
Sono sul marciapiede che marcisce prima del tramonto
Tomaso Kemeny (Budapest 1938), vive a Milano dal 1948. In qualità di anglista, professore cattedratico presso l’Università di Pavia, ha scritto libri, saggi e articoli sull’opera di Ch.Marlowe, S.T. Coleridge, P.B. Shelley, Lord Byron, Lewis Carroll, Dylan Thomas, James Joyce e Ezra Pound. Ha pubblicato undici libri di poesia tra cui Il guanto del sicario (1976), Il libro dell’Angelo (1991), La Transilvania liberata (2005), Poemetto gastronomico e altri nutrimenti (2012), 107 incontri con la prosa e la poesia (2014) e Boomerang (2017). Ha scritto libri di poetica come L’arte di non morire (2000) e Dialogo sulla poesia (con Fulvio Papi, 1997); un romanzo Don Giovanni innamorato (1993); un testo drammatico La conquista della scena e del mondo (1996).
Con Cesare Viviani ha organizzato i seminari sulla poesia degli anni ’70 presso il Club Turati di Milano (1978-79). Tra le sue curatele La dicibilità del sublime (con E.C. Ramusino, 1989), Le avventure della bellezza, 1988- 2008 (2008) . E’ tra i fondatori del movimento internazionale mitomodernista (1994) e del movimento “Poetry and Discovery”(2016) nonché della Casa della poesia di Milano (2006).

Incontro con Dio
da Tomaso Kemeny, 107 incontri con la prosa e la poesia, Milano, edizioni del verri, 2014
Incontro con Dio
Sono sul marciapiede che marcisce prima del tramonto. Viscide vipere m’impediscono di sopravvivere ulteriormente. Dall’alto scende una carrozza d’oro-volante e mi trasporta in un campo di defunti in attesa di giudizio.
Dopo un’attesa di venti secoli, un angelo inquisitore mi stacca entrambe le braccia con una sega elettrica e nelle spalle m’inserisce ali candide perché io possa volare al di là del tempo.
Vertigine.
Entro nella luce divina.
Vorrei fermarmi a risplendere nell’armonia celeste. Ma mi sveglio al vecchio vento che mi trascina là dove c’è un altro futuro.
Incontro con Dio
Prima del tramonto affogo nel tempo
aperto a scandalose
introspezioni: mi sento Principe
dell’Ignoto, artificiere vano,
commediante ipnotizzato
dalle viscide vipere
annidate nelle profondità
per spuntare all’improvviso
in forma di parole
a dire che le cose non possono restare
così, con le porte chiuse per me
dal lieben Gott:
né mi sento destinato
alla deportazione
nel campo dei defunti
in attesa dle giudizio.
Nulla di più molesto e irritante
per me dell’Angelo Inquisitore che mi
interroga sul mio pormi
in testa ai condottieri
del piacere. La verità è
che ogni sorriso dell’Amata
m’inonda dello sfolgorio
di un Dio procreatore eterno
della bellezza certa in cielo e in terra.
Amen.
Incontro con una pagina bianca (la prima luce)
.
.
Incontro di Christian con la signorina Vodka
“La signorina cento chili
con la sua trippa molliccia sommerse
le mie cosucce
a prova di donna cannone:
fu il suo alito iper-alcoolico
misto a sperma
d’ignota provenienza
a contagiarmi le tonsille
infettandomi anche l’urina.
Ma prima, con immensa foia
l’inculai sul tavolo da cucina”.

Tomaso Kemeny in azione mitomodernistica a Milano, 2016
Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa
La problematica dell’«Incontro con la Realtà» di Tomaso Kemeny
«La Poesia è morta? Essa ha il suo sepolcro nell’opera», scrive Guglielmo Peralta. Oggi un’opera di poesia degna di questo nome non può parlare d’altro tema che della propria morte. «Senza resurrezione». «Il solenne cenotafio» di se stessa.
La Nuova Poesia? Il Nuovo Romanzo? La Nuova Critica? – L’elefante sta bene nel salotto, è buona educazione non nominarlo, fare finta che non ci sia, prendiamo il tè in punta di spillo, con i guanti bianchi. «Andiamo verso la catastrofe con un eccesso di parole?», beh, come gli indigeni dell’isola di Pasqua, faremo la fine che hanno fatto loro
Sono ormai cinquanta anni che un elefante si aggira nel salotto.
Con la sua proboscide ha fracassato il vasellame, sporcificato la tappezzeria,
rovistato nei cassettoni stile liberty e post-pop,
ha mandato in pezzi anche il lampadario di Murano e la cristalleria di Boemia…
«La realtà giunge nuda e cruda, e con un brivido, poco prima dell’alba. È la Sig.ra Tohil a chinarsi su di me, a rimettere la mia testa al suo posto e a sussurrarmi: “Tutto si può dire, anche l’impensabile, il proibito, non c’è più da avere paura, ormai non c’è speranza. Il sonno non riposa. L’acqua non disseta. L’aria sta per diventare irrespirabile. Le pesti succedono alle piaghe e la morte è oggi l’unica affermazione di vita, mentre la corruzione ci ha portati ad accettare ogni forma di accecamento Il veleno della verità mantiene la nostra civiltà in perenne agonia, stiamo per giungere all’apoteosi dell’immortalità della decadenza”.
Mi sporgo oltre l’orlo di ciò che resta di un muro del mio studio e vedo gli inquilini riunirsi nel mio salotto: chi se l’è fatta addosso per la paura; chi ha perso i guanti; chi riacquista il colorito e perde la parola e chi riacquista la parola e perde il colore. Ciò che nessuno sa dirmi dove e quando è scomparsa la Sig.ra Tohil».
«Il mondo è un insieme caotico di frammenti»; «il mondo mi appare come la ruota della fortuna spezzata in fondo a un uovo marcio in grado di assorbire l’universo intero»; «mi apro le vie di Milano intasate da imputati per furto, altri per incendio volontario, saccheggio, di omicidio, di evasione e persino di antropofagia», scrive Tomaso Kemeny nei 107 incontri.
