portata di mano, questo tempo frammento
    ora è adesso. La borsetta del novecento direbbe il migliore Oldani, è dentro le corrosive missive.
    Come è protetta la Musa.
    E questo piacerebbe a Talia.
    Ausiliare a chi?!
    (Scherzo Gabriele!)

    GRAZIE OMBRA.

    • gino rago

      “[…]riprendersi il fiato delle parole”:
      un verso indimenticabile, il mistero stesso della poesia che coincide con l’enigma stesso delle parole. Quali parole? Tutte le parole o quelle abitate dal poeta, quelle che abitano lo stesso poeta.
      Un tempo le chiamavano ‘le parole necessarie’ e sono forse proprio quelle, non altre, di cui come ben dici ‘riprendersi il fiato’.
      Evidentemente perché le altre, le altre parole, tutte le altre parole, sono sfiatate. E come tali non sono ‘necessarie’ alla poesia…
      Bravo Mauro Pierno.
      GR

  12. A tratti si leggono dei refrain, che sembrano déjà-vu meccanici, o elettronici. E il mondo, quello nominato di luoghi, città o piazze sembra quello finto dei salvaschermo. Le parole sono lanciate, non tutte vanno a segno ma sembra non importare – sebbene Gino Rago ci abbia abituati alla massima precisione dei significati –, domande e risposte non coincidono; l’assurdo, che non è non-senso, inevitabilmente si fa teatro; ma le stesse voci potrebbero essere fuori campo. Il teatro potrebbe essere all’aperto, proiettato nel piccolo schermo di una telecamera lasciata incustodita.
    Poesia qui vive su un asteroide.
    A fronte di queste mie suggestioni, trovo giuste le osservazioni su certe note che appesantiscono.
    Nella versificazione gli echi di Linguaglossa e Gabriele sono bene armonizzati. Rago intreccia le sue sentenze – è capace di parole potenti –. Io però non sono certo che gli stracci debbano essere pregiati, in quanto si sta citando qualcosa che ancora non è del mondo letterario ma appartiene a una élite. La stessa obiezione la si potrebbe fare a Mariella Colonna, alla sua poesia-teatro della NOE. Però è comprensibile, se si sta avanti nel tempo va da sé che il presente sia passato che si sta vivendo. Fattori T e S a mille!
    Complimenti a Gino Rago per l’ottimo esperimento. Molto convincente.

  13. gino rago

    Grazie Lucio per la serietà di lettura e di interpretazione di ciò che giustamente hai sentito come ‘esperimento’ che in me tende, aspira, alla idea di Milosz di poesia totale. Non è un percorso semplice ma se non ci riesco anche in minima parte non farò né pubblicherò più versi, non ne varrebbe la pena.
    Caro Lucio, Gentile Luciana Vasile, (che ringrazio per il suo contributo al dibattito in corso ma a cui consiglio di accostarsi almeno al ‘Trattato poetico’ di Czeslaw Milosz [Adelphi Edizioni]),
    meglio di come ha commentato la mia opera in divenire Giorgio Linguaglossa non si può. Vale la pena di riproporre questa chiosa di fondamentale importanza nell’esercizio di interpretazione della poesia ‘nuova’:

    […]Ecco, direi che Gino Rago nella sua poesia compone mediante degli «equivalenti», cioè degli «elementi eterogenei» collegati insieme. E questo è il metodo tipico della procedura della «nuova ontologia estetica»: l’inserimento degli «equivalenti», cioè degli «elementi eterogenei» in un discorso connotato dagli «isoritmi» dalle isofonie, come avveniva nella poesia melodica della tradizione di un certo novecento, crea una dissonanza non più semantica ma iconica, simbolica, crea una estraneazione, un Unheimlich, fa cioè ingresso l’estraneo […]”

    GR

  14. Bedin Mark

    Salve,
    premetto che scrivo questo mio dubbio modestamente sicché ammetto che sono ancora troppo lontano a carpire la NOE. Sono un ignorante.

    Chiedo:
    com’è possibile “vedere” in una nuova poesia? Non deve persistere solamente l’azione seguente a ciò che s’è visto? Partendo dal fatto che la parola è inadeguata, non v’è possibilità di comunicazione, nevvero? Non si pone il “vedere” del poeta, come un continuo pensare al pensato? Ecco che quindi la soluzione potrebbe essere il perpetuare un ripetere fino alla totale perdita di senso. Si provi a ripetere una barzelletta che fa ridere, e basteranno pochi tentativi per renderla asettica. Eliot, per mio conto, si sbagliò ne la sua terra desolata a rappresentare la visione di Tiresia: avrebbe dovuto cedere alla becera mostra della sua azione durante la predizione.
    Bisogna pure che si neghi l’aidos a favore della aisthesis, ma negandone la narrazione interiore. Già la becere mostra sarà intrisa di subconscio, non oso immaginare se dovesse essere pure spiegata.
    Esempio che forse mi negherò, dovrò ragionarci:
    Ne la quinta lettera a Ewa Lipska, si legge: la vita è un negozio di ferramenta/ e Dio è un meccanico supino/ che stringe i lenti bulloni del mondo.
    In questi versi c’è troppo io, o sbaglio? Può essere! Non in quanto dicono, ma in come lo dicono.
    Nella mostra di Dio c’è quello che io conduco alla mia personale (in quanto ancora la ignoro) NOE, ma nel dire “la vita è un negozio di ferramenta” non vi è una visione fin troppo personale?

    Qui una mia possibile spiegazione in versi di ciò che intendo sebbene sia completamente novecentesca, mi si perdoni.

    Che faccio
    io, di me distaccato forse non intendo questo farmi
    pensare. Ecce cogitatio ch’è no! Si sta in così che non
    posso mai l’io, e se non potere ciò mai m’è appartenuto
    che in brevi stralci solo rammento l’apparire mio vano.

    Sembra che nulla sia residuo di ciò che fu percepito
    al modo dello shock al magnesio di volti figurati mai,
    e poi sempre giallognoli. Pensare che mai. Non smarrirsi
    di perdere di sentiero quando per tornarsene in mura
    di routine: colla rotaia del tram pubblico urbano è seguito
    passo per passo a giungere con assenza di rischio. Ripetere
    ripetere ripetere è tutto un perdere prigionia da questa
    lingua, lì la scorciatoia fino a perdere di senso come
    barzelletta che ridere non fa più.

    Tiresia, tebano che nulla vedi nega in primis ciò
    che ti pre occupa nell’ora violetta, che a poco a poco
    in te s’aggruma. L’oscura alcova nella quale t’ostini
    l’estasi d’una predizioni non rendere il visibile,
    ma rendila ciò che intendi e accidentati se fortuito,
    e non paventi all’inadeguatezza delle parole. Tiresia,
    fallisci se fallire è la becere mostra laddove non
    v’è possibilità di rappresentata comunicazione.
    Tiresia, rinnega dunque l’éidos e carpiscine l’essenza
    estetica quando odi in una fredda raffica lo scricchiolio
    d’ossa. Ecco a te lì rintocca un presagio ch’l volto
    sfigura.

    Ma s’è vero ch’è un parafulmine l’abitudine bisogna
    che tu la ripeta. Non rigettare il bisturi che possa il cancro
    operare, fallisci nel ceppo che incatena il vomito al cane
    e non startene a decantare coi mobili dell’alcova nella quale
    t’ostini l’estasi d’una predizione.

    Ripetere ripetere ripetere è tutto un perdere prigionia
    da questa lingua.

    Grazie per l’attenzione, cerco solo di comprendere meglio.

  15. gentile Mark Bedin,

    lei inizia la sua poesia così:

    Che faccio
    io, di me distaccato forse non intendo questo farmi
    pensare. Ecce cogitatio ch’è no! Si sta in così che non
    posso mai l’io…

    lasci che io le dica che questo è il modo peggiore per iniziare una poesia, con l’ipertrofia dell’io… io, io, io… che non si sa più che cosa sia questo io. Questo io bisogna metterlo agli arresti domiciliari, metterlo tra parentesi, metterlo in una bacheca insieme ai ninnoli demodé… l’io di un altro io di un altro io… ormai siamo stati vaccinati da questo io che le persone del senso comune prendono come oro colato. Provi a non menzionarlo, provi a pensare che l’io altro non è che una funzione dell’inconscio come asseriva Lacan, una istanza meramente auto organizzatoria, utile per prendere l’aereo in tempo, per uscire di casa puntuali, per recarsi in trattoria… per tutte queste cose qui ci vuole l’io, ma per le cose più profonde bisogna abbandonare l’idea di un IO organizzato e preciso, che, in verità, è un progetto incompiuto di Prometeo. E per fortuna, direi…

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