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Antologia di poesie e immagini a cura di Carlo Livia
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POESIE di Guillaume Apollinaire (1880-1918) Molto allegro con improvvise tristezze Poesie e calligrammi nella traduzione di Mario Fresa stralcio di un Commento di Renzo Paris
Guillaume Apollinaire, pseudonimo di Wilhelm Albert Włodzimierz Apollinaris de Wąż-Kostrowicky nasce a Roma il 25 agosto del 1880 e muore a Parigi nel 1918, figlio naturale di Francesco Flugi d’Aspermont, un ufficiale svizzero che non lo riconobbe mai, e di Angelika de Wąż-Kostrowicky, una nobildonna polacca. Si trasferisce con la madre in Francia giovanissimo. Ha una adolescenza instabile e disordinata, trascorsa tra vaste letture e numerosi viaggi e studi non regolari. Conosce e frequenta artisti d’avanguardia a Parigi, tra i quali anche i poeti Ungaretti e Max Jakob e il pittore Pablo Picasso. Partecipa alle discussioni sul cubismo in gestazione e, nel 1913, scrive un saggio su questa scuola artistica. Allo scoppio della prima guerra mondiale, sceglie di arruolarsi come volontario, definisce la guerra “un grand spectacle“. Nel 1916 viene ferito a una tempia e subisce un difficile intervento chirurgico. Diventa famoso come critico militante dei movimenti d’avanguardia di quegli anni: il futurismo e la pittura metafisica di De Chirico. Dato il suo carattere estroso ed irrequieto fu sospettato di essere l’autore del furto del dipinto della Gioconda avvenuto il 20 agosto del 1911 al Louvre; in seguito a tali sospetti (di cui fu gravato anche Picasso), viene arrestato ed incarcerato, salvo poi risultare del tutto estraneo ai fatti ed in seguito rilasciato. Del furto risultò poi essere autore un dipendente del Louvre, tale Vincenzo Peruggia. Inaugura nel 1910 la vita letteraria con i sedici racconti fantastici intitolati L’eresiarca & C., mentre nel 1911 pubblica le poesie di Bestiario o corteggio di Orfeo e nel 1913 Alcools, raccolta delle migliori poesie composte fra il 1898 e il 1912, considerata il capolavoro di Apollinaire insieme con Calligrammes (1918), veri e propri componimenti scritti appositamente per formare un disegno che rappresenta il soggetto della poesia stessa.

Apollinaire ritratto di Maurice de Vlaminck
Commento di Renzo Paris
…Per dar carne alla biblioteca erotica detta dei Curiosi, che curava per uno spregiudicato editore, Apollinaire si tuffa nella letteratura italiana e ne trae pingue bottino. Riscopre, per esempio, lo scrittore Giambattista Casti (1724-1803), viaggiatore irrequieto e amico di letterati e regnanti di tutta Europa, quello stesso che Parini giudicava “prete brutto, vecchio e puzzolente” e che invece Stendhal e Goethe stimavano.
Piacque ad Apollinaire per le sue doti di poeta libertino ed irreligioso Giorgio Baffo che, insieme a scrittori come Francesco Gritti e Anton Maria Lamberti, Giovanni Pozzobon e Marcantonio Zorzi, dava vita all’ambiente che permise la nascita della lingua goldoniana. Ammirò Boccaccio, innanzitutto. Stampò Sade. Ma a proposito del Casti c’è ben altro da dire. Il Casti infatti è autore degli Animali parlanti. E che cos’è Bestiaire, la prima raccolta di poesie d’Apollinaire, se non una serie soprattutto di quartine in cui il poeta fa ‘parlare’ gli animali?
O forse è troppo azzardata l’ipotesi di una intuizione settecentesca di un bestiario illustrato alla maniera medioevale ancora viva nell’epoca rinascimentale? Bestiaire è del 1911. Definito dallo stesso autore “un divertimento poetico” è una serie di licenziosi auguri e scongiuri. Auguri al poeta che si appresta a circuire e a conquistare madama poesia, e d’altra arte, scongiuri contro i pericoli e gli ostacoli di cui è lastricata la strada della bellezza. Più che un ‘dizionario dei motivi poetici dell’autore’ sembra essere un manuale di istruzioni per la creazione poetica, per un poeta da spartire con il profeta di dantesca e rimbaudiana memoria né con il misterioso di Mallarmé. Proprio in Bestiaire, nella quartina ‘L’éléphant’, si dice:
Comme un éléphant son ivoire,
J’ai en bouche un ben precieux.
pourpre mort!… J’achète ma gloire
Au prix des mots mélodieux.