Non c’è dubbio che in questi ultimi due libri Kemeny abbia percorso a velocità forsennata lo spazio che passa dal mitomodernismo degli anni ottanta/novanta all’attuale nullismo o nichilismo di questi ultimi anni. È nel frattempo avvenuto che l’«Incontro con la Realtà» è diventato molto più dispendioso, «la Realtà» si è dissolta sotto i nostri occhi, si è de-moltiplicata e frammentata, si è miniaturizzata ed è definitivamente scomparsa dall’orizzonte degli eventi. Quella scrittura che ancora nei primi anni novanta era pur sempre un contenitore delle tensioni stilistiche e linguistiche, oggi risulta del tutto inidonea a suturare stilisticamente e linguisticamente quelle tensioni. Kemeny si è scontrato con questa aporia: rappresentare linguisticamente in poesia oggi «la Realtà» è come voler rappresentare il «niente», la mente si avvicina a quella zona dove la rappresentazione classica fallisce, è questo il punto.
Ed ecco spiegato il non-stile del linguaggio cosmopolitico dei due ultimi libri di Tomaso Kemeny. È che non c’erano vie di mezzo o altre strade che potessero condurre ad una «nuova» rappresentazione della «Realtà», e così è caduta la stessa idea di una rappresentazione linguistica in poesia, la stessa possibilità di una rappresentazione purchessia. «L’incontro con la Realtà» si è dimostrato più problematico che mai, e Kemeny da poeta acuto ne ha presto atto e ne ha tratto le conseguenze giungendo ad un linguaggio-ircocervo, un meta linguaggio iperteatrale, impermeabile, revulsivo in grado di conglobare in sé le istanze e le pulsioni espressionistiche e quelle mimico-realistiche. Però, pur sempre entro le coordinate della ontologia del novecento. Finalmente, nella poesia italiana ha fatto ingresso, in maniera non ortodossa e in modo massiccio, la vera questione del nostro tempo: il nichilismo, il lutto, la perdita di valore delle forme poetiche tradizionali con i riflessi che questo fenomeno ha avuto sulle scritture letterarie e, in particolare, sulla forma-poesia. Ci voleva un poeta di origine ungarica come Kemeny, nato nel 1938, per dare questo strattone scossone alla poesia maggioritaria che tuttora si continua a fare e a stampare.
«Chi non ha sperimentato su di sé l’enorme potenza del niente e non ne ha subìto la tentazione conosce ben poco la nostra epoca […]
Che cosa mai sarebbe servito dire ai Troiani mentre i palazzi di Ilio rovinavano, che Enea avrebbe fondato un nuovo regno?
La difficoltà di definire il nichilismo sta nel fatto che è impossibile per la mente giungere a una rappresentazione del niente. La mente si avvicina alla zona in cui dileguano sia l’intuizione sia la conoscenza, le due grandi risorse di cui essa dispone.
Del niente non ci si può formare né un’immagine né un concetto.
Perciò il nichilismo, per quanto possa inoltrarsi nelle zone circostanti, antistanti il niente, non entrerà mai in contatto con la potenza fondamentale stessa allo stesso modo si può avere esperienza del morire, non della morte». 1]
La difficoltà di definire il nichilismo sta nel fatto che è impossibile per la mente giungere a una rappresentazione del niente.
La mente si avvicina alla zona in cui dileguano sia l’intuizione sia la conoscenza, le due grandi risorse di cui essa dispone. Del niente non ci si può formare né un’immagine né un concetto.
Perciò il nichilismo, per quanto possa inoltrarsi nelle zone circostanti, antistanti il niente, non entrerà mai in contatto con la potenza fondamentale stessa che provoca il «niente».
1] Ernst Jünger Martin Heidegger, Oltre la linea Adelphi, 1989 p.179 € 14
Ecco un brano di un mio libro, Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea Società Editrice Fiorentina, Firenze, 2013. In anticipo (o in posticipo) sull’auspicabile discussione, a proposito della tesi di un ritardo storico della poesia italiana del Novecento a causa della sua «impalcatura piccolo-borghese» e della primogenitura della linea maggioritaria del minimalismo romano-milanese.
Il ritardo storico della poesia italiana. Gli Anni Dieci.
“Nella poesia degli Anni Dieci e di questi ultimi anni è evidente che il linguaggio tende a stare dalla parte della «cosa», più vicina alla «vita», e quest’ultima si scopre irrimediabilmente lontana dal «quotidiano»; sembra come per magia, allontanarsi dalla «vita» per via, direi, di un eccesso di intensità e di velocità. La polivalenza polifunzionale degli stili emulsionati raggiunge qui il suo ultimo esito: una sorta di fantasmagoria dialettica della realtà e della fantasia: una dialettica dell’immobilità dove scorrono le parole come fotogrammi sulla liquida superficie del monitor globale-immaginario caratterizzate dalla impermanenza e dalla instabilità. È la forma-poesia che qui né implode né esplode ma si disintegra come sotto l’urto di forze soverchianti e disgregatrici. E la forma-poesia assume in sé gli elementi dell’impermanenza e della instabilità stilistiche quali colonne portanti del proprio essere nel mondo. La rivendicazione della «bellezza» rischia così di diventare una parola d’ordine utile agli altoparlanti del cerchio informativo mediatico. Quella che un tempo era la dimensione mitica (in quanto passato più lontano), si è tramutata in preistoria, e la preistoria è diventata più vicina a noi proprio in quanto preistoria di un mondo divenuto post-storia (barbaro e barbarizzato).
Così pre-istoria e post-storia si uniscono in idillio. Possiamo dire che nelle nuove condizioni della poesia degli Anni Dieci il nuovo si confonde con l’antico, il patetico con l’apatico, l’incipit con l’explicit ed entrambi risultano indistinguibili in quanto scintillio di una fantasmagoria, alchimia di chimismi elettrici, brillantinismi di un apparato fotovoltaico. A questo punto, dobbiamo chiederci: la problematica dell’«autenticità» e dell’«identità» che ha attraversato il Novecento europeo, ha avuto una qualche influenza o ricaduta sulla poesia italiana contemporanea? È stata in qualche modo recepita dalla poesia del secondo Novecento? Ha avuto ripercussioni sull’impianto stilistico e sull’impiego delle retorizzazioni? E adesso proviamo a spostare il problema. Era l’impalcatura piccolo-borghese della poesia del secondo Novecento una griglia adatta ad ospitare una problematica «complessa» come quella dell’«autenticità», della «identità», della crisi del «soggetto»? Nella situazione della poesia italiana del secondo Novecento, occupata dal duopolio a) post-sperimentalismo, b) poesia degli oggetti, c’era spazio sufficiente per la ricezione di una tale problematica? C’erano i presupposti stilistici? Malauguratamente, sia il post-sperimentalismo che la poesia degli oggetti non erano in grado di fornire alcun supporto filosofico, culturale, stilistico alla assunzione delle problematiche dell’«autenticità» in poesia. Di fatto e nei fatti, quelle problematiche sono rimaste una nobile e affabile petizione di principio nel corpo della tradizione poetica del tardo Novecento.
