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Il Problema Leopardi (il grande dimenticato) nel rapporto con la poesia del Novecento – Lettura di Leopardi da Ungaretti agli ermetici, la Ronda: De Robertis, Cardarelli, la Restaurazione, Umberto Saba – Lettura del dopo guerra: da Pavese, Moravia, Fortini Pasolini fino a Zanzotto e la neoavanguardia e Sanguineti e la nuova ontologia estetica – A cura di Franco Di Carlo

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domenico morelli ritratto di giacomo leopardi

Di solito, quando si dice Ungaretti, si pensa subito all’opera di scardinamento espressivo e di rivoluzione del linguaggio poetico compiuta dai suoi versi e dai suoi scritti teorico-critici nei confronti della tradizione letterària italiana (dal ‘200 all’800 romantico) che continuava ad avere i suoi maggiori rappresentanti in Carducci e, per certi versi, in Pascoli e D’Annunzio, legati anch’essi, nonostante le indubbie novità della loro poetica e del loro linguaggio espressivo, ad una figura di letterato «ossequioso» nei confronti dell’«ufficialità» (letteraria e non): un’immagine, in fondo, ancora borghese e tardo-romantica, provincialisticamente sorda alle novità letterarie europee. In realtà, il rischio di considerare la poesia di Ungaretti come esclusivo effetto di un atteggiamento esplosivamente distruttivo (tipico dell’avanguardia à la mode, italiana e non) rispetto alle forme poetiche proprie della tradizione, ha una sua giustificazione, non solo di ordine psicologico-sentimentale, ma storico-letteraria: l’immediatezza espressiva e l’essenzialità della «parola» ungarettiana, balzano subito agli occhi come caratteristica peculiare della prima stagione creativa di Ungaretti, dal Porto sepolto (1916) all’Allegria (1931). Tuttavia già in quest’ultima, in un periodo di «apparente sommovimento di principi», si può notare la presenza, anche se in nuce (che si svilupperà meglio in seguito, nel Sentimento, 1933), di un retaggio di temi e di espressioni che fanno pensare, nonostante la scomposizione del verso tradizionale, al recupero di un ordine, esistenziale e stilistico ad un tempo.

La guerra, con i suoi miti e la sua esperienza traumatica,

aveva fatto nascere il canto dell’umanità, proprio dell’Allegria: la guerra, in realtà, si era presentata al «soldato» Ungaretti ben diversa da come l’avevano vaticinata e idoleggiata la retorica dannunziana e le rumorose gazzarre futuriste. Ungaretti sentiva, finita ora la guerra, il bisogno di «ritrovare un ordine» (e siamo già nel periodo del Sentimento, dal ’19 in poi) «da ristabilirsi nel senso della tradizione, incominciando […] dall’ordine poetico, non contro, cioè, ma dentro la tradizione anche metodologicamente». Pur rappresentando, perciò, l’Allegria la prima fase della «sperimentazione formale» di Ungaretti, ed avendo la rottura del verso tradizionale come scopo principale quello di evidenziare, alla maniera dei simbolisti e di Poe, le capacità analogiche ed evocative della parola, sentirla, cioè «nel suo compiuto e intenso, insostituibile significato», nasce da una condizione umana di precarietà come quella del «soldato». In realtà, già dal ’19 nasce in Ungaretti la preoccupazione di ricreare, con quei suoi versicoli franti e spogliati di qualsiasi discorsività, un tono ed una misura classicamente evocati e organizzati: è la perfezione del settenario, del novenario e dell’endecasillabo, raggiunta mettendo le parole una accanto all’altra e non più una sotto l’altra (si pensi per questo alle osservazioni critiche del De Robertis sulla formazione letteraria di Ungaretti).

In una intervista del ’63 Ungaretti dirà

a proposito della sua poesia degli anni post-bellici: «E poi gli endecasillabi bisognava imparare a rifarli… quindi l’endecasillabo tornava a costituirsi in modo normale». E ancora: «L’endecasillabo nasce subito, nasce dal ’19, nasce immediatamente dopo la guerra», come esigenza di un «canto» con cui partecipare dell’esempio dei classici, da Petrarca a Leopardi, filtrato attraverso l’esperienza mallarméana e baudelairiana. Questo recupero di un ritmo e di una metrica, di una musicalità, nuove ed antiche ad un tempo, sorgeva già da quegli anni terribili della guerra e del dopoguerra, come necessità di un equilibrio interiore e stilistico insieme. Era questo il periodo de «La Ronda»: della volontà di ristabilire, e in politica e in letteratura, quell’ordine turbato dell’esperienza della guerra. E qui balza subito agli occhi l’indiscutibile influenza mediatrice della rivista di Cardarelli e Bacchelli sul «secondo» Ungaretti, quello del Sentimento, sul suo atteggiamento nei confronti della tradizione letteraria italiana.

Il «ritorno all’ordine»

Sono gli anni, quindi, in cui emerge la necessità di un «ritorno all’ordine», da ripristinare nel senso della tradizione, attraverso il recupero di temi, di modi espressivi, propri di un mondo passato, ma rivissuti e riscoperti in una rilettura moderna e originale, personalizzata. Si trattava per Ungaretti di «non turbare l’armonia del nostro endecasillabo, di non rinunciare ad alcuna delle sue infinite risorse che nella sua lunga vita ha conquistato e insieme di non essere inferiori a nessuno nell’audacia, nell’aderenza al proprio tempo». In realtà il cosiddetto «neoclassicismo» non farà mancare il suo peso determinante nel segno e nel senso di un’arte predisposta «verso un ordine tradizionalmente tramandato e che solo negli schemi è stato sovvertito». Ungaretti rompe soltanto gli schemi e la disposizione della trama espressiva e non le strutture formali e tematiche interne alla poesia, recuperandone, così, i valori «puri» e misteriosi per via retorico-stilistica e tecnico-metrica. «Al di là», quindi, della «retorica» dannunziana e futurista, dei toni «dimessi» dei crepuscolari, del sentimento «languido» del Pascoli, si trattava di eliminare, attraverso l’apparente liquidazione della tecnica tradizionale, «le sovrastrutture linguistiche che impacciavano il folgorare dell’invenzione», riuscendo ad attingere, a livello metrico, ritmico-musicale, una «parola» che miracolosamente riacquistava nella sua rinnovata collocazione una sua interna e misteriosa valenza, non solo e non tanto metrica. Quest’opera riformatrice del linguaggio poetico era attuata da Ungaretti non tanto mediante il ripudio dei versi canonici tradizionali «quanto piuttosto nella loro disarticolazione e nel loro impiego di nuovo genere, che comporta lo spostamento degli accenti dalle loro sedi tradizionali, la scomparsa della cesura, l’uso della rima scarso e asimmetrico, il valore assegnato alle pause». Continua a leggere

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DISCUSSIONE: VERSO UNA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA. UNA POESIA DI STEVEN GRIECO-RATHGEB COMMENTATA – UNA POESIA INEDITA DI LUCIO MAYOOR TOSI CON UN COMMENTO IMPOLITICO DI GIORGIO LINGUAGLOSSA E DUE REPLICHE DI GIUSEPPE TALIA

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Roma, giovedì 15 dicembre 2016 ore 17.30 alla Biblioteca Nelson Mandela via La Spezia n. 21 Presentazione del libro di poesia (bilingue italiano / inglese) di Steven Grieco-Rathgeb: Entrò in una perla (Mimesis Hebenon, 2016) Intervengono Letizia Leone e Giorgio Linguaglossa – sarà presente l’Autore

Commento alcuni versi di una poesia di Steven Grieco-Rathgeb del 1993.

Una brezza
la porta si è spalancata. Fitto fogliame,
nessuno,
la soglia non varcata.

In questo addio, sono tornato a casa.

(S. Grieco -Rathgeb da Entrò in una perla, Mimesis Hebenon, 2016)

Prendiamo questo «frammento» di una poesia di Steven Grieco-Rathgeb. C’è «la brezza» (che ritroviamo sia nella poesia di Tranströmer che in quella di Kjell Espmark), subito dopo incontriamo «una porta» (Quante «porte» ci sono nella poesia di Tranströmer!). La «porta» come luogo simbolico, limen divisorio tra un al di qua e un al di là, tra il familiare e l’estraneo; ma la porta è «spalancata». È dunque un invito ad andare oltre? Un invito ad oltrepassare la soglia? (ma la soglia di che cosa?), o è un monito minaccioso quello spalancarsi della porta che intimidisce… La poesia subito si interrompe, c’è un punto. Segue la dizione «Fitto fogliame». È un bosco dunque. Che cos’è il bosco? Che cosa rappresenta? Ricordo che un antico ideogramma cinese rappresenta la parola «essere» mediante un disegno stilizzato ai minimi termini che indica le foglie di un bosco. L’ideogramma cinese indica una equivalenza tra il «bosco» e l’«essere». E qui ci sovviene Ortega y Gasset che ci spiega come sono le foglie del bosco che impediscono allo sguardo di vedere attraverso il bosco, cioè il bosco chiude la visione dell’uomo il quale non può oltrepassarlo. La visione dell’uomo non può penetrare dentro la sostanza dell’essere, si deve fermare alla soglia delle foglie sempre più fitte. È questo il significato di questi primi due versi della poesia. Il terzo verso è fatto da una parola sola: «nessuno» può andare oltre quella soglia raffigurata dal «Fitto fogliame», quel «nessuno» siamo noi, è il poeta che non può spingersi oltre quelle colonne d’Ercole della propria interiorità profonda dove sostano i significati come grandi sommergibili affondati, perché in quell’oltre c’è l’ignoto che spaventa e sbigottisce. E quindi viene pronunciato l’«addio» a quel progetto irragionevole e prometeico di andare oltre il «Fitto fogliame». Bisogna rinunciare al progetto prometeico, «ritornare a casa».

È questa la poetica del «frammento» come oggi noi la intendiamo (molto diversa, caro Giuseppe Talia, dal frammentismo dei poeti de La Voce di De Robertis). Qui non si tratta di una mera capacità di interpuntare con il punto le unità frastiche, ma si tratta di una vera e propria immersione nel sottosuolo, in quel sotto suolo del sotto suolo dove dimorano gli oggetti profondi, anzi, per l’esattezza le «Cose» misteriose che, di tanto in tanto, affiorano in superficie e si vestono di parole e di immagini…

Ed ecco Tranströmer:

Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero

 LUCIO MAYOOR TOSI UNA POESIA INEDITA CON UN COMMENTO IMPOLITICO DI Giorgio Linguaglossa

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Lucio Mayoor Tosi

Altre velocità.

Scacchiera e blu elettrico sull’asteroide Pio XI°.
Pavimento di larghe piastrelle, chiaro, dove si balla.
Salirci è un attimo.
Oltre, nel buio:
un centro abitato, case e giardinetti. Il profilo di un bosco
– Filari d’alberi. Pubblico in platea, l’arrivo silenzioso
di un locomotore. La luna dietro, nascosta.
Qui e là, luci che si sono spente.
Nel vuoto.
Seduto accanto a un grande albero
il poeta scrive canzoni piene di sentimento
indeciso se trasferirsi al 1969 oppure nel sottosuolo.
Chiunque tu sia muoverai la bocca come un pesce nell’acquario.
Nessuno ti capirà.
(Un poeta assurdamente vicino
cancellerebbe tutte le strade praticabili.
Potrai salvarti solo spiccando un salto
sia quel che sia, fuori dal tempo)
Poter rubare qualche ostrica…

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Mi scrive Lucio Mayoor Tosi: «vedere come può stare un verso lanciato nel vuoto, senza una chiara ragione e soprattutto senza difese. Come un bengala nel buio, un verso nel futuro».

Lucio Mayoor Tosi è forse il più conseguente esecutore testamentario di una poesia del «frammento» nel duplice senso che il senso abita il «frammento» e nel senso della frammentarietà del «frammento» stesso. È il suo personalissimo contributo alla poetica del «senso del frammento» che oggi alcuni poeti tentano di perseguire. Il problema che affronta Mayoor Tosi è che oggi l’«oggetto» si dà in forma di «frammento», e quindi il «frammento» è la chiave per entrare dentro l’«oggetto». È questa la grande novità di questa poesia. Adottando questo punto di vista, cambia tutto, cambia la stessa cognizione del metro e del verso. Cambia la natura del metro e del verso. Saranno il metro e il versus che dovranno piegarsi (sintatticamente, semanticamente) alle esigenze del «frammento», che adesso acquista una posizione centrale.

C’è in Mayoor Tosi la consapevolezza che l’aforisma di Minima moralia che recita Das Ganze ist das Unwahre (“il tutto è il falso“) è il rovesciamento di un noto passo della Fenomenologia hegeliana.
Il vero è il tutto [Das Wahre ist das Ganze]. La poetica del «frammento» è la risposta più evidente e forte che la poesia italiana oggi dà alla Crisi della poesia e alle ideologie dominanti: ha consapevolezza che la poesia del «frammento» è una poesia del negativo, della negatività assoluta che confuta il «falso» e il «vuoto» della «totalità» che abita la poesia della riproposizione metrica. Mayoor Tosi sospetta fortemente che l’unità metrica è un falso, e la mette da parte, spezza il parallelismo della poesia della riproposizione metrica, lo frantuma, lo svuota di senso, mette la dinamite sotto l’ideologia della riproposizione metrica, ne mostra l’interno vuoto e posticcio, elimina i passaggi, gli enjambement, i legamenti tra un verso e l’altro e procede per «vedere come può stare un verso lanciato nel vuoto». È l’utopia del verso isolato e scisso dal «tutto», che impersona l’utopia contro l’ideologia. Lucio Mayoor Tosi vuole una poesia «senza una chiara ragione e soprattutto senza difese. Come un bengala nel buio, un verso nel futuro».

Ecco i primi tre versi della poesia:

Scacchiera e blu elettrico sull’asteroide Pio XI°.
Pavimento di larghe piastrelle, chiaro, dove si balla.
Salirci è un attimo.

Qui è stato distrutto tutto, è stata dichiarata guerra ad ogni ipotesi di senso e di verosimiglianza che un concetto ideologico di poesia tardo novecentesca vorrebbe conculcarci. Qui siamo su di un «asteroide» con un «Pavimento di larghe piastrelle» «dove si balla». È incredibile con quanta naturalezza e facilità qui sia stata distrutta l’ideologia del senso della poesia della riproposizione metrica oggi dominante, «salirci è un attimo», scrive Mayoor Tosi.
Una proposizione di poetica chiara, forte, inequivoca.
Il «frammento» è concepito come particolare che esprime la negazione della totalità, l’espressione cioè di una totalità negativa. Il «frammento», dunque, non può essere che una micro totalità intensamente abitata dal negativo e dalla negazione. È una poesia che va dritta verso l’ignoto senza salvagente come un acrobata che volteggi senza rete di salvataggio.

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Scrive Marco Maurizi riprendendo una nota tesi di Adorno:

“Testi, che tentano apprensivamente di indicare senza interruzioni ogni passaggio, cadono perciò anche immancabilmente nella banalità e nella noia, che affetta non solo la concentrazione della lettura ma anche la loro stessa sostanza“. [1]

Adorno punta ad una contraddizione latente dell’idea di sistema. Un testo, infatti, in cui ogni passaggio concettuale venga oggettivato, una totalità in cui lo sviluppo dell’argomentazione fosse fissata in modo rigoroso, renderebbe superfluo il pensiero. Ecco che a partire da un rilievo puramente formale, l’ideale dell’esposizione continua di un contenuto, siamo giunti ad un dato contenutistico che – secondo Adorno – costituisce al tempo stesso il suo telos nascosto. Nell’ideale del suo pieno dispiegamento il sistema mostra che ciò che sembra appartenere alla mera “tecnica” spinge verso l’esautorazione del pensiero. Allo stesso tempo, tuttavia, l’esigenza sistematica muove verso la dissoluzione dell’oggetto, della sua natura opaca e altra rispetto al pensiero.

“La regola della completezza dei singoli passaggi pretende […] che l’oggetto si lasci esporre in un contesto deduttivo privo di fratture: una presupposizione della filosofia dell’Identità. […] La richiesta di continuità nel processo del pensiero tende ad assumere in modo pregiudiziale la chiusura nell’oggetto, l’armonia propria di questo. […] La concezione romantica del frammento come creazione incompiuta e tuttavia proseguente verso l’Infinito attraverso l’autoriflessione, propugnava [al contrario] un motivo anti-idealistico“. [2]

Scrive Marco Maurizi:

«Come il contenuto del pensiero anti-sistematico non può che esprimersi in forma frammentaria, così il frammento ha la propria ragion d’essere nell’espressione di questo contenuto critico. Il pensiero che sceglie la forma aperta e priva di potere del frammento è animato, dice Adorno, dalla denuncia del dominio sulla natura e sugli uomini: è solo in rapporto a questa perenne denuncia che il termine “negazione” assume un significato in Adorno e che dunque è possibile comprendere in che senso il frammento si faccia negazione della totalità. Negativo è sinonimo di critica, critica di un positivo secondo il concetto hegeliano della bestimmte Negation». [3]

Appunto di Giorgio Linguaglossa

Il «soggetto», come sappiamo, è da sempre nel legame relazionale. Interloquisce con altri «soggetti» e dimora tra significato e significante, tra enunciazione ed enunciato, tra il rumore delle parole e il silenzio delle parole. Il soggetto si nasconde sempre, lo sappiamo, lo abbiamo appreso da Lacan; ma è nella logica del rimosso che questo avviene, ovvero, nello spazio politico della parola (anche poetica). La parola poetica obbedisce allo spazio politico? Quale legame c’è tra l’agorà del politico e il discorso poetico? La parola poetica, il logos poetico si dà soltanto nella rappresentazione di finzione? Per il discorso politico relazionale, il «Reale» è ciò che è irriducibile alla simbolizzazione, la sua è una verità alienata; invece, nel discorso poetico tutto viene ricondotto, in un modo o nell’altro, al processo della simbolizzazione (diretta o indiretta). Qualcosa torna sempre allo stesso posto, tende ad affiorare ma come in maschera, come un contenuto ideativo che si veste di parole. La «verità» si dà nel processo e nel tempo, tra rimozione e simbolizzazione, tra «io» e l’«Altro», imprendibile e imperdibile. Il luogo della rimozione non coincide con il luogo del tempo, entra in conflitto con esso e sprigiona le scintille della simbolizzazione. Il luogo della «verità» coincide così con il luogo della «perdita».

Il concetto di «orizzonte della parola» è analogo al concetto scientifico di «orizzonte degli eventi»; è l’apparire della parola che si dà come un «evento». Il rapporto fondamentale non passa quindi tra ciò che si dice e ciò che si tace come se fosse un gioco di abilità, da rethoricoeur, da prestigiatore, ma un «evento» che ha già in sé uno spazio di ombre significanti e di significati ormai non più attingibili e transitati nell’imbuto del tempo.

Nel tempo in cui la crisi è in crisi, non c’è più alcun luogo a cui appigliarsi se non al punto fermo che chi Parla è un Altro che introduce il suo discorso eterodiretto con il nostro egolabile.

[1] Th. W. Adorno, Minima moralia, in Gesammelte Schriften, Suhrkamp, Frankfurt a. M 1978, IV, n. 50.
[2] Th. W. Adorno, Noten zur Literatur, in GS, cit., XI, p. 24.
[3] https://lombradelleparole.wordpress.com/2016/12/06/claudio-borghi-riflessioni-sulla-poetica-del-frammento-e-del-tempo-interno-poesie-tratte-da-dentro-la-sfera-2014-con-un-commento-di-luigi-manzi/comment-page-1/#comment-16463

Giuseppe Talia

8 dicembre 2016 alle 22:57

 Accogliendo l’invito di A. M. Favetto, come anche di A. Sagredo (lupus in fabula o uno-dei-due) vorremmo riportare alcune notizie letterarie sul frammento che agevolmente abbiamo trovato su wikipedia (fonte da prendere con le dovute riserve), cercando, oltremodo, di applicare nello specifico la teoria del frammento ai versi dell’autore proposto, Kjell Espmark, come anche dell’unico esponente della poetica del frammento che al momento riconosciamo, Giorgio Linguaglossa.

( Di Sagredo, M. Mario Gabriele e Ubaldo de Robertis tratteremo più avanti. Degli altri aderenti al movimento che compaiono citati nella discussione non abbiamo elementi significativi da trattare).

Leggiamo su Wikipedia:

1) Il Frammentismo, o Poetica del frammento, è una tendenza letteraria sviluppatasi in Italia nei primi anni del Novecento.

2) incarna una concezione della letteratura legata alle dottrine irrazionaliste e decadenti

3) prevede la costruzione dell’opera letteraria non tramite un insieme organizzato di eventi e situazioni, ma tramite un mosaico di frammenti, di immagini, di episodi slegati fra loro.

Il punto uno dice chiaramente che il frammentismo si è sviluppato in Italia nei primi anni del Novecento. Ma, considerando la perfetta analisi di Sagredo, lo stesso ha interessato gran parte della letteratura così detta slava, anche se Sagredo sposta il baricentro del frammento sul piano prettamente linguistico e di critica, affermando: “Senza di esso non si riuscirebbero a comprendere le centinaia di analisi critiche, le quali non solo affrontarono i “frammenti contemporanei” (quelli cioè che si stavano svolgendo di pari passo alla evoluzione dei metodi critici per comprenderli), ma anche quelli dei secoli passati (non specificatamente russi, poiché gli esempi di poeti e scrittori stranieri servirono come esempio e stimolo ai critici russi e europei).”

Capiamo quindi che il frammento è utile a una certa critica e che esso è sempre esistito, “Il frammento nasce prima della comparsa dell’uomo”. (Sagredo, ibidem)

Il punto due dice che la poetica del frammento è legata alle dottrine irrazionaliste e decadenti. Ci piace pensare che Linguaglossa, in primis, appartenga all’irrazionalismo metafisico e non a quello radicale, visto il suo grande impegno per la poesia che egli critica e pratica da sempre. Anche l’irrazionalismo ontologico ben si addice al nostro Giorgio, perché, conoscendolo poco di persona, ma avendo letto con attenzione la sua vasta produzione, potremmo azzardare che dietro alcuni aspetti formali vi sono sicuramente altri interdipendenti (visto la poiesis ) con aspetti decisamente opposti. (decadentismo).

Il punto tre entra nel merito della produzione vera e propria. La scelta del frammento è conseguenza di una visione della vita confusa, parziale e soggettiva. Al soggettivo si contrappongono immagini in cui l’oggetto percepito dal soggetto si ferma (Silenzio. La pioggia infuria lassù. Espmark) (Notte. Pioggia. Nebbia. Ho aperto la finestra. Linguaglossa) come quadri impressionisti, in un realismo en plen-air che nega l’importanza del soggetto a scapito del colore più che del disegno, dovuto, quest’ultimo a una forma tradizionale, mentre il frammento (come l’impressionismo) privilegia la libertà del verso.

Leggiamo ancora che il frammento si avvicina all’espressionismo, al lato emotivo della realtà (Abitavo presso una stella sul canale nero, Linguaglossa) (Ricordo in un brivido una carreggiata zuppa,, Espmark).

Leggiamo ancora che il frammentismo trova il suo più valido sostenitore nella rivista La Voce, durante il periodo di direzione da parte di Giuseppe De Robertis, e che esempi della poetica del frammento sono Slataper, Boine, Rebora, Sbarbaro. La poetica del frammento è presente in Montale fin dagli Ossi di Seppia, anche se un esempio lampante si trova nelle Occasioni con la poesia Keepsake, frammento e onomastica di pari passo, ma, inaspettatamente spunta Pascoli con Myricae (Urtava, come un povero alla porta/ il tramontano con brontolio roco) che a quanto pare incarna pienamente i tre punti sostanziali della poetica del frammento.

Di fronte a una tale schiera di nomi non possiamo che validare ogni aderenza al movimento. Il quale, forse, per ragioni di corsi e ricorsi storici, ritorna in questo inizio di secolo con l’aggiunta di poeti nordici, i quali probabilmente si sono nutriti con il latte della Sibilla Cumana.

Certamente non si deve cadere nel tranello esemplificativo che scrivere per frammenti sia spezzare il verso con interpunzioni tipo “Buio. Accendo la luce. La nebbia si dirada”, in quanto la Musa, a cui si deve grande rispetto, e ancor di più ai lettori-fruitori (intendo quelli navigati in poesia) non la si può raccontare con esemplificazioni, ritrosie o epigonismi.

Sagredo ha molte pregevoli qualità. Una delle sue dis-qualità precipue è quella di dare un colpo alla botte e una al cerchio. Non ce ne voglia, ma notiamo, noi osservatori che lo stimiamo, che spesso, nella sua assoluta ricerca, casca in contraddizioni. Ora, premettendo che la cifra di Sagredo è proprio la contraddizione, non in termini ma in assoluto, non capiamo come mai egli voglia associarsi a una corrente letteraria, il frammento, che non gli appartiene e che relegherebbe la sua opera in una nicchia, quando, invece, la libertà dei suoi versi e della sua grande cultura, sostanzialmente non appartengono a nessuna corrente che non sia la propria. Di frammento non ne vediamo traccia nella sua produzione, piuttosto “sangre e arena”, la biacca del teatro shakespeariano, l’innovazione, la fuoriuscita dopo l’auto-isolamento. Dov’è la poetica del frammento nelle sue opere? Ce lo spieghi. Ci porti esempi pratici e non teorici.

Mario M. Gabriele ci intenerisce, piacevolmente e, ricercando, dove possibile, la sua ricerca poetica dispiegata in anni di studio e di lavoro, troviamo una recente evoluzione nella poetica del frammento con risultati di sicura rilevanza, laddove egli inserisce nell’onomastica letteraria, quadri espressionistici ed episodi apparentemente slegati, con una attenzione verso i sentimenti e aspetti morali della vita (Il boia a destra, il giudice a sinistra).

Ubaldo de Robertis, che conosciamo bene per corrispondenza, appare l’autore più lontano dalla poetica del frammento. Egli è Poeta, per profondità e per implicazioni musicali, sostanzialmente tradizionale anche se nella sua forma- poesia si ravvisano delle spezzature frastiche che presupporrebbero forme ibride, ma che, se ascoltiamo bene, tendono alla ricerca del suono, del ritmo, con una rappresentazione unitaria, in termini di componimento.

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Giuseppe Talia

9 dicembre 2016 alle 15:46

Ho come l’impressione che si voglia percepire la discussione intorno alla poetica del frammento come a una diatriba fra sostenitori e oppositori, tra chi ne rileva la portata rivoluzionaria e chi si abbarbica su posizioni tradizionali, fino ad arrivare a toni inquietanti di avvertimento a “non disturbare il conducente”, a non intralciare il passo a chi ha maggiore mobilità, a trincerarsi dietro il silenzio, fino alle offese gratuite (non si accettano intimidazioni né insulti che vengono rispediti ai vari mittenti).

Premetto che personalmente non sono né favorevole né contrario alla poetica del frammento. Nella mia dissertazione ho indagato fatti storici, indizi, teorie, affermazioni, corredando il tutto con esempi di critica applicata (mi tolgo un sassolino dalla scarpa, dicendo che siamo capaci di fare critica costruttiva e applicativa, non solo a scrivere baggianate pseudo-ironiche), mettendo a confronto autori e versi.

La poetica del frammento è una delle tante forme di poesia. E’ nata in Italia nei primi anni del Novecento; ha avuto esponenti di rilievo; continua ad avere esponenti a tutt’oggi.

Semmai c’è da chiedersi come mai la poetica del frammento si sia sviluppata nel nord Europa a partire dalla fine degli anni cinquanta del Novecento, anche se, leggendo con attenzione la prefazione di Giorgio Linguaglossa al libro di Espmark, non si può che essere d’accordo con l’analisi condotta (quando Giorgio Linguaglossa si trova in quello speciale stato di grazia…).

Nel mio intervento mettevo, però, in guardia chi, interessato all’applicazione della poetica del frammento, pensasse che la stessa si potesse risolvere con l’interpunzione, la frattura del verso, l’impressione e l’espressione, in quanto la frammentazione richiede, invece, un’analisi sociale, linguistica, morfosintattica, financo simmetrica, con le alterazioni spazio-temporali, le pause, gli agganci e/0 innesti, la dislocazione dell’oggetto in rapporto al soggetto, l’autobiografismo: il protagonista guarda, ricorda, dice, riporta. “Il protagonista dice semplicemente: «La apro» (la porta), con tutto quel che segue”, scrive G. Linguaglossa nella prefazione a Espmark.

Riguardo ai versi di Steven Grieco Rathgeb “Una brezza/la porta si è spalancata. Fitto fogliame,/nessuno,/la soglia non varcata./In questo addio, sono tornato a casa”, si può notare che la forma è quella del haiku, (e non è l’haiku un frammento?) tornerebbero anche le sillabe se si sistemassero i versi in modo diverso “Una Brezza/la porta si è spalancata/Fitto fogliame. L’autore però continua con una metonimia, “nessuno,/la soglia non varcata”, quasi a voler rafforzare il senso di smarrimento e sbigottimento per un evento imprevisto, misterioso in cui gli elementi della “natura” (impressionismo) colgono l’attimo. Potremmo trovare molte associazioni con la pittura impressionista, da Sisley a Monet da Guillaumin a Corot.

C’è una sterminata letteratura sul significato del bosco. Non sapevo che l’ideogramma cinese di bosco fosse equivalente a quello di “essere”, e questo mi conforta ricordando un test di sette domande attribuito a Freud sul bosco: 1) Ti trovi in un bosco. Come sono gli alberi? A) alti e fitti. B) Bassi e radi (…)

Concludo dicendo che i miei interventi sul tema non sono pensati per sminuire nessun autore indicato, nel rispetto per la ricerca e formazione di ognuno.

N. B. I versi di Tranströmer

“Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero”,

ad ogni nuova lettura acquistano sempre più significati e connessioni e interconnessioni. Quasi un aforisma.
Leggevo qualche domenica fa sull’inserto Robinson di Repubblica come un verso della Szymborska sia diventato così popolare da essere ricordato da tanti, “Ascolta come mi batte forte il tuo cuore”.
Credo che il verso di Tranströmer, che Giorgio Linguaglossa ormai cita continuamente, abbia delle buone chances per diventare anch’esso popolare.

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9 dicembre 2016 alle 18:49

Caro Giuseppe,
quando ragioni intorno alla poesia si nota la tua perspicacia più che quando invece fai dell’ironia… Tu hai messo il dito sulla piaga, e ti chiedi acutamente:

«La poetica del frammento è una delle tante forme di poesia. E’ nata in Italia nei primi anni del Novecento; ha avuto esponenti di rilievo; continua ad avere esponenti a tutt’oggi.
Semmai c’è da chiedersi come mai la poetica del frammento si sia sviluppata nel nord Europa a partire dalla fine degli anni cinquanta del Novecento».

L’interrogativo è d’obbligo… ma poi per tante ragioni, come tu hai ben descritto, la poesia per frammento è emigrata in Svezia e in Norvegia con un poeta come Rolf Jacobsen, mentre noi abbiamo avuto il fenomeno Cardarelli negli anni trenta e il neorealismo negli anni Cinquanta.
Come è potuto accadere questo gigantesco arretramento? Dal cui interrogativo ne scaturisce un altro tutto moderno: Questa lacuna stilistica quali effetti ha prodotto sulla poesia italiana del secondo Novecento e dei giorni nostri? È la cosiddetta poetica del «frammento» un tentativo di trovare una soluzione a questa grande lacuna?
Il problema è aperto. Ai poeti italiani la parola.

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