La famosa Lettera di Pier Paolo Pasolini “Quello che rimpiango” pubblicata sul “Corriere della sera” l’8 luglio 1974 scritta in risposta a Calvino, il quale aveva asserito che Pasolini era rimasto legato ad una visione mitica e nostalgica dell’Italia contadina precedente agli anni sessanta.
Pubblichiamo la Lettera perché oggi il problema sollevato da Pasolini si ripropone, ma in termini esattamente capovolti, di una Italia che continua a restare post-fascista nel profondo e in superficie,nel sottosuolo e nel soprasuolo. Come è stato possibile che, a distanza di cinquanta anni, si ripropone l’interrogativo sollevato da Pasolini di un Paese eternamente fascista e/o post-fascista?
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Caro Calvino,
Maurizio Ferrara dice che io rimpiango un’«età dell’oro», tu dici che rimpiango l’«Italietta»: tutti dicono che rimpiango qualcosa, facendo di questo rimpianto un valore negativo e quindi un facile bersaglio.
Ciò che io rimpiango (se si può parlare di rimpianto) l’ho detto chiaramente, sia pure in versi («Paese sera», 5-1-1974). Che degli altri abbiano fatto finta di non capire è naturale. Ma mi meraviglio che non abbia voluto capire tu (che non hai ragioni per farlo). Io rimpiangere l’«Italietta»? Ma allora tu non hai letto un solo verso delle Ceneri di Gramsci o di Calderón, non hai letto una sola riga dei miei romanzi, non hai visto una sola inquadratura dei miei films, non sai niente di me! Perché tutto ciò che io ho fatto e sono, esclude per sua natura che io possa rimpiangere l’Italietta. A meno che tu non mi consideri radicalmente cambiato: cosa che fa parte della psicologia miracolistica degli italiani, ma che appunto per questo non mi par degna di te.
L’«Italietta» è piccolo-borghese, fascista, democristiana; è provinciale e ai margini della storia; la sua cultura è un umanesimo scolastico formale e volgare. Vuoi che rimpianga tutto questo? Per quel che mi riguarda personalmente, questa Italietta è stata un paese di gendarmi che mi ha arrestato, processato, perseguitato, tormentato, linciato per quasi due decenni. Questo un giovane può non saperlo. Ma tu no. Può darsi che io abbia avuto quel minimo di dignità che mi ha permesso di nascondere l’angoscia di chi per anni e anni si attendeva ogni giorno l’arrivo di una citazione del tribunale e aveva terrore di guardare nelle edicole per non leggere nei giornali atroci notizie scandalose sulla sua persona. Ma se tutto questo posso dimenticarlo io, non devi però dimenticarlo tu…
D’altra parte questa «Italietta», per quel che mi riguarda, non è finita. Il linciaggio continua. Magari adesso a organizzarlo sarà l’«Espresso», vedi la noterella introduttiva («Espresso», 23-6-1974) ad alcuni interventi sulla mia tesi («Corriere della Sera», 10-6-1974): noterella in cui si ghigna per un titolo non dato da me, si estrapola lepidamente dal mio testo, naturalmente travisandolo orrendamente, e infine si getta su me il sospetto che io sia una specie di nuovo Plebe: operazione di cui finora avrei creduto capaci solo i teppisti del «Borghese».
Io so bene, caro Calvino, come si svolge la vita di un intellettuale. Lo so perché, in parte, è anche la mia vita. Letture, solitudini al laboratorio, cerchie in genere di pochi amici e molti conoscenti, tutti intellettuali e borghesi. Una vita di lavoro e sostanzialmente perbene. Ma io, come il dottor Hyde, ho un’altra vita. Nel vivere questa vita, devo rompere le barriere naturali (e innocenti) di classe. Sfondare le pareti dell’Italietta, e sospingermi quindi in un altro mondo: il mondo contadino, il mondo sottoproletario e il mondo operaio. L’ordine in cui elenco questi mondi riguarda l’importanza della mia esperienza personale, non la loro importanza oggettiva. Fino a pochi anni fa questo era il mondo preborghese, il mondo della classe dominata. Era solo per mere ragioni nazionali, o, meglio, statali, che esso faceva parte del territorio dell’Italietta. Al di fuori di questa pura e semplice formalità, tale mondo non coincideva affatto con l’Italia. L’universo contadino (cui appartengono le culture sottoproletarie urbane, e, appunto fino a pochi anni fa, quelle delle minoranze operaie – ché erano vere e proprie minoranze, come in Russia nel ’17) è un universo transnazionale: che addirittura non riconosce le nazioni. Esso è l’avanzo di una civiltà precedente (o di un cumulo di civiltà precedenti tutte molto analoghe fra loro), e la classe dominante (nazionalista) modellava tale avanzo secondo i propri interessi e i propri fini politici (per un lucano – penso a De Martino – la nazione a lui estranea, è stato prima il Regno Borbonico, poi l’Italia piemontese, poi l’Italia fascista, poi l’Italia attuale: senza soluzione di continuità).
È questo illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale, sopravvissuto fino a solo pochi anni fa, che io rimpiango (non per nulla dimoro il più a lungo possibile, nei paesi del Terzo Mondo, dove esso sopravvive ancora, benché il Terzo Mondo stia anch’esso entrando nell’orbita del cosiddetto Sviluppo).
Gli uomini di questo universo non vivevano un’età dell’oro, come non erano coinvolti, se non formalmente con l’Italietta. Essi vivevano quella che Chilanti ha chiamato l’età del pane. Erano cioè consumatori di beni estremamente necessari. Ed era questo, forse che rendeva estremamente necessaria la loro povera e precaria vita. Mentre è chiaro che i beni superflui rendono superflua la vita (tanto per essere estremamente elementari, e concludere con questo argomento).
Che io rimpianga o non rimpianga questo universo contadino, resta comunque affar mio. Ciò non mi impedisce affatto di esercitare sul mondo attuale così com’è la mia critica: anzi, tanto più lucidamente quanto più ne sono staccato, e quanto più accetto solo stoicamente di viverci.
Ho detto, e lo ripeto, che l’acculturazione del Centro consumistico, ha distrutto le varie culture del Terzo Mondo (parlo ancora su scala mondiale, e mi riferisco dunque appunto anche alle culture del Terzo Mondo, cui le culture contadine italiane sono profondamente analoghe): il modello culturale offerto agli italiani (e a tutti gli uomini del globo, del resto) è unico. La conformazione a tale modello si ha prima di tutto nel vissuto, nell’esistenziale: e quindi nel corpo e nel comportamento. È qui che si vivono i valori, non ancora espressi, della nuova cultura della civiltà dei consumi, cioè del nuovo e del più repressivo totalitarismo che si sia mai visto. Dal punto di vista del linguaggio verbale, si ha la riduzione di tutta la lingua a lingua comunicativa, con un enorme impoverimento dell’espressività. I dialetti (gli idiomi materni!) sono allontanati nel tempo e nello spazio: i figli sono costretti a non parlarli più perché vivono a Torino, a Milano o in Germania. Là dove si parlano ancora, essi hanno totalmente perso ogni loro potenzialità inventiva. Nessun ragazzo delle borgate romane sarebbe più in grado, per esempio, di capire il gergo dei miei romanzi di dieci-quindici anni fa: e, ironia della sorte!, sarebbe costretto a consultare l’annesso glossario come un buon borghese del Nord!
Naturalmente questa mia «visione» della nuova realtà culturale italiana è radicale: riguarda il fenomeno come fenomeno globale, non le sue eccezioni, le sue resistenze, le sue sopravvivenze.
Quando parlo di omologazione di tutti i giovani, per cui, dal suo corpo, dal suo comportamento e dalla sua ideologia inconscia e reale (l’edonismo consumistico) un giovane fascista non può essere distinto da tutti gli altri giovani, enuncio un fenomeno generale. So benissimo che ci sono dei giovani che si distinguono. Ma si tratta di giovani appartenenti alla nostra stessa élite, e condannati a essere ancora più infelici di noi: e quindi probabilmente anche migliori. Questo lo dico per una allusione («Paese sera», 21-6-1974) di Tullio De Mauro, che, dopo essersi dimenticato di invitarmi a un convegno linguistico di Bressanone, mi rimprovera di non esservi stato presente: là, egli dice, avrei visto alcune decine di giovani che avrebbero contraddetto le mie tesi. Cioè come a dire che se alcune decine di giovani usano il termine «euristica» ciò significa che l’uso di tale termine è praticato da cinquanta milioni di italiani.
Tu dirai: gli uomini sono sempre stati conformisti (tutti uguali uno all’altro) e ci sono sempre state delle élites. Io ti rispondo: sì, gli uomini sono sempre stati conformisti e il più possibile uguali l’uno all’altro, ma secondo la loro classe sociale. E, all’interno di tale distinzione di classe, secondo le loro particolari e concrete condizioni culturali (regionali). Oggi invece (e qui cade la «mutazione» antropologica) gli uomini sono conformisti e tutti uguali uno all’altro secondo un codice interclassista (studente uguale operaio, operaio del Nord uguale operaio del Sud): almeno potenzialmente, nell’ansiosa volontà di uniformarsi.
Infine, caro Calvino, vorrei farti notare una cosa. Non da moralista, ma da analista. Nella tua affrettata risposta alle mie tesi, sul «Messaggero», (18 giugno 1974) ti è scappata una frase doppiamente infelice. Si tratta della frase: «I giovani fascisti di oggi non li conosco e spero di non aver occasione di conoscerli.» Ma: 1) certamente non avrai mai tale occasione, anche perché se nello scompartimento di un treno, nella coda a un negozio, per strada, in un salotto, tu dovessi incontrare dei giovani fascisti, non li riconosceresti; 2) augurarsi di non incontrare mai dei giovani fascisti è una bestemmia, perché, al contrario, noi dovremmo far di tutto per individuarli e per incontrarli. Essi non sono i fatali e predestinati rappresentanti del Male: non sono nati per essere fascisti. Nessuno – quando sono diventati adolescenti e sono stati in grado di scegliere, secondo chissà quali ragioni e necessità – ha posto loro razzisticamente il marchio di fascisti. È una atroce forma di disperazione e nevrosi che spinge un giovane a una simile scelta; e forse sarebbe bastata una sola piccola diversa esperienza nella sua vita, un solo semplice incontro, perché il suo destino fosse diverso.
(8 luglio 1974)
«In un’epoca in cui altri media velocissimi e di estesissimo raggio trionfano, e rischiano d’appiattire ogni comunicazione in una crosta uniforme e omogenea, la funzione della letteratura è la comunicazione tra ciò che è diverso in quanto è diverso, non ottundendone bensì esaltandone la differenza, secondo la vocazione propria del linguaggio scritto.»
(Italo Calvino, Lezioni americane, 1988)
«Come scriverei bene se non ci fossi ! Se tra il foglio bianco e il ribollire delle parole e delle storie che prendono forma e svaniscono senza che nessuno le scriva non si mettesse di mezzo quello scomodo diaframma che è la mia persona!»
(Italo Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, 1979)
«Io non rimpiango nulla di quelle antiche polemiche»
di Giorgio Linguaglossa
È la condizione di Emergenza che determina la «rivoluzione»
È la condizione di Emergenza che determina il «nuovo politico»
È la condizione di Emergenza che determina la «nuova poiesis»
La nuova fenomenologia del poetico, la poetry kitchen, ha preso conoscenza che la produzione culturale, come ogni produzione, è oggi appiattita sulla comunicazione, anzi, è diventata una sottovariante della comunicazione. La strategia decostruzionista di Calvino e le rabbie urticanti di Pasolini sono state derubricate dal capitale a idiosincrasie e a psicopatologie; la poetry kitchen ne prende semplicemente atto, anch’essa ha cancellato dalla propria agenda espressiva gli oggetti (come del resto ha già fatto il capitale), in quanto ha know-how delle priorità del capitalismo cognitivo che ha «cancellato» anche le merci; restano i mana, i gadget, i superpiù valoriali delle merci; tutto questo costituisce il vero volano dell’ideologia maggioritaria, quella fitta di scetticismo, cinismo, fatticismo e tatticismo che si muove all’interno di una area di interoperabilità tra i soggetti e tra i soggetti e gli oggetti, le merci, una zona di «discretizzazione» di tutte le funzioni della trasduzione del capitale, essendo la «trasduzione» nient’altro che il processo di trasformazione (interoperabilità) degli elementi e delle merci (leggi oggetti) che non esistevano prima che prendesse luogo il rapporto di «trasduzione» (ovvero, di produzione, di scambio e di consumo), essendo il rapporto di «trasduzione» un atto affine a quello magico all’interno del quale gli elementi del rapporto si trasformano, istantaneamente, in terminali del rapporto stesso, così, il compratore e il venditore di merci una volta entrati nel rapporto trasduttivo cessano di essere meri esterni e diventano elementi interni del rapporto capitalistico. Il capitale cognitivo agisce così in modo affine a quello della magia: con un atto di bacchetta magica trasforma l’esterno in interno e degli elementi «liberi» in attori di un rapporto comunicazionale presentato come «discreto», «neutro», «neutrale» e «liberale». In tal modo il capitalismo cognitivo ha liberalizzato l’avanguardia e qualsiasi opposizione ad esso, anzi, ha fatto di più: ha «trasdotto» l’opposizione in liberalizzazione, in un fatto di legittima scelta tra due o più opzioni, e quindi l’ha legittimata e innocuizzata. Ecco perché oggi un Pasolini è letteralmente impossibile che nasca, ma anche un altro Calvino è problematico che nasca, se non come controfigura di se stesso.
È solo un gioco di specchi – direbbe il mago Woland – un gioco di scacchi, di fuochi d’artificio, una collezione di figurine bizzarre, una bizarrerie al laccio del capitale cognitivo. La «nuova poiesis» ha posto nel cassetto dei numismatici la contrapposizione (ideologica) tra Pasolini e Calvino, ha «cancellato» la poiesis della soggettoalgia dell’io, il rumore del silenzio ovattato della poesia elegiaca e del romanzo presenziale, memoriale e futurologico; tutto ciò oggi appare come archeologia del capitale, ecco perché la «nuova poiesis» è affollata in modo assordante dalla presenza-assenza del «mondo» (gli anti-oggetti), in essa si assiste al «mondeggiare» degli antioggetti e al «coseggiare» delle anticose nullificate e annichilite (non da noi ma dal capitale) con tutte le loro acrobazie e follie. Heideggerianamente, nella produzione culturale del Dopo il Moderno c’è la presenza della «terra» ma come una antica memoria un po’ sbiadita e sfocata, una anticaglia da mettere in vetrina con un prezzo, come vintage, come ripescaggio del dejà vu. Le «funzioni poietiche» sono diventate, nelle nuove condizioni della ideologia qualunquoide del maggioritario, meri espedienti retorici e decorativi che stanno bene tra le suppellettili del salotto, adesivi in bella mostra da porre sul frigorifero e sulla lavatrice. I retorismi diventano meri scambi di interoperabilità degli elementi del rapporto trasduttivo del capitale, e gli scrittori diventano dei disoccupati dello «spirito», in coda davanti agli uffici di collocamento delle agenzie stampa delle istituzioni pubbliche e private e delle case editrici, la loro unica preoccupazione è essere ammessi alla celebrazione del magico rito trasduttivo officiato dal capitale, alla «comunicazione» del rapporto trasduttivo ed essere promossi alla funzione di salariati con contratti a tempo determinato. In queste nuove condizioni del capitalismo cognitivo fare poiesis significa interrompere, infrangere il rapporto trasduttivo che traduce tutti i terminali del rapporto stesso in elementi ad esso assimilati. Non c’è via di uscita da questa impasse che operare come sommozzatori o palombari nelle profondità di questo mare armocromista per aprire delle faglie, dei buchi nelle chiglie dei rapporti trasduttivi del capitale.
Come abbiamo visto nei collage di Marie Laure Colasson, les promenades nocturnes, gli uomini di oggi sono dei passeggiatori solitari che vagabondano in una città illuminata ma che non vedono nulla, null’altro che degli stipiti illuminati o malamente illuminati, delle striature di luci, delle sfumature, degli ibridi di colore, dei bizzarri mash up di colori inoperativi che hanno preferito disabilitare ogni operatività, che hanno preferito la disabilità alla «abilità», che non operano e non collaborano tra di loro, che non sanno neanche di dover operare e/o collaborare, perché nel simultaneo emerge l’Estraneo, una forza sconosciuta che non riusciamo a percepire, e quindi noi viviamo come se l’Estraneo non ci fosse. E invece è lì, quest’ospite sgradevole. È la condizione di «Emergenza», dicevo, che crea la «nuova poiesis» e crea noi stessi, è l’Emergenza che ci costringe ad agire, la parola della poiesis è, tra l’altro, del tutto «innocua».
La «nuova poiesis» raffigura questa generale adunanza di «inoperabilità» e di «invalidità» (che non è affatto una «resa»), noi tutti ci troviamo in questa condizione di «inoperabilità»: gli eventi che accadono senza che la nostra volontà vi possa influire (la guerra in Ucraina, la abolizione del reddito di cittadinanza, la detassazione dei ricchi e la tassazione dei poveri, il goal che la Roma incassa al 97° minuto, la prossima guerra che si profila nell’Indopacifico etc.). La nuova arte non fa altro che raffigurare, in parole (innocue), in colori (innocui) questa condizione generalizzata in cui tutti ci troviamo, una condizione di «inoperabilità» e di «invalidità».
È sufficiente saper leggere la «nuova poiesis», lì c’è già scritto tutto, c’è già scritto anche l’armocromista che disegna il nuovo look della segretaria del PD, la Schlein al posto dell’abbigliamento tradizionale e noioso di Letta e di Zingaretti. Occorre saper leggere il nuovo linguaggio kitchen per comprendere un po’ meglio il mondo.
(Giorgio Linguaglossa)
Renzo Paris IL FUMO BIANCO Poesie (1990-2012) letto da Giorgio Linguaglossa
Renzo Paris IL FUMO BIANCO Poesie (1990-2012) Elliot, 2013, pp. 136 € 17,50
Lettura di Giorgio Linguaglossa
Poesie da «diario», «diario di viaggio» lungo più di quattro lustri che si snoda nel racconto di vicende né illustri né esemplari né paradigmatiche, ma intime, private, vissute e inventate. Un «diario» di vicende private aperte al pubblico, anzi, offerte alla pubblica curiosità, come una laica offerta votiva, un’ara di piccoli e perdonabili vizi privati e nessunissima pubblica virtù. Piccoli amori, piccole passioni per giovinette rumene e italiche, per signore della buona media borghesia, poesie in memoria della mamma, cadenza pascoliana, lessico post-moderno desublimato (di una realtà già in sé desublimata), vestito con un abito largo e comodo: la terzina pascoliana (non rimata ma ritmata) ripresa da Pasolini de Le ceneri di Gramsci (1956) dismessa cento volte e cento volte reindossata da epigoni (non della terzina ma del Pascoli) letterati illustri e meno. Un teatro della Roma «bene» o «quasi bene» situato tra piazza di Spagna e villa Borghese, tra quartieri piccolo borghesi e meno borghesi, lì dove un tempo c’era la buona borghesia romana che adesso non c’è più, la piccola borghesia che adesso non c’è più, una inflessione elegiaca di un’elegia che oggi non c’è più perché non è più possibile, perché dismessa, abbandonata dal nuovo Ceto Medio telematico ed informatico che va di moda dichiarare «liquido» ma che liquido non è affatto, tanto bada agli affari propri e alle credenziali dei titoli di borsa sui quali specula e ingrassa. Dunque, si diceva della buona borghesia, quella romana, quella del finto golpe Borghese finito in operetta, quella delle stragi di Stato, quella della buona vecchia Democrazia cristiana (l’ossimoro di una democrazia fondata sul fatto di essere cristiani!) e del PCI, quella della cultura tra Pascoli e Gozzano, magari corretta con una infiltrazione di aminoacidi del Moderno, così tanto per desublimarne la connotazione ormai non più presentabile («amavo la dittatura del proletariato… mia moglie è una femminista brizzolata / che sputava su Hegel, a suo dire superato»).
Quell’assetto delle classi sociali sul cui equilibrio si era costruito lo stile pascoliano gozzaniano, saltato il periodo del cosiddetto infortunio del ventennio fascista, si ripresenta, oggi, in termini di disequilibrio e dismetrie reddituali, opportunamente desublimato e disarcionato, in queste terzine (irregolari e dissestate come dal tempo, dalle intemperie e dagli anni trascorsi) che tentano di ripristinare in auge la malinconia di un mondo decaduto e derubricato in anticaglie per numismatici.
C’è come un assetto dello stile che mima e cita un altro stile scomparso, e questo è il segreto della continuità dello stile, quello stigma che un poeta intelligente non può evitare ma dovrebbe però almeno tentare di saltare a piè pari. Renzo Paris non si rifiuta allo stile, non si adopera per un riformismo moderato dello stile come è poi accaduto alla poesia italiana degli anni settanta in poi, ma riposiziona lo stile di Totò Merumeni nell’italietta desublimata e decotta della crisi interminabile di questi ultimi decenni di storia repubblicana. La poesia di questo «diario di viaggio» ci racconta appunto la «crisi» dal punto di vista di un intellettuale turista (ex ’68) di Roma, questa città eterna che durerà e sopravvivrà alla crisi, come è sopravvissuta al sacco ad opera dei Goti di Alarico nel 410 e a quello dei Lanzichenecchi del 1530. (Giorgio Linguaglossa)
Un Amleto formato mignon
Sono un Amleto formato mignon
non c’è tragedia nella mia vita.
Mio padre è morto senza essere
vendicato. L’ho avvisato, è inutile
che la tua ombra mi attraversi, troppo
tardi. Ofelia comunque non si è
uccisa per puro miracolo e non è vero
che io non l’ho amata. Solo che lei è
sempre stata una masturbatrice
accanita. Mia madre vive con la badante
ucraina giovane giovane e come s’imbelletta
prima di uscire con lei, neanche dovesse
correre al ballo delle debuttanti, invitata
a una festa lungo il viale. Sono un Amleto
invecchiato, sfigurato. Che diranno di me
i vermi nella tomba se sono dimagrito fino
all’osso, se voglio diventare trasparente,
se la mia anima risplenderà come un’ostia
d’oro. Sono un Amleto formato mignon,
non c’è tragedia nella mia vita ma neanche
posso dire di aver conosciuto la felicità.
Ho fatto tutto in ritardo e se una donna
consola la mia senilità quella non è certo
il ricordo di Ofelia, quando lei chiedeva
scarmigliata l’elemosina alle porte di
Amsterdam, incrostata di insetti,
innamorata del suo cane con un piercing
sulla sua lingua biforcuta. Sono a mio agio
nei fallimenti. Non sono niente, al dunque,
niente.
Non sono né giovane né vecchio
Non sono né giovane né vecchio
ed è come se sognassi, in un meriggio
di sbronze, entrambe le età. Eppure
sono vecchio. In una nicchia dorata
l’autunno cede il passo all’inverno,
coperto di tenebre e sonno.
La parola perdono che senso ha
per me, inetto, senza alcun progetto?
Il sesso, il potere, mi fanno difetto.
Eppure sono giovane, mi batte il petto.
Mille voci mi rimescolano il sangue.
Al mattino mi alzo sempre più presto.
Non sono né giovane né vecchio, sogno
come un demente, queste due età infinite,
immerso nel secchio dl vino delle aurore,
in un tempo bambino. Sono vecchio, sono
vecchio, eccomi pronto per le sterminate
eternità Continua a leggere →
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