Personalmente, nutro il sospetto che il ritardo storico accumulato dalla poesia italiana del Novecento nell’apprestamento di una area post-modernistica e/o post-contemporanea, si sia rivelato un fattore molto negativo che ha influito negativamente sullo sviluppo della poesia italiana ritardando, nei fatti, la visibilità di un’area poetica che poneva al centro dei propri interessi la problematica dell’«autenticità» e dell’«identità». Relegata ai margini, l’area modernistica è uscita fuori del quadro di riferimento della poesia maggioritaria. Poeti che hanno fatto dell’«autenticità» e dell’«identità» il nucleo centrale della loro ricerca appartengono alla generazione invisibile del Novecento, i defenestrati dall’arco costituzionale della poesia italiana. È tutta la corrente sotterranea del modernismo e del post-modernismo che risulta espunta dalla poesia italiana del secondo Novecento, la parte culturalmente più vitale e originale.
Si spalanca in questo modo la strada all’egemonia della poesia piccolo-borghese del minimalismo romano e dell’esistenzialismo milanese degli anni Ottanta e Novanta, che giunge fino ai giorni nostri, e così si pacifica la storia della poesia italiana del secondo Novecento vista come una pianura o una radura di autori peraltro sprovveduti dinanzi alle problematiche che stavano al di là del loro angusto campo visivo e orizzonte di attesa.
Si stabilisce una affiliazione stilistica, un certo impiego degli «interni» e degli «esterni» urbani e suburbani, certe riprese «dal basso», certe inquadrature «di scorcio», una certa «velocità», un certo zoom paesaggistico, un certo modo di accostare le parole e una certa interpunzione dei testi, un certo impiego della procedura «iperrealistica» di avvicinamento all’oggetto; viene insomma stabilita una determinata gerarchia dei criteri di impiego delle retorizzazioni e della iconologia degli «oggetti». L’iconologia diventa un’iconodulia. In una parola, viene posto un sistema di scrittura dei testi poetici e solo quello. In un sistema letterario come quello italiano in cui viene rimossa una intera generazione di poeti ed una stagione letteraria come quella del tardo modernismo, non c’è nemmeno bisogno di imporre ad alta voce un certo omologismo stilistico e tematico, è sufficiente indicarlo nei fatti, nelle scelte concrete degli autori pubblicati nelle collane a maggiore diffusione nazionale.
Come la filosofia non progredisce (se accettiamo per progresso l’accumulo di risultati che si susseguono), anche la poesia non progredisce né regredisce (non soggiace alla logica economica del progresso né conosce crisi di recessione), semmai conosce tempi di stasi e di latenza. In tempi di stagnazione stilistica c’è di che domandarsi: A che pro? E per chi? E perché scrivere poesie? Fortunatamente, la crisi spinge ad interrogare il pensiero, a rispondere alle domande fondamentali. Come ogni crisi economica spinge a rivedere le regole del mercato, analogamente, ogni crisi stilistica spinge a ripensare la legittimità dei fondamentali: Perché lo stile? Quando si esaurisce uno stile? Quando sorge un nuovo stile? Uno stile sorge dal nulla o c’è dietro di esso uno stile rivalutato ed uno rimosso? Che cos’è che determina l’egemonia di uno stile? Non è vero che dietro una questione, apparentemente asettica, come lo stile, si nasconda sempre una sottostante questione di egemonia politico-estetica? Non è vero che, come nelle scatole cinesi, uno stile nasconde (e rimuove) sempre un altro stile? Non è vero che l’egemonia piccolo-borghese della poesia italiana del secondo Novecento ha contribuito a derubricare in secondo piano l’emersione di un «nuovo stile» e di una diversa visione della poesia?
Non sta qui una grave incongruenza, un nodo irrisolto della poesia italiana? C’è oggi in Italia un problema di stagnazione stilistica? I nodi irrisolti sono venuti al pettine? C’è oggi in Italia un problema tipo collo di bottiglia? Una sorta di «filtro profilattico» nei confronti di ogni «diverso» stile e di ogni «diversa» visione? Io direi che la stagnazione stilistica è oggi ben visibile in Italia e si manifesta con la spia della disaffezione dei lettori verso la poesia del minimalismo e del micrologismo. Ed i lettori fuggono, preferiscono passeggiare o guardare la TV.
Uno stile nasce nel momento in cui sorge una nuova autenticità da esprimere: è l’autenticità che spezza il tegumento delle incrostazioni stilistiche pregresse. Non c’è stile senza una nuova poetica. Uno «stile derivato» è uno stile che sopravvive parassitariamente e aproblematicamente sulle spalle di una tradizione stilistica. Gran parte della poesia contemporanea eredita e adotta uno «stile derivato», un mistilinguismo (alla Jolanda Insana) composito, aproblematico e apocritico che può perimetrare, come una muraglia cinese, qualsiasi discorso, qualsiasi chatpoetry. Che cos’è la chatpoetry? È lo stile, attiguo a quello dei pettegolezzi delle rubriche di informazione e intrattenimento dei rotocalchi, del genere dei colloqui da salotto piccolo borghese televisivo intessuto di istrionismi, quotidianismi e cabaret. Vogliamo dirlo con franchezza? Quanti libri di poesia adottano, senza arrossire, il modello televisivo del reality-show? Quanti autori adottano un modello di mistilinguismo, di idioletto di marca pseudo sperimentale acritico e gratuito? Quanta poesia contemporanea agisce in base al concetto di realpolitik del modello poetico maggioritario? Quanta poesia reagisce adattando il modello idiolettico (che oscilla tra chatpolitic e realityshow) di diffusione della cultura massmediatizzata? Vogliamo dirlo? Quanta poesia in dialetto è scritta in un idioletto incomprensibile e arbitrario? E dove lo mettiamo il mito della lingua dell’immediatezza? Il mito della lingua dell’infanzia? Come se la lingua dell’infanzia avesse un diritto divino di primogenitura quale lingua «matria» particolarmente adatta alla custodia dell’autenticità!
Oggi dovremmo chiederci: quanta poesia neodialettale del tardo Novecento fuoriesce dalla forbice costituita dalla retorica oleografica e dal folklore applicato al dialetto? Quali sono, in pieno dopo-il-moderno, le basi filosofiche che giustificano l’applicazione dello sperimentalismo al dialetto? Che senso ha, dopo la fine della cultura dello sperimentalismo, applicare la procedura sperimentale al dialetto come hanno fatto Franco Loi e Cesare Ruffato? Ha ancora un senso il mistilinguismo di Jolanda Insana? Ha senso adoperare la categoria della «Bellezza» avulsa da ogni contesto? E l’«autenticità»? Ha ancora senso parlare di «Bellezza» in mezzo alla «chiacchiera» del mondo del «si»? Si può ancora parlare della «Bellezza» in mezzo alla estraniazione del mondo delle merci e dei rapporti umani espropriati dell’ipermoderno?
Dalla «Nascita delle Grazie» fino al «mitomodernismo» c’è una incapacità di fondo a costruire una piattaforma critica. La poesia mitomodernista segue, e non potrebbe non farlo, il piano inclinato delle poetiche epigoniche del tardo Novecento, decorativa e funzionale agli equilibri della stabilizzazione stilistica. Il «recupero di concetti come Anima, Visione, Ispirazione, Destino, Avventura»; «La proposta della Bellezza come valore universale» (dizioni di Roberto Mussapi), sono concetti tardo novecenteschi, maneggiati in modo ingenuo-acritico, inscritti nel codice genetico di un modello letterario.
Ma chi non è d’accordo sul principio di una poesia «bella»? È un proposito senz’altro condivisibile, ma non basta una semplice aspirazione per scrivere una poesia «bella». L’assenza peraltro di un pensiero filosofico in grado di affiancare quella proposta di poetica, ha finito per pesare negativamente sullo sviluppo del mitomodernismo come poetica propulsiva. Perorare, come fa Mussapi, che «come esiste l’Homo Religiosus esistano anche l’Homo Tradens e l’Homo Poeticus», è, come dire, un atto di inconfessabile ingenuità filosofica.
Il fatto è che oggi parlare di «autenticità», di «identità», di «soggetto» [de-fondamentalizzato], di «irriconoscibilità» della scrittura poetica implica porre al centro dell’attenzione critica la questione di un’altra «rappresentazione». Il discorso poetico del prossimo futuro dovrà passare necessariamente attraverso la cruna dell’ago della presa di distanza dal parametro maggioritario del tardo Novecento.”
Poesie da Boomerang (2017)
L’ho già incontrato
Ma dove l’ho già incontrato,
Edoardo Sanguineti?
Nell’ora crepuscolare
mi appare a distanza
il suo fantasma,
sta in una cabina telefonica
disattivata, con il ricevitore
in una mano, una cosa calda
e pelosa nell’altra.
Non è uno scheletro enigmatico
ma Sanguineti, dimagrito
e tirato a luce duplex
dell’ideale della rivolta
senza fine.
Di notte insegna ai figli
che il loro padre è stato
un uomo straordinario,
anche se di lui,
come di tutti i mortali,
sopravvivono dieci frasi
oltre a tic e lapsus
memorabili. Poi esce
dalla cabina e mi sibila
«per preparare una poesia
prendi un fatto piccolo
fresco di giornata. Per lo stile
niente codice, pensa al Gramsci
dei ‘Quaderni’ condito
con salsa un po’ piccante,
di quelle che si trovano
in cucina, presso il giovane
Marx».
Ogni notte
«Che maniera di parlare è questa?
‘Ghost poems’ l’inglese non mi va
anche se non faccio distinzioni tra
inglesine e le francesi pensanti purché
siano fatte bene. Ogni notte
risalgo il canale che porta il mio nome
“Luciano Erba”, risalgo persino le rogge
e di prato in prato,
di filare in filare,
mi fermo dove è fitta la verzura
dei fossi, dove gialli sono i fiori
degli ireos,
e poi mi appisolo all’ombra dei salici.
e sogno. Non come i poeti
che fuggono da se stessi,
cercando sollievo sotto le banchise
polari o nelle paludi tropicali,
o scalando l’Himalaya;
io mi accontento del gusto dell’ombra
e dai miei sogni mi pare
che tutto tragga respiro».
Per un lavandino futurista
Nel più bel lavandino futurista
c’erano due rubinetti
uno chiamato Froid
l’altro Chaud.
Nel profondo gorgo primaverile
il fantasma di Luciano Folgore
osserva
il gocciolare lento
di Chaud.
Da Froid fa scaturire
losanghe di luce elettrica nel
profumo di desiderio fulminante
prima e poi sommerso
dal brusio sonnolento
lento lento lento
mentre scorge
da un tempio di porcellana
incedere una formosa puttana
pronta a chiudere un volume
Tan.Fu.
Trasparenze
«Naufragando a occhi aperti
entrai nel cristallo della Morte
e attraverso
trasparenze e rifrangenze
fisso il grande albero
nella cui corteccia
il mio nome
Amelia rosselli
è intagliato.
nello scompiglio senza ombre
la face à la lumière
insieme alla Reine
vi mando questo messaggio
‘L’inferno è di natura divina,
attenti! ARIMORTIS!’».
Vieni
«Quelli più prosperi
continuano a raccogliere
rose
mentre io mi dibatto
tra i rovi
perché sono morto
per avere smesso di bere
troppo bruscamente».
Il mio cuore accelera
al canzonatorio apparire
di Valentino Zeichen
che sulla Promenade des Anglais
canterella
«Vieni, c’è una strada nel bosco…».
e una ragazza dal profilo tonchinese
passa nel vento come polline.
Fantasmi di poeti:
Attilio Bertolucci
Luciano Folgore
Piero Bigongiari
Franco Fortini
Dylan Thomas
Diego Valeri
Cesare Pavese
Edoardo Sanguineti
Luciano ERBA
Giorgio Caproni
Paolo Volponi
Eugenio Montale
Antonio Porta
Lorenzo Calogero
Giovanni Raboni
Piero Jahier
Salvatore Quasimodo
Pier Paolo Pasolini
Dario Bellezza
Ermanno Krumm
Dino Campana
Alfonso Gatto
Adriano Spatola
Valentino Zeichen
Amelia Rosselli
Per ora 25 fantasmi in azione
Certa. Tarif des consommations
È quasi mezzanotte
quando Adriano Spatola esce
barcollando dall’ascensore,
ridacchia, le guance infiammate.
«Mi spiace doverlo dire
ma il porto di qualità
è sempre più raro
in Italia. Vieni con me
in Francia, a Certa per
un Porto Flipp, uno Sherry Cobler,
un Willer’s come si deve.
Dopo un intero giorno
di questo bisogno di poesia
nuova, dimmelo tu
cosa faccio qui
un groviglio stridulo di suoni
nelle orecchie
e nella mente la visione
di un corpo di una balena
marcescente come un feto
sotto il sole morto.
C’è nessuno a leggere
versi? C’è nessuno?
Il mio sangue è rosso
perché tu lo veda?
Il sangue è più squisito
della lingua. Posso morire
due, tre, cento, mille
volte ancora! Ma prima
di andarmene mi fumo
un pacchetto, due pacchetti
mille pacchetti di sigarette
e una scatola di sigari.
Addio. Buon viaggio».
Esemplare ermeneutica che descrive la fine del novecento e il perché l’ontologia estetica del novecento si è esaurita.
Poichè l’elefante che si aggira nel salotto ha sfasciato tutto,lasciamolo tornare nella boscaglia.Un semplice gatto nostrano può farci migliore compagnia.
Il problema, cara Anna, è che l’elefante ha abbondantemente sfasciato tutto quello che c’era da sfasciare, adesso le cosiddette istituzioni della poesia fanno finta di non vedere che razza di cumulo di macerie è la poesia italiana; ciascuno fa finta di non vedere l’elefante che c’è ed è ben visibile a chi abbia occhi per vedere, ma si ritiene più conveniente far finta di niente, che non sia successo niente, che tutto è come prima, come sempre, che la poesia italiana è la migliore d’Europa e altre consimili bazzecole…
L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.
AVVERTENZA A TUTTI I COMMENTATORI
Sto raccogliendo tutti i miei principali scritti critici attinenti la «nuova ontologia estetica», anche i frammenti, anche gli scritti sporadici, in un unico file che vedrà la luce tra poco con il titolo: La precarietà del Moderno con sottotitolo: La nuova ontologia estetica.
Il libro è già in fase avanzata di formulazione.
Inviterei tutti coloro che sono interessati di raccogliere i propri principali scritti apparsi su questa rivista, in un unico file, al fine di convogliarli, un domani, in una prossima pubblicazione collettiva di scritti critici.
Grazie per l’attenzione.
Caro Giorgio, i miei commenti sulla rivista nascono e restano sulla rivista; io non ne conservo copia personale: uno dei miei consueti derragliamenti nell’effimero. Che fare? Si può incaricare qualcuno a rintracciarli ? Ma chi? Sono disposta a pagare il lavoro,ma personalmente non ho la persona adatta.Qui la gente fa solo servizi manuali.Se tu conosci qualcuno disposto a farmi questo lavoro culturale, puoi mettermici in contatto?Mortificata per la consueta ingenuità organizzativa, ti invio un bacio di neve (l’ho raccolta ieri, all’Aquila) .Con l’affetto di sempre, Anna
cara Anna, per te ci penso io.
Un saluto.
Giorgio,sei l’unica persona al mondo che mi abbia detto:”Per te ci penso io”.Tu hai colmato l’immenso vuoto in cui sempre mi sono mossa;vorrei poterti ricambiare,Anna
Ah!!!Giorgio pensa anche a noi!…
Pubblico qui il racconto resoconto del dibattito avvenuto nell’Agorà di Agrigento a seguito del ritrovamento del sandalo di Empedocle. Il dibattito concerne la esposizione della tesi dell’accusa sostenuta dagli esponenti del partito democratico che si sia trattato di un assassinio e della tesi sostenuta dagli esponenti del partito aristocratico secondo la quale il filosofo si sia suicidato.
È del 2006. Allora cercavo una nuova forma di espressione in poesia, e mi ero portato naturalmente verso la prosa. Avevo abbandonato la forma-poesia e mi ero ripromesso di tornarci in seguito. Cosa che feci.
Per certi aspetti mi sembra che l’operazione di Tomaso Kemeny abbia aspetti di similarità con la mia ricerca di allora verso una «nuova» forma-poesia.
Il sandalo di Empedocle
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/04/03/strongtomaso-kemeny-poesie-da-boomerang-2017-ermeneutica-di-giorgio-linguaglossa-la-problematica-dellincontro-con-la-realta/comment-page-1/#comment-33536
Hanno trovato un sandalo. Sì, proprio un sandalo nei pressi del cratere del vulcano. Corre voce che Empedocle sia scomparso. Non si hanno più notizie di lui. Corre voce che il sandalo trovato sia di Empedocle. Tra gli agrigentini c’è chi crede in un incidente: che il filosofo abbia messo il piede in fallo e sia scivolato lungo la parete interna del vulcano; c’è invece chi è convinto che si sia trattato di un omicidio; che gli abbiano strappato un sandalo e poi lo abbiano spinto giù nel cratere, e poi abbiano lasciato il sandalo tra i cespugli, in bella vista, per sviare il popolo all’idea di un suicidio. Pausania, il fedele discepolo del maestro, chiede un’istruttoria, una udienza pubblica con i cittadini di Agrigento raccolti nell’agorà. E allora avviene che gli agrigentini accorrano nell’agorà per ascoltare le ragioni dei pro e dei contro e decidere sul da farsi.
Sono presenti Ermocrate, il rappresentante delle classi agiate, Crizia, il rappresentante dei sacerdoti e Pausania, il fedele discepolo del maestro.
«Dunque, il sandalo è di Empedocle», ha dedotto Ermocrate rivolgendosi alla folla degli agrigentini.
«Dunque, il sandalo non è di Empedocle», ha inferito Crizia rivolgendosi alla gente agrigentina.
Fu a quel punto che interloquì Pausania, il fedele discepolo del maestro.
«Vi siete chiesti, cittadini di Agrigento, che ci faceva Empedocle nei pressi del cratere del vulcano? Vi sembra credibile e verosimile ipotizzare il maestro che passeggia sulla sommità di un vulcano? E a che scopo l’avrebbe fatto? Per prendere aria fresca? Per fare una salubre passeggiata?».
«Per chiamare gli dèi inferi in suo aiuto», ipotizzò Crizia.
«Per cercare ispirazione nel fuoco», rinforzò Ermocrate.
«È verosimile», riprese Crizia.
«È un’ipotesi attendibile e credibile», confermò Ermocrate.
«Non è vero, quel sandalo non è un qualunque sandalo. Empedocle è stato ucciso e il suo corpo è stato gettato nel cratere del vulcano, tranne il sandalo, che è stato lasciato lì dai suoi assassini affinché apparisse come un suicidio, o un banale incidente».
Così interloquì il fedele Pausania in mezzo agli agrigentini attoniti.
«Dunque, ammettiamo che il sandalo sia davvero di Empedocle – riprese Crizia là dove era stato interrotto – perché Empedocle l’ha lasciato cadere proprio in quel punto, e non in un altro? Che significa ciò?».
Questo chiese Crizia ai cittadini di Agrigento accorsi in massa a vedere il sandalo.
«Sì, è il suo sandalo, non v’è dubbio alcuno», ribadì Ermocrate dall’alto della sua bianca toga.
«Sì, è il suo sandalo», inferì Crizia il quale così proseguì: «lo ha abbandonato lì Empedocle per sviare le indagini».
«Sì, è il suo sandalo», terminò Crizia avvolgendo sulla spalla la sua toga scarlatta.
Il dibattito degli agrigentini intanto si era insensibilmente spostato da Empedocle al suo sandalo. E i cittadini di Agrigento erano divisi e combattuti.
«Ricordate, agrigentini, quando il folle Empedocle voleva imprigionare il vento e ha fatto costruire degli otri di pelle di asino per metterli in cima alle colline per frenarne l’impeto? Ricordate quando indusse una donna in uno stato di morte apparente per trenta giorni per poi farla resuscitare dinanzi a voi?».
Questo disse Crizia aggiustandosi la sciarpa che pendeva dalla spalla, e proseguì:
«Empedocle era un folle che voleva gareggiare con gli dèi, per questo è finito nel vulcano. Voleva essere simile agli dèi. Ma questo è un delitto, ed è punito dagli dèi. La sua smodata arroganza è stata punita. Giustizia è stata fatta. Date agli dèi ciò che è degli dèi e agli uomini ciò che è degli uomini. Che le cose divise restino divise».
Così parlò Crizia in mezzo al silenzio attonito degli agrigentini.
Fu allora che prese la parola Ermocrate:
«Ricordate, agrigentini, quando il poeta-filosofo voleva abbattere lo stato, abolire la religione e le istituzioni della repubblica, perché – diceva – essere quella la via della notte che conduce dritto alla tenebra?».
E così proseguì Ermocrate:
«Grazie dunque, agrigentini, per averlo cacciato dalla città. Empedocle era un pericolo. Era un cane rognoso che si mordeva la coda. E questa è la sua ultima vendetta. La sua vendetta postuma: l’aver artatamente abbandonato un sandalo sulle rocce laviche e poi scomparire gettandosi nel fuoco del vulcano».
Così parlò Ermocrate in mezzo al silenzio attonito degli agrigentini.
«Insomma, un sandalo è un sandalo. Ormai la questione non ha più importanza. Il sandalo di Empedocle è eguale a qualsiasi altro saldalo. L’importante è che Empedocle si sia tolto dalle scatole! Che si sia gettato volontariamente nel fuoco del vulcano o che vi sia scivolato accidentalmente, a questo punto, non fa differenza. È la stessa cosa».
Così parlò il magistrato Ermocrate, il quale sentenziò:
«Il caso è chiuso».
(Inedito, 2006)
Ermocrate ricompare nel racconto di Bufalino “Gorgia e lo scriba sabeo” (in “L’uomo invaso”, 1989, Bompiani): Gorgia ha ereditato il sandalo dalla suola di bronzo del suo maestro Empedocle, che conserva in sua memoria, confidando allo scriba barbaro di razza sabea che lo accompagna il suo debito verso il maestro:
” E’ la sua ultima notizia, chissà che segreto racconta..” esitò Gorgia, parlando a se stesso. Si cavò il sandalo e lo tenne tra le mani, spiandolo come una trovatura di sottoterra. E in effetti il bronzo eruttato appariva come sudicio d’una spessa morchia di lava, scalfito dagli stessi geroglifici che incide su ogni lapillo l’ustione oscura del fuoco.
La farfalla tornò d’improvviso su Gorgia, evitò le sue mani, venne a posarsi sul puntale della scarpa a somiglianza d’un gioiello o del petalo d’un fiore.
“sstt.” fece lui, trattenendo con cipiglio il ragazzo che s’accingeva a levarsi per replicare la caccia. “E’ forse lui che ritorna…”
“Lui?”
“Empedocle che ritorna. Il quale fu un tempo fanciullo e fanciulla e arboscello e uccello e guizzante pesce nel mare. E volle morire per nascondersi nelle cose e risorgerne dio. O perchè non potrebbe essersi cangiato in farfalla? Io so quanto amasse le sorti più lievi…”
Poco dopo i due vengono sorpresi e arrestati da Ermocrate, capo di una pattuglia siracusana in missione nei campi. Il servo viene liberato e arrestato solo Gorgia: ma nella notte il servo ritorna nella grotta e grazie al sandalo “più solido d’un martello” abbatte, una per volta, le guardie di vedetta, “man mano che venivano fuori, barcollanti di sonno”.
Il filosofo è liberato grazie al sandalo e l’ingenuo Ermocrate rimandato a Siracusa. Lo schiavo sabeo si sceglie un nuovo nome, dicendo a Gorgia. “Chiamami Empedocle” e mostrandogli in mano “una farfalla infilzata con l’asticciola per scrivere”
Ripropongo qui uno stralcio della discussione avvenuta nel dicembre 2017:
Donatella Costantina Giancaspero
19 dicembre 2017 alle 19:51
caro Gino Rago,
questa idea di una poesia fatta con gli scampoli, gli stracci, i rottami, i frantumi etc. è una idea, mi sembra, nuova per la poesia italiana, penso che bisogna lavorare su questo, impegnarsi. Con gli stracci si può confezionare un’ottimo abito-poesia. È una idea della nuova ontologia estetica, una delle tante messe in campo. A mio parere, in questo tipo di poesia ci rientra benissimo la poesia di Lucio Mayoor Tosi, lui è un capofila, un capotreno.
Per tornare alla lettera “interna” che Fortini indirizza alla redazione di “Officina” di Pasolini, Leonetti e Roversi, a mio avviso, qui Fortini dimostra una grande lucidità intellettuale nell’individuare il “lato debole” della posizione della rivista. Leggiamolo:
«Questo problema dell’eredità è di grandissimo momento perché molto probabilmente può condurci a riconoscere l’inesistenza di una eredità propriamente italiana, in seguito alle fratture storiche subite dal nostro paese; ovvero al riconoscimento di antenati quasi simbolici, appartenenti di fatto a tutte le eredità europee». «Nell’odierna situazione, credo che le postulazioni fondamentali di “Officina” – agire per un rinnovamento della poesia sulla base di un rinnovamento dei contenuti, il quale a sua volta non può essere se non un rinnovamento della cultura – con i suoi corollari di civile costume letterario, di polemica contro la purezza come contro l’engagement primario ecc. – siano insufficienti e persino auto consolatorie. Rappresentano il “minimo vitale”, cioè un minimo di dignità mentale, di fronte alla vecchia letteratura –
E adesso pongo una domanda ai lettori e alla redazione: qual è a vostro parere il “lato debole” (uno ce ne sarà, penso) della rivista L’Ombra delle Parole?
Mario M. Gabriele
19 dicembre 2017 alle 23:19
Cara Donatella,
sempre se ho interpretato bene, e il lato debole non si configuri in un deficit limitato della Rivista come impianto organizzativo, mi soffermerei sul “pensiero debole” di Vattimo, come proposizione alternativa alla metafisica e ai Soggetti Forti quali Dio e L’Essere.Qui vorrei soffermarmi sul pensiero debole della Rivista,che cerca e tenta di tornare a un concetto di poesia, funzionale ad una nuova ontologia estetica, rispetto al vecchio clichè poetico del Novecento, sostituendolo con un nuovo cambio di pagina, attraverso il pensiero poetante.
Uscire dalla poesia istituzionale e omologata, significa, proporsi come soggetto nuovo, proprio come si formalizza oggi la NOE, abbandonati gli schemi e le fluttuazioni estetiche del secolo scorso. Una volta depotenziata questa categoria, inattuale di fronte al mondo che cambia in biotecnologie e scienze varie, l’essere-parola o lingua, ricostruttiva e risanatrice, diventa una urgenza non prorogabile, come l’unico modo per superare il postmoderno e il postmetafisico. Qui converrà articolarsi su ciò che da tempo va affermando Giorgio Linguaglossa su l’Ombra delle parole, che solo istituendo una poesia fondante su un nuovo Essere, verbale e stilistico, depotenziando il pensiero forte, si possa istituire un nuovo valore linguistico, inattivando le succursali poetiche e linguistiche resistenti sul nostro territorio, attaccando le categorie su cui si sono consolidate le modalità più resistenti della Tradizione, al fine di progettare un nuovo percorso che sia di indebolimento dei fondamenti poetici del passato.
Donatella Costantina Giancaspero
20 dicembre 2017 alle 13:53
Copio dal Gruppo La scialuppa di Pegaso la risposta di Gabriele Pepe alla mia domanda:
Qual è, a vostro avviso, il “lato debole” della rivista L’Ombra delle Parole?
Risposta:
La rivista soffre degli stessi problemi di cui soffrono tutte (quelle serie) riviste, blog et simili sulla rete. La velocità. Tutto scorre velocemente, troppo velocemente. Ogni cosa alla finne annega nel mare infinito del web. Mi permetto dei piccoli consigli:
1) Lasciare i post il tempo necessario per poter essere “compresi” e dibattuti in modo esauriente, o quasi. Quindi postare meno, postare più a lungo.
2) Lasciare traccia visibile di tutti gli autori ospitati, dibattuti, approfonditi, magari con un database in ordine alfabetico. Stessa cosa per argomenti, critiche, storia ecc. Mettere un motore di ricerca interno.
Aggiungo che, a volte, ma è assolutamente normale e ampiamente comprensibile, pecca un po’ di troppa autoreferenzialità, soprattutto quando vorrebbe far intendere che oggi l’unico modo di scrivere poesie deve essere alla NOE, tutto il resto è fuori dal contemporaneo.
Da queste poesie traggo l’idea che Tomaso Kemeny sia un sopravvissuto. Aspetti della contemporaneità che si stanno dissolvendo; però non infiacchisce il tono, che resta agile e scanzonato.
Caro Lucio, condivido quasi sempre le tue osservazioni,ma non mi sento di concordare su un “tono agile e scanzonato”a proposito di Kemeny ,che invece mi appare pesante e serioso,lontano da quella “leggerezza”che connota i poeti che io preferisco.
Cara Anna, nemmeno io ho preferenze per il “tono agile e scanzonato” ma ho ascoltato diverse volte Tomaso Kemeny leggere davanti al pubblico; durante un reading ebbi l’impressione che stesse improvvisando poesia al microfono. Non è da tutti. Questa è l’idea che ho sempre avuto di Kemeny poeta: agile nella scrittura e nel mantenersi in poesia. Ora non sembra più così, è un periodo di passaggio e, spero, di trasformazione. Difficile.
Suggerirei anche a questo poeta, Tomaso Kemeny, di recarsi nel borgo di Via delle Streghe, [borgo noto e Streghe note ad Anna Ventura].
Riuscirà a scorgervi la porta nel vicolo, incorniciata da pietra candida di quelle montagne, sulla quale le Streghe operarono la magia di poterla vedere soltanto loro, come via di salvezza?
Quella porta [lo afferma Cesare Ianni nel suo denso scritto nel risvolto di copertina della raccolta “Streghe” di Anna Ventura] e quella Via delle Streghe esistono ancora, ma non a tutti è dato di vederle… [Via delle Streghe e Porta invisibile ai più come metafore della Poesia, per Anna Ventura?].
GR
Vi sto sorbendo a piccole dosi sono tentato di scaricare le vostre splendide arsure io intanto bevo con voi. Datemi tempo sono illetterato forse poeta, lirismo verista potrebbe essere una scatola dove mettere i nostri tempi…
Il Mar 3 Apr 2018, 6:50 AM L’Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internaziona
Già…sorbendo tutto ma a piccole cose…anche stancandosi e staccandosi…
posologia attenta e minuziosa…
Qui è tutta un’eruzione…😵😵😵😵
(Faccio gli onori di casa…ma non sono manco il portiere!)
Gino Rago
Risposta a “La Lettura” [Corriere della Sera, 18 marzo 2018]
su alcuni luoghi comuni sulla poesia
“Poco prima di Pasqua sono andato dal mio barbiere romano di fiducia, sulla Via Appia Nuova.
Anche Berardo, il barbiere, scrive poesie e spesso alla fine delle sue giornate piene me ne legge qualcuna. Anche questa volta, tra uno shampoo e un taglio di capelli, Berardo ha voluto
con me parlare di poesia, del fare poesia, del cos’è la poesia, e altre amenità. Gli altri due clienti presenti nella bottega del barbiere subito hanno partecipato appassionatamente allo scambio fra« Berardo-il-barbiere-poeta» e me. E, sorpresa, quali questioni sono state con foga gettate sul tappeto?
Le stesse che proponeva l’inserto “La Lettura” [del Corriere della Sera] del 18 marzo 2018:
– TUTTO E’ POESIA
– LA POESIA NON SI CAPISCE
– PER SCRIVERE POESIE BASTA ANDARE A CAPO
– LA POESIA NON LA LEGGE NESSUNO
– TUTTI SCRIVONO POESIE
– LA POESIA E’ UNA FUGA DALLA REALTA’
– I POETI SONO TRISTI E PESSIMISTI.
Sono domande o luoghi comuni da barberia, ancora sopportabili per far passare i 25-30 minuti di tempo fra uno shampoo e un taglio di capelli in una barberia e con un barbiere-poeta-fai-da-te che scrive qualche verso, ma assolutamente da gettare nella spazzatura per un dibattito serio, colto, competente sulla poesia. Se posti poi sottoforma di domande queste non meriterebbero nessuna risposta per la nullità che racchiudono in sé e per l’inconsistenza che le caratterizza. Ma sono luoghi comuni duri a morire e se questi luoghi comuni persistono nei dibattiti poetici forse i poeti qualche domanda se la devono pur porre, recitando anche qualche mea culpa, anche se nel discorso sull’assegnazione del Nobel a Stoccolma Eugenio Montale suggellò le sue risposte che a ben considerare spazzavano via gran parte di questi luoghi comuni … Ma in buona sintesi con la chiusura de Lo Specchio mondadoriano la nostra poesia è stata danneggiata? E quando la scuderia de Lo Specchio Mondadori era scalpitante la poesia contemporanea ne ha tratto arricchimenti? Nella barberia romana de L’Alberone-Appio-Latino ben sanno montalianamente che scrivere versi è l’arte più semplice che esista: bastano una matita e un foglio di carta …. Il problema [scandalosamente irrisolto] è che poi questo far poesia te lo puoi ritrovare stampato e diffuso anche sugli Oscar Mondadori… E allora questi luoghi comuni saranno duri a morire, anzi sono destinati a vita lunga. Del resto, non dobbiamo meravigliarcene, offenderci sì, ma non meravigliarcene, se per decenni abbiamo subito la poetica minimalista, se tante esperienze della nostra poesia recente si sono concentrate sulla vita privata, sul culto interiore dell’ “Io”, un « IO » ipertrofico proposto, anzi innalzato a unico paradigma di verità, come cifra del trionfo di certo neo-individualismo [ anni Settanta] o come opzione ironico-teatrale [negli anni Ottanta del postmoderno].
Ma soprattutto questi luoghi comuni non sono ancora morti per questi due motivi [che al contrario sono alla base del dibattito e del fare poetico lanciati in questi ultimi anni da L’Ombra delle Parole e dal suo fondatore e coordinatore Giorgio Linguaglossa ben coadiuvato da una motivata e competente Redazione]:
– la poesia italiana degli ultimi cinquanta anni non si è misurata con l’idea di Adorno [Teoria Estetica] «I segni dello sfacelo sono il sigillo di autenticità dell’arte moderna»
– la nostra poesia ha smesso di porsi le Grandi Domande… E non si è misurata con il Vuoto, con il Nulla, con il Tempo interno, con la Metafora silenziosa, con lo Spazio espressivo integrale, con le immagini metaforiche, con il metodo mitico, con il frammentismo, con la dialettica ‘oggetti/cose’ e altro e altro ancora.
Così come le è sfuggita la necessità estetica del passaggio dal paradigma dell’unità al
paradigma della molteplicità, nella consapevolezza della pluralità e della polimorfia. E si è così dichiarata estranea alle pratiche culturali della rottura, della frammentazione, della dissociazione, della ibridazione da intendere come mescolamento di tempi, di spazi, di storia, di geografia, con l’adozione coraggiosa e diffusa del parlato. Di tentare di far poesia totale in forma di missiva [Ewa Lipska ne è altissima testimonianza poetica] neanche a parlarne…
Se i luoghi comuni sulla poesia [soprattutto le categorie di pessimismo e non pessimismo] elencati da La Lettura [del Corriere della Sera] fossero stati posti in forma di domanda non avrebbero meritato nessuna risposta perché la loro leggerezza vacua non umilia e offende chi le riceve ma chi le pone.”
Gino Rago
Caro Gino, la Via delle Streghe, all’Aquila, esiste veramente; e non ha porte.In tutto l’Abruzzo la presenza della strega esiste,anche se in modi diversi.Un luogo celebre è a Tocco Casauria(PE), dove sono nate e vissute le sette sorelle di mio padre( di sette,una è certamente strega).A me sono sempre sembrate signore per bene, onestissime ,alcune vessate da mariti terribili; una sola è scampata alla malasorte,avendo sposato un marito di cui diceva:”Francesco è una dama”.Ma era un’eccezione; tutti gli altri erano, più o meno, terribili; a metterli tutti insieme, ci sarebbe da scrivere un romanzo nero.Ovviamente, le mie “streghe”hanno una valenza metaforica: che, tuttavia, poggia su una solida base di realtà,dalla quale io non mi sono mai dissociata.
Cara Anna,
il dato che sottolinei è vero, è reale nella tua recente raccolta e ben fai a ricordarlo. Ma ho voluto vedere nel dato reale la possibilità di estrarne una valenza di correlativo oggettivo o appunto di metafora: la Porta, appunto, visibile soltanto a certi individui portatori di ben precisi valori [di cultura e di potenza immaginativa]: i poeti.
Mi piace interpretarla così la tua poesia anche perché soltanto un certo tipo d’uomo può conquistare una strega e con lei costruire un nido e, come tu stessa -magnificamente – chiudi il tuo poemetto :”Quando ciò accade,/ l’arcobaleno ha i colori più intensi, i ruscelli/ scorrono più veloci e le mucche/
fanno il latte buono”, quasi a suggellare il miracolo alla portata dell’atto poetico vero, un evento del tutto simile alla “SORPRESA” di cui ha parlato Papa Francesco nella Omelia di Pasqua: “Ogni atto di Dio genera una sorpresa…”
E questa sorpresa è in grado di “mettere fretta” a certe persone oppure di lasciarle nella stasi della indifferenza, come succede con ‘altre’ persone. Com’è per la poesia, e per la poesia-creatrice-di-sorpresa che attraversa la tua raccolta “Streghe” [Ed. ONE GROUP srl, L’Aquila, 2018],
peraltro magnificamente arricchita da stupende meditazioni artistiche.
GR
Caro Gino,grazie per aver usato questa bellissima parola,”sorpresa”.
Se le mie piccole streghe han no creato qualche sorpresa,il loro compito è già concluso.Niente è più cupo della noia, creare un po’ di “sorpresa” ,ogni tanto, è già un traguardo notevole.