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Storia dei Nobel conferiti agli scrittori e ai poeti italiani, a cura di Enrico Tiozzo, da Il Premio Nobel per la letteratura. La storia, i retroscena, il futuro,  Aracne, 2018 pp. 172 € 12 – L’Italia è priva di una politica culturale – L’assenza di candidature autorevoli per la poesia italiana contemporanea 

FOTO POETI POLITTICODal 1901 al 2017 gli insigniti del premio sono stati 113,

di cui 29 di lingua inglese, 14 di lingua  francese, 13 di lingua tedesca, 11 di  lingua spagnola, 7 di lingua svedese, 6  di  lingua italiana e 6  di  lingua  russa.  Seguono poi  in ordine decrescente il polacco (4), il norvegese (3),  il danese (3), il greco (2),  il giapponese (2), l’arabo, il bengalese,  il cinese, il ceco, il finlandese, l’ebraico,  l’ungherese,  l’islandese,  l’occitano,  il portoghese, il serbocroato,  il turco e lo yiddish, ciascuno  con  un  premio. Alla Cina  ne  vengono  attribuiti  2  ma  si  tratta di una cifra da discutere data l’attribuzione  ufficiale di un premio alla Francia  per uno scrittore nato in Cina. Da un punto di vista linguistico-letterario  l’Italia, considerando la sua storia e anche il numero dei suoi abitanti, sembrerebbe trovarsi in una posizione alquanto sfavorevole soprattutto nei confronti dei premiati di lingua spagnola, ove  non   si tenesse  conto  dell’enorme   bacino  premiabile dell’America latina. Il confronto critico va fatto piuttosto con la premiatissima Francia, ma anche con le nazioni scandinave che insieme arrivano a ben 15 premi, una cifra spropositata  per Paesi dalle  letterature  marginali e che dimostra quanto parziali siano stati, nel tempo, i giudizi di Stoccolma.

L’Italia è priva di una politica culturale

Poco indicativa, restringendo il campo all’Italia, è anche la distribuzione temporale dei sei premi Nobel ottenuti in 117 anni. Infatti 3 di essi sono stati assegnati nella prima metà del Novecento  e  gli altri 3 nella seconda metà del Novecento. Nessun premio invece è toccato finora all’Italia nel XXI secolo, il che non è del tutto casuale ed apre la strada a una possibile analisi della politica culturale del nostro Paese. La cadenza dei premi nel corso delle due metà del Novecento (1906, 1926, 1934 e 1959, 1975, 1997) non fornisce invece particolari indicazioni e non può quindi essere accostata a una sorta di generico criterio geografico da parte dell’Accademia di Svezia secondo cui un Paese dalla nobilissima tradizione letteraria come l’Italia dovrebbe essere insignito del Nobel con intervalli non superiori ai 20 anni.

Non c’è dubbio comunque  – e questo è un forte elemento di riflessione – che quando si cominciò ad assegnare il Nobel nel 1901, l’Italia  era  uno dei  4-5  Paesi di punta, con  un premio assicurato a breve, mentre oggi è un Paese dimenticato o comunque confuso nella massa degli aspiranti. La cosiddetta “Italietta” di Giolitti, termine accettabile solo in senso antifrastico, contava molto nel panorama europeo e questo si rifletteva  inevitabilmente anche sui giurati di Stoccolma, che conoscevano l’italiano e potevano, come il presidente della commissione, Wirsén, leggere e ammirare direttamente in originale le poesie di Carducci e i romanzi di Fogazzaro. È l’Italia di oggi che viene invece ignorata, se non di peggio, anche dal punto di vista letterario  in  Svezia,  dove  la stessa  lingua  italiana e non solo gli scrittori che la usano nelle loro opere sono   relegati  ai punti  più bassi dell’interesse delle Università e della case editrici. Manca ormai da tempo un  impegno  concreto  per la diffusione della lingua e della letteratura italiana in Svezia, dove ci si affida a istituzioni,  più   o  meno  i nani a seconda di chi le dirige. Va  da  sé che su  questo  sfondo  –  non si parli  più  seriamente  di  letteratura italiana  a  Stoccolma  da   oltre   un   decennio  e  che  i giurati del Nobel  debbano   industriarsi   per  proprio  conto  se  vogliono  seguire i nostri scrittori che potrebbero essere insigniti del premio. Il quadro è tanto più sconsolante in quanto gli editori italiani continuano invece a sfornare a getto continuo traduzioni ed edizioni  della peggiore   produzione  letteraria  svedese  in  circolazione, quella rappresentata dai romanzi polizieschi.

Il Nobel a Carducci e la bocciatura di Fogazzaro

Il primo Nobel all’Italia era già in votis nella prima tornata del 1901, quando Antonio Fogazzaro venne candidato dal prestigioso socio dell’Accademia di Svezia, Hans Forssell. Il premio non poteva sfuggirgli e infatti nel 1902 la candidatura venne rinnovata da un professore dell’Università di Uppsala, ma a turbare le acque provvide lo stesso Fogazzaro che,  ignaro certamente di  quanto stava avvenendo  a  Stoccolma  e  nella sua veste  di senatore del regno d’Italia, candidò  al  Nobel Giosuè Carducci,  peraltro proposto anche da Vittorio Puntoni, rettore dell’Università di Bologna oltre che professore di letteratura greca nello stesso ateneo. Negli anni successivi Fogazzaro, informato finalmente di quanto stava avvenendo in Svezia,  non  propose  più  Carducci    riproposto  però da Puntoni nel 1903 e da Carl Bildt dell’Accademia di Svezia nel 1905. A questo punto  lo scontro  fra  i  due  candidati  italiani er a inevitabile e si  materializzò  nel  1906  quando  Bildt, che  era  anche ambasciatore di Svezia a Roma, candidò  Fogazzaro  oltre a Carducci proposto  anche  da Ugo Balzani  dell’Accademia dei Lincei, da Rodolfo  Renier dell’Accademia delle Scienze di Torino e da un professore  svedese.  Wirsén  era comunque  ben  deciso  ad  assegnare il Nobel a Fogazzaro,  ma a tagliare  le gambe allo scrittore  vicentino  fu la pubblica sottomissione alla Chiesa di Roma che egli fece nella primavera  di quell’anno  per le critiche  che  gli  erano  state  rivolte  per  Il santo. A “denunciarlo” agli Accademici luterani nel maggio del 1906 fu  lo stesso Bildt, sottolineando come Fogazzaro avesse «riconosciuto solennemente le pretese della Chiesa  cattolica  romana di dominare la libertà  di pensiero e di parola». Il Nobel andò  cosí  meritatamente al morente Carducci, che lo ricevette da Bildt  in casa sua e  il  sipario  calò  su  Fogazzaro,  nonostante alcuni successivi e disperati  tentativi del suo adoratore Wirsén.

Strilli Lucio Ricordi

Versi di Lucio Mayoor Tosi

La mancata candidatura di Gabriele D’Annunzio

Nel ventennio successivo i nomi dei candidati italiani proposti per il Nobel sono tutt’altro che entusiasmanti ed è inspiegabile che dall’Italia o dall’estero non sia mai stata avanzata la candidatura di un maestro come d’Annunzio, pure tradotto in svedese. Accanto a Fogazzaro, insistentemente riproposto fino al 1911, troviamo invece Angelo De Gubernatis, Edmondo De Amicis, Francesco d’Ovidio, Salvatore Farina, Grazia Deledda (candidata per la prima volta nel 1913 da Luigi Luzzatti e da Ferdinando Martini e riproposta poi frequentemente), l’italo-francese Dora Melegari, Roberto Bracco (proposto per la prima volta nel 1922 da un professore danese e da uno norvegese e riproposto in segui to), Guglielmo Ferrero  (proposto per la prima volta nel 1923 da professori italiani e svizzeri oltre che da vari Accademici di Francia e riproposto in seguito), Matilde Serao  (anche lei proposta per la prima volta nel 1923 da Francesco Torraca e riproposta  in seguito), Giovanni Schembari, e Ada Negri, proposta per la prima volta nel 1926 da Michele Scherillo. Le candidature italiane si fanno più frequenti negli anni ’20 per concentrarsi  infine   su     un  terzetto formato dalla Deledda, dalla Serao e da Bracco, chiaramente in aperta competizione tra di loro perché il premio ad uno dei tre avrebbe inevitabilmente comportato l’esclusione perpetua degli altri due.

La candidatura di Guglielmo Ferrero

 Un caso a parte è invece quello della fortissima candidatura di Guglielmo Ferrero a cui il Nobel non sarebbe potuto sfuggire in alcun modo se l’italiano  non  avesse trovato  di fronte a sé l’insormontabile opposizione di Schück, dominatore e despota dell’Accademia di quegli anni.

A candidare Ferrero, apprezzatissimo  anche  da alcuni soci dell’Accademia, erano stati uomini come Gaetano Salvemini, Niccolò Rodolico, Paul Bourget, Henri Pirenne e Anatole France, oltre ai soci dell’Accademia di Rio de Janeiro e agli Accademici di Svezia Nathan    Söderblom e Verner   von  Heidenstam. Oltre a nutrire  un’antipatia  personale nei confronti di Ferrero e della sua opera, i cui veri motivi restano imperscrutabili, Schück, con l’influente appoggio di Bildt,  aveva  però  disegnato  un  suo  piano per portare al Nobel  Grazia  Deledda e,  per potervi  riuscire, doveva sbarazzarsi in tutti i modi della fortissima candidatura dello storico  italiano che, vincendo, avrebbe sbarrato la porta alla scrittrice sarda. I cinque volumi di Grandezza e decadenza di Roma,   pubblicati  in  Italia  tra  il  1901 e  il  1907 da Treves ,  in  traduzione francese, da Plon a  Parigi tra il 1902 e il 1908,  avevano entusiasmato i dotti svedesi e rappresentavano una credenziale formidabile  per ottenere  il Nobel. In  traduzione inglese l’opera era stata pubblicata tra il 1907 e il 1909  mentre,  nella  traduzione svedese di  Hjalmar Bergman e Ernst Lundquist, il capolavoro  di Ferrero  era stato  pubblicato  nel 1921-1924 dal  prestigioso  editore  Bonniers a Stoccolma e godeva quindi dei massimi favori proprio a metà degli anni ’20.

Il decisivo atto di accusa di Schück contro Ferrero è contenuto in una perizia dattiloscritta di 21 pagine, sottoposta alla commissione Nobel nella tornata del 1923,  in cui il professore di Uppsala comincia con lo screditare vari professori responsabili della candidatura dell’italiano  in  quanto non competenti  in storia antica ma in storia moderna, come Rodolico e  Salvemini,  a proposito dei quali Schück insinua anche il sospetto che abbiano candidato Ferrero solo per fare un piacere a Barbagallo, definito “signore” in modo spregiativo per indicare la sua inesistente qualifica di professore universitario. Per quanto riguarda  poi l’opera  di  Ferrero  sulla storia di Roma  antica, Schück  la  liquida come  priva  di  basi  scienti- fiche e come un imbarazzante documento d’incompetenza e d’impreparazione. L’argomentazione si rivelò così efficace da zittire del tutto due autorevolissimi componenti della commissione,  come Hallström e Österling, che  erano  inizialmente ben decisi a conferire a  Ferrero  il  premio Nobel. A distanza di quasi un secolo e tenendo conto dei riconoscimenti per la letteratura assegnati ormai a sceneggiatori, giornalisti e cantanti, l’argomentazione di Schück appare grottesca, ma in realtà lo era anche nel  lontano 1923. Il Nobel  per  la  letteratura non era infatti un premio scientifico e l’Accademia avrebbe dovuto guardare ai meriti di Ferrero come scrittore anziché alla sua competenza come storico.

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Il Nobel a Grazia Deledda

Negli anni ’20 come oggi erano però l’influenza e il potere dei singoli Accademici a far pendere da una parte o dall’altra il piatto della bilancia e Schück con la stessa determinazione con cui aveva silurato Ferrero riuscì a convincere i suoi colleghi della commissione a conferire il Nobel a Grazia Deledda, con una perorazione retoricamente efficace quanto la sua requisitoria contro Ferrero, servendosi di toni lirici ed epici per evocare i paesaggi della Sardegna («su cui splendono il sole e la bellezza»), il carattere dei personaggi e la forza delle vicende drammatiche, scaturiti dalla penna della scrittrice di Nuoro. L’orgoglio degli italiani, forte ancora oggi, per il riconoscimento del 1926 alla Deledda, non cambia però la sostanza delle cose e nessun giudizio critico successivo ha mai potuto confermare una qualche forma di eccellenza dell’autrice di Canne al vento  nel panorama  letterario mondiale del Novecento. Va onestamente riconosciuto che il Nobel alla Deledda è uno dei molti riconoscimenti assegnati su basi molto fragili, per non dire incomprensibili, né il quadro migliora sapendo che l’argomento decisivo a favore della Deledda –  nell’arringa di Schück – fu il paragone con il polacco Władisłav Reymont, vincitore nel 1924 di un altro Nobel oggi dimenticato e molto difficilmente difendibile.

La candidatura di Benedetto Croce

Gli altri candidati italiani del resto non apparivano superiori alla Deledda e non fu difficile per la commissione esprimere le proprie riserve sulla “napoletanità” della Serao e sul valore del teatro di Bracco, né migliore sorte poteva avere Cesare Pascarella, candidato nel 1927 da due soci dell’Accademia dei Lincei, mentre appariva invece rilevante la candidatura di Benedetto Croce, proposto per la prima volta nel 1929 da tre professori di lingua tedesca, Julius Schlosser, Karl Vossler e Friedrich Meinecke. La sorte di Croce al vaglio della commissione Nobel si sarebbe trascinata per un quarto di secolo, fino alle soglie della morte del filosofo  italiano nel 1952, e rimane ancora oggi una delle pagine più nere per quanto riguarda oggettività e imparzialità di giudizio dell’Accademia di Svezia, come peraltro avrebbe apertamente riconosciuto Österling, nel verbale della commissione Nobel del 24 settembre 1949, dove egli scrisse che «Croce è senza dubbio una figura di statura così imponente da mettere in ombra tutti gli scrittori presenti sulla lista dei candidati, e il suo ruolo di guida nelle scienze umanistiche e nell’estetica ormai è universalmente noto», rammaricandosi tuttavia per il fatto che il Nobel ormai sarebbe apparso come un riconoscimento troppo tardivo. In altre parole Croce, pur meritando il Nobel, non fu premiato fino alla caduta del fascismo perché l’Accademia non voleva inimicarsi la dittatura, e   non   fu  premiato, dopo   la  caduta del fascismo e nel secondo dopoguerra perché l’Accademia si vergognava  –  premiandolo  –  di ammettere la sua codardia nel non averlo premiato prima.

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Il terzo Nobel italiano: Luigi Pirandello

 È su questo sfondo, non del tutto glorioso, che va collocato il terzo Nobel italiano della prima metà del Novecento, il meno discusso, il più ammirato universalmente, il primo nella secolare storia del premio  –  ad essere assegnato la prima volta che il nome del candidato era arrivato sul tavolo dei giurati di Stoccolma. A candidare Luigi Pirandello nel 1934 fu Guglielmo Marconi nella sua veste di presidente della Classe delle Lettere della Reale Accademia d’Italia. Sfugge a molti – nelle ricorrenti ridicolizzazioni  (fra  le ultime  quella di  Andrea Camilleri) che si fanno della fascistissima Accademia, voluta da Mussolini, e dei suoi componenti con feluca e spadino – che si dovette ad essa e alla buona reputazione di cui godeva allora il fascismo anche in Svezia se il premio andò così facilmente a Pirandello, nonostante  la  perizia altalenante che su di lui aveva vergato lo stesso Per Hallström, presidente della commissione Nobel e Segretario permanente dell’Accademia di Svezia. Infatti   lo svedese,  che  era  un grande ammiratore di Hitler e fu assai dispiaciuto negli anni seguenti per le sconfitte dell’esercito tedesco nelle ultime fasi del conflitto mondiale, criticò spietatamente la produzione narrativa dello scrittore siciliano, considerata  mediocre  e  di gran lunga inferiore a quanto Pirandello  aveva scritto per il teatro e che, alquanto sorprendentemente dopo tanta severità, era tuttavia giudicato  meritevole del Nobel. La componente politica di simpatia per l’Italia fascista ebbe dunque un peso importante, per non dire determinante, nel premio assegnato a Pirandello, ma non ci risulta che la cosa, dal secondo dopoguerra in avanti, sia stata mai nominata dalla storiografia letteraria italiana politicamente orientata.

La candidatura di Alfonso Strafile

Dopo il successo di Pirandello il quindicennio seguente segna  forzatamente  un  periodo di  attesa  ed  i nomi che  appaiono sono quelli di Croce nel 1936,  nel 1938,  nel 1939 (mai candidato dall’Italia fino al 1947 quando a proporlo  fu Bernardino Barbadoro dell’Università di Firenze) nel 1948, nel 1949 e nel 1950, dello sconosciuto Alfonso Strafile,  proposto nel 1940 da Domenico Vittorini, professore a Filadelfia, di Ignazio Silo- ne, proposto nel 1946 da Hjalmar Gullberg dell’Accademia di Svezia e riproposto nel 1947 dall’altro Accademico di Svezia Fredrik Böök, di Riccardo Bacchelli proposto dai Lincei nel 1948,  insieme con Croce, e riproposto nel 1949, di Alberto Moravia, candidato per la prima volta nel 1949  da  Gullberg. Fra  tutti  questi l’unico ad essere preso in considerazione per il premio fu Silone.

La candidatura di Riccardo Bacchelli

La seconda metà del Novecento si apre, nel 1951-1953, alquanto sorprendentemente senz’alcuna candidatura italiana al Nobel per la letteratura (nel 1950 era stato proposto Croce), mentre nel 1954 torna ad affacciarsi  il nome di  Riccardo Bacchelli, che era stato proposto, assai autorevolmente, nel 1949 da

T.S. Eliot, suscitando però soprattutto  stupore  e ironia presso i componenti della commissione Nobel. A riproporlo nel 1954, con  una perorazione in francese, fu  Gianfranco  Contini nella sua veste di professore dell’Istituto di filologia romanza alla Facoltà di Magistero dell’Università di Firenze, ma la commissione Nobel,   nelle  parole   di  Österling, se ne sbarazzò  rapidamente considerando decisiva in senso negativo l’opera più recente del romanziere italiano,  Il figlio di Stalin.  Il lotto  dei concorrenti italiani aumenta però notevolmente l’anno successivo, il 1955, con le candidature di Montale, Ungaretti, Papini e Moravia. I due poeti si avvalevano  della proposta di T.S. Eliot  richiamando così prepotentemente l’attenzione della giuria svedese sulla nuova scuola poetica italiana, spesso chiamata “ermetica” per semplificazione, che entro pochi anni avrebbe incontrato i favori degli Accademici di Stoccolma, mentre Moravia era proposto da Carlo Dionisotti, professore all’Università di Londra, e Papini da  Henri  de  Ziégler  dell’Università  di  Ginevra. Se   Ungaretti non fosse stato candidato anche da Giuseppe De Robertis, si rimarrebbe stupiti della mancanza di proposte provenienti dall’Italia a favore dei nostri scrittori.

I casi Papini e Moravia

Papini e  Moravia   purtroppo  vennero  infelicemente    periziati da Ingemar Wizelius, un giornalista svedese, corrispondente da Zurigo del “Dagens Nyheter” e  vagamente infarinato di letteratura, il quale non conosceva né gli scrittori italiani né l’opera dei due candidati sottoposti al suo vaglio. I suoi titoli di merito per occuparsi  della  nostra letteratura risiedevano nel fatto che Zurigo è geograficamente più vicina all’Italia di quanto lo sia Stoccolma e questo  –  al di là di ogni inevitabile ironia – indica quanto approssimativamente e superficialmente lavorassero la commissione Nobel e l’Accademia di Svezia. Appare evidente dal testo consegnato da Wizelius ai giurati che il giornalista, per giudicare le opere di Moravia e di Papini, si era servito di recensioni altrui e di ritagli di giornale, come era abituato a fare nel suo lavoro di corrispondente. Il verbale finale della commissione, firmato da Österling, escludeva Moravia, soprattutto a causa  di un  romanzo   giudicato  «banale e ammiccante al pubblico»  come  Il disprezzo,  e  Papini  «per  l’opera  troppo  eterogenea e composita», anche se La spia del mondo veniva giudicata comunque «senza tema di esagerazioni un’opera all’altezza del Nobel». Quanto ai due poeti, la commissione si esprimeva  in modo interlocutorio perché Österling non gradiva l’eccessiva impenetrabilità della scuola ermetica.

Pasolini e Ungaretti

La candidatura di Vasco Pratolini e di Ungaretti

Nella tornata del 1956 comincia a stagliarsi meglio la candidatura di Ungaretti, proposto da Marcel Raymond dell’Università  di Ginevra,  mentre  si  affaccia  al  premio Vasco Pratolini,  anch’egli candidato dall’estero e più precisamente da Paul Renucci, professore all’Università di Strasburgo. Anche Pra- tolini venne affidato al dilettante  Wizelius, che scrisse sul narratore toscano un referto di sette pagine, infarcito di notizie biografiche e di luoghi comuni, ma alquanto favorevole alla sua opera, con accenti particolarmente entusiastici su Via de’ magazzini e su Metello, ma piuttosto tiepidi su Cronaca familiare  e  su   Cronache di poveri amanti. Troppo  poco  comunque  per coinvolgere Österling che, concludendo i lavori della commissione,  mise  a  verbale che la posizione dei  giurati  nei confronti di Pratolini era «attendista» e che si aspettava quanto sarebbe uscito successivamente dall’officina dello scrittore  fiorentino. Per Ungaretti si fece riferimento al giudizio dell’anno precedente ribadendo che il poeta italiano era da considerarsi in «lista di attesa».

La candidatura  di  Carlo Levi

Il 1957 vede per la prima volta la candidatura di Carlo Levi, proposto da Mario Praz in una lettera confusissima, in cui in realtà viene candidato Ignazio Silone o addirittura un quartetto formato da Moravia,  Silone,  Levi e  Bacchelli, indicati tutti come «degni di essere presi in considerazione  per  il Nobel per la letteratura», una malinconica conferma del fatto che anche uno studioso di altissimo prestigio come    Praz  non  aveva  capito  come     si   doveva  scrivere     una candidatura   ufficiale   al  premio Nobel. Moravia   era   stato   proposto  anche  dal  grecista  Gennaro  Perrotta, con una lettera poco chiara nelle motivazioni  almeno  quanto  quella di Praz   per i nomi dei candidati, mentre Papini veniva proposto da Paolo Toschi, dal suo indirizzo  romano  di via Tacito 50,  con  una  lunga  lettera che si concludeva però avanzando in alternativa la candidatura di Riccardo Bacchelli, in modo da ingenerare una possibile confusione agli occhi dei giurati svedesi. Nel verbale finale Österling si sbarazzò di tutti i candidati italiani liquidando per primo Carlo Levi in quanto inferiore agli altri candidati Moravia e Silone. Di questi ultimi due  Österling  elogia sia Moravia, tornato in auge ai suoi occhi dopo la pubblicazione de La ciociara, sia Silone per Il segreto di Luca, ma le preferenze della commissione quell’anno vanno comunque ad un quartetto finale formato da Karen Blixen, Boris Pasternak, André Malraux e Albert Ca- mus che infatti ottiene il Nobel.

Le candidature di Elio Vittorini, Ignazio Silone e Giuseppe Ungaretti

 L’avvicinamento degli scrittori italiani al premio diventa palese l’anno successivo, il 1958, quando viene candidato per la prima volta Salvatore  Quasimodo  con le proposte di Maurice  Bowra, presidente della British  Academy, Carlo Bo e Francesco Flora; Alberto Moravia, con  le  proposte di  Stuart Atkins e Hans Nilsson Ehle,  professore di lingue romanze all’Università di Göteborg; Elio Vittorini proposto ancora dallo statunitense Atkins, professore di lingue germaniche ad Harvard; Ignazio Silone proposto da due autorevoli soci dell’Accademia di Svezia; Giuseppe Ungaretti proposto da Howard  Marraro, professore di storia  alla  Columbia University; Riccardo Bacchelli proposto da Nilsson-Ehle. Vittorini venne eliminato in modo sbrigativo da Österling che mise velleitariamente a verbale che si attendevano future prove dello scrittore per poterlo giudicare, mentre per Bacchelli non ci si spostò dal precedente giudizio  negativo. La  perizia su Quasimodo e Ungaretti venne sciaguratamente affidata al solito giornalista Wizelius che ne fece un documento politico squalificando Ungaretti in quanto, a suo dire, colluso con il fascismo per la nota prefazione di Mussolini a  Il porto sepolto, ed esaltando invece Quasimodo in  quanto,  sempre a suo dire,  campione della Resistenza. Ma gli occhi della commissione erano tutti per Moravia, in diretta competizione con  Silone,  e   l’autore de   La ciociara,  proprio  grazie a questo romanzo, venne collocato al secondo posto nel quartetto dei finalisti che vedeva in testa Pasternak, candidato autorevolmente da Renato Poggioli, professore ad Harvard, e forte della pubblicazione de  Il dottor Živago  nell’edizione di Feltrinelli del 1957. Senza Poggioli e Feltrinelli il Nobel sarebbe andato a Moravia.

Il Nobel a Salvatore Quasimodo

Il premio all’Italia  arrivò  però  l’anno successivo,  il 1959, anche se la cosa avvenne in modo quasi romanzesco. Per l’Italia erano in gara Vasco Pratolini, candidato da Paul Renucci, Moravia e Silone, entrambi candidati da Hjalmar Gullberg componente della commissione Nobel, e Quasimodo candidato da Carlo Bo. La commissione Nobel decise con quattro voti su cinque che il Nobel doveva andare alla danese Karen Blixen,  ma  il quinto componente, Eyvind Johnson, si oppose facendo osservare che un premio alla Danimarca sarebbe stato interpretato all’estero come una prova di favo- ritismo scandinavo  e  propose  in  alternativa di premiare uno scrittore italiano a scelta fra Quasimodo, Silone, Moravia e Ungaretti, da lui elencati in quest’ordine e senza una motivazione  particolare che favorisse uno dei quattro. Ribaltando quindi il giudizio della commissione che rimaneva quello di premiare la Blixen, l’Accademia di Svezia nel suo plenum e com’è nei suoi diritti scelse di votare a maggioranza per il conferimento del Nobel a Quasimodo. Va da sé che ci si era orientati su un poeta anziché su un prosatore e che, tra Ungaretti e Quasimodo, era stato scelto il secondo anche in base alla perizia politica di Wizelius dell’anno precedente. Dopo tutto si trattava di riammettere l’Italia, riabilitandola, fra  i   Paesi   degni   del   Nobel dopo  il  quarto   di  secolo  di esclusione   per  essersi  schierata dalla  parte   perdente  nel secondo conflitto mondiale. Il premio a Quasimodo, nel giudizio di mezzo secolo dopo da parte dei critici svedesi e della stessa Accademia, è considerato comunque un premio letteraria- mente meritato  anche  se  oggi si  riconosce apertamente  che, tra Quasimodo e Ungaretti, si sarebbe dovuto premiare Ungaretti.

Figure haiku di Lucio Mayoor Tosi

Versi di Lucio Mayoor Tosi

La candidature di Moravia e di Silone

Fra i 70 candidati del 1960 riappaiono Moravia e Silone, candidati   proprio da quell’Eyvind  Johnson  della commissione  Nobel,  padre spirituale del premio a Quasimodo,  mentre,  tra i 93 candidati del 1961, Moravia figura candidato da Anders  Wedberg,  professore di filosofia teoretica all’Università di Stoccolma, e Silone viene proposto dall’Accademico di Svezia Elias Wessén.  È  significativo  notare  per  la  prima volta  tra  i candidati il nome di Eugenio  Montale,  allora  62enne,  proposto   da  Michele  De  Filippis, professore d’italiano all’Università di Berkeley. Cominciava così una lenta marcia di avvicinamento che sarebbe durata  per quindici anni. Nel 1961 i candidati scendono a 86 e nella lista riappare Moravia, candidato ancora dall’interno dell’Accademia di Svezia, questa volta ad opera del suo autorevole socio, Hjalmar Bergman, e affiancato da Silone, riproposto da Wessén. La lista del 1963 annovera ben 123 nomi e tra di essi figura per la prima volta Emilio  Cecchi, candidato  da  Howard  Marraro,  accompagnato  da Moravia,  proposto  da  Olof Brattö,   professore   di    lingue romanze  a  Stoccolma, e  dall’Accademico   di  Svezia Wessén,  che propone anche Silone, mentre Pratolini viene candidato ancora una  volta da   Paul  Renucci,  allora professore d’italiano  alla  Sorbona.   Gli  italiani  presenti  fra  i  98  nomi   della   lista   del   1964   sono Moravia, candidato dal milanese Uberto Limentani, professore ordinario di letteratura  italiana  a Cambridge dove   era entrato come lettore   nel  1945,    e  Ungaretti,      proposto  da  Georges  Poulet, belga di nascita e professore di letteratura francese prima alla John Hopkins e poi a Zurigo e a Nizza.

A metà degli anni ’60    il   quadro generale  non  muta, anche se nel 1965 le candidature salgono a 120 includendo nomi come Anna Achmatova, Jorge Luis Borges, Max Frisch, Ernest Jünger, William Somerset Maugham, Yukio Mishima, Vladimir Nabokov,  Ezra Pound, Thornton Wilder e Marguerite Yourcenaur, tutti rimasti senza Nobel, e altri invece poi premiati nel tempo come Asturias, Beckett, Böll, Kawabata e Neruda.

La candidatura di Giovanni Guareschi

Per l’Italia era presente per la prima volta Giovanni   Guareschi, candidato da Mario Manlio Rossi professore di filosofia all’Università di Edinburgo e non già “professore di letteratura italiana all’Università di Stoccolma”, come indicato  erroneamente   da   varie te  state italiane   (fra cui “La Stampa” il giorno dell’Epifania)  a gennaio del 2016 quando la lista dei candidati venne desegretata. Altrettanto inesatta la notizia, data dagli stessi giornali, che per Guareschi si trattasse di “un Nobel sfiorato”,  dal  momento  che l’autore  di  Don Camillo,  pur tradotto  in  svedese e  apprezzato dal pubblico,  non   venne  mai preso seriamente  in considerazione  per  il  premio e,  per rendersene conto,  già basterebbe  guardare  i  nomi dei candidati di quell’anno. Insieme a Guareschi figuravano, nella lista, anche Moravia, riproposto da Limentani, e Ungaretti candidato dallo statunitense Otis Edward Fellows, professore di lingue romanze alla Columbia University. A distanza di una manciata di anni dal premio a  Quasimodo  le  possibilità di Ungaretti erano quasi inesistenti, mentre quelle di Moravia erano state bruciate una decina di anni prima dopo la grande occasione perduta del premio andato a Pasternak.

Le candidature di Carlo Emilio Gadda e di Carlo Levi

Sorprende il calo dei candidati da 120 a 99 nell’edizione del 1966,  probabilmente  una  ripercussione delle polemiche  seguite  al  premio del 1965 a Šolochov,  ma la lista è ricca degli stessi nomi prestigiosi dell’anno  precedente con  qualche  nuovo  arrivo  come  Jean Anouilh e  Günter Grass.  Per  l’Italia appare per la prima volta Carlo Emilio  Gadda,  proposto dall’italo-americano Mario Andrew Pei,  insigne linguista e professore di filologia romanza alla Columbia University, mentre  riappare Carlo Levi, candidato da Maria Bellonci, citata negli archivi del Nobel come Maria Villavecchia  Bellonci ed erroneamente indicata come professoressa all’Università di Roma, mentre la Bellonci aveva potuto avanzare la sua proposta in qualità di presidentessa del PEN club italiano e, com’è noto, non ebbe mai una cattedra universitaria. Riappaiono anche le candida-ture di Montale,  proposto  da  Limentani, e di Moravia, anch’e- gli indicato dalla Bellonci. Gadda, allora già ultrasettantenne, non  aveva  (e ancora  non  ha)  qualcosa di suo tradotto    in   svedese  e  la difficoltà   della  sua  prosa  appariva  insormontabile agli Accademici di Svezia, mentre per  Carlo Levi,  le sue tre opere tradotte in svedese (Cristo si è fermato a Eboli, Bonniers, 1948, L’orologio, Bonniers, 1950 e Le parole sono pietre, Bonniers, 1958)  non  erano  bastate  nemmeno  in precedenza  per  far  formulare un giudizio positivo alla commissione Nobel.

L’edizione  del 1967 vede Montale  e  Moravia  come  unici candidati per l’Italia, proposti rispettivamente da Uberto Limentani, annotato come professore di lingua italiana all’Università di Cambridge, e da Gustaf  Fredén, professore di storia della letteratura all’Università di Göteborg. Sorprende l’ulteriore calo dei candidati che scende a 70 in totale, anche se la lista presenta una serie di nomi di prestigio come il vincitore Asturias, accompagnato da Beckett,  Bellow, Kawabata, Neruda, Simon, tutti poi insigniti del Nobel, accanto ad altri scrittori altrettanto insigni ma poi sempre esclusi dal premio, come  Jorge Amado, Borges, Graham  Greene  (proposto da Gierow, che candida anche Ionesco), Mishima, Ezra Pound e Tolkien.

La candidatura di Montale

 Negli anni successivi si va  rafforzando sempre più la candidatura di Montale, anche per il decisivo appoggio di Österling (suo traduttore in svedese), ma la commissione Nobel negli anni ’70 registra il passaggio di consegne  della  presidenza  da Österling (che rimane in commissione fino al 1981) a Gierow, mentre come nuovi  componenti  figurano  Lars  Gyllensten  dal 1968 e Artur  Lundkvist dal 1969, ai quali nel 1972 si aggiunge Johannes  Edfelt.  Nel 1975 erano  in  lizza nomi di assoluto  prestigio,  da Bellow  a  Canetti, da  Garcìa Marquez  alla  Gordimer, dalla Lessing a Grass, da Naipaul a Simon, da Graham Greene a Nabokov.   A  far  pendere  la  bilancia  dalla parte  di  Montale con un  nuovo  Nobel  alla   poesia italiana       già   premiata 16  anni   prima con Quasimodo, furono diversi fattori, non ultimo quello del rammarico  per non aver premiato Ungaretti, scomparso nel 1970  e  impossibile da  premiare nel decennio  successivo  al  premio   a   Quasimodo.  Il quasi 80 enne  poeta  ligure aveva contro di sé  sia l’età avanzata, sia il pessimismo    indiscutibile che era al fondo della sua produzione lirica e che  infatti Österling  provvide a”neutralizzare” nel suo discorso ufficiale sostenendo che si trattava di un atteggiamento razionale non privo  di   fiducia nella capacità di andare avanti superando gli ostacoli. A distanza di quasi mezzo  secolo  dal secondo Nobel   per  la letteratura assegnato all’Italia nella seconda metà del Novecento, va anche ricordato   che  esistevano  ancora  nell’Accademia di Svezia, almeno  in   uomini come  Österlig,  un  rispetto   e  un’attrazione  per la patria di Dante,  tali  da fargli priorizzare  gli scrittori italiani con una certa cadenza regolare, sentimenti che oggi non esistono più o che comunque non sono abbastanza forti.

Figure haiku 1 Lucio Mayoor Tosi

Versi di Lucio Mayoor Tosi

Il Nobel a Dario Fo e il caso Albino Pierro

Il discorso è completamente diverso  per  il  Nobel assegnato a Dario Fo nel 1997, oltre due decenni dopo il premio a Montale  e  dopo anni di  furiose  polemiche   sui  giornali   italiani e svedesi per il sedicente veto posto all’“obbligatorio” Nobel per Mario Luzi da parte dell’Accademia di Svezia che sarebbe stata oggetto di forti pressioni delle autorità italiane, su iniziativa di Emilio Colombo, per far invece assegnare il Nobel al poeta lucano Albino Pierro. Ad orchestrare questa campagna era Giacomo Oreglia, un editore e traduttore  italiano attivo in Svezia fin dagli anni ’50, certamente non privo di contatti fra gli Accademici ma in guerra contro la Farnesina  per questioni  legate alla sua  pensione. Tra le asserzioni  di  Oreglia  figurava quella secondo cui le traduzioni di Pierro in svedese sarebbero state finanziate  con  molte decine di milioni di lire provenienti dal ministero degli Esteri, un’affermazione completamente priva  di  fondamento  ma che trovò  posto  ed  attenzione  in autorevoli quotidiani svedesi. La polemica si acutizzò in modo accesissimo proprio nel 1997 quando l’Accademia di Svezia, anche per chiudere una volta per tutte la tragicomica questione, assegnò  –  nello stupore generale  –  il premio al teatrante Fo, fortemente sostenuto dal suo autorevolissimo ammiratore Lars Forssell della commissione Nobel.

L’assenza di candidature autorevoli per la poesia italiana contemporanea

Il premio a Fo, giustificato dall’Accademia come un’apertura rivoluzionaria ad un nuovo settore della letteratura, apparve incomprensibile  a  tutti nel 1997 e  tale  è  rimasto  a oltre 20  anni dalla sua assegnazione, anche  perché  la produzione “letteraria” di Fo era stata documentatamente scritta in collaborazione  con Franca Rame  (se non addirittura solo da lei), tenuta  però  al di fuori del premio, un errore  palese  e  riconosciuto  in seguito,  in forma privata, anche da qualche responsabile di quella decisione. Negli anni successivi le maggiori possibilità  nella corsa al premio  sono  state  dei nostri narratori, anche  per  il  rimpianto dell’Accademia per  non  avere  fatto in tempo a  premiare Calvino, a cui il Nobel sarebbe immancabilmente arrivato se non fosse morto prematuramente. Anche Giuseppe Bonaviri, Alberto Bevilacqua, Sebastiano Vassalli sono scomparsi negli anni in cui le loro candidature al premio stavano  rafforzandosi, mentre finora  nessun  poeta ha raccolto  presso l’Accademia  il favore di cui a suo tempo e forse troppo abbondantemente godette la lirica italiana del secondo dopoguerra.

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Il Problema Leopardi (il grande dimenticato) nel rapporto con la poesia del Novecento – Lettura di Leopardi da Ungaretti agli ermetici, la Ronda: De Robertis, Cardarelli, la Restaurazione, Umberto Saba – Lettura del dopo guerra: da Pavese, Moravia, Fortini Pasolini fino a Zanzotto e la neoavanguardia e Sanguineti e la nuova ontologia estetica – A cura di Franco Di Carlo

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domenico morelli ritratto di giacomo leopardi

Di solito, quando si dice Ungaretti, si pensa subito all’opera di scardinamento espressivo e di rivoluzione del linguaggio poetico compiuta dai suoi versi e dai suoi scritti teorico-critici nei confronti della tradizione letterària italiana (dal ‘200 all’800 romantico) che continuava ad avere i suoi maggiori rappresentanti in Carducci e, per certi versi, in Pascoli e D’Annunzio, legati anch’essi, nonostante le indubbie novità della loro poetica e del loro linguaggio espressivo, ad una figura di letterato «ossequioso» nei confronti dell’«ufficialità» (letteraria e non): un’immagine, in fondo, ancora borghese e tardo-romantica, provincialisticamente sorda alle novità letterarie europee. In realtà, il rischio di considerare la poesia di Ungaretti come esclusivo effetto di un atteggiamento esplosivamente distruttivo (tipico dell’avanguardia à la mode, italiana e non) rispetto alle forme poetiche proprie della tradizione, ha una sua giustificazione, non solo di ordine psicologico-sentimentale, ma storico-letteraria: l’immediatezza espressiva e l’essenzialità della «parola» ungarettiana, balzano subito agli occhi come caratteristica peculiare della prima stagione creativa di Ungaretti, dal Porto sepolto (1916) all’Allegria (1931). Tuttavia già in quest’ultima, in un periodo di «apparente sommovimento di principi», si può notare la presenza, anche se in nuce (che si svilupperà meglio in seguito, nel Sentimento, 1933), di un retaggio di temi e di espressioni che fanno pensare, nonostante la scomposizione del verso tradizionale, al recupero di un ordine, esistenziale e stilistico ad un tempo.

La guerra, con i suoi miti e la sua esperienza traumatica,

aveva fatto nascere il canto dell’umanità, proprio dell’Allegria: la guerra, in realtà, si era presentata al «soldato» Ungaretti ben diversa da come l’avevano vaticinata e idoleggiata la retorica dannunziana e le rumorose gazzarre futuriste. Ungaretti sentiva, finita ora la guerra, il bisogno di «ritrovare un ordine» (e siamo già nel periodo del Sentimento, dal ’19 in poi) «da ristabilirsi nel senso della tradizione, incominciando […] dall’ordine poetico, non contro, cioè, ma dentro la tradizione anche metodologicamente». Pur rappresentando, perciò, l’Allegria la prima fase della «sperimentazione formale» di Ungaretti, ed avendo la rottura del verso tradizionale come scopo principale quello di evidenziare, alla maniera dei simbolisti e di Poe, le capacità analogiche ed evocative della parola, sentirla, cioè «nel suo compiuto e intenso, insostituibile significato», nasce da una condizione umana di precarietà come quella del «soldato». In realtà, già dal ’19 nasce in Ungaretti la preoccupazione di ricreare, con quei suoi versicoli franti e spogliati di qualsiasi discorsività, un tono ed una misura classicamente evocati e organizzati: è la perfezione del settenario, del novenario e dell’endecasillabo, raggiunta mettendo le parole una accanto all’altra e non più una sotto l’altra (si pensi per questo alle osservazioni critiche del De Robertis sulla formazione letteraria di Ungaretti).

In una intervista del ’63 Ungaretti dirà

a proposito della sua poesia degli anni post-bellici: «E poi gli endecasillabi bisognava imparare a rifarli… quindi l’endecasillabo tornava a costituirsi in modo normale». E ancora: «L’endecasillabo nasce subito, nasce dal ’19, nasce immediatamente dopo la guerra», come esigenza di un «canto» con cui partecipare dell’esempio dei classici, da Petrarca a Leopardi, filtrato attraverso l’esperienza mallarméana e baudelairiana. Questo recupero di un ritmo e di una metrica, di una musicalità, nuove ed antiche ad un tempo, sorgeva già da quegli anni terribili della guerra e del dopoguerra, come necessità di un equilibrio interiore e stilistico insieme. Era questo il periodo de «La Ronda»: della volontà di ristabilire, e in politica e in letteratura, quell’ordine turbato dell’esperienza della guerra. E qui balza subito agli occhi l’indiscutibile influenza mediatrice della rivista di Cardarelli e Bacchelli sul «secondo» Ungaretti, quello del Sentimento, sul suo atteggiamento nei confronti della tradizione letteraria italiana.

Il «ritorno all’ordine»

Sono gli anni, quindi, in cui emerge la necessità di un «ritorno all’ordine», da ripristinare nel senso della tradizione, attraverso il recupero di temi, di modi espressivi, propri di un mondo passato, ma rivissuti e riscoperti in una rilettura moderna e originale, personalizzata. Si trattava per Ungaretti di «non turbare l’armonia del nostro endecasillabo, di non rinunciare ad alcuna delle sue infinite risorse che nella sua lunga vita ha conquistato e insieme di non essere inferiori a nessuno nell’audacia, nell’aderenza al proprio tempo». In realtà il cosiddetto «neoclassicismo» non farà mancare il suo peso determinante nel segno e nel senso di un’arte predisposta «verso un ordine tradizionalmente tramandato e che solo negli schemi è stato sovvertito». Ungaretti rompe soltanto gli schemi e la disposizione della trama espressiva e non le strutture formali e tematiche interne alla poesia, recuperandone, così, i valori «puri» e misteriosi per via retorico-stilistica e tecnico-metrica. «Al di là», quindi, della «retorica» dannunziana e futurista, dei toni «dimessi» dei crepuscolari, del sentimento «languido» del Pascoli, si trattava di eliminare, attraverso l’apparente liquidazione della tecnica tradizionale, «le sovrastrutture linguistiche che impacciavano il folgorare dell’invenzione», riuscendo ad attingere, a livello metrico, ritmico-musicale, una «parola» che miracolosamente riacquistava nella sua rinnovata collocazione una sua interna e misteriosa valenza, non solo e non tanto metrica. Quest’opera riformatrice del linguaggio poetico era attuata da Ungaretti non tanto mediante il ripudio dei versi canonici tradizionali «quanto piuttosto nella loro disarticolazione e nel loro impiego di nuovo genere, che comporta lo spostamento degli accenti dalle loro sedi tradizionali, la scomparsa della cesura, l’uso della rima scarso e asimmetrico, il valore assegnato alle pause». Continua a leggere

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Marco Onofrio. Lettura di Giuseppe Ungaretti tra vocalità e immagine televisiva negli anni Sessanta. L’aspetto fonosimbolico della poesia di Ungaretti dalla “Allegria” al rientro nella Tradizione

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Commento di Marco Onofrio

Le apparizioni in video di Ungaretti cominciano negli anni ’60. A quel tempo “televisione” in Italia significa monopolio esclusivo della Rai, e questa, in quanto Tv di Stato, non ancora condizionata dalla concorrenza delle reti private, è in grado di privilegiare criteri qualitativi nella gestione del palinsesto. Con il democristiano Ettore Bernabei al timone (1961), la Rai plasma il mezzo televisivo in senso pedagogico e politico, come opinion leader egemonico, utilizzabile a fini di consenso. L’assenza di strategie commerciali salvaguarda la durata del prodotto culturale. Caso emblematico il programma L’Approdo, curato da Leone Piccioni e trasmesso a cadenza settimanale dal 2 febbraio 1963 al 28 dicembre 1972. Si tratta della trasposizione televisiva di una rubrica radiofonica della Rai, già rivista cartacea trimestrale pubblicata dalla ERI. Ungaretti è membro di un comitato di redazione sontuoso, che annovera nomi del calibro di Bacchelli, Betocchi, Bo, Cecchi, De Robertis, Longhi, Valeri…

È soprattutto attraverso L’Approdo che passa l’apparizione in video di Ungaretti. Fin dalla seconda puntata (9 febbraio 1963: a poche ore dal sessantacinquesimo genetliaco), la trasmissione dedica tributi di attenzione ad uno dei suoi maggiori garanti di dignità culturale. E certo Ungaretti – grande poeta e già universalmente noto – sembra adatto quant’altri mai ad incarnare lo spirito di un programma che si propone di coniugare qualità e divulgazione: sostanzialmente perfetto, insomma, per l’“iperdimensione” pubblica che il mezzo televisivo si appresta con il tempo a veicolare. Ungaretti? Conosciuto dalla gente, non solo dai letterati. La sua fama pubblica già consolidata gli garantisce l’autorevolezza e la credibilità necessarie per proporsi alla platea televisiva come “il” poeta; la televisione finisce a sua volta per estendere e approfondire questa fama oltre il riverbero banalmente rimasticato del «M’illumino d’immenso», sino a farne una sorta di mito vivente. Egli può così ritagliarsi uno spazio nell’immaginario collettivo ed essere identificato anche da chi non lo conosce, o non conosce la sua poesia, o nutre scarso interesse per il fatto culturale. È anche grazie alla Tv che Ungaretti assurge, anno dopo anno, alla statura di personaggio. Nel 1968, per esempio, traduce e commenta l’Odissea in Rai, e la gente comune, incontrandolo, lo scambia per “quel grande attore della televisione”. Qualcuno, più fantasiosamente, potrebbe anche immaginare che Omero stesso sia stato catapultato a parlare dagli schermi televisivi, tanto ieratica e autorevole appare la figura del poeta. Si era fatto crescere una barba bianca alla Hemingway, da vecchio lupo di mare, pur mantenendo accesi i suoi celebri occhi da bambino, enigmatici come quelli d’un gatto: un appeal nobile e umano, austero e familiare, in grado perciò di guadagnare piuttosto naturalmente il centro della scena, assicurandosi non solo il rispetto ma anche l’affetto dei telespettatori.

Giuseppe Ungaretti

Ma la sua presenza nei programmi Rai non si limita a L’Approdo, giacché comprende anche diversi “specials” nel contesto di altre trasmissioni: sin dal “ritratto” di diciotto minuti che gli dedica Clemente Crispolti, trasmesso la sera del 7 luglio 1959. Sono appunto “ritratti”, “incontri”, “conversazioni” e “documentari” incentrati sull’uomo e sul poeta. Generalmente Ungaretti appare in video per recitare poesie, ma anche per esprimersi su certe questioni, rispondendo alle domande di un intervistatore; o per presiedere o ricevere un premio letterario; o per partecipare a un convegno o a un festival; o per incontrare gli studenti nelle scuole. Le riprese sono per lo più in interno. Ma l’occhio indiscreto della telecamera deve anche poter soddisfare le curiosità del pubblico, che vuole conoscere il poeta-personaggio nella totalità della sua sfera esistenziale. Ed ecco “Ungà” colto nel privato quotidiano, ripreso a passeggio per Roma, lungo il Tevere o tra le rovine di Caracalla, o nell’avita Lucca, o a parlare al tavolino di un bar, o a casa con accanto la nipotina… Il caso più tipico è offerto dal poeta nel suo studio mentre recita versi. Nelle immagini televisive lo si vede seduto in poltrona, inquadrato a mezzo busto, in primo piano. Non accompagna la lettura con gesti delle mani, che sono occupate a reggere il libro. La performance vocalica è doppiata da smorfie espressive e dal movimento degli occhi. Di tanto in tanto li alza dal libro verso un punto immaginario, in alto alla sua sinistra. Lo sguardo è intensamente visionario, inciso nelle rughe di sofferenza che lampeggiano sul volto per l’ansimante scansione sillabica dei versi. È come se scorgesse, fuori di sé, una sorta di oggettivazione simbolica delle parole che pronuncia; o le parole stesse gli nascessero spontanee, per la prima volta, dettate da ciò che “vede”.

montale e il picchio

Quando legge ad alta voce le sue poesie, in televisione, o in pubblico durante le presentazioni, Ungaretti può destare sospetti di istrionismo; in realtà non è un fine dicitore o un “attore” distanziato dalla materia, ma un uomo che soffre dal vivo, autenticamente –: che dona e spende tutto se stesso, e si ricapitola dalle origini, ancora una volta, ogni volta daccapo. Non risparmia nulla al “fratello umano” che lo ascolta: offre tutto ciò che può dare, anche ciò che ancora non sa di poter dare. La parola è vissuta nel sangue, in ogni sua fibra. Il pathos espressivo è autentico e per questo impressionante. Ungaretti arde all’improvviso come un tirso, e la sua fiammata non si lascia facilmente dimenticare. Sul viso gli si rende visibile una sofferenza, una pena effettiva, e a tratti un illuminarsi e vibrare che colpisce per sempre chi lo vede. È in definitiva un grande comunicatore, capace di bucare il silenzio o il teleschermo con i suoi sguardi profondissimi e la sua voce cavernosa e dolce, i suoi estri repentini e i suoi furori. Ricorda Francesco Paolo Memmo: «Aveva quegli occhi incredibili, scavati, che ti scavavano, quando lo vedevo in televisione; con una bellissima barba bianca, negli ultimi anni: lo ricordo, ad esempio, seduto accanto a un albero, su un prato, in un videoclip ante litteram, mentre Iva Zanicchi cantava una canzone evidentemente a lui dedicata» (ma Ungaretti stravedeva per Mina).

Della vocalità di Ungaretti si è occupato Emerico Giachery in un  breve e magistrale saggio, Ungaretti a voce alta (2008). Occorre premettere che ogni voce, nella sua grana originaria, ha per natura incorporato un destino di credibilità. La voce non è mai neutra, ma ha significato di per sé: è portatrice di un “valore” che prescinde dal linguaggio. Questo spiega perché un bravo attore, dotato di bella voce, è in grado di far apparire valida una poesia mediocre; o, viceversa, perché una poesia valida, o anche splendida, può essere completamente rovinata da una lettura scadente. La vocalità (grazie a cui il testo poetico viene eseguito, a mo’ di partitura musicale) abbraccia i poteri del significante – intonazione, accento, ritmo, interpretazione delle figure foniche e metro-ritmiche del testo – che, secondo la distinzione di Émile Benveniste, consentono al registro semiotico-denotativo di espandersi negli “armonici” del livello semantico-connotativo: la pienezza del senso poetico (ovvero la “significanza” epifanica del testo) scaturisce dalla coesione strutturale che incorpora i poteri del significante, sondati dalla voce, ai messaggi convenzionali del significato.

Giuseppe ungaretti mentre leggeIl linguista Giuseppe Paioni ha descritto in modo assai preciso la fonetica ungarettiana: il celebre “sillabato”, la nettezza degli iati, la purezza delle vocali e la variabilità della loro durata, «la vibrante rinforzata se associata a dentale o velare (…), ma senza asprezza, quasi che il suo ruolo simbolico fosse quello di virilizzare la dolcezza, senza abbandonarla (…), la sibilante preconsonantica o geminata allungata, come accarezzata (…), le nasali marcate a delimitare il prefisso»… Il sillabato ungarettiano cerca «la letteralità, le articolazioni naturali della lingua. L’effetto di questi eccessi, di questi timbri marcati è quello di astrarli, come se la voce ne accentuasse l’idea, l’evidenza, cioè di allucinarli». È un recitativo che frantuma il continuum vocale in un “salmodiare” rotto e sofferto, modulato su variazioni di volume e di altezza. «Né meramente illustrativa o espressiva né enfatica o al limite isterica, la performance ungarettiana si definisce essenzialmente come una drammaturgia sottile della parola, una “mise-en-scène” puntuale e allo stesso tempo lussuosa del testo e delle modalità con cui il testo e la sua ritmicità “lavorano” la lingua e i suoi significanti».

Peraltro, la lettura a voce alta di un testo è – già di per sé – un atto ermeneutico. Lettura e critica convergono: l’interpretazione vocale della poesia va intesa come «momento di sintesi e punto d’arrivo del processo interpretativo». E aggiunge, precisando, Giachery:  «Si tratta, entro un certo limite, anche di una sorta di lettura-confessione, e certo», per ciò che riguarda Ungaretti, «di una lettura che aiuta non poco ad intendere il suo modo di sentire, di vivere l’esperienza della parola, di scandire, spaziare, scatenare la materia verbale». Orbene, che rapporto intercorre tra la vocalità dell’Ungaretti performer e il presunto ermetismo della sua poesia? E anzitutto: che cosa c’è di realmente ermetico in Ungaretti, prescindendo ovviamente dalla classificazione scolastica che lo assomma – nella comune cifra dell’ermetismo – a due poeti molto differenti (anche tra loro) come Quasimodo e Montale? La poesia di Ungaretti è “ermetica” in quanto rende ampio lo spettro del senso e si apre alla libertà delle interpretazioni. Il lettore è coinvolto attivamente nella produzione del senso (cioè nell’attuazione di una fra le tante letture possibili) della poesia. Si legga, ad esempio, l’attacco di “O notte” (da Sentimento del tempo, 1933):

Dall’ampia ansia dell’alba

svelata alberatura.

Giuseppe Ungaretti alla Hemingway (1)Dove si noti il predominio fonosimbolico della [a], vocale di apertura cosmica a uno «smisurato orizzonte in ansia crescente di luce e di evento» (Giachery); ma anche l’ambivalenza di «alberatura», che può denotare sia (com’è più probabile) un intrico di fronde “svelato” dalla luce del nuovo giorno, sia gli alberi di una nave privata di vele, con gradienti simbolici successivi di identificazione del mondo (compatto divenire delle cose esistenti) in imbarcazione che attraversa gli «oceanici silenzi» del tempo, e a cui l’alba toglie le vele tenebrose della notte… Quanto più cresce, come in questo caso, la libertà interpretativa del lettore, tanto più il testo è “oscuro”, cioè ambiguo, polisemantico, non chiaramente determinato. La poesia di Ungaretti è “ermetica” anche nella misura in cui tiene nascosta la significanza, cioè il livello semantico globale che saprebbe – viceversa – renderla chiarissima. Per meglio dire: tiene la significanza accessibile soprattutto alla voce viva, attraverso l’operazione supplementare, successiva alla scrittura, della performance.

La performance ungarettiana, in particolare. Come un testo magico che suppone la tradizione di un rito vocalico, e solo in esso e per esso accetta di rivelare o riflettere il proprio segreto. La voce è il passepartout che permette di aprire le gabbie del segno, di entrare nel testo, di chiarirlo nella sua verità originaria. Il suono performativo della voce è un imbuto che ci porta nell’utero della poesia, dentro la cuna del senso. Oltre quest’utero si spalanca l’abisso del silenzio infinito che contiene tutte le parole, e ogni parola è l’imboccatura di questo abisso. La voce scardina l’ordigno della poesia, ne spiega le pieghe, ne svela i sottotesti, laddove urgono i significati più profondi e veri. Capiamo allora che l’oscurità era solo apparente: si trattava in realtà di un bagliore nascosto dentro la tenebra opaca dei segni. Il “senso” della poesia ermetica è come una candela accesa: si vede appena in piena luce, alla superficie della “forma”, ma risplende come un piccolo sole nel buio cavernoso dei sottotesti. Leggendo e ricreando drammaticamente la poesia, il poeta ci restituisce l’infinito che “non cape” nella forma, ovvero gran parte di ciò che avrebbe voluto o potuto dire. Ci comunica, usando linguaggi diversi dalla scrittura, i segnali e i sensi di ciò che la scrittura non dice, o dice oscuramente. Così facendo guida e controlla l’indirizzo della decodifica, introducendo un principio di determinazione già parecchio notevole rispetto alla libertà “aperta” del lettore solitario.

Giuseppe Ungaretti Soldati-in-trincea-Prima-Guerra-MondialeAttenua dunque il principio ermetico della collaborazione attiva del lettore: il poeta stesso, ora, legge per lui. Il lettore-ascoltatore, divenuto oggetto di fascino, dovrà “limitarsi” a rielaborare segni già incanalati verso una certa direzione del senso (così leggere ad alta voce è, appunto, interpretare). Ungaretti, leggendo la propria poesia in un modo tanto scenografico e ammaliante, è come se volesse “suggerire”, se non imporre, la decodifica originaria del testo, avendo a cura che si comprenda entro il raggio di una certa direzione. La performance rappresenta una forma di comunicazione totale, sicché «nel modo della lettura di Ungaretti, molte di quelle cose che sono sempre sembrate caratteristiche tanto della sua personalità quanto della sua poesia vengono fuori. Si affaccia a un certo momento una ricomposizione di tutto in chiave di possibile auto-teatro, e tuttavia il teatro è anche rivolto agli altri» (Zanzotto). Egli torna al punto di partenza, rivive le premesse dell’atto creativo, si tuffa di nuovo nel magma da cui è emersa la poesia.

Il testo scritto viene “fissato” dalla voce come textus ne varietur, come versione ideale e forma massima della potenza: la poesia risuona in armonia con le intenzioni originarie, sfiora il luminoso archetipo da cui la scrittura – pallida copia – proviene, de-finendosi in forma. E che la scrittura, forma immobile e incisa nello spazio, debba essere “fissata” dalla voce, mobile e vibratile nel tempo, testimonia sia la straordinaria potenza della voce (e non una voce qualsiasi, ma quella suggestiva di Ungaretti), sia la particolare qualità di questa scrittura, il suo essere preformata in vista della performance, scritta a mo’ di “partitura” da eseguire, dilatandosi ed esaltandosi nella voce. È una poesia che chiede giustizia alla voce, che insomma deve “suonare” per essere davvero se stessa. Nella lettura ad alta voce si produce dunque una forma di “variante assoluta”: la poesia vive autenticamente – nella pienezza delle sue potenzialità – attraverso un rito vocalico che la accende, e la fa palpitare all’unisono col ritmo interiore del poeta, mentre questi la rivive e la scandisce attimo per attimo, respiro dentro respiro, parola dopo parola. Non è difficile rendersi conto che questo è il modo del primo Ungaretti.

Giuseppe Ungaretti i-flood-myself-with-the-light-of-the-immenseDopo i versicoli dell’Allegria, distillati per quintessenza dal simbolismo francese ed europeo, il poeta rientra nell’alveo accademico della tradizione italiana: un certo sentire barocco, che gli appartiene per istinto e anche per cultura (traduce da Gongora, Shakespeare, Racine), viene travasato entro le strutture ormai “archetipiche” del petrarchismo (dopo secoli di codificazioni stratificate e sbiadite imitazioni). La “restaurazione” operata con Sentimento del tempo determina un sovrappiù di forma che ingorga, offusca e, da ultimo, porta fuori strada il percorso aperto dalla scintillante e davvero creativa novità del Porto sepolto. Che il modo originario fosse il più conforme e congeniale alla sua verità di uomo e di poeta, lo si capisce dal fatto che Ungaretti lo conserva, nel corso degli anni, come metodo di lettura performativa. Talché anche il verso lungo (e l’endecasillabo, in particolare) delle raccolte successive, viene destrutturato, nell’atto della lettura ad alta voce, secondo il modello dell’Allegria. Come a dire che l’autentico Ungaretti è e resta il poeta dell’Allegria, anche quando scrive e poi legge pubblicamente testi che distorcono o contraddicono quelle originarie implicazioni. Si prenda ad esempio, da Il taccuino del vecchio, lo struggente e disperato appuntamento d’amore, oltre i confini del tempo, che è “Per sempre”, del 1959, in memoria della moglie Jeanne morta da un anno:

Senza niuna impazienza sognerò,
mi piegherò al lavoro
che non può mai finire.
E a poco a poco in cima
alle braccia rinate
si riapriranno mani soccorrevoli.
Nelle cavità loro
riapparsi gli occhi, ridaranno luce.
E, d’improvviso intatta
sarai risorta, mi farà da guida
di nuovo la tua voce,
per sempre ti rivedo.

Giuseppe Ungaretti era interventista ma, di fronte alla morte ed alla distruzione, cambiò le proprie posizioni mostrando, attraverso le sue liriche, gli aspetti più ...Ecco come la poesia si trasforma, per una lettura televisiva, nella dizione ansimante e pausata di Ungaretti:

Senza niuna impazienza
sognerò
mi piegherò
al lavoro
che non può mai
finire
e
a poco a poco
in cima
alle braccia
rinate
si riapriranno
mani
soccorrevoli
nelle
cavità loro
riapparsi
gli occhi
ridaranno luce
e d’improvviso
intatta
sarai
risorta
mi farà
da guida
di nuovo
la tua voce
per sempre
ti rivedo.

Giuseppe Ungaretti 1Il metro viene spezzato dal respiro della voce, nella sua misura organica, perché emerga la verità profonda delle parole, incise – queste più che mai! – nella carne dell’esistenza, del dolore e della memoria. La pausa isola la parola nella sua densità semantica. Il silenzio accentua, per contrasto, il suono della voce: ne esalta la magia, la persuasività. La voce può così manifestare il percorso spirituale della parola, afferrandone l’eco remota. Ungaretti cerca di catturare, nella dizione franta, il ritmo nativo ed essenziale della sua poesia, lasciando affiorare il chiarore dei sottotesti e consentendo di significarne la “verità” (su tutte le possibili letture).

Anni erano passati, e vicende e tragedie Ungaretti aveva oltrepassato, evolvendo nel proprio percorso. Nuove opere, nuove ispirazioni, nuovi orizzonti. Eppure l’Ungaretti che recitava versi restava ancorato al tempo dell’Allegria, al modo di quel capolavoro, al bagliore folgorante del suo avvio. Era quella la voce “nativa” del poeta, ed egli fin da allora l’aveva conquistata, definitivamente, per sempre. Conservare così la voce più chiara, la più limpida, di cui era capace, gli serviva anche per sciogliere i grumi, le opacità della forma, nella vita pulsante della voce, dispiegata attraverso il rito divulgativo della lettura. Leggendola ad alta voce, Ungaretti estrae la propria poesia dal nodo semantico che ne racchiude il senso, dentro la profondità delle strutture. La poesia ermetica si “dis-ermetizza” nel fuoco liquido della voce. La poesia di Ungaretti, ermetica nello spazio bianco della pagina, cessa di esserlo nell’espressione totale della performance, nell’urgenza della sua vocalità.

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TRE POESIE – TRADUZIONI IN LINGUA SERBA di MILAN KOMNENIĆ (1940-2015) di EUGENIO MONTALE, GIUSEPPE UNGARETTI e CESARE PAVESE – a cura di Duška Vrhovac

Milan Komnenic Cesare Pavese

Quando un poeta muore,
La morte dissolve la nebbia dai suoi versi. (Ljubomir Simović)

A Belgrado, si è spento di recente, il 24 luglio, il poeta e traduttore Milan Komnenić. La commemorazione si è svolta nell’aula dell’Assemblea della città di Belgrado (dell’Assemblea cittadina di Belgrado), in presenza degli amici, della famiglia e dei colleghi dell’Associazione degli scrittori della Serbia, e la tumulazione è avvenuta nel Nuovo cimitero di Belgrado, nel Viale dei cittadini illustri. Alla notizia della morte di Milan Komnenovic, l’attuale ministro della cultura ha indirizzato alla famiglia di Milan Komnenić un telegramma di condoglianze in cui si dice: “Ricorderemo Komnenić come eminente poeta, traduttore, e redattore, per lunghi anni, di riviste letterarie e, a suo tempo, anche ministro della cultura, che  con la sua poesia, i saggi, il lavoro nel campo dell’editoria e l’impegno politico si è dedicato a trovare le risposte ai complessi interrogativi del destino storico del popolo. Inoltre considerevole è stato il suo contributo alla collaborazione internazionale nel campo della letteratura mediante un copioso lavoro di redattore e traduttore. Ora ci accomiatiamo da un uomo che con la sua attività ha contribuito in modo rilevante alla cultura serba e alla trasformazione democratica della società.” Tuttavia, anche se Komnenić ha svolto in due occasioni alte funzioni pubbliche, prima come segretario di stato per l’informazione e la cultura e poi anche come ministro della cultura, nessuno dei funzionari di stato ha partecipato né alla sua commemorazione né alle sue esequie funebri, che non hanno visto neppure la presenza di colleghi preposti al Movimento serbo di rinnovamento, partito di cui egli era stato cofondatore. La morte ha confermato che il poeta e traduttore, in questo caso, hanno prevalso sul politico.

Milan Komnenić

Milan Komnenić

Milan Komnenić era nato l’8 novembre 1940 a Pilatovac (Bileća) in Montenegro. Studente e laureato della Facoltà di Filologia di Belgrado, redattore della casa editrice „Prosveta“, nel cui ambito ha dato vita a tre edizioni di prestigio: „Erotikon“, „Prosveta“ e „ Hispanoamerički roman“/ “Il romanzo latinoamericano“/, ha redatto anche le riviste letterarie „Vidici“, „Delo“ e „Relations“; inoltre ha tenuto lezioni presso università di Francia, Italia e USA.

Alla produzione letteraria Komnenić cominciò a dedicarsi nel 1960. Ci ha lasciato un’opera ampia e varia: 21 raccolte di poesie, quattro libri di saggi, sei tra antologie e miscellanee, tre monografie, duecento tra articoli e testi specialistici, pubblicati in periodici di tutto il mondo. È stato insignito del riconoscimento per il sommo contributo dato alla cultura della Repubblica di Serbia e rimane destinatario di prestigiosi premi letterari per la poesia e per la traduzione.

Milan Komnenić, come traduttore, è stato instancabile. Ha tradotto  cinquanta libri dall’ italiano, dal francese, dallo spagnolo e dal tedesco. Con queste sue traduzioni egli ha fatto conoscere alla giovane generazione i poeti italiani Ungaretti, Montale e Pavese, pubblicandone le opere presso  rinomati editori della Jugoslavia. Nel 1975, per i tipi dell’allora grande casa editrice BIGZ, Komnenić ha curato e tradotto la raccolta di Ungaretti, Sentimento del tempo, per cui ha scritto la prefazione e le note. Nel 1977, la casa editrice Rad (Belgrado) nella sua edizione „Reč i misao“ /“Parola e pensiero“/ pubblicò la sua traduzione della raccolta Verrà la morte ed avrà i tuoi occhi di Cesare Pavese, mentre nel 1982 sarà ancora una volta l’editrice BIGZ a pubblicare Ossi di seppia di Eugenio Montale nella traduzione di Komnenić.

In omaggio al poeta e traduttore Milan Komnenić e ai suoi prediletti autori italiani riportiamo, nell’originale e nella traduzione, una poesia di ciascuno di questi tre libri.

 Milan Komnenic Eugenio Montale

Giuseppe Ungaretti, Sentimento del tempo

Selezione, traduzioni, note e prefazione di Milan Komnenić
Đuzepe Ungareti, Osećanje vremena, BIGZ, Beograd, 1975.
Izbor, prevod, predgovor.i napomene Milan Komnenić

L’Isola

A una proda ove sera era perenne
Di anziane selve assorte, scese,
E s’inoltrò
E lo richiamò rumore di penne
Ch’erasi sciolto dallo stridulo
Batticuore dell’acqua torrida,
E una larva (languiva
E rifioriva) vide;
Ritornato a salire vide
Ch’era una ninfa e dormiva
Ritta abbracciata a un olmo.
In sé da simulacro a fiamma vera
Errando, giunse a un prato ove
L’ombra negli occhi s’addensava
Delle vergini come
Sera appié degli ulivi;
Distillavano i rami
Una pioggia pigra di dardi,
Qua pecore s’erano appisolate
Sotto il liscio tepore,
Altre brucavano
La coltre luminosa;
Le mani del pastore erano un vetro
Levigato da fioca febbre.

Ostrvo
Na obalu gde vajkadašnje beše veče
Onih pradrevnih šuma, siđe
I ukaza se
Prizva ga lepet krila
Što se ote trpkom damaranju
Uzavrele vode,
I priviđenje (što je čilelo
I opet živelo) spazi;
Smotri, krenuvši naviše,
Da to beše nimfa i da je spila
Uspravna grleći brest.

Lutajući u sebi
Od privida do žežena plamena
Stiže na livadu
Gde se senka gusnula
U očima devica
Kao veče u maslinjaku;
Grane su cedile
Lenju kišu strela,
A ovce su dremale
U slatkastoj mlitavosti,
Druge su pasle
Svetli pokrovac;
Ruke pastira behu staklo
Brušeno potajnom groznicom.

***

 Milan Komnenic

Milan Komnenic

Cesare Pavese, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
Selezione e traduzioni di Milan Komnenić
Česare Paveze, Doći će smrt i imaće tvoje oči
izbor i prevod Milan Komnenić, Beograd, Rad 1977

.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Cosí li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
(22 marzo ’50)

.
Doći će smrt i imaće tvoje oči

.
Doći će smrt i imaće tvoje oči-
ta smrt što nas saleće
od jutra do večeri,besana
i gluva,kao stara griža savesti
ili besmislena mana. Tvoje oči
biće uzaludna reč,
prigušen krik, muk.
Vidiš ih tako svakog jutra
kada se nadnosiš nad sobom u ogledalu.
O draga nado,
toga dana i mi ćemo znati
da jesi život i ništavilo.
Za svakoga smrt ima pogled.
Doći će smrt i imaće tvoje oči.
Biće poput ispravljanja mane,
kao zurenje u ogledalo
iz koga izranja mrtvo lice,
kao slušanje zatvorenih usta.
Sići ćemo u bezdane nemi.

Preveo Milan Komnenić
*
Milan Komnenic Giuseppe Ubgaretti

Eugenio Montale, Ossi di seppia
Traduzione da italiano di Milan Komnenić
Euđenio Montale, Sipine kosti, BIGZ, Beograd, 1982.

Preveo sa italijanskog Milan Komnenić

Corno inglese

.
ll vento che stasera suona attento –
ricorda un forte scotere di lame –
gli strumenti dei fitti alberi e spazza
l’orizzonte di rame
dove strisce di luce si protendono
come aquiloni al cielo che rimbomba
(Nuvole in viaggio, chiari
reami di lassù! D’alti Eldoradi
malchiuse porte!)
e il mare che scaglia a scaglia,
livido, muta colore
lancia a terra una tromba
di schiume intorte;
il vento che nasce e muore
nell’ora che lenta s’annera
suonasse te pure stasera
scordato strumento,
cuore.

 
 Engleski rog

Vetar što večeras smotreno svira
– nalikuje silnom lepetu limarije –
na instrumentu gustog borja
i mete bakarna obzorja
kuda se rojta svetlosti vije
poput zmajeva u ječećim nebesima
(Oblaci promiču, vedra
kraljevstva nebesna! Visokih Eldorada
kapije odškrinute!)
i more što, krljušt po krljušt,
olovno tre
i menja boju bacajući na hridi vrtloge
uzvitlane pene;
da hoće vetar, što se rađa i mre,
dok sumračja stiže čas,
zasvirati večeras
na tebi, razdešeni instrumente,
srce.

Duska Vrhovac

Duska Vrhovac

Duška Vrhovac, poeta, scrittrice, giornalista e traduttrice è nata nel 1947 a Banja Luka (Bagnaluca), nell’attuale Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina, e si è laureata in letterature comparate e teoria dell’opera letteraria presso la Facoltà di filologia di Belgrado, dove vive e lavora come scrittrice e giornalista indipendente, dopo aver lavorato per molti anni presso la Televisione di Belgrado (Radiotelevisione della Serbia).
Con 20 libri di poesia pubblicati, alcuni dei quali tradotti in 20 lingue (inglese, spagnolo, italiano, francese, tedesco, russo, arabo, cinese, rumeno, olandese, polacco, turco, macedone, armeno, albanese, sloveno, greco, ungherese, bulgaro, azero), è fra i più significativi autori contemporanei di Serbia e non solo. Presente in giornali, riviste letterarie, e antologie di valore assoluto, ha partecipato a numerosi incontri, festival e manifestazioni letterarie, in Serbia e all’estero.
È autrice di tre volumi di racconti per bambini e per la famiglia dal titolo Srećna kuća (La casa felice) e anche ha pubblicato sei libri in traduzione serba: due libri di prosa e quattro libri di poesia.
Membro, fra l’altro, dell’Associazione degli scrittori della Serbia, e dell’Associazione dei traduttori di letteratura della Serbia, è attuale vicepresidente per Europa del Movimento Poeti del Mondo e ambasciatore in Serbia. Ha ricevuto premi e riconoscimenti importanti per la poesia, tra cui:
Majska nagrada za poeziju – Maggio premio per la poesia – 1966, Yugoslavia;
Pesničko uspenije – Ascensione di Poesia – 2007, Serbia;
Premio Gensini – Sezione Poesia 2011, Italia;
Naji Naaman’s literary prize for complete works – Premio alla carriera – 2015, Libano e il Distintivo aureo assegnato dal massimo Ente per la Cultura e l’Istruzione della Repubblica di Serbia.

Ha pubblicato i seguenti libri di poesia:

San po san (Sogno dopo sogno), (Nova knjiga, Beograd 1986)
S dušom u telu (Con l’anima nel corpo), (Novo delo, Beograd 1987)
Godine bez leta (Anni senza estate) (Književne novine i Grafos, Beograd 1988)
Glas na pragu (Una voce alla soglia), (Grafos, Beograd 1990)
I Wear My Shadow Inside Me (Forest Books, London 1991)
S obe strane Drine (Sulle due rive della Drina), (Zadužbina Petar Kočić, Banja Luka 1995)
Žeđ na vodi (Sete sull’acqua), (Srempublik, Beograd 1996)
Blagoslov – stošest pesama o ljubavi (Benedizione, centosei poesie d’amore), (Metalograf, Trstenik 1996)
Knjiga koja govori (Il libro che racconta), (Dragoslav Simić, Beograd 1996)
Žeđ na vodi (Sete sull’acqua) edizione ampliata, (Srempublik, Beograd 1997)
Izabrane i nove pesme (Le poesie scelte e nuove), (Prosveta, Beograd 2002)
Zalog (Il pegno), (Ljubostinja, Trstenik 2003)
Zalog (Il pegno), edizione bibliofilo (Ljubostinja, Trstenik 2003)
Operacija na otvorenom srcu (L’ operazione a cuore aperto), (Alma, Beograd 2006)
Za sve je kriv pesnik (La colpa è di poeta), (elektronsko izdanje 2007)
Moja Desanka (Lа mia Desanka), (Udruženje za planiranje porodice i razvoj stanovništva Srbije, Beograd 2008)
Postoje ljudi (Ci sono persone), edizione dell’autore (Belgrado 2009)
Urođene slike / Immagini innati (edizione bilingue), (Smederevo, 2010)
Pesme 9×5=17 Poems (poesie scelte in 9 lingue), (Beograd 2011)
Savrseno ogledalo (Lo specchio perfetto), (Prosveta, Beograd 2013)
Quanto non sta nel fiato, poesie scelte, (FusibiliaLibri 2014)

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UN SONETTO di Luis de Gòngora (1582), tradotto da Luigi Fiorentino (1969), Giuseppe Ungaretti (1947), Raffaello Utzeri (2013) in una nuova edizione (EdiLet, 2015), Con una nota introduttiva di Raffaello Utzeri e alcune traduzioni del celebre Sonetto 228

Velazquez Las Meninas

Velazquez, Las Meninas

EdiLet ha appena pubblicato – dopo “Tutti i Sonetti” di W. Shakespeare – la seconda uscita della collana CLASSICI, diretta dal Prof. Emerico Giachery. Si tratta di una preziosa “Antologia di Sonetti e Poemi” (196 pp., Euro 16) di Luis de Gòngora, tradotti dall’ispanista Luigi Fiorentino (di cui EdiLet ha già riscoperto le poesie, con il volume Il compiuto discorso, 2013). L’edizione originaria, ormai introvabile, datava 1970 per i tipi di Ceschina editore, Milano. EdiLet ha provveduto, in collaborazione con la vedova di Fiorentino, Francisca Cruz Rosòn, alla revisione e correzione del testo, che si compone di 32 Sonetti – fra cui il celebre 228Mientras por competir con tu cabello” – e di una nutrita selezione antologica dalla Fàbula de Polifemo y Galatea e dalle Soledades. C’è, ovviamente, il testo a fronte in lingua spagnola. Il paratesto comprende Cronologia, Bibliografia e Note critiche, a cura dello stesso Fiorentino. L’introduzione è di Raffaello Utzeri.

Gongora copertinaArgomentare diffusamente sul barocco letterario spagnolo non sembra indispensabile nel momento in si ripropongono i Sonetos e altri componimenti di Luis de Góngora nella magistrale versione italiana di Luigi Fiorentino, da tempo esaurita nella edizione milanese di Ceschina, datata 1970. Ci sembra infatti che il lavoro del nostro ispanista, accurato e competente quanti altri mai, costituisca per sé una testimonianza di coscienza critica, utile più di un saggio di carattere accademico, completato com’è da un apparato di note in cui ogni osservazione si amplia dal testo al referente poetico generale, il mondo del celeberrimo Autore. La serietà con cui Luigi Fiorentino affronta i problemi del tradurre viene testimoniata già nella sua prima nota: «La traduzione si è sforzata di mantenere la tipica struttura gongorina, conservando dove possibile anche le rime, ma tralasciandole quando per rincorrerle era necessario tradire lo spirito e la lettera dell’originale castigliano o ripiegare su forme arcaiche o termini apocopati».

Nel caso di Góngora, anche una discussione sul significato del barrueco sarebbe piuttosto sterile, dato che don Luis non fu complessivamente barocco, anche se in quello stile, in quella dimensione culturale ed esistenziale fu confinato. Il barocco letterario spagnolo, infatti, si può dire che fu più tipicamente rappresentato da personalità creative distanti e diverse da lui, come M. Cervantes, Lope de Vega, Calderon de la Barca. In realtà, i suoi confini Góngora li delimitò da sé curando l’eleganza, la precisione, la sonorità, la densità semantica dei suoi componimenti: dire che tutto ciò che è suo sia barocco per definizione sarebbe come voler sottrarre una parte del suo repertorio, soprattutto formale, alla classicità o al classicismo. Si potrebbe infatti audacemente definire Góngora classico per “sostanza” e barocco per “accidente” in quanto visse in, e per, un’epoca in cui le certezze del Rinascimento europeo si stavano lentamente ma decisamente consumando nel manierismo dilagante. Come si sa, il barocco è connotato da insicurezza e incertezza esistenziale. Gli artisti, a contatto con i “poteri forti” venivano per primi interiormente contagiati dall’instabilità politica, economica e sociale che nel secolo diciassettesimo non risparmiò nessun popolo e nessuno stato; poi trasmettevano alla società ragionamenti e valori, dominanti nelle corti e nelle cancellerie, dove conoscevano anche creatività e distruttività. Il Barocco conobbe anche suggestioni emotive. Sul piano psicologico spostava l’attenzione dalla pienezza e stabilità dell’Essere che si manifesta nel molteplice, alla precarietà del mutamento in continuo divenire, che fa apparire il vuoto nei cicli periodici di fenomeni mai uguali a se stessi. La paura del vuoto, quell’ “horror vacui” degli atomi dispersi nell’infinità del cosmo, già ipotizzato in metafora epistemica nel De rerum Natura di Lucrezio, produce il clinamen, la deviazione vorticosa di una reazione caotica: nelle Arti del disegno si manifesta come sovrabbondanza di ornamenti e figure tra linee curve; in poesia riempie la versificazione con sovrabbondanza di aggettivi, iperbati e coloriture. Ma Góngora ne trovò l’antidoto mantenendosi fedele nelle forme, almeno in parte, alla tradizione internazionale.

François Clouet

François Clouet

Lo stesso Traduttore nelle note mette in evidenza quante volte il suo Autore prenda le mosse dal Petrarca e dal Tasso. Ma la prova sovrana dell’italianità di Góngora si trova nella struttura stessa del suo sonetto. Un confronto immediato chiarirà tale affermazione.
La rivoluzione culturale causata dall’imperialismo inglese promosso da Elisabetta Tudor modificò anche alcuni parametri letterari. Una dozzina di anni prima che Góngora nascesse nel 1561, Thomas Whyatt aveva introdotto il sonetto, il cui schema fu poi cambiato abolendo il modulo canonico come segue. Sostituiva il noto schema 2 x AB AB (AB BA) + 2 CDE (o poche varianti) con il seguente: AB AB + CD CD + EF EF + GG: tre quartine con rime indipendenti seguite da un distico a rima baciata. Ecco il sonetto pienamente barocco. Con centocinquanta di questi, W. Shakespeare compose un canzoniere non meno profondo di quello del Petrarca, senza curarsi di essere baroque in inglese come in francese. L’autore barocco non si preoccupa della provenienza della formula, ma la ripropone come sfida nella condizione culturale presente e futura. Tutto questo è anche parte della poetica di Góngora; ma il maggior poeta del “siglo de oro” non prediligeva quella forma ormai troppo connotata come tabernacolo del pensiero laico. Essendo religioso, a ventiquattro anni aveva preso gli ordini minori e a cinquantasei fu prete; forse perciò non volle prestare suoi tabernacoli a quel “modus lascivus” che da secoli la Chiesa disapprovava. Nonostante gli apprezzamenti di Cervantes e Lope de Vega, scrisse pochi sonetti, quasi tutti come formalità occasionali, tra i quali: “Alla nascita di Cristo N.S.”; “Sul sepolcro della Duchessa”; “In morte di Donna Guiomar”; e ancora il capolavoro “Alla memoria della morte e dell’inferno” e il finale “Sulla brevità ingannevole della vita”. Già quei titoli riassumono esaurientemente la precarietà di un mondo “secolare” del quale il poeta voleva ma non poteva godere. Con questa modalità Góngora fu perciò sicuramente barocco, restando però classico nel rispetto del canone del sonetto italiano.

Più di qualsiasi racconto critico può però interessare l’esame comparativo di alcune traduzioni dal medesimo corpus. A questo scopo presentiamo il Sonetto 228 a fronte delle versioni di L. Fiorentino e G. Ungaretti, affiancate da un’altra inedita, equidistante da entrambe, qui offerta dal sottoscritto, a scopo di riferimento linguistico contemporaneo nella riscoperta di Góngora.

Gongora

Gongora

Luis de Góngora, 1582

Mientras por competir con tu cabello,
oro bruñido el Sol relumbra en vano,
mientras con menosprecio en medio el llano
mira tu blanca frente al lilio bello;

mientras a cada labio, por cogello,
siguen más ojos que al clavel temprano,
y mientras triunfa con desdén lozano
de el lucente cristal tu gentil cuello;

goza cuello, cabello, labio y frente,
antes que lo que fué en tu edad dorada
oro, lilio, clavel, cristal luciente

no sólo en plata o víola troncada
se vuelva, mas tú y ello juntamente
en tierra, en humo, en polvo, en sombra, en nada.

.

Luigi Fiorentino, 1969

Mentre per emulare i tuoi capelli
oro brunito il sole splende invano,
mentre scontrosa guarda in mezzo al piano
la tua candida fronte i gigli belli,

mentre gli sguardi per carpirle inseguono
tue labbra più che il primo dei garofani,
e mentre il fine collo con disdegno
del lucente cristallo già trionfa,

collo, capelli, labbra e fronte godano
prima che il vanto dell’età dorata,
oro, giglio, garofano, cristallo,

si muti in viola recisa o in argento,
non solo, ma con esso tu in terra,
e in polvere, in fumo, in ombra, in nulla.

.
Giuseppe Ungaretti, 1947

Finché dei tuoi capelli emulo vano,
vada splendendo oro brunito al Sole,
finché negletto la tua fronte bianca
in mezzo al piano ammiri il giglio bello,

finché per coglierlo gli sguardi inseguano
più il labbro tuo che il primulo garofano,
finché più dell’avorio, in allegria
sdegnosa luca il tuo gentile collo,

la bocca, e chioma e collo e fronte godi,
prima che quanto fu in età dorata,
oro, garofano, cristallo e giglio
non in troncata viola solo o argento,
ma si volga, con essi tu confusa,
in terra, fumo, polvere, ombra, niente.

.

Raffaello Utzeri, 2013

Finché a competere coi tuoi capelli
risplende, oro brunito, il sole invano
e con dispregio la tua bianca fronte
considera il bel giglio in mezzo al piano,

finché, per coglierlo, ciascun tuo labbro
più che il primo garofano occhi seguono
e il tuo collo gentile in lieto sgarbo
trionfa sullo splendido cristallo,

collo e capelli e labbra e fronte goditi
prima che quel che fu, in tua età dorata,
oro e cristallo splendido e garofano

e giglio, muti in viola sradicata
o argento, e inoltre tu congiunta in quello
in terra, in fumo, polvere, ombra: in nulla.

Sembra quindi superfluo inoltrarsi nelle solite considerazioni critiche di circostanza: i testi parlano da soli, ciascuno trasportando nel tempo la propria datazione, che non coincide precisamente con la sua data. Bisognerà ricordare che tradurre significa non solo amare ma, in parte almeno, anche tradire. Spesso è l’ambivalenza dell’animo umano, che ogni traduttore impersona nell’ambiente che lo informa e lo forma, quella che forse, più della competenza linguistica, determina scelte lessicali e sintagmatiche. Sembra ancora ieri, e in letteratura può essere anche mezzo secolo, quando le traduzioni si dividevano in “brutte fedeli” e “belle infedeli”. Accreditiamo a L. Fiorentino di aver superato quel pregiudizio, ironico ma non troppo, di molti critici suoi contemporanei, grazie alla sua rara competenza sorretta da un equilibrio poetico che lo ha sempre sostenuto.
Le due Soledad primera e Soledad segunda del 1613-14 sono poemi quasi lirici ciascuno di quasi mille versi, prevalentemente endecasillabi e settenari. Fiorentino ne ha tradotto meno della metà, privilegiando le parti più significative. L’argomento è piuttosto tenue, un giovane naufrago accolto da un gruppo di pastori è pretesto per divagazioni su temi naturalistici e mitologici. Sono pezzi di bravura per la complessità sintagmatica e la leziosità immaginativa, quasi una sfida dell’intelligenza al codice linguistico.
Molto simile, la Fabula de Polifemo y Galatea contemporanea delle Soledades, ma in ottave ariostesche, cioè di struttura italiana: AB AB AB CC. Anche qui la maestria nella versificazione suscitò ammirazione; il culto del gongorismo fu poi chiamato cultismo. Ma incontrò anche forti resistenze con qualche condanna per la oziosità dei temi e il deprecato modo sensuale nella scrittura di un religioso. Lope de Vega, che aveva lodato i Sonetos, divenne, per onestà intellettuale, un avversario di Góngora: forse anche per questo c’è chi lo antepone a lui come simbolo del secolo d’oro.
L’interesse che suscitano le versioni testuali di Luigi Fiorentino, ciascuna nell’ambito metodologico che il traduttore dichiara, consiste nel fatto che la traduzione non può non essere in sé operazione di esperienza barocca. Nei testi qui presentati, le due lingue sono sorelle, ma non per questo si può fare copia conforme in lingua italiana di una scrittura spagnola. Immaginiamo i risultati di traduzioni da lingue molto distanti dalla nostra, come l’arabo, il giapponese, l’urdu. In questi casi l’unica difesa del traduttore sarebbe produrre una versione più esplicativa che interpretativa: così la “brutta fedele” potrebbe interessare più della “bella infedele”.
Comunque, Goethe sosteneva che la poesia è sempre traducibile. Intendeva dire forse che è anche giustamente tradibile? Teniamo presente questa eventualità, utile almeno in quanto provocatoriamente dissacrante; tutto sommato sembra un’affermazione poco classica, poco romantica, ma forse non poco barocca.

(Raffaello Utzeri)

Luis De Góngora (Cordoba, 11 luglio 1561-Cordoba 23 maggio 1627), poeta e drammaturgo del Siglo de Oro, è il massimo esponente della corrente letteraria conosciuta come “culteranesimo” e, per sua stessa influenza, “gongorismo”. Avviatosi fin da ragazzo alla carriera ecclesiastica (nel 1585 fu nominato economo della cattedrale di Cordoba e prese gli ordini maggiori), ebbe difficoltà con i superiori per la sua attività letteraria: tra i capi d’imputazione con cui l’arcivescovo Pacheco lo accusò di malcostume, c’era anche il fatto di scrivere poesie. Góngora rimase inedito per tutta la vita: le sue opere passavano di mano in mano manoscritte, suscitando polemiche. Era un poeta incontentabile e difficile: aspirava a «fare poco non per molti», elaborando composizioni di alto livello retorico, in equilibrio fra tensioni opposte, irte di concetti e cultismi, di elusioni e allusioni che le rendevano oscuro esercizio per menti erudite, a mo’ di enigmi da decifrare, benché godibilissime sul piano musicale. Con Góngora l’estetica barocca sperimenta le potenzialità multisensoriali e simboliche della parola, aprendosi alla modernità senza rompere i rapporti con la tradizione classica, petrarchesca e classicistica rinascimentale. La novità dell’autore delle Soledades verrà apprezzata pienamente nel ‘900, quando il sentire poetico avrà le giuste affinità per entrarvi in consonanza. Non a caso la cosiddetta generazione del ’27 (Lorca, Guillén, Salinas, Alberti, Alonso, etc.) lo prenderà a modello, riscoprendolo e traducendolo proprio a partire dal terzo centenario della morte.

Luigi Fiorentino (Mazara del Vallo, 13 febbraio 1913-Trieste, 2 agosto 1981) è stato scrittore, poeta, saggista e traduttore. Autore di oltre venti opere originali (poesia, narrativa, critica letteraria) e di numerose traduzioni dalla letteratura spagnola e francese (tra cui Gongora, Chenier, Mallarmé, e classici come il Cid), ha suscitato l’interesse critico, fra gli altri, di Francesco Flora, Enrico Falqui, Paul Fort e Juan Ramòn Jimenez. Dopo le esperienze traumatiche della seconda guerra mondiale, che lo videro nei panni di ufficiale di artiglieria e di internato I. M. I., si è stabilito a Siena dove, nel 1946, ha fondato la rivista «Ausonia». Ha diretto a Siena la casa editrice Maia e ha insegnato storia della letteratura italiana presso la Scuola di Lingua e Cultura Italiana per Stranieri. Successivamente ha insegnato lingua e letteratura spagnola e letteratura ibero-americana presso le Università degli Studi di Siena, Arezzo e Trieste. Di Fiorentino nel 2013 per EdiLet è uscita, a cura di Raffaello Utzeri, l’antologia poetica Il compiuto discorso.

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Marco Onofrio Lettura di Giuseppe Ungaretti tra vocalità e immagine televisiva negli anni Sessanta. L’aspetto fonosimbolico della poesia di Giuseppe Ungaretti dalla “Allegria” al rientro nella Tradizione

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Commento di Marco Onofrio

Le apparizioni in video di Ungaretti cominciano negli anni ’60. A quel tempo “televisione” in Italia significa monopolio esclusivo della Rai, e questa, in quanto Tv di Stato, non ancora condizionata dalla concorrenza delle reti private, è in grado di privilegiare criteri qualitativi nella gestione del palinsesto. Con il democristiano Ettore Bernabei al timone (1961), la Rai plasma il mezzo televisivo in senso pedagogico e politico, come opinion leader egemonico, utilizzabile a fini di consenso. L’assenza di strategie commerciali salvaguarda la durata del prodotto culturale. Caso emblematico il programma L’Approdo, curato da Leone Piccioni e trasmesso a cadenza settimanale dal 2 febbraio 1963 al 28 dicembre 1972. Si tratta della trasposizione televisiva di una rubrica radiofonica della Rai, già rivista cartacea trimestrale pubblicata dalla ERI. Ungaretti è membro di un comitato di redazione sontuoso, che annovera nomi del calibro di Bacchelli, Betocchi, Bo, Cecchi, De Robertis, Longhi, Valeri…

È soprattutto attraverso L’Approdo che passa l’apparizione in video di Ungaretti. Fin dalla seconda puntata (9 febbraio 1963: a poche ore dal sessantacinquesimo genetliaco), la trasmissione dedica tributi di attenzione ad uno dei suoi maggiori garanti di dignità culturale. E certo Ungaretti – grande poeta e già universalmente noto – sembra adatto quant’altri mai ad incarnare lo spirito di un programma che si propone di coniugare qualità e divulgazione: sostanzialmente perfetto, insomma, per l’“iperdimensione” pubblica che il mezzo televisivo si appresta con il tempo a veicolare. Ungaretti? Conosciuto dalla gente, non solo dai letterati. La sua fama pubblica già consolidata gli garantisce l’autorevolezza e la credibilità necessarie per proporsi alla platea televisiva come “il” poeta; la televisione finisce a sua volta per estendere e approfondire questa fama oltre il riverbero banalmente rimasticato del «M’illumino d’immenso», sino a farne una sorta di mito vivente. Egli può così ritagliarsi uno spazio nell’immaginario collettivo ed essere identificato anche da chi non lo conosce, o non conosce la sua poesia, o nutre scarso interesse per il fatto culturale. È anche grazie alla Tv che Ungaretti assurge, anno dopo anno, alla statura di personaggio. Nel 1968, per esempio, traduce e commenta l’Odissea in Rai, e la gente comune, incontrandolo, lo scambia per “quel grande attore della televisione”. Qualcuno, più fantasiosamente, potrebbe anche immaginare che Omero stesso sia stato catapultato a parlare dagli schermi televisivi, tanto ieratica e autorevole appare la figura del poeta. Si era fatto crescere una barba bianca alla Hemingway, da vecchio lupo di mare, pur mantenendo accesi i suoi celebri occhi da bambino, enigmatici come quelli d’un gatto: un appeal nobile e umano, austero e familiare, in grado perciò di guadagnare piuttosto naturalmente il centro della scena, assicurandosi non solo il rispetto ma anche l’affetto dei telespettatori.

Giuseppe Ungaretti

Giuseppe Ungaretti

Ma la sua presenza nei programmi Rai non si limita a L’Approdo, giacché comprende anche diversi “specials” nel contesto di altre trasmissioni: sin dal “ritratto” di diciotto minuti che gli dedica Clemente Crispolti, trasmesso la sera del 7 luglio 1959. Sono appunto “ritratti”, “incontri”, “conversazioni” e “documentari” incentrati sull’uomo e sul poeta. Generalmente Ungaretti appare in video per recitare poesie, ma anche per esprimersi su certe questioni, rispondendo alle domande di un intervistatore; o per presiedere o ricevere un premio letterario; o per partecipare a un convegno o a un festival; o per incontrare gli studenti nelle scuole. Le riprese sono per lo più in interno. Ma l’occhio indiscreto della telecamera deve anche poter soddisfare le curiosità del pubblico, che vuole conoscere il poeta-personaggio nella totalità della sua sfera esistenziale. Ed ecco “Ungà” colto nel privato quotidiano, ripreso a passeggio per Roma, lungo il Tevere o tra le rovine di Caracalla, o nell’avita Lucca, o a parlare al tavolino di un bar, o a casa con accanto la nipotina… Il caso più tipico è offerto dal poeta nel suo studio mentre recita versi. Nelle immagini televisive lo si vede seduto in poltrona, inquadrato a mezzo busto, in primo piano. Non accompagna la lettura con gesti delle mani, che sono occupate a reggere il libro. La performance vocalica è doppiata da smorfie espressive e dal movimento degli occhi. Di tanto in tanto li alza dal libro verso un punto immaginario, in alto alla sua sinistra. Lo sguardo è intensamente visionario, inciso nelle rughe di sofferenza che lampeggiano sul volto per l’ansimante scansione sillabica dei versi. È come se scorgesse, fuori di sé, una sorta di oggettivazione simbolica delle parole che pronuncia; o le parole stesse gli nascessero spontanee, per la prima volta, dettate da ciò che “vede”.

montale e il picchio

eugenio montale e il picchio

Quando legge ad alta voce le sue poesie, in televisione, o in pubblico durante le presentazioni, Ungaretti può destare sospetti di istrionismo; in realtà non è un fine dicitore o un “attore” distanziato dalla materia, ma un uomo che soffre dal vivo, autenticamente –: che dona e spende tutto se stesso, e si ricapitola dalle origini, ancora una volta, ogni volta daccapo. Non risparmia nulla al “fratello umano” che lo ascolta: offre tutto ciò che può dare, anche ciò che ancora non sa di poter dare. La parola è vissuta nel sangue, in ogni sua fibra. Il pathos espressivo è autentico e per questo impressionante. Ungaretti arde all’improvviso come un tirso, e la sua fiammata non si lascia facilmente dimenticare. Sul viso gli si rende visibile una sofferenza, una pena effettiva, e a tratti un illuminarsi e vibrare che colpisce per sempre chi lo vede. È in definitiva un grande comunicatore, capace di bucare il silenzio o il teleschermo con i suoi sguardi profondissimi e la sua voce cavernosa e dolce, i suoi estri repentini e i suoi furori. Ricorda Francesco Paolo Memmo: «Aveva quegli occhi incredibili, scavati, che ti scavavano, quando lo vedevo in televisione; con una bellissima barba bianca, negli ultimi anni: lo ricordo, ad esempio, seduto accanto a un albero, su un prato, in un videoclip ante litteram, mentre Iva Zanicchi cantava una canzone evidentemente a lui dedicata» (ma Ungaretti stravedeva per Mina).

Della vocalità di Ungaretti si è occupato Emerico Giachery in un  breve e magistrale saggio, Ungaretti a voce alta (2008). Occorre premettere che ogni voce, nella sua grana originaria, ha per natura incorporato un destino di credibilità. La voce non è mai neutra, ma ha significato di per sé: è portatrice di un “valore” che prescinde dal linguaggio. Questo spiega perché un bravo attore, dotato di bella voce, è in grado di far apparire valida una poesia mediocre; o, viceversa, perché una poesia valida, o anche splendida, può essere completamente rovinata da una lettura scadente. La vocalità (grazie a cui il testo poetico viene eseguito, a mo’ di partitura musicale) abbraccia i poteri del significante – intonazione, accento, ritmo, interpretazione delle figure foniche e metro-ritmiche del testo – che, secondo la distinzione di Émile Benveniste, consentono al registro semiotico-denotativo di espandersi negli “armonici” del livello semantico-connotativo: la pienezza del senso poetico (ovvero la “significanza” epifanica del testo) scaturisce dalla coesione strutturale che incorpora i poteri del significante, sondati dalla voce, ai messaggi convenzionali del significato.

Giuseppe ungaretti mentre leggeIl linguista Giuseppe Paioni ha descritto in modo assai preciso la fonetica ungarettiana: il celebre “sillabato”, la nettezza degli iati, la purezza delle vocali e la variabilità della loro durata, «la vibrante rinforzata se associata a dentale o velare (…), ma senza asprezza, quasi che il suo ruolo simbolico fosse quello di virilizzare la dolcezza, senza abbandonarla (…), la sibilante preconsonantica o geminata allungata, come accarezzata (…), le nasali marcate a delimitare il prefisso»… Il sillabato ungarettiano cerca «la letteralità, le articolazioni naturali della lingua. L’effetto di questi eccessi, di questi timbri marcati è quello di astrarli, come se la voce ne accentuasse l’idea, l’evidenza, cioè di allucinarli». È un recitativo che frantuma il continuum vocale in un “salmodiare” rotto e sofferto, modulato su variazioni di volume e di altezza. «Né meramente illustrativa o espressiva né enfatica o al limite isterica, la performance ungarettiana si definisce essenzialmente come una drammaturgia sottile della parola, una “mise-en-scène” puntuale e allo stesso tempo lussuosa del testo e delle modalità con cui il testo e la sua ritmicità “lavorano” la lingua e i suoi significanti».

Peraltro, la lettura a voce alta di un testo è – già di per sé – un atto ermeneutico. Lettura e critica convergono: l’interpretazione vocale della poesia va intesa come «momento di sintesi e punto d’arrivo del processo interpretativo». E aggiunge, precisando, Giachery:  «Si tratta, entro un certo limite, anche di una sorta di lettura-confessione, e certo», per ciò che riguarda Ungaretti, «di una lettura che aiuta non poco ad intendere il suo modo di sentire, di vivere l’esperienza della parola, di scandire, spaziare, scatenare la materia verbale». Orbene, che rapporto intercorre tra la vocalità dell’Ungaretti performer e il presunto ermetismo della sua poesia? E anzitutto: che cosa c’è di realmente ermetico in Ungaretti, prescindendo ovviamente dalla classificazione scolastica che lo assomma – nella comune cifra dell’ermetismo – a due poeti molto differenti (anche tra loro) come Quasimodo e Montale? La poesia di Ungaretti è “ermetica” in quanto rende ampio lo spettro del senso e si apre alla libertà delle interpretazioni. Il lettore è coinvolto attivamente nella produzione del senso (cioè nell’attuazione di una fra le tante letture possibili) della poesia. Si legga, ad esempio, l’attacco di “O notte” (da Sentimento del tempo, 1933):

Dall’ampia ansia dell’alba

svelata alberatura.

Giuseppe Ungaretti alla Hemingway (1)Dove si noti il predominio fonosimbolico della [a], vocale di apertura cosmica a uno «smisurato orizzonte in ansia crescente di luce e di evento» (Giachery); ma anche l’ambivalenza di «alberatura», che può denotare sia (com’è più probabile) un intrico di fronde “svelato” dalla luce del nuovo giorno, sia gli alberi di una nave privata di vele, con gradienti simbolici successivi di identificazione del mondo (compatto divenire delle cose esistenti) in imbarcazione che attraversa gli «oceanici silenzi» del tempo, e a cui l’alba toglie le vele tenebrose della notte… Quanto più cresce, come in questo caso, la libertà interpretativa del lettore, tanto più il testo è “oscuro”, cioè ambiguo, polisemantico, non chiaramente determinato. La poesia di Ungaretti è “ermetica” anche nella misura in cui tiene nascosta la significanza, cioè il livello semantico globale che saprebbe – viceversa – renderla chiarissima. Per meglio dire: tiene la significanza accessibile soprattutto alla voce viva, attraverso l’operazione supplementare, successiva alla scrittura, della performance.

La performance ungarettiana, in particolare. Come un testo magico che suppone la tradizione di un rito vocalico, e solo in esso e per esso accetta di rivelare o riflettere il proprio segreto. La voce è il passepartout che permette di aprire le gabbie del segno, di entrare nel testo, di chiarirlo nella sua verità originaria. Il suono performativo della voce è un imbuto che ci porta nell’utero della poesia, dentro la cuna del senso. Oltre quest’utero si spalanca l’abisso del silenzio infinito che contiene tutte le parole, e ogni parola è l’imboccatura di questo abisso. La voce scardina l’ordigno della poesia, ne spiega le pieghe, ne svela i sottotesti, laddove urgono i significati più profondi e veri. Capiamo allora che l’oscurità era solo apparente: si trattava in realtà di un bagliore nascosto dentro la tenebra opaca dei segni. Il “senso” della poesia ermetica è come una candela accesa: si vede appena in piena luce, alla superficie della “forma”, ma risplende come un piccolo sole nel buio cavernoso dei sottotesti. Leggendo e ricreando drammaticamente la poesia, il poeta ci restituisce l’infinito che “non cape” nella forma, ovvero gran parte di ciò che avrebbe voluto o potuto dire. Ci comunica, usando linguaggi diversi dalla scrittura, i segnali e i sensi di ciò che la scrittura non dice, o dice oscuramente. Così facendo guida e controlla l’indirizzo della decodifica, introducendo un principio di determinazione già parecchio notevole rispetto alla libertà “aperta” del lettore solitario.

Giuseppe Ungaretti Soldati-in-trincea-Prima-Guerra-MondialeAttenua dunque il principio ermetico della collaborazione attiva del lettore: il poeta stesso, ora, legge per lui. Il lettore-ascoltatore, divenuto oggetto di fascino, dovrà “limitarsi” a rielaborare segni già incanalati verso una certa direzione del senso (così leggere ad alta voce è, appunto, interpretare). Ungaretti, leggendo la propria poesia in un modo tanto scenografico e ammaliante, è come se volesse “suggerire”, se non imporre, la decodifica originaria del testo, avendo a cura che si comprenda entro il raggio di una certa direzione. La performance rappresenta una forma di comunicazione totale, sicché «nel modo della lettura di Ungaretti, molte di quelle cose che sono sempre sembrate caratteristiche tanto della sua personalità quanto della sua poesia vengono fuori. Si affaccia a un certo momento una ricomposizione di tutto in chiave di possibile auto-teatro, e tuttavia il teatro è anche rivolto agli altri» (Zanzotto). Egli torna al punto di partenza, rivive le premesse dell’atto creativo, si tuffa di nuovo nel magma da cui è emersa la poesia.

Il testo scritto viene “fissato” dalla voce come textus ne varietur, come versione ideale e forma massima della potenza: la poesia risuona in armonia con le intenzioni originarie, sfiora il luminoso archetipo da cui la scrittura – pallida copia – proviene, de-finendosi in forma. E che la scrittura, forma immobile e incisa nello spazio, debba essere “fissata” dalla voce, mobile e vibratile nel tempo, testimonia sia la straordinaria potenza della voce (e non una voce qualsiasi, ma quella suggestiva di Ungaretti), sia la particolare qualità di questa scrittura, il suo essere preformata in vista della performance, scritta a mo’ di “partitura” da eseguire, dilatandosi ed esaltandosi nella voce. È una poesia che chiede giustizia alla voce, che insomma deve “suonare” per essere davvero se stessa. Nella lettura ad alta voce si produce dunque una forma di “variante assoluta”: la poesia vive autenticamente – nella pienezza delle sue potenzialità – attraverso un rito vocalico che la accende, e la fa palpitare all’unisono col ritmo interiore del poeta, mentre questi la rivive e la scandisce attimo per attimo, respiro dentro respiro, parola dopo parola. Non è difficile rendersi conto che questo è il modo del primo Ungaretti.

Giuseppe Ungaretti i-flood-myself-with-the-light-of-the-immenseDopo i versicoli dell’Allegria, distillati per quintessenza dal simbolismo francese ed europeo, il poeta rientra nell’alveo accademico della tradizione italiana: un certo sentire barocco, che gli appartiene per istinto e anche per cultura (traduce da Gongora, Shakespeare, Racine), viene travasato entro le strutture ormai “archetipiche” del petrarchismo (dopo secoli di codificazioni stratificate e sbiadite imitazioni). La “restaurazione” operata con Sentimento del tempo determina un sovrappiù di forma che ingorga, offusca e, da ultimo, porta fuori strada il percorso aperto dalla scintillante e davvero creativa novità del Porto sepolto. Che il modo originario fosse il più conforme e congeniale alla sua verità di uomo e di poeta, lo si capisce dal fatto che Ungaretti lo conserva, nel corso degli anni, come metodo di lettura performativa. Talché anche il verso lungo (e l’endecasillabo, in particolare) delle raccolte successive, viene destrutturato, nell’atto della lettura ad alta voce, secondo il modello dell’Allegria. Come a dire che l’autentico Ungaretti è e resta il poeta dell’Allegria, anche quando scrive e poi legge pubblicamente testi che distorcono o contraddicono quelle originarie implicazioni. Si prenda ad esempio, da Il taccuino del vecchio, lo struggente e disperato appuntamento d’amore, oltre i confini del tempo, che è “Per sempre”, del 1959, in memoria della moglie Jeanne morta da un anno:

Senza niuna impazienza sognerò,
mi piegherò al lavoro
che non può mai finire.
E a poco a poco in cima
alle braccia rinate
si riapriranno mani soccorrevoli.
Nelle cavità loro
riapparsi gli occhi, ridaranno luce.
E, d’improvviso intatta
sarai risorta, mi farà da guida
di nuovo la tua voce,
per sempre ti rivedo.

Giuseppe Ungaretti era interventista ma, di fronte alla morte ed alla distruzione, cambiò le proprie posizioni mostrando, attraverso le sue liriche, gli aspetti più ...Ecco come la poesia si trasforma, per una lettura televisiva, nella dizione ansimante e pausata di Ungaretti:

Senza niuna impazienza
sognerò
mi piegherò
al lavoro
che non può mai
finire
e
a poco a poco
in cima
alle braccia
rinate
si riapriranno
mani
soccorrevoli
nelle
cavità loro
riapparsi
gli occhi
ridaranno luce
e d’improvviso
intatta
sarai
risorta
mi farà
da guida
di nuovo
la tua voce
per sempre
ti rivedo.

Giuseppe Ungaretti 1Il metro viene spezzato dal respiro della voce, nella sua misura organica, perché emerga la verità profonda delle parole, incise – queste più che mai! – nella carne dell’esistenza, del dolore e della memoria. La pausa isola la parola nella sua densità semantica. Il silenzio accentua, per contrasto, il suono della voce: ne esalta la magia, la persuasività. La voce può così manifestare il percorso spirituale della parola, afferrandone l’eco remota. Ungaretti cerca di catturare, nella dizione franta, il ritmo nativo ed essenziale della sua poesia, lasciando affiorare il chiarore dei sottotesti e consentendo di significarne la “verità” (su tutte le possibili letture).

Anni erano passati, e vicende e tragedie Ungaretti aveva oltrepassato, evolvendo nel proprio percorso. Nuove opere, nuove ispirazioni, nuovi orizzonti. Eppure l’Ungaretti che recitava versi restava ancorato al tempo dell’Allegria, al modo di quel capolavoro, al bagliore folgorante del suo avvio. Era quella la voce “nativa” del poeta, ed egli fin da allora l’aveva conquistata, definitivamente, per sempre. Conservare così la voce più chiara, la più limpida, di cui era capace, gli serviva anche per sciogliere i grumi, le opacità della forma, nella vita pulsante della voce, dispiegata attraverso il rito divulgativo della lettura. Leggendola ad alta voce, Ungaretti estrae la propria poesia dal nodo semantico che ne racchiude il senso, dentro la profondità delle strutture. La poesia ermetica si “dis-ermetizza” nel fuoco liquido della voce. La poesia di Ungaretti, ermetica nello spazio bianco della pagina, cessa di esserlo nell’espressione totale della performance, nell’urgenza della sua vocalità.

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La dimensione poetica della parola. Il suono che guarisce e che ricrea (Ariosto, Ungaretti, Zanzotto, d’Annunzio, Montale) Saggio di Marco Onofrio (Parte I)

Parnaso

Parnaso

I

Donde nasce la magia della parola poetica? Perché quelle parole, in quella sequenza, dentro quel verso, suonano in quel modo? Diversamente, cioè, da quando le troviamo isolate, a se stanti, sul vocabolario?

Prendiamo il celebre incipit leopardiano de La sera del dì di festa: «Dolce e chiara è la notte e senza vento». I due aggettivi donano un afflato rasserenante, rafforzato dalla congiunzione che chiude l’endecasillabo. Se proviamo a sostituire anche una sola parola, o a scompaginare l’ordine di quelle che ci sono, l’effetto non è più lo stesso: si spezza per sempre l’armonia melodica, la callida iunctura delle forme. Lo dice ad esempio Orazio Flacco, nell’Epistola ai Pisoni: una parola logora e pedestre riceve nuova luce a seconda delle virtù combinatorie cui è sottoposta, cioè della sua posizione nell’ordine della scrittura; così come una parola “nobile” può, per motivi opposti, infiacchirsi. Questione di alchimie, di energie che sprizzano dall’incontro sonoro delle parole, che sono vive, plastiche, malleabili come creta. La parola poetica, spesso avvincendo, avvolgendo sensualmente, cullando la percezione in termini di incanto, ci trasporta sotto il piano razionale della parola utilitaria, tipica del linguaggio-comunicazione. È un “massaggio acustico” che può liberare, come per una sorta di “regressione” freudiana, energie nascoste e associazioni latenti, comunicando l’inconoscibile e tentando di ristabilire l’armonia perduta: come una “lingua primordiale”.

 LA GUERRA CHE VERRA'. Non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell'ultima c'erano vincitori e vinti.

LA GUERRA CHE VERRA’. Non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti.

La parola poetica s’iscrive in un sistema diverso da quello corrente. Il dire del poeta è ambiguo, irrazionale, evocativo. Talvolta neanche lui ha ben chiaro, se non a livello intuitivo, ciò che sta dicendo. Più che scrivere, è scritto dalla poesia che lo sceglie per manifestarsi. Ovviamente, dinanzi a contenuti così oscuri (l’altro, l’ignoto, il sublime), non gli basta più il linguaggio comune di stampo referenziale. Ha bisogno di inventarsi un’altra lingua, o almeno di forzare quella che già esiste. Una lingua con referente diminuito, o addirittura senza referente: che costruisce da sé altri e nuovi referenti. La poesia si produce, dunque, come “eversione” – voluta cercata organizzata dal poeta – rispetto al linguaggio di uso pratico. Il poeta trasforma dall’interno la parola, le fa dire e non dire e, in questo modo, esprimere più di quel che in prosa potrebbe. Egli oscilla di continuo fra due poli espressivi: la tentazione del canto (in cui le parole tendono a perdere il proprio valore significativo per suonare ed evocare attraverso un alone di suggestione sonora, ritagliandosi una frangia di senso che tocca più contenuti mentali non chiaramente comunicabili – l’istinto, l’inconscio, il preverbale – che l’intelletto) e la necessità del discorso (laddove deve emergere la chiarezza analitica dell’intelletto: necessaria ad esempio se vogliamo raccontare una storia in poesia).

Yeats and Eliot

Yeats and Eliot

Ciò che insomma distingue un testo poetico da un normale testo comunicativo, i Sepolcri di Foscolo dal bugiardino di un farmaco o dalla lista delle cose da comprare, è che nel testo poetico il “senso” nasce anche e soprattutto dal legame tra le unità che lo compongono, non solo dal loro significato. In poesia è più importante il “modo” che l’“oggetto”: più di cosa viene detto, come viene detto.

Precisa Gian Luigi Beccaria in un suo fondamentale saggio, L’autonomia del significante: «In poesia il significato del discorso non è mai in grado di accogliere tutto il senso (né lo è il significante da solo). Il senso poetico si compie nella combinazione di un significato calato in convenzioni ritmiche vincolanti e liberato in significazioni di suoni».

pier paolo pasoliniIl segno poetico ricrea gli elementi della lingua-comunicazione, aprendoli ad una nuova ricchezza di senso che emerge dal rapporto delle unità significanti, “orchestrate” nella struttura del testo. Un testo, quello poetico, che sintetizza ad ogni livello un altissimo grado di informazione. È un “ipersegno”. Spiega Maria Corti nel saggio Principi della comunicazione letteraria: «in poesia tutto è pertinente a livello fonico e semantico, tutto significa». E, secondo Beccaria, «la poesia è fra tutte l’arte più gravata di significati». Il discorso poetico esalta la funzione del linguaggio che Jakobson definisce per l’appunto “poetica”, cioè autoreferenziale, per cui ogni autentico testo poetico genera (e si genera come) uno speciale codice, “altro” e autonomo rispetto al linguaggio comune, dove è il linguaggio, anzitutto, che comunica se stesso. Una poesia non è soltanto “logos”, o – men che mai – dimostrazione scientifica, o nota informativa: il suo messaggio non è altro che la poesia medesima, nella pienezza delle sue molteplici possibilità espressive. La funzione “poetica” esautora quella “referenziale”, la rende complessa, ambigua, polivalente. Densità semantica e polisemia: ogni parola, in un testo poetico, è un fascio di significati che s’irradiano in diverse direzioni. Non solo le parole, dunque, ma anche le strutture retoriche che le organizzano nel quadro complessivo del testo, sulla sua superficie spaziale e tipografica, macro-struttura ad elevata formalizzazione: figure ritmico-sintattiche, parallelismi, iterazioni, assonanze…

andrea zanzotto

andrea zanzotto

Tutto è segno e senso in poesia: anche e soprattutto il suono. La poesia stessa è suono che produce conoscenza. Il suono e il ritmo della poesia hanno un valore iconico speciale, autonomo, determinante. Sono in grado di evocare e rappresentare essi stessi il significato della cosa. Ecco ad esempio come, in suoni scoppiettanti, rende il temporale Ariosto nel Furioso:

con tanti tuoni e tanto ardor di lampi
che par che ‘l ciel si spezzi e tutto avvampi

o, con lo sgusciar del ferro, il sibilo di una spada Pulci nel Morgante:

.
rizzossi in sulle staffe, e ‘l brando striscia
che lo facea fischiar come una biscia

zbigniev herbert

zbigniev herbert

Così, senza ricalcare le suggestive arbitrarietà di Rimbaud, con la sua poesia sul colore delle vocali (e, per quella via, le astruse teorie dell’abbé Bremont), possiamo parlare di fonosimbolismo poetico, di significato referenziale dei suoni; per cui la [s], ad esempio, si presterebbe allo strisciare delle serpi, la [r] al fremito e al movimento, la [i] sembra più chiara di [u] e [o], ecc. Scrive Donatella Bisutti nel delizioso libro La poesia salva la vita: «una parola non è solo il significato di una cosa, ma anche un po’ l’immagine di quella cosa». Una parola come raffica, ad esempio, è veloce e turbina come un colpo di vento improvviso, grazie a quelle [f] che soffiano. Stuzzicare sembra qualcosa che punge, per via di quelle due [z] e di quella [i] sottile: come una zanzara. E ancora: farfalla, con quelle due [f] svolazzanti e quelle due [l] che la sostengono in volo, è «in realtà il perfetto ritratto di una farfalla». La poesia sa adoperare le parole come oggetti, come pennelli intrisi di colore, come tasti di un pianoforte. Ci sono parole «veloci o lente, leggere o pesanti, tenere o aspre, morbide o dure, carezzevoli o taglienti». Prescindendo dalla trascrizione onomatopeica dei suoni (si pensi a Pascoli e a Palazzeschi), leggiamo qualche magnifico esempio di significato rappresentato per vie irrazionali, anche e soprattutto attraverso il suono.

“La luna” di Andrea Zanzotto:

.
Luna puella pallidula,
Luna flora eremitica,
Luna unica selenita,
Distonia vita traviata,
Atonia vita evitata,
Mataia, matta morula,
Vampirisma, paralisi,
Glabro latte, polarizzato zucchero,
Peste innocente, patrona inclemente,
Protovergine, alfa privativo,
Degravitante sughero,
Pomo e potenza della polvere,
Phiala e coscienza delle tenebre,
Geyser, fase, cariocinesi,
Luna neve nevissima novissima,
Luna glacies-glaciei
Luna medulla cordis mei,
Vertigine
Per secanti e tangenti fugitiva
 

La mole della mia fatica
Già da me sgombri
La mia sostanza sgombri
A me cresci a me vieni a te vengo

Luna puella pallidula.
 

Eugenio Montale

Eugenio Montale

 

Giuseppe Ungaretti

Giuseppe Ungaretti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il mare slavato e disilluso di Ungaretti:

.
Più non muggisce, non sussurra il mare,
Il mare.

Senza i sogni, incolore campo è il mare,
Il mare.

Fa pietà anche il mare,
Il mare.

Muovono nuvole irriflesse il mare,
Il mare.

A fumi tristi cedé il letto il mare,
Il mare.

Morto è anche lui, vedi, il mare,
Il mare.

W.H. Auden

W.H. Auden

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(si noti l’eco del “mare”, ripetuta in a capo, che equivale all’inerzia stanca della risacca sul bagnasciuga, quando il mare è plumbeo, inerte, quasi fermo). La freschezza spumeggiante dell’onda di d’Annunzio:

Nasce l’onda fiacca,
subito s’ammorza.
Il vento rinforza.
Altra onda nasce,
si perde,
come agnello che pasce
pel verde:
un fiocco di spuma
che balza!
Ma il vento riviene
rincalza, ridonda.
Altra onda s’alza,
nel suo nascimento
più lene
che ventre virginale!
Palpita, sale,
si gonfia, s’incurva,
s’alluma, procede.
Il dorso ampio splende
come cristallo;
la cima leggiera
s’arruffa
come criniera
nivea di cavallo.
Il vento la scavezza.
L’onda si spezza,
precipita nel cavo
del solco sonora;
spumeggia, biancheggia,
s’infiora, odora,
travolge la cuora,
trae l’alga e l’ulva;
s’allunga,
rotola, galoppa;
intoppa
in altra cui ‘l vento
diè tempra diversa;
l’avversa,
l’assalta, la sormonta,
vi si mesce, s’accresce.
Di spruzzi, di sprazzi,
di fiocchi, d’iridi
ferve nella risacca;
par che di crisopazzi
scintilli
e di berilli
viridi a sacca,
O sua favella!
Sciacqua, sciaborda,
scroscia, schiocca, schianta,
romba, ride, canta,
accorda, discorda,
tutte accoglie e fonde
le dissonanze acute
nelle sue volute
profonde,
libera e bella
numerosa e folle,
possente e molle,
creatura viva
che gode
del suo mistero
fugace.

E lo sconquasso simbolico della “bufera” di Montale:

… e poi lo schianto rude, i sistri, il fremere
dei tamburelli sulla fossa fuia,
lo scalpicciare del fandango, e sopra
qualche gesto che annaspa…

Nel messaggio poetico risulta dunque determinante l’aspetto fonico-timbrico della lingua. La poesia è, in questo senso, la risultanza dell’incontro-incrocio degli elementi metrici, ritmici e metaforici. Il piano dei significanti e quello dei significati sono i due poli entro cui oscilla mutevolmente l’ago della comunicazione poetica. Lo stesso ritmo si gioca nel conflitto perenne tra metro e sintassi: il discorso non coincide puntualmente con i versi, tende a forzarne la misura orizzontale in strutture foniche verticali, tessute di corrispondenze e bilanciamenti.

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