Nella quartina ‘La chenille’ invece leggiamo:
Le travail mène à la richesse.
Pauvres poètes, travaillons!
La chenille en peinant sans cesse
Devient le riche papillon.
A prezzo del “lavoro poetico” il poeta può diventare ricco. Se le parole sono ancora melodiose, ma già tese e frenetiche, alla gloria si arriva attraverso una “compera”. Anche qui Apollinaire finisce col criticare il gusto simbolista dall’interno stesso della sua melodia. A proposito della “purpurea morte” de “L’éléphant” il critico francese Poupon ricorda Mallarmé e la sua particolare espressione “morire purpureo” riferita alla ruota di un carro, simbolo della poesia.
(tratto da Apollinaire Poesie Newton Compton Italiana, Introduzione di Renzo Paris, Roma, 1971)
Nota del traduttore Mario Fresa
Un traduttore di poesia deve lavorare siccome un interprete musicale. È questo il senso del gioco di queste mie traduzioni-imitazioni confluite nel quaderno “In viaggio con Apollinaire”: ai testi ho voluto applicare minime inversioni sintattiche, dilatazioni o contrazioni metriche, sovrapposizioni, puntature, cadenzine. L’elemento di maggiore fascino nella traduzione poetica è d’altronde costituito, secondo me, soprattutto dalla forma e dalle modalità del processo di trasformazione del testo da cui deriva la traduzione stessa; un processo che non è un ʿcontrafactumʾ o un travestimento, ma una forma di scrittura trasversale che assume il valore di un omaggio-variazione, in cui si accolgono e si uniscono sia l’eco imitativa, sia la rielaborazione, fiorita e ampliata, del modello di partenza.
Da Il Bestiario o Corteggio di Orfeo
La Souris
Belles journées, souris du temps,
Vous rongez peu à peu ma vie.
Dieu ! Je vais avoir vingt-huit ans,
Et mal vécus, à mon envie.
Topino
O belle, mie belle, terribili, belle giornate!
Topini del tempo che la mia vita divorate!
Trent’anni, miodio, trent’anni li compirò tra un mese!
Che tempo perduto! Che ore malissimo spese!
L’Écrevisse
Incertitude, ô mes délices
Vous et moi nous nous en allons
Comme s’en vont les écrevisses,
À reculons, à reculons.
Gambero
O dubbio, dolcissimo mio. La dolce mia altalena.
Ah ridatemi la strada. Non la vedo. Non la vedi.
Tu mi sventoli all’indietro: come un gambero procedi
Che sgambetta, si ripara, che alla fuga già s’allena.
Da Alcools
Les cloches
Mon beau tzigane mon amant
Écoute les cloches qui sonnent
Nous nous aimions éperdument
Croyant n’être vus de personne
Mais nous étions bien mal cachés
Toutes les cloches à la ronde
Nous ont vu du haut des clochers
Et le disent à tout le monde
Demain Cyprien et Henri
Marie Ursule et Catherine
La boulangère et son mari
Et puis Gertrude ma cousine
Souriront quand je passerai
Je ne saurai plus où me mettre
Tu seras loin je pleurerai
J’en mourrai peut-être
Campane
Oh il mio caro zingarello: oh l’amante mio bello:
senti che razza, senti che razza di scampanìo!
Quanto ci siamo amati, vedi un po’, tesoro mio
(e volevamo non esser mai visti, amore bello…)
Il nostro nascondino, noi l’abbiamo scelto male!
Le campane delle chiese fanno un chiasso infernale
a destra, a manca: e dall’alto dei campanili ognuna
già si mette a bisbigliare, pettegola importuna…
e così, già domani, prima Enrico e poi Ursula Maria
e in aggiunta Cipriano e Caterina
e anche i coniugi fornai, lì, nella panetteria
ah come sorrideranno quando, mettiamo, io passerò di là
e dove, ohimé, dove poi m’asconderò?
Ah, ne potrei morire! Morire io ne potrei, chissà!
Signe
Je suis soumis au Chef du Signe de l’Automne
Partant j’aime les fruits je déteste les fleurs
Je regrette chacun des baisers que je donne
Tel un noyer gaulé dit au vent ses douleurs
Mon Automne éternelle ô ma saison mentale
Les mains des amantes d’antan jonchent ton sol
Une épouse me suit c’est mon ombre fatale
Les colombes ce soir prennent leur dernier vol
Costellazione
Sono nato sotto il segno dell’Autunno
Per questo mi piacciono i frutti perciò mi disgustano i fiori
I baci che ho donato io li rimpiango tutti
Come un noce bacchiato sussurra i suoi dolori al vento
Oh mio Autunno perenne oh stagione della mia mente
Mani di antiche amanti cospargono il tuo suolo
Una sposa mi segue ed è l’ombra mia fatale
Le colombe stasera spiccano il loro ultimo volo
Hötels
La chambre est veuve
Chacun pour soi
Présence neuve
On paye au mois
Le patron doute
Payera-t-on
Je tourne en route
Comme un toton
Le bruit des fiacres
Mon voisin laid
Qui fume un âcre
Tabac anglais
Ô La Vallière
Qui boite et rit
De mes prières
Table de nuit
Et tous ensemble
Dans cet hôtel
Savons la langue
Comme à Babel
Fermons nos portes
À double tour
Chacun apporte
Son seul amour
Alberghi
La camera è vuota
Ciascuno per sé
C’è un ospite nuovo
Si paga tra un po’
Ma dice il padrone:
Qui si salderà?
Io trottolo e vago
Per la mia città
Vetture chiassose
Che ceffo ha il vicino!
Si fuma un tabacco
Inglese, un po’acre
C’è la Favorita
Che zoppica e ride
Di queste preghiere
Sul mio comodino
E adesso in albergo
Noi qui tutti insieme
Parliamo le lingue
Di un’altra Babele
Chiudiamo le porte
Ben forte, ben forte
Ciascuno il suo amore
Si serbi per sé.
Cors de Chasse
Notre histoire est noble et tragique
Comme le masque d’un tyran
Nul drame hasardeux ou magique
Aucun détail indifférent
Ne rend notre amour pathétique
Et Thomas de Quincey buvant
L’opium poison doux et chaste
À sa pauvre Anne allait rêvant
Passons passons puisque tout passe
Je me retournerai souvent
Les souvenirs sont cors de chasse
Dont meurt le bruit parmi le vent
Corni da caccia
Nobile e tragica è la nostra storia
Come la maschera di un gran tiranno
Nessun rischio drammatico, nessun sortilegio,
Nessuna minuzia indifferente
Ha reso romantico il nostro amore
E de Quincey mentre beveva
L’oppio venefico dolcissimo e puro
Sognava la sua Annina
Passiamo trapassiamo, perché tutto passa, perché tutto va!
Ahi, spesso, ma sconsolato, volgerommi indietro!
I ricordi sono corni da caccia
E il loro suono si disperde nella bocca del vento
La Blanche Neige
Les anges les anges dans le ciel
L’un est vêtu en officier
L’un est vêtu en cuisinier
Et les autres chantent
Bel officier couleur du ciel
Le doux printemps longtemps après Noël
Te médaillera d’un beau soleil
D’un beau soleil
Le cuisinier plume les oies
Ah ! tombe neige
Tombe et que n’ai-je
Ma bien-aimée entre mes bras
La bianca neve
Ah, gli angeli in cielo, là in alto, là fuori!
Uno è vestito da brigadiere
L’altro è vestito da cuciniere
E gli altri, quel gruppo, son tutti tenori
O bell’ufficiale, color dell’azzurro!
La primavera, adesso, dopo quel lungo inverno
Sai che bella medaglia di sole ti assegnerà
Ma sì, te la darà
Il cuciniere spiuma le oche
E che neve che cade: e cade, la neve,
Ricade: né v’è
La mia bella, qui adesso, con me!
Mes amis m’ont enfin avoué leur mépris
Mes amis m’ont enfin avoué leur mépris
Je buvais à pleins verres les étoiles
Un ange a exterminé pendant que je dormais
Les agneaux les pasteurs des tristes bergeries
De faux centurions emportaient le vinaigre
Et les gueux mal blessés par l’épurge dansaient
Étoiles de l’éveil je n’en connais aucune
Les becs de gaz pissaient leur flamme au clair de lune
Des croque-morts avec des bocks tintaient des glas
A la clarté des bougies tombaient vaille que vaille
Des faux cols sur des flots de jupes mal brossées
Des accouchées masquées fêtaient leurs relevailles
La ville cette nuit semblait un archipel
Des femmes demandaient l’amour et la dulie
Et sombre sombre fleuve je me rappelle
Les ombres qui passaient n’étaient jamais jolies
I miei amici alla fine…
I miei amici alla fine mi hanno tutti confessato che mi disprezzano
A grandi sorsate mi ubriacavo di stelle
Mentre dormivo un angelo ha sterminato
gli agnelli i pastori nei tristi ovili
Certi finti centurioni asportavano l’aceto
Gli straccioni ballavano ridotti male assai dal ricino
Stelle del risveglio io non ne conosco nemmeno una
I becchi del gas pisciavano le fiamme al chiar di luna
Becchini sonavano a morto coi boccali di birra
Ricadevano alla luce delle candele ricadevano e dunque sia come dev’essere
Colli di camicia su fiotti di gonne impolverate
Puerpere in maschera festeggiavano la loro purificazione
Un arcipelago sembrava quella notte la città
Le donne chiedevano l’amore e la dulìa
Oh fiume scuro scuro io sì me lo ricordo bene
Nelle ombre che passavano non c’era mai bellezza
Nuit rhénane
Mon verre est plein d’un vin trembleur comme une flamme
Écoutez la chanson lente d’un batelier
Qui raconte avoir vu sous la lune sept femmes
Tordre leurs cheveux verts et longs jusqu’à leurs pieds
Debout chantez plus haut en dansant une ronde
Que je n’entende plus le chant du batelier
Et mettez près de moi toutes les filles blondes
Au regard immobile aux nattes repliées
Le Rhin le Rhin est ivre où les vignes se mirent
Tout l’or des nuits tombe en tremblant s’y refléter
La voix chante toujours à en râle-mourir
Ces fées aux cheveux verts qui incantent l’été
Mon verre s’est brisé comme un éclat de rire
Notte renana
Questo bicchiere è colmo della fiamma di un vino che già trema
Sentite la canzone lentissima lentissima del battelliere
Che racconta di aver visto sotto la luna sette donne
Che torcevano i loro capelli verdi e lunghi fino ai piedi
Su sorgete e cantate più forte e ballate un girotondo
Perché non possa più sentire la canzone del battelliere
Mettetemi vicino tutte quante le ragazze bionde
Dallo sguardo immobile e dalle trecce ripiegate
Il reno è ubriaco il reno dove si specchiano le vigne
Tutto l’oro notturno vi scivola tremando per rispecchiarsi
La voce canta sempre come un rantolo morente
Quelle fatine dai verdi capelli che incantano l’estate
Il mio bicchiere si è infranto come lo scoppio d’una risata
Da Calligrammi
Il pleut
Il pleut des voix de femmes comme si elles étaient mortes même dans le souvenir
C’est vous aussi qu’il pleut merveilleuses rencontres de ma vie ô gouttelettes
Et ces nuages cabrés se prennent à hennir tout un univers de villes auriculaires
Écoute s’il pleut tandis que le regret et le dédain pleurent une ancienne musique
Ecoute tomber les liens qui te retiennent en haut et en bas.
Piove
Piovono voci di donne come se fossero morte perfino nel ricordo
Piovete anche voi meravigliosi incontri della mia vita, o goccioline!
E quelle nuvole impennate già iniziano a nitrire un universo intero di città auricolari
Senti se piove mentre il rimpianto e lo sdegno piangono insieme una musica antica
Ascolta cadere i legami che ti tengono su, che ti tengono giù
Mutation
Une femme qui pleurait
Eh! Oh! Ha!
Des soldats qui passaient
Eh! Oh! Ha!
Un éclusier qui pêchait
Eh! Oh! Ha!
Les tranchées qui blanchissaient
Eh! Oh! Ha!
Des obus qui pétaient
Eh! Oh! Ha!
Des allumettes qui ne prenaient pas
Et tout
A tant changé
En moi
Tout
Sauf mon amour
Eh! Oh! Ha!
Metamorfosi
Una donna che singhiozzava
Eh! Uh! Ah!
I soldati che passavano
Eh! Uh! Ah!
Un custode di chiusa che pescava
Eh! Uh! Ah!
Le trincee che biancheggiavano
Eh! Uh! Ah!
Granate che scoreggiavano
Eh! Uh! Ah!
Fiammiferi che non si accendevano
E tutto
È così tanto cambiato
In me
Tutto
Salvo il mio amore
Eh! Uh! Ah!
SCÈNE NOCTURNE DU 22 AVRIL 1915
Gui chante pour Lou
Mon ptit Lou adoré Je voudrais mourir un jour que tu m’aimes
Je voudrais être beau pour que tu m’aimes
Je voudrais être fort pour que tu m’aimes
Je voudrais être jeune jeune pour que tu m’aimes
Je voudrais que la guerre recommençât pour que tu m’aimes
Je voudrais te prendre pour que tu m’aimes
Je voudrais te fesser pour que tu m’aimes
Je voudrais te faire mal pour que tu m’aimes
Je voudrais que nous soyons seuls dans une chambre d’hôtel à Grasse pour que tu m’aimes
Je voudrais que nous soyons seuls dans mon petit bureau près de la terrasse couchés sur le lit
de fumerie pour que tu m’aimes
Je voudrais que tu sois ma sœur pour t’aimer incestueusement
Je voudrais que tu eusses été ma cousine pour qu’on se soit aimés très jeunes
Je voudrais que tu sois mon cheval pour te chevaucher longtemps longtemps
Je voudrais que tu sois mon cœur pour te sentir toujours en moi
Je voudrais que tu sois le paradis ou l’enfer selon le lieu où j’aille
Je voudrais que tu sois un petit garçon pour être ton précepteur
Je voudrais que tu sois la nuit pour nous aimer dans les ténèbres
Je voudrais que tu sois ma vie pour être par toi seule
Je voudrais que tu sois un obus boche pour me tuer d’un soudain amour
SCENA NOTTURNA DEL 22 APRILE 1915
Gui canta per Lou
Mio piccolo Lou vorrei morire un giorno che tu mi amassi
Vorrei essere bello perché tu mi amassi
Vorrei esser forte perché tu mi amassi
Vorrei essere giovane giovane perché tu mi amassi
Vorrei che la guerra ricominciasse daccapo perché tu mi amassi
Vorrei afferrarti perché tu mi amassi
Vorrei sculacciarti perché tu mi amassi
Vorrei farti male perché tu mi amassi
Vorrei che ci trovassimo noi due soli in una stanza d’albergo a Grasse perché tu mi amassi
Vorrei che fossimo soli nel mio piccolo ufficio proprio vicino alla terrazza
sdraiàti così sul letto da fumeria perché tu mi amassi
Vorrei che tu fossi la mia sorellina per amarti incestuosamente
Vorrei che tu fossi stata mia cugina perché ci fossimo amati giovanissimi
Vorrei che tu fossi il mio cavallo per cavalcarti a lungo a lungo a lungo
Vorrei che tu fossi il mio cuore per sentirti sempre in me
Vorrei che tu fossi il Paradiso o l’Inferno secondo il luogo di destinazione
Vorrei che tu fossi un ragazzino per essere il tuo precettore
Vorrei che tu fossi la notte per poterci amare al buio
Vorrei che tu fossi la mia vita per essere tutto tuo
Vorrei che tu fossi un proiettile crucco per uccidermi di un amore fulminante
Da Lettere a Lou
Il y a
Il y a des petits ponts épatants
Il y a mon cœur qui bat pour toi
Il y a une femme triste sur la route
Il y a un beau petit cottage dans un jardin
Il y a six soldats qui s’amusent comme des fous
Il y a mes yeux qui cherchent ton image
Il y a un petit bois charmant sur la colline
Et un vieux territorial pisse quand nous passons
Il y a un poète qui rêve au ptit Lou
Il y a une batterie dans une forêt
Il y a un berger qui paît ses moutons
Il y a ma vie qui t’appartient
Il y a mon porte-plume réservoir qui court qui court
Il y a un rideau de peupliers délicat délicat
Il y a toute ma vie passée qui est bien passée
Il y a des rues étroites à Menton où nous nous sommes aimés
Il y a une petite fille de Sospel qui fouette ses camarades
Il y a mon fouet de conducteur dans mon sac à avoine
Il y a des wagons belges sur la voie
Il y a mon amour
Il y a toute la vie
Je t’adore
C’è
C’è una fila di piccoli ponti meravigliosi
C’è il mio cuore che batte per te
C’è una ragazza triste sulla via
C’è un piccolo delizioso cottage in giardino
C’è un gruppo di sei soldati e tutti dico tutti si divertono da matti
C’è il mio occhio che va in cerca della tua immagine
C’è un boschetto grazioso sulla collina
E un vecchio soldato della milizia che piscia mentre passiamo noi
C’è un poeta che pensa al suo piccolo Lou
C’è un piccolo Lou delizioso in quella Parigi grande grande
C’è una batteria nella foresta
C’è un pastore che pascola le pecorelle
C’è la mia vita che appartiene a te
C’è il mio astuccio portapenne che corre che corre
C’è un filare di pioppi tenero tenero
C’è tutta la mia vita passata che è proprio tutta passata
C’è un dedalo di stradine a Menton dove ci siamo amati
C’è una ragazzina di Sospel che frusta i suoi compagni
C’è la mia frusta d’ordinanza nel mio sacco d’avena
C’è una torma di bagasce belghe sopra la strada
C’è il mio amore
C’è tutta l’esistenza
E ti adoro
Mario Fresa, nato nel 1973, ha esordito nel 1999 sulle pagine di «Specchio della Stampa», presentato da Maurizio Cucchi. Altri suoi testi in poesia e in prosa sono stati pubblicati sulle principali riviste culturali italiane, da «Caffè Michelangiolo» a «Paragone» a «Nuovi Argomenti», e in varie antologie, tra le quali Nuovissima poesia italiana (Mondadori, 2004). Anticipazioni del suo nuovo libro di prose-poesie sono uscite su «Smerilliana» (2014), con un saggio di Valeria Di Felice, e su «Quadernario» (2015), a cura di M. Cucchi. Tra le sue ultime raccolte di poesia: Alluminio (introduzione critica di Mario Santagostini, 2008), Costellazione urbana (Mondadori, «Almanacco dello Specchio», 2008), Uno stupore quieto (prefazione di Maurizio Cucchi, La collana, Stampa, 2012; menzione speciale al premio Internazionale di Letteratura Città di Como), Teoria della seduzione (Accademia di Belle Arti di Urbino, con disegni di Mattia Caruso, 2015). Ha curato l’edizione critica del poema Il Tempo, ovvero Dio e l’Uomo di Gabriele Rossetti (Carabba, collana “I Classici”, 2012), e la traduzione del De cura rei familiaris di Bernardo di Chiaravalle (Società Editrice Dante Alighieri, 2012). Firma la rubrica Sguardi sulla rivista «Gradiva. International Journal of Italian Poetry», di cui è redattore.
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POESIE di Guillaume Apollinaire (1880-1918) da “Bestiario o il corteggio d’Orfeo” (1911) a cura di Giorgio Linguaglossa Commento di Renzo Paris
Guillaume Apollinaire, pseudonimo di Wilhelm Albert Włodzimierz Apollinaris de Wąż-Kostrowicky nasce a Roma il 25 agosto del 1880 e muore a Parigi nel 1918, figlio naturale di Francesco Flugi d’Aspermont, un ufficiale svizzero che non lo riconobbe mai, e di Angelika de Wąż-Kostrowicky, una nobildonna polacca. Si trasferisce con la madre in Francia giovanissimo. Ha una adolescenza instabile e disordinata, trascorsa tra vaste letture e numerosi viaggi e studi non regolari. Conosce e frequenta artisti d’avanguardia a Parigi, tra i quali anche i poeti Ungaretti e Max Jakob e il pittore Pablo Picasso. Partecipa alle discussioni sul cubismo in gestazione e, nel 1913, scrive un saggio su questa scuola artistica. Allo scoppio della prima guerra mondiale, sceglie di arruolarsi come volontario, definisce la guerra “un grand spectacle“. Nel 1916 viene ferito a una tempia e subisce un difficile intervento chirurgico. Diventa famoso come critico militante dei movimenti d’avanguardia di quegli anni: il futurismo e la pittura metafisica diDe Chirico.
Dato il suo carattere estroso ed irrequieto fu sospettato di essere l’autore del furto del dipinto della Gioconda avvenuto il 20 agosto del 1911 al Louvre; in seguito a tali sospetti (di cui fu gravato anche Picasso), viene arrestato ed incarcerato, salvo poi risultare del tutto estraneo ai fatti ed in seguito rilasciato. Del furto risultò poi essere autore un dipendente del Louvre, tale Vincenzo Peruggia. Inaugura nel 1910 la vita letteraria con i sedici racconti fantastici intitolati L’eresiarca & C., mentre nel 1911 pubblica le poesie di Bestiario o corteggio di Orfeo e nel 1913 Alcools, raccolta delle migliori poesie composte fra il 1898 e il 1912, considerata il capolavoro di Apollinaire insieme con Calligrammes (1918), veri e propri componimenti scritti appositamente per formare un disegno che rappresenta il soggetto della poesia stessa.
Commento di Renzo Paris
…Per dar carne alla biblioteca erotica detta dei Curiosi, che curava per uno spregiudicato editore, Apollinaire si tuffa nella letteratura italiana e ne trae pingue bottino. Riscopre, per esempio, lo scrittore Giambattista Casti (1724-1803), viaggiatore irrequieto e amico di letterati e regnanti di tutta Europa, quello stesso che Parini giudicava “prete brutto, vecchio e puzzolente” e che invece Stendhal e Goethe stimavano.
Piacque ad Apollinaire per le sue doti di poeta libertino ed irreligioso Giorgio Baffo che, insieme a scrittori come Francesco Gritti e Anton Maria Lamberti, Giovanni Pozzobon e Marcantonio Zorzi, dava vita all’ambiente che permise la nascita della lingua goldoniana. Ammirò Boccaccio, innanzitutto. Stampò Sade. Ma a proposito del Casti c’è ben altro da dire. Il Casti infatti è autore degli Animali parlanti. E che cos’è Bestiaire, la prima raccolta di poesie d’Apollinaire, se non una serie soprattutto di quartine in cui il poeta fa ‘parlare’ gli animali?
O forse è troppo azzardata l’ipotesi di una intuizione settecentesca di un bestiario illustrato alla maniera medioevale ancora viva nell’epoca rinascimentale? Bestiaire è del 1911. Definito dallo stesso autore “un divertimento poetico” è una serie di licenziosi auguri e scongiuri. Auguri al poeta che si appresta a circuire e a conquistare madama poesia, e d’altra arte, scongiuri contro i pericoli e gli ostacoli di cui è lastricata la strada della bellezza. Più che un ‘dizionario dei motivi poetici dell’autore’ sembra essere un manuale di istruzioni per la creazione poetica, per un poeta da spartire con il profeta di dantesca e rimbaudiana memoria né con il misterioso di Mallarmé. Proprio in Bestiaire, nella quartina ‘L’éléphant’, si dice:
Comme un éléphant son ivoire,
J’ai en bouche un ben precieux.
pourpre mort!… J’achète ma gloire
Au prix des mots mélodieux.
Nella quartina ‘La chenille’ invece leggiamo:
Le travail mène à la richesse.
Pauvres poètes, travaillons!
La chenille en peinant sans cesse
Devient le riche papillon.
A prezzo del “lavoro poetico” il poeta può diventare ricco. Se le parole sono ancora melodiose, ma già tese e frenetiche, alla gloria si arriva attraverso una “compera”. Anche qui Apollinaire finisce col criticare il gusto simbolista dall’interno stesso della sua melodia. A proposito della “purpurea morte” de “L’éléphant” il critico francese Poupon ricorda Mallarmé e la sua particolare espressione “morire purpureo” riferita alla ruota di un carro, simbolo della poesia.
(tratto da Apollinaire Poesie Newton Compton Italiana, Introduzione di Renzo Paris, Roma, 1971)
Le morpion
Imitons la ténacité
De cet insect qu’on méprise.
Dames, messieurs qui vous grattez,
Il ne lachera jamais prise.
.
La piattola
Imitiamo la tenacia
Di questo insetto spregiato.
Signori che vi grattate, dame,
Lui non lascerà mai la presa.
Le hibou
Mon pauvre coeur est un hibou
Qu’on cloue, qu’on décloue, qu’on recloue.
De sang, d’ardeur, il est à bout.
Tous ceux qui m’aiment, je les loue.
.
Il gufo
Il mio povere cuore è un gufo
Che s’inchioda, si schioda, si rinchioda.
Sangue ed ardore non ha quasi più.
Tutti quelli che mi amano, li lodo.
La méduse
Méduse, malheureuses tetês
Aux chevelures violettes
Vous vous plaisez dans le tempetês,
et je m’y plais comme vous faites.
La medusa
Meduse, sciagurate teste
Dalle capigliature violette,
vi dilettate nelle tempeste:
e anch’io come voi ci godo.
La sauterelle
Voici la fine sauterelle,
la nourriture de saint Jean.
Puissent mes vers être comme elle,
le régal des meilleurs gens.
La cavalletta
Ecco la delicata cavalletta,
Cibo di san Giovanni.
Possano i miei versi essere come lei
Il festino delle anime elette.
La mouche
Nos mouches savent des chansons
Que leur apprirent en Norvège
Les mouches ganiques qui sont
Les divinités de la neige.
La mosca
Le nostre mosche sanno canzoni
Che hanno appreso in Norvegia
Dalle mosche ganiche
Che sono le divinità della neve.
La carpe
Dans vos viviers, dans vos étangs,
carpes, que vous vivez longtemps!
Est-ce que la mort vous oublie,
poissons de la mélancolie.
La carpa
Là nei vostri vivai, nei vostri stagni,
carpe, come a lungo vivete!
Forse la morte v’oblia,
pesci della malinconia.
Jetant son encre vers les cieux,
suçant le sang de ce qu’il aime
et le trouvant délicieux,
ce monstre inhumain, c’est moi-même.
Il polipo
Gettando il suo inchiostro verso il cielo,
succhiando il sangue di ciò che ama
e trovandolo delizioso,
questo mostro inumano, sono io.
La chèvre du Thibet
Les poils de cette chèvre et même
Ceux d’or pour qui prit tant de peine
Jason, ne valent rien au prix
Des cheveux dont je suis épris
La capra del Tibet
Il vello di questa capra e perfino
Quello d’oro per cui ha tanto penato
Giasone non valgono nulla al confronto
Dei capelli che m’hanno innamorato.
Le chat
Je souhaite dans ma maison:
une femme ayant sa raison,
un chat passant parmi les livres,
des amis en toute saison
sans lesquels je ne peux pas vivre.
Il gatto
In casa mia desidero
Una donna fornita di ragione,
un gatto che passi tra i libri,
amici in ogni stagione
senza i quali non posso vivere.
La chenille
Le travail mène à la richesse.
Pauvres poètes, travaillons!
La chenille en peinant sans cesse
Devient le riche papillon.
.
Il bruco
Il lavoro conduce alla ricchezza.
Poveri poeti, lavoriamo!
Il bruco faticando senza fretta
Diventa la ricca farfalla.
La souris
Belles journées, souris du temps,
vous rongez peu à peu ma vie.
Dieu! Je vais avoir vingt-huit ans,
et mal vécus, à mon envie.
Il sorcio
Bei giorni, sorci del tempo,
voi mi rodete a poco a poco la vita.
Dio! Avrò presto ventottanni,
E mal vissuti, a mio capriccio.
Le serpent
Tu t’acharnes sur la beauté
Et quelles femmes ont été
Victimes de ta cruauté!
Eve, Eurydice, Cleopatre;
J’en connais encor trois ou quatre.
.
Il serpente
Tu t’accanisci contro la beltà.
E quelle donne che sono state
Vittime della tua crudeltà!
Eva, Euridice, Cleopatra:
io ne conosco ancora tre o quattro.
Archiviato in poesia francese
DODICI POESIE EROTICHE di Giorgio Baffo (1694-1768) scelte da Giorgio Linguaglossa Commento di Gian Franco Torcellan
da Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 5 (1963)
Commento di Gian Franco Torcellan
Giorgio Baffo, ultimo rappresentante di una modesta famiglia del patriziato veneziano detto di toga, nasce a Venezia da Giannandrea e da Chiara Querini il 1° agosto 1694, Venezia il 1° agosto 1694, e muore nel 1768. Baffo aveva dinanzi a sé, dopo aver trascorsa la giovinezza non brillante tra noiosi precettori ed aridi studi scolastici, una vita monotona e tranquilla da impiegare in una lenta carriera in quelle magistrature giudiziarie che il governo della Serenissima tradizionalmente riserