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Andrea Margiotta, Poesie dal libro Diario tra due estati, Edizioni L’Obliquo, Brescia, 2000, con uno scritto di Fernando Bandini, una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa e un Appunto di Giorgio Calcagno

Foto Man Ray Rue de la transfusion de sang

Man Ray, rue de la transfusion

Prefazione di Fernando Bandini.

Ecco come ho conosciuto il poeta Margiotta. Sedeva in fondo all’aula, staccato di una o due file, nel laboratorio di scrittura poetica che tenevo a Bologna, organizzato dal «Centro di Poesia». È un elemento costante della mia esperienza didattica, realizzata nei più diversi contesti e situazioni, l’immaginare che ci sia tra chi mi ascolta qualcuno molto informato e criticamente attento che soppesa senza pietà quanto vado dicendo. Durante quelle lezioni avevo individuato il personaggio di questi miei timori in quel giovane uomo.

Alla fine ho letto le poesie di Margiotta ed è nato un rapporto di confidenza, come sempre succede quando qualcuno ti affida un testo perché tu lo legga e ne dia un giudizio. Andrea Margiotta conferma una tendenza fondamentale della poesia d’oggi, che si riscontra, sull’estremo confine di questo secolo, in altre notevoli giovani voci: da una parte una attenzione alle esperienze pregresse del Novecento, non più marcate da rigide scelte di poetica né tanto meno da costringenti fedeltà a ideologie. Quanto viene offerto dai lavori della poesia del Novecento (un secolo poeticamente fertile come furono soltanto il Due – Trecento) viene espropriato e assunto nel proprio dire con una disinvolta ma meditatissima libertà, il cui unico rischio è forse quello, nei meno rigorosi, di un certo eclettismo dello stile. E tuttavia le ragioni della poesia, le attestazioni – immanenti ai testi – della sua necessità, appaiono (come nel caso di Margiotta) lampanti. La poesia diventa strumento di un’operazione autre (il «dirsi» e il senso nascosto), che riscopre la lezione di Rimbaud e tuttavia trascende l’orfismo come si è affermato da noi nelle sue concrezioni passate e recenti. Limite dell’orfismo era la nebulosità del linguaggio poetico (non l’oscurità, che è inevitabile, ma la nebulosità, l’incapacità cioè di ritagliare e incidere oggetti fermi e chiari nel proprio discorso, il vizio di confondere l’approssimativo col numinoso). Nel Margiotta degli esiti migliori la cosa autre irrompe nella compagine del vissuto, in una verità umana che precede il possibile (indispensabile ad ogni non caduca poesia) arrivo del nume. Lì, in forme talvolta anche di elegia, Margiotta affida ai tempi verbali del racconto la propria verità. Ma l’elegia non è in lui la rinuncia agli «universali», non è il rifugio dopo la sconfitta nelle serre di una ingannevole «calda vita». Per questo può scrivere singoli versi bellissimi, pieni di profonde risonanze, anche dove il contesto può sembrare qua e là non del tutto compiuto e risolto. È perché Margiotta mantiene una costante fedeltà a una sua idea alta della poesia, idea nella quale confluiscono anche i suggestivi e pertinenti ricordi di pregressi dettati danteschi e stilnovistici, quasi un segnale di appartenenza a qualcosa che si pretende staccato da mode e maniere, che però cerca, anche tra gl’inevitabili scacchi, una diversa collocazione della propria modernità. Margiotta, nelle sue dichiarazioni verbali, dice di amare molto Conte e il suo «mito del mito». Ma da Conte lo distanzia l’attenzione allo smalto del linguaggio (proprio nell’ accezione di materiale netto e duro), la sua attenzione a una misura nitida del verso, oltre che la renitenza a farsi divorare e cancellare dagli dei. Conte, nella sua poesia, realizza un monologo dilagante dell’io, che si fonde entusiasticamente nel risucchio delle proprie immagini, mentre la poesia di Margiotta sembra sbattere, come quella di Ritsos, contro un muro che non permette nessuna sacrale fusione, anzi il suo discorso si rivolge a interlocutori che, ahimé, non rispondono. Ma non gli si può muovere rimprovero di questa sua contestabile opinione di sé, fenomeno che è abbastanza frequente anche in poeti importanti. In verità il lettore dei versi di Margiotta avverte il confluire, nella sua poesia, della doppia suggestione di Luzi e Caproni. L’ircocervo – di un Luzi attento in prima istanza ai sensi metafisici che gravitano sul mondo, e di un Caproni che parte materialisticamente dalla storia per incontrare quei medesimi sensi, – realizza questa vicenda sospesa della poesia di Margiotta, che indica e promette territori ulteriori nei quali forse potrà sfociare con maggior sicurezza e perentorietà. Ma cosa può dire un poeta vecchio mentre affettuosamente sta presentando un poeta giovane? Questi futuribili si estendono oltre la sua esistenza, sono una scommessa, e se Margiotta vivrà nel discorso della poesia futura, spero che almeno si ricorderà di me.

Fernando Bandini 

 

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Pensiamo per un momento se tutti i poeti di oggi scrivessero come impone il modello magrelliano o come impone il modello della poesia deangelisiana o cucchiana, ecco che accadrebbe che, molto semplicemente, non ci capiremmo più, parleremmo tutti lo stesso linguaggio, lo stesso lessico, la stessa sintassi, lo stesso fono simbolismo, lo stesso tono simbolismo. Sarebbe una ecatombe, non riusciremmo più a capirci, a comunicare, perché parleremmo lo stesso linguaggio! Parleremmo tutti con il linguaggio delle «didascalie in margine a un giornale» con le didascalie lessicali dei libri della poesia maggioritaria! Sarebbe un disastro, non riusciremmo neanche a dire una frase semplice semplice come «andiamo a prendere un caffè?» perché non ci capiremmo più, non sapremmo se parliamo come una didascalia, e quindi usiamo una domanda retorica, o se parliamo di un nostro bisogno esistenziale, e quindi di una cosa per «noi» importante.

Questo concetto lo spiega molto bene un poeta oggi dimenticato, un poeta intellettuale di una generazione lontana, nato nel 1914, contemporaneo di Pasolini e di Moravia, che si poneva domande che nessuno oggi, dei poeti attuali dico, si pone, Piero Bigongiari il quale si chiede:

«Linguaggio dunque come atto integrale dell’uomo prima che l’uomo accetti di dividersi nella parzialità delle proprie attività operative. È questa l’”attualità” che il linguaggio “improbabile” premette a ogni momento della prassi. Diciamo insomma che l’uomo può parlare in quanto i poeti parlano al limite del possibile stesso del linguaggio, e ogni volta lo portano più in là, ogni volta con la difficoltà on cui mettono l’istituto linguistico aprono all’infinito per l’uomo la possibilità d’intendersi anche sul piano più comune e utilitario. Diciamo di più: se non esistessero i poeti, arriverebbe il momento in cui gli uomini, per usura, non riuscirebbero più a intendersi fra loro».1

Bigongiari si pone qui un problema molto importante (che nessuno oggi si pone più), che una storia letteraria che dimentica la scrittura che la precede, o che, peggio vuole soffocarla e farla dimenticare, come accade ed è accaduto in questi ultimi decenni, dicevo che una storia letteraria che fa questo si pone nella condizione della «pattumiera della storia», precipita tutta intera nella insignificanza, nella letteratura di consumo e di vetrina…

È chiaro che questa problematica sta molto a cuore alla «nuova poesia» della nuova ricerca che abbiamo chiamato la «nuova ontologia estetica», ed è questa consapevolezza che ci spinge alla ricerca di un nuovo linguaggio, di un nuovo sguardo sul mondo. E sarà la nuova poesia della nuova ontologia estetica che riscatterà, forse, un giorno lontano o non lontano, la poesia di oggi di precipitare anch’essa, tutta intera, con le scarpe e il maglione, nella «pattumiera della storia».

Sarà chiaro a questo punto che il ritorno ad una poesia rimata e ritmata come questa di Andrea Margiotta si collochi in un contro movimento, in un punto di rifrangenza rispetto alla generale tendenza alla narratività presente nella poesia italiana di questi ultimi decenni; la funzione della rima in questa poesia è importante; innanzitutto, una funzione segnaletica e fono simbolica; in secondo luogo, per un prendere le distanze da quella diffusa dispersione delle energie poetiche verso la narratività che ha finito per disossare la poesia italiana nella sua versione generalista ed epigonica. Margiotta reagisce come può e come la sua intelligenza gli suggerisce, facendo un passo indietro, saltando all’indietro la poesia generalista e narrativa degli ultimi decenni e ripristinando il concetto di una poesia degnamente orfica, riprende dal primo Montale saltando tutto ciò che è venuto dopo il secondo Montale; non costruisce un nuovo linguaggio, il neolatino, come farà Maria Rosaria Madonna con Stige nel 1992 (libro ora riproposto con gli inediti da Progetto Cultura, Stige. Tutte le poesie 1990-2002, nel 2018) ma si accredita come uno degli autori più rappresentativi del fono simbolismo che ha il suo esponente più autentico nella poesia di Roberto Bertoldo (in proposito, il primo e l’ultimo dei suoi libri: Il calvario delle gru del 2000, e Il popolo che sono, Mimesis Hebenon del 2017). Io non privilegerei, come fa Bandini, il parallelismo con la poesia di Giuseppe Conte, piuttosto, la sua presa di distanze dalla poesia di ligure, mi sembra fuori discussione; qui l’operazione di Margiotta è diversa: è la presa di distanze dal semplice ritorno alla rima con un linguaggio neoclassico come quella del Conte, il tentativo di Margiotta è ripristinare la linea centrale della poesia fono simbolica e tono simbolica che vede nella rima l’asse semantico da privilegiare.

1 P. Bigongiari La poesia come funzione simbolica del linguaggio, Rizzoli, Milano, 1972, p. 31

Andrea margiotta Diario tra due estati cover

Testi da Diario tra due estati  

DOPO LA PIOGGIA

La città rischiarata dai lampioni verdi
dopo la pioggia e il silenzio.

Ondeggiano le nuvole d’argento
sulla piazza dove è passato il vento.

Dall’altra parte del ponte
entrano i giocatori nelle osterie.

Zampilla l’acqua dolce da una fonte
oltre i giardini e gli alberi,
sale alle luci ferite degli angeli.

La luna rotola sulle tue gambe,
s’infrange la bellezza
negli specchi dell’estate.

Di nuovo il traffico lungo le strade.

(Grecia, 1995) Continua a leggere

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Tomaso Kemeny, Poesie da Boomerang (2017), Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa – La problematica dell’«Incontro con la Realtà»

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Sono sul marciapiede che marcisce prima del tramonto

 

Tomaso Kemeny (Budapest 1938), vive a Milano dal 1948. In qualità di anglista, professore cattedratico presso l’Università di Pavia, ha scritto libri, saggi e articoli sull’opera di Ch.Marlowe, S.T. Coleridge, P.B. Shelley, Lord Byron, Lewis Carroll, Dylan Thomas, James Joyce e Ezra Pound. Ha pubblicato undici libri di poesia tra cui Il guanto del sicario (1976), Il libro dell’Angelo (1991), La Transilvania liberata (2005), Poemetto gastronomico e altri nutrimenti (2012), 107 incontri con la prosa e la poesia (2014) e Boomerang (2017). Ha scritto libri di poetica come L’arte di non morire (2000) e Dialogo sulla poesia (con Fulvio Papi, 1997); un romanzo Don Giovanni innamorato (1993); un testo drammatico La conquista della scena e del mondo (1996).

Con Cesare Viviani ha organizzato i seminari sulla poesia degli anni ’70 presso il Club Turati di Milano (1978-79). Tra le sue curatele La dicibilità del sublime (con E.C. Ramusino, 1989), Le avventure della bellezza, 1988- 2008 (2008) . E’ tra i fondatori del movimento internazionale mitomodernista (1994) e del movimento “Poetry and Discovery”(2016) nonché della Casa della poesia di Milano (2006).

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Incontro con Dio

da Tomaso Kemeny, 107 incontri con la prosa e la poesia, Milano, edizioni del verri, 2014

Incontro con Dio

Sono sul marciapiede che marcisce prima del tramonto. Viscide vipere m’impediscono di sopravvivere ulteriormente. Dall’alto scende una carrozza d’oro-volante e mi trasporta in un campo di defunti in attesa di giudizio.
Dopo un’attesa di venti secoli, un angelo inquisitore mi stacca entrambe le braccia con una sega elettrica e nelle spalle m’inserisce ali candide perché io possa volare al di là del tempo.
Vertigine.
Entro nella luce divina.
Vorrei fermarmi a risplendere nell’armonia celeste. Ma mi sveglio al vecchio vento che mi trascina là dove c’è un altro futuro.

Incontro con Dio

Prima del tramonto affogo nel tempo
aperto a scandalose
introspezioni: mi sento Principe
dell’Ignoto, artificiere vano,
commediante ipnotizzato
dalle viscide vipere
annidate nelle profondità
per spuntare all’improvviso
in forma di parole
a dire che le cose non possono restare
così, con le porte chiuse per me
dal lieben Gott:
né mi sento destinato
alla deportazione
nel campo dei defunti
in attesa dle giudizio.
Nulla di più molesto e irritante
per me dell’Angelo Inquisitore che mi
interroga sul mio pormi
in testa ai condottieri
del piacere. La verità è
che ogni sorriso dell’Amata
m’inonda dello sfolgorio
di un Dio procreatore eterno
della bellezza certa in cielo e in terra.
Amen.

Incontro con una pagina bianca (la prima luce)

 

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Incontro di Christian con la signorina Vodka

“La signorina cento chili
con la sua trippa molliccia sommerse
le mie cosucce
a prova di donna cannone:
fu il suo alito iper-alcoolico
misto a sperma
d’ignota provenienza
a contagiarmi le tonsille
infettandomi anche l’urina.
Ma prima, con immensa foia
l’inculai sul tavolo da cucina”.

 

Mitomodernismo Tomaso Kemeny in recita a Milano

Tomaso Kemeny in azione mitomodernistica a Milano, 2016

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

La problematica dell’«Incontro con la Realtà» di Tomaso Kemeny

«La Poesia è morta? Essa ha il suo sepolcro nell’opera», scrive Guglielmo Peralta. Oggi un’opera di poesia degna di questo nome non può parlare d’altro tema che della propria morte. «Senza resurrezione». «Il solenne cenotafio» di se stessa.
La Nuova Poesia? Il Nuovo Romanzo? La Nuova Critica? – L’elefante sta bene nel salotto, è buona educazione non nominarlo, fare finta che non ci sia, prendiamo il tè in punta di spillo, con i guanti bianchi. «Andiamo verso la catastrofe con un eccesso di parole?», beh, come gli indigeni dell’isola di Pasqua, faremo la fine che hanno fatto loro

Sono ormai cinquanta anni che un elefante si aggira nel salotto.
Con la sua proboscide ha fracassato il vasellame, sporcificato la tappezzeria,
rovistato nei cassettoni stile liberty e post-pop,
ha mandato in pezzi anche il lampadario di Murano e la cristalleria di Boemia…

 «La realtà giunge nuda e cruda, e con un brivido, poco prima dell’alba. È la Sig.ra Tohil a chinarsi su di me, a rimettere la mia testa al suo posto e a sussurrarmi: “Tutto si può dire, anche l’impensabile, il proibito, non c’è più da avere paura, ormai non c’è speranza. Il sonno non riposa. L’acqua non disseta. L’aria sta per diventare irrespirabile. Le pesti succedono alle piaghe e la morte è oggi l’unica affermazione di vita, mentre la corruzione ci ha portati ad accettare ogni forma di accecamento Il veleno della verità mantiene la nostra civiltà in perenne agonia, stiamo per giungere all’apoteosi dell’immortalità della decadenza”.

Mi sporgo oltre l’orlo di ciò che resta di un muro del mio studio e vedo gli inquilini riunirsi nel mio salotto: chi se l’è fatta addosso per la paura; chi ha perso i guanti; chi riacquista il colorito e perde la parola e chi riacquista la parola e perde il colore. Ciò che nessuno sa dirmi dove e quando è scomparsa la Sig.ra Tohil».

 «Il mondo è un insieme caotico di frammenti»; «il mondo mi appare come la ruota della fortuna spezzata in fondo a un uovo marcio in grado di assorbire l’universo intero»; «mi apro le vie di Milano intasate da imputati per furto, altri per incendio volontario, saccheggio, di omicidio, di evasione e persino di antropofagia», scrive Tomaso Kemeny nei 107 incontri.

Non c’è dubbio che in questi ultimi due libri Kemeny abbia percorso a velocità forsennata lo spazio che passa dal mitomodernismo degli anni ottanta/novanta all’attuale nullismo o nichilismo di questi ultimi anni. È nel frattempo avvenuto che l’«Incontro con la Realtà» è diventato molto più dispendioso, «la Realtà» si è dissolta sotto i nostri occhi, si è de-moltiplicata e frammentata, si è miniaturizzata ed è definitivamente scomparsa dall’orizzonte degli eventi. Quella scrittura che ancora nei primi anni novanta era pur sempre un contenitore delle tensioni stilistiche e linguistiche, oggi risulta del tutto inidonea a suturare stilisticamente e linguisticamente quelle tensioni. Kemeny si è scontrato con questa aporia: rappresentare linguisticamente in poesia oggi «la Realtà» è come voler rappresentare il «niente», la mente si avvicina a quella zona dove la rappresentazione classica fallisce, è questo il punto.

Ed ecco spiegato il non-stile del linguaggio cosmopolitico dei due ultimi libri di Tomaso Kemeny. È che non c’erano vie di mezzo o altre strade che potessero condurre ad una «nuova» rappresentazione della «Realtà», e così è caduta la stessa idea di una rappresentazione linguistica in poesia, la stessa possibilità di una rappresentazione purchessia. «L’incontro con la Realtà» si è dimostrato più problematico che mai, e Kemeny da poeta acuto ne ha presto atto e ne ha tratto le conseguenze giungendo ad un linguaggio-ircocervo, un meta linguaggio iperteatrale, impermeabile, revulsivo in grado di conglobare in sé le istanze e le pulsioni espressionistiche e quelle mimico-realistiche. Però, pur sempre entro le coordinate della ontologia del novecento. Finalmente, nella poesia italiana ha fatto ingresso, in maniera non ortodossa e in modo massiccio, la vera questione del nostro tempo: il nichilismo, il lutto, la perdita di valore delle forme poetiche tradizionali con i riflessi che questo fenomeno ha avuto sulle scritture letterarie e, in particolare, sulla forma-poesia. Ci voleva un poeta di origine ungarica come Kemeny, nato nel 1938, per dare questo strattone scossone alla poesia maggioritaria che tuttora si continua a fare e a stampare.

 Gif As god is my witness

«Chi non ha sperimentato su di sé l’enorme potenza del niente e non ne ha subìto la tentazione conosce ben poco la nostra epoca […]

Che cosa mai sarebbe servito dire ai Troiani mentre i palazzi di Ilio rovinavano, che Enea avrebbe fondato un nuovo regno?

La difficoltà di definire il nichilismo sta nel fatto che è impossibile per la mente giungere a una rappresentazione del niente. La mente si avvicina alla zona in cui dileguano sia l’intuizione sia la conoscenza, le due grandi risorse di cui essa dispone.

Del niente non ci si può formare né un’immagine né un concetto.

Perciò il nichilismo, per quanto possa inoltrarsi nelle zone circostanti, antistanti il niente, non entrerà mai in contatto con la potenza fondamentale stessa allo stesso modo si può avere esperienza del morire, non della morte». 1]

La difficoltà di definire il nichilismo sta nel fatto che è impossibile per la mente giungere a una rappresentazione del niente.

La mente si avvicina alla zona in cui dileguano sia l’intuizione sia la conoscenza, le due grandi risorse di cui essa dispone. Del niente non ci si può formare né un’immagine né un concetto.

 Perciò il nichilismo, per quanto possa inoltrarsi nelle zone circostanti, antistanti il niente, non entrerà mai in contatto con la potenza fondamentale stessa che provoca il «niente».

1] Ernst Jünger Martin Heidegger, Oltre la linea Adelphi, 1989 p.179 € 14

Gif Kiss me as if it were the

Ecco un brano di un mio libro, Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea Società Editrice Fiorentina, Firenze, 2013. In anticipo (o in posticipo) sull’auspicabile discussione, a proposito della tesi di un ritardo storico della poesia italiana del Novecento a causa della sua «impalcatura piccolo-borghese» e della primogenitura della linea maggioritaria del minimalismo romano-milanese.

Il ritardo storico della poesia italiana. Gli Anni Dieci. Continua a leggere

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Gino Rago, Stralci del libro: Glossa a Critica della ragione sufficiente. Verso una nuova ontologia estetica, Intervista a Giorgio Linguaglossa, Progetto Cultura, 2018, pp 512, E 21,00 – Dalla «Traccia» alla «Metafora Silenziosa». Colloquio a distanza Derrida-Heidegger-Linguaglossa (pp. 65/72) con le risposte a Pasquale Balestriere e a Lucio Mayoor Tosi – Uno stralcio sulla Cosa (Das Ding) da uno scritto di Roberto Terzi, Poesie di Fritz Hertz (Francesca Dono) e Carlo Livia 

Critica della ragione sufficiente Cover Def

Gino Rago: La poesia è un Enigma?

Gino Rago: La poesia è un Enigma?
(…)
Per J. Derrida «Una poesia corre sempre il rischio di non avere senso e non avrebbe alcun valore senza questo rischio».

Chiosa Linguaglossa:

In ultima analisi, la poesia è un Enigma. Quando qualcuno parla, parla l’Enigma […] Sicchè nella sua chiosa Linguaglossa traccia un solco fra «poesia-Enigma» e «linguaggio-comunicazione», ovvero l’uso del linguaggio per scopi contingenti o per fini socialmente necessari, utili soltanto alla comunicazione reciproca fra gli uomini di una stessa comunità.

Inoltre, sempre per Derrida «Scrivere, significa ritrarsi… dalla scrittura. Arenarsi lontano dal proprio linguaggio, emanciparsi o sconcertarlo, lasciarlo procedere solo e privo di ogni scorta. Lasciare la parola… lasciarla parlare da sola, il che essa può fare solo nello scritto».1

Gino Rago: Da queste premesse alla «metafora silenziosa» (come quel qualcosa che sta prima del linguaggio) il passo è breve. Ci puoi chiarire questo aspetto?

 Risposta: La metafora silenziosa forse è la più alta forma di metafora, la più pura. È quella che non si fa vedere, che preferisce l’inappariscenza, che si mostra simile a ciò che metafora non è. La metafora per Bataille è un «istante privilegiato», l’istante in cui appare il «sacro», che serve a dare «un senso al resto degli istanti senza privilegio» della scrittura. L’apparizione della metafora spezza la normalizzazione del linguaggio. «Questa craquelure spazio-temporale circonda la pointe dell’istante privilegiato, e dimostra in crisi l’ubi consistam, insomma la sostanza, quel qualcosa che sta sotto, a cotesto istante».2

Foto Man Ray 1922

L’indicibile del Linguaggio ha fondato e s-fondato il silenzio di «prima» del Linguaggio

Gino Rago: Cosa intendi per «vuoto di significante e di significato»?

Risposta: E ciò che sta sotto codesto «istante» si rivela essere un vuoto di significante e di significato che non può essere nominato se non entro una catena infinita di significanti e di significati. La metafora è questa rottura degli anelli della catena, rottura che dura appena un istante, l’istante privilegiato, dopo il quale essa riannoda i fili che la legano al sistema infinito della catena significante, al differimento dei significanti e dei significati.
Pretendere di dire che cos’è la «metafora silenziosa» è qualcosa cui non può arrivare una modesta intelligenza. Per afferrare questo concetto dobbiamo fare riferimento a ciò che c’era «prima» del Linguaggio, a quel muro di silenzio linguistico che il linguaggio ha squarciato con un atto indicibile. L’indicibile del Linguaggio ha fondato e s-fondato il silenzio di «prima» del Linguaggio, lo ha reso, in un certo qual modo, dicibile, udibile, sensibile. Il linguaggio come sistema di segni, proviene da qualche cosa d’altro. Questo penso sia chiaro. Quel qualcosa d’altro che è il «prima» del linguaggio e che è destinato a rimanere «silenzioso». È quindi il «silenzio» che fonda il «linguaggio». Questo è un pensiero che penso possa essere afferrabile, un po’ come nella fisica odierna è il «vuoto» che fonda gli universi di materia e di anti materia. Dobbiamo quindi postulare il «silenzio» di «prima» del linguaggio per poter afferrare il silenzio «dentro» il linguaggio.

Il compito più alto della poesia è appunto questo: indicare, alludere, richiamare il silenzio di prima del linguaggio, quel silenzio che è l’essere stesso, che è il linguaggio dell’essere. Comprendo adesso la difficoltà di Heidegger di scrivere l’opera che avrebbe dovuto seguire Essere e tempo (1935), bisognava inoltrarsi in una indagine perigliosa sul «prima del linguaggio» con gli strumenti del linguaggio e sarebbe occorso un «altro» linguaggio che lui non aveva.
L’evento ontico fondamentale è il «silenzio dell’essere», quel silenzio che è il suo linguaggio proprio. E questo è l’obiettivo della grande poesia europea, dei più grandi poeti europei dell’Ottocento e del Novecento. In questo progredire della loro ricerca si avverte l’eco del tinnire di quel silenzio, come scriveva Leopardi «sovrumani silenzi»,, «interminati spazi» e «profondissima quiete» (da notare le puntigliose e precise espressioni di Leopardi il quale è un poeta che non getta certo le parole a caso).

Ma quella frase che abbiamo usato: «prima del linguaggio», ci introduce in un altro problema filosofico di non poco conto che Heidegger aveva ben presente: quel «prima» ci introduce alla categoria del «tempo». Ma Heidegger si è ben guardato dall’inoltrarsi in quel ginepraio di oscurità. E così, siamo ancora all’inizio del problema, dobbiamo noi (dico noi per dire la «poesia»), inoltrarci in quel ginepraio fatto di «silenzio interno ed esterno» al linguaggio. Siamo dentro la problematica della metafora silenziosa. Quella cosa misteriosa che traduce il silenzio in linguaggio, l’assenza in parole. È questo che fa de «L’infinito» di Leopardi una poesia quasi sovrumana.

Gino Rago: Vuoi dire che noi stiamo dentro il linguaggio e che il linguaggio è dentro di noi? Come in un gioco di scatole cinesi? Continua a leggere

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 PASQUALE BALESTRIERE: LE RADICI DELLA POESIA DI DINO CAMPANA (1885-1932). Nel centenario della stampa dei “Canti Orfici” con una scelta delle poesie dell’autore.

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Commento di Pasquale Balestriere

Piero Bigongiari nel 1959 includeva i Canti Orfici di Dino Campana tra i venti libri del Novecento da salvare . Dopo poco più mezzo secolo il poeta toscano trova solo breve spazio in diverse antologie scolastiche ed è generalmente sconosciuto ai giovani che hanno compiuto un regolare ciclo di studi medio-superiore. Recentemente (soprattutto dagli anni Novanta in poi) si è manifestato  un risveglio d’interesse nei confronti di questo artista che è, anche per vicende biografiche, l’unico vero esempio di “maledettismo”  -autentico, dico-  (e non, come accade oggi in qualche discutibile poeta, esibito, se non addirittura ostentato) della poesia italiana.

Dino Campana (Marradi 1885 – Castelpulci 1932) ebbe un’esistenza vagabonda e travagliatissima. Una grave forma di psicopatia, manifestatasi vero i 15 anni, gli fu compagna assillante e tremenda. Nel 1913 aveva già scritto i Canti Orfici, unica sua opera (se si eccettuano alcune pubblicazioni postume di “carte” campaniane curate da vari studiosi), della quale lo stesso Ardengo Soffici non comprese appieno il valore se è vero che, avendone addirittura smarrito il manoscritto, purtroppo in unico esemplare, costrinse il Campana a ricostruire mnemonicamente la raccolta. E pensare che lo sventurato Dino sperava nell’aiuto di Soffici e della redazione di Lacerba (innanzitutto di Papini, che per primo aveva avuto tra le mani l’opera) per la pubblicazione dei suoi versi! Così i Canti Orfici vennero stampati nel 1914, a spese dell’autore, presso il modesto editore (o tipografo) Ravagli di Marradi. I primi studiosi ad interessarsi di quest’opera furono, manco a dirlo, i critici militanti di quel periodo: Giuseppe De Robertis, Emilio Cecchi, Giovanni Boine. Poi, nel corso del tempo, hanno scritto di Campana biografi, esegeti, poeti, narratori, critici: da Mario Luzi a Giorgio Bàrberi Squarotti, da Carlo Bo a Franco Fortini, da Antonio Tabucchi a Sebastiano Vassalli, da Gianfranco Contini a Eugenio Montale, da Gianni  Turchetta a Luciano  Anceschi, giusto per citarne alcuni.

Ardengo Soffici Chimismi

Ardengo Soffici Chimismi

Ma perché Canti Orfici?

Va innanzitutto precisato che il titolo originario della raccolta manoscritta, quella affidata a Papini, che l’aveva passata a Soffici,  era “Il più lungo giorno“. Il caso ha voluto che la raccolta venisse ritrovata nel 1971 nel mare magnum delle carte di  Soffici (morto nel 1964) nella sua casa di Poggio a Caiano.

Per ritornare alla domanda, occorre dire che nel 1910 Domenico Comparetti pubblicava a Firenze un’opera fondamentale per la conoscenza dell’Orfismo: la silloge delle Laminette orfiche, sottili làmine d’oro rinvenute in tombe di alcune località della Magna Grecia e della Grecia stessa, che sembrano essere le uniche testimonianze dell’ escatologia di tale dottrina. È noto, infatti, che l’Orfismo fu un culto misterico (“il più misterioso dei misteri greci”, lo definisce Vincenzo Cilento) che si collegava in qualche modo al mitico Orfeo, poeta, vate, e citaredo, del quale il Böhme sostiene addirittura la storicità, collocandolo, cronologicamente, in piena età micenea (XV/XIV sec. a. C.). E quindi Orfeo sarebbe vissuto prima di Museo, Omero ed Esiodo.  Dell’esistenza di un credo orfico offrono testimonianze degne di fede Pindaro, Empedocle e Platone ma soprattutto le cosiddette “lamelle auree”, le già citate laminette d’oro sulle quali sono incisi ammaestramenti ai defunti e formule sacre: esse sono state ritrovate, quasi sempre in tombe, a Thurii, Petelia, Farsalo, Eleutherna (Creta) e Hipponion. Il culto orfico, praticato da una setta di iniziati, non ebbe mai larga diffusione per la sua dogmaticità e per l’eccessiva imposizione di divieti (molti   accoliti in più  ebbero i misteri eleusini); si affermò quando vennero meno le “poleis” e con esse la religione omerica, promettendo all’uomo greco, in ambasce religiose, una eroizzazione (più che divinizzazione) del miste.

È lecito chiedersi a questo punto in quale misura l’Orfismo abbia influito sulla produzione poetica di Campana. Ho già detto che la silloge comparettiana vide la luce nel 1910 ed è noto che nel 1913 i Canti Orfici  erano praticamente composti; nel 1914 infatti vennero dati alle stampe.  Mi pare dunque difficile che la pubblicazione del Comparetti abbia potuto incidere a fondo sulla poetica di Campana; verosimile è invece che essa, come afferma il Galimberti, abbia avvicinato il poeta alle fonti più pure dell’Orfismo, già del resto conosciuto, forse attraverso Nietzsche e Rohde.

Bello Starry_Night by Eugeal

Starry_Night by Eugeal

Uno degli aspetti orfici più eclatanti in Campana è il titanismo, venato di colpa, di scelleraggine, di perfidia; il quadro però si slarga in una visione amplissima, variamente colorata e infine analogica: titano è Adamo, è Lucifero, è Faust, è l’uomo, è chiunque si ribelli all’autorità costituita; ma, orficamente, è impuro, è colpevole (e Campana non sentiva colpevole la sua stessa follia?); pertanto, chiuso nel ciclo delle nascite, trova in questo il suo limite e la sua speranza di salvezza.

Più che all’escatologia orfica la spiritualità di Campana sembra protesa allo svelamento del mistero che circonda l’uomo e la sua vita: l’orfismo misterico e misterioso gli offre allora l’espressione –Canti Orfici– adatta ad indicare il sordo lavorio di scavo e di ricerca, l’affannoso impegno poetico che gli consente di strappare alla fitta ragnatela del mistero l’immagine poetica, incerta e torbida, e di cristallizzarla in religione e mito, motivo e scopo dell’esistenza; sicché lo sguardo allucinato del poeta si fissa a scrutare una realtà profonda e oscura che reclama di essere condotta alla luce; e forse Campana sente di dover indossare i panni del poeta-vate, ierofante e profeta, titano e uomo.

Come che sia, un fatto appare indiscutibile: Campana ha fatto tutt’uno della sua vicenda biografica e della rappresentazione poetica: vita e poesia, quotidianità ed estasi, serenità e pazzia si fondono senza soluzione di continuità.

Non è da credere però che Campana non abbia avuto ascendenti culturali, del resto ben individuati: Carducci, Pascoli, D’Annunzio, Poe, i preromantici e i romantici, Nietzsche, Rimbaud; così l’io titanico che si esprime nei Canti non sarebbe comprensibile né spiegabile senza tener conto della Geburt der Tragödie (Nascita della tragedia) nicciana  o de Le bateau ivre (Il battello ebbro) rimbaudiano; e l’intero mondo lirico non sarebbe rettamente interpretato senza certe mediazioni dannunziane e romantiche o senza la lezione poetica e morale carducciana.

de chirico l'eterno ritornoDino Campana, “poeta maledetto” della letteratura italiana non ha trovato finora, come ho già detto, veri continuatori, anche se ha determinato influenze letterarie, come nel caso degli ermetici e di certa recente poesia: il fatto è che sul suo sostrato culturale e sulle sue esperienze biografiche s’innesta una tendenza odissiaca e avventurosa unita a una predisposizione, non solo  visiva, come pur sostiene qualcuno, ma  visionaria, che attentano all’integrità del mistero e quindi richiedono lo svelamento o, almeno, l’intuizione della vera realtà, dell’inconoscibile, con tutta l’acutezza morbosa e le innumerevoli possibilità di “lettura”, di interpretazione e di discorso poetico che solo l’autentica genialità,  magari -come nel nostro caso-   venata di follia, può consentire. Per questo la strada percorsa da Campana è rimasta impraticata; per questo i Canti Orfici non sempre trovano piena realizzazione artistica; ma per questo, anche, esistono.

A questo punto si può tranquillamente affermare  che Campana ci ha lasciato un guizzo d’umanità inquieta, che cerca di superare e spiegare una foresta di simboli, tipicamente baudelairiana, attraverso l’onirismo evocativo e medianico, le folgorazioni improvvise, le sciabolate di luce torbida, creando immagini spesso solo accennate, ricche di colore, di suggestioni e rapporti analogici; si spiega così il dettato poetico a volte estremamente dovizioso, a volte fratturato e sconnesso, disseminato di passaggi arditi, logicamente inspiegabili; e l’aggettivazione, quasi abbacinata in illusoria fissità, non riesce a nascondere l’ansimo del verbum strappato al mistero.

Pertanto, non è assolutamente pensabile di legare Campana a una scuola poetica; del resto i suoi legami con il futurismo furono brevi ed epidermici.

È invece legittimo pensare a lui come a un titano folle e irriverente, che, per aver partecipato allo sparagmòs (dilaniamento) di Dioniso-Zagrèo (a proposito, si noti l’analogia con la morte dell’apollineo Orfeo fatto a pezzi dalle Mènadi tracie), è condannato a scontare la propria colpa e a vivere dolorosamente la propria umana condizione.

(da “I fiori del male”, Anno X, n. 60, gennaio-aprile 2015)

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Dino Campana

Poesie di Dino Campana

LA CHIMERA

Non so se tra roccie il tuo pallido
Viso m’apparve, o sorriso
Di lontananze ignote
Fosti, la china eburnea
Fronte fulgente o giovine
Suora de la Gioconda:
O delle primavere
Spente, per i tuoi mitici pallori
O Regina o Regina adolescente:
Ma per il tuo ignoto poema
Di voluttà e di dolore
Musica fanciulla esangue,
Segnato di linea di sangue
Nel cerchio delle labbra sinuose,
Regina de la melodia:
Ma per il vergine capo
Reclino, io poeta notturno
Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
Io per il tuo dolce mistero
Io per il tuo divenir taciturno.
Non so se la fiamma pallida
Fu dei capelli il vivente Segno del suo pallore,
Non so se fu un dolce vapore,
Dolce sul mio dolore,

Sorriso di un volto notturno:
Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E l’immobilità dei firmamenti
E i gonfi rivi che vanno piangenti
E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.

GIARDINO AUTUNNALE (FIRENZE)

Al giardino spettrale al lauro muto
De le verdi ghirlande
A la terra autunnale
Un ultimo saluto!
A l’aride pendici
Aspre arrossate nell’estremo sole
Confusa di rumori
Rauchi grida la lontana vita:
Grida al morente sole
Che insanguina le aiole.
S’intende una fanfara
Che straziante sale: il fiume spare
Ne le arene dorate: nel silenzio
Stanno le bianche statue a capo i ponti
Volte: e le cose già non sono più.
E dal fondo silenzio come un coro
Tenero e grandioso
Sorge ed anela in alto al mio balcone:
E in aroma d’alloro,
In aroma d’alloro acre languente,
Tra le statue immortali nel tramonto.
Ella m’appar, presente.

LA SERA DI FIERA

Il cuore stasera mi disse: non sai?
La rosabruna incantevole
Dorata da una chioma bionda:
E dagli occhi lucenti e bruni: colei che di grazia imperiale
Incantava la rosea
Freschezza dei mattini:
E tu seguivi nell’aria
La fresca incarnazione di un mattutino sogno:
E soleva vagare quando il sogno
E il profumo velavano le stelle
(Che tu amavi guardar dietro i cancelli
Le stelle le pallide notturne):
Che soleva passare silenziosa
E bianca come un volo di colombe
Certo è morta: non sai?
Era la notte
Di fiera della perfida Babele
Salente in fasci verso un cielo affastellato un paradiso di fiamma
In lubrici fischi grotteschi
E tintinnare d’angeliche campanelle
E gridi e voci di prostitute
E pantomime d’Ofelia
Stillate dall’umile pianto delle lampade elettriche
………………………………………………………………………..
Una canzonetta volgaruccia era morta
E mi aveva lasciato il cuore nel dolore
E me ne andavo errando senz’amore
Lasciando il cuore mio di porta in porta:
Con Lei che non è nata eppure è morta
E mi ha lasciato il cuore senz’amore:
Eppure il cuore porta nel dolore:
Lasciando il cuore mio di porta in porta.

IMMAGINI DEL VIAGGIO E DELLA MONTAGNA

…poi che nella sorda lotta notturna
La più potente anima seconda ebbe frante le nostre catene
Noi ci svegliammo piangendo ed era l’azzurro mattino:
Come ombre d’eroi veleggiavano:
De l’alba non ombre nei puri silenzii
De l’alba
Nei puri pensieri
Non ombre
De l’alba non ombre:
Piangendo: giurando noi fede all’azzurro
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Pare la donna che siede pallida giovine ancora
Sopra dell’erta ultima presso la casa antica:
Avanti a lei incerte si snodano le valli
Verso le solitudini alte de gli orizzonti:
La gentile canuta il cuculo sente a cantare.
E il semplice cuore provato negli anni
A le melodie della terra
Ascolta quieto: le note
Giungon, continue ambigue come in un velo di seta.
Da selve oscure il torrente
Sorte ed in torpidi gorghi la chiostra di rocce
Lambe ed involge aereo cilestrino…
E il cuculo cola più lento due note velate
Nel silenzio azzurrino
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L’aria ride: la tromba a valle i monti
Squilla: la massa degli scorridori
Si scioglie: ha vivi lanci: i nostri cuori
Balzano: e grida ed oltrevarca i ponti.
E dalle altezze agli infiniti albori
Vigili, calan trepidi pei monti,
Tremuli e vaghi nelle vive fonti,
Gli echi dei nostri due sommessi cuori…
Hanno varcato in lunga teoria:
Nell’aria non so qual bacchico canto
Salgono: e dietro a loro il monte introna:
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E si distingue il loro verde canto.
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Andar, de l’acque ai gorghi, per la china
Valle, nel sordo mormorar sfiorato:
Seguire un’ala stanca per la china
Valle che batte e volge: desolato
Andar per valli, in fin che in azzurrina
Serenità, dall’aspre rocce dato
Un Borgo in grigio e vario torreggiare
All’alterno pensier pare e dispare,
Sovra l’arido sogno, serenato!
O se come il torrente che rovina
E si riposa nell’azzurro eguale,
Se tale a le tue mura la proclina
Anima al nulla nel suo andar fatale,
Se alle tue mura in pace cristallina
Tender potessi, in una pace uguale,
E il ricordo specchiar di una divina
Serenità perduta o tu immortale
Anima! o Tu!
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…………………………………………………………………………………….
La messe, intesa al misterioso coro
Del vento, in vie di lunghe onde tranquille
Muta e gloriosa per le mie pupille
Discioglie il grembo delle luci d’oro.
O Speranza! O Speranza! a mille a mille
Splendono nell’estate i frutti! un coro
Ch’è incantato, è al suo murmure, canoro
Che vive per miriadi di faville!…
…………………………………………………………………………………….
Ecco la notte: ed ecco vigilarmi
E luci e luci: ed io lontano e solo:
Quieta è la messe, verso l’infinito
(Quieto è lo spirto) vanno muti carmi
A la notte: a la notte: intendo: Solo
Ombra che torna, ch’era dipartito…

VIAGGIO A MONTEVIDEO

Io vidi dal ponte della nave
I colli di Spagna
Svanire, nel verde
Dentro il crepuscolo d’oro la bruna terra celando
Come una melodia:
D’ignota scena fanciulla sola
Come una melodia
Blu, su la riva dei colli ancora tremare una viola…
Illanguidiva la sera celeste sul mare:
Pure i dorati silenzii ad ora ad ora dell’ale
Varcaron lentamente in un azzurreggiare:…
Lontani tinti dei varii colori
Dai più lontani silenzii
Ne la celeste sera varcaron gli uccelli d’oro: la nave
Già cieca varcando battendo la tenebra
Coi nostri naufraghi cuori
Battendo la tenebra l’ale celeste sul mare.
Ma un giorno
Salirono sopra la nave le gravi matrone di Spagna
Da gli occhi torbidi e angelici
Dai seni gravidi di vertigine. Quando
In una baia profonda di un’isola equatoriale
In una baia tranquilla e profonda assai più del cielo notturno
Noi vedemmo sorgere nella luce incantata
Una bianca città addormentata
Ai piedi dei picchi altissimi dei vulcani spenti
Nel soffio torbido dell’equatore: finché
Dopo molte grida e molte tenebre di un paese ignoto,
Dopo molto cigolìo di catene e molto acceso fervore
Noi lasciammo la città equatoriale
Verso l’inquieto mare notturno.
Andavamo andavamo, per giorni e per giorni: le navi
Gravi di vele molli di caldi soffi incontro passavano lente:
Sì presso di sul cassero a noi ne appariva bronzina
Una fanciulla della razza nuova,
Occhi lucenti e le vesti al vento! ed ecco: selvaggia a la fine di un giorno che apparve
La riva selvaggia là giù sopra la sconfinata marina:
E vidi come cavalle
Vertiginose che si scioglievano le dune
Verso la prateria senza fine
Deserta senza le case umane
E noi volgemmo fuggendo le dune che apparve
Su un mare giallo della portentosa dovizia del fiume,
Del continente nuovo la capitale marina.
Limpido fresco ed elettrico era il lume
Della sera e là le alte case parevan deserte
Laggiù sul mar del pirata
De la città abbandonata
Tra il mare giallo e le dune …………………………………………….

FANTASIA SU UN QUADRO D’ARDENGO SOFFICI

Faccia, zig zag anatomico che oscura
La passione torva di una vecchia luna
Che guarda sospesa al soffitto
In una taverna café chantant
D’America: la rossa velocità
Di luci funambola che tanga
Spagnola cinerina
Isterica in tango di luci si disfà:
Che guarda nel café chantant
D’America:
Sul piano martellato tre
Fiammelle rosse si sono accese da sé.

Pasquale Balestriere 1

Pasquale Balestriere

Pasquale Balestriere è nato a Barano d’Ischia il 4/8/1945. Laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Napoli “Federico II”.
Ha svolto attività didattica nelle scuole secondarie superiori. Viene infatti eletto consigliere comunale di Barano nel 1975 e poi anche assessore. Nel 2000 viene chiamato a ricoprire la carica di Difensore Civico del suo Comune.
Opere di poesia: E il dolore con noi (Menna, Avellino, 1979), Effemeridi pitecusane (La Rassegna d’Ischia – Rivista Letteraria Editrici, Ischia,1994), Prove d’amore e di poesia (Gabrieli Editore – Roma, 2007), Del padre, del vino (ETS- Pisa, 2009), Quando passaggi di comete (Carta e Penna Editore, Torino, 2010), Il sogno della luce ( Edizioni del Calatino, Castel di Judica -CT-2011). Ha scritto saggi o articoli su argomenti letterari di vario genere, tutti pubblicati in rivista. Tra questi: Quinto Orazio Flacco (L’uomo, lo scrittore, il motivo simposiaco, il tema della femminilità); Uno strano amore (Note in margine al romanzo “Per amore, solo per amore” di P. Festa Campanile); L’orfismo di Dino Campana: nota interpretativa; Nell’Odissea la più antica testimonianza letteraria dei muri a secco “parracine”; Nitrodi, storia di un toponimo; La scrittura poetica di Giorgio Barberi Squarotti, Aspetti e motivi della poesia di Nazario Pardini; Arte e vita nella genialità rappresentativa di Michelangelo Petroni, detto Peperone; Lettura de L’isola e il sogno di Paolo Ruffilli; Ricordo di Giuseppe Berto; Ricordo di Vittorio Sereni; Ricordo di Marino Moretti; Il trionfo della metafora nella poesia di Giuliano Avidano; Note in margine a venti storie d’amore (di Un’altra vita di Paolo Ruffilli); Nota di lettura su Affari di cuore e Natura morta di Paolo Ruffilli; La poesia secondo la mia intenzione (scritto ancora inedito).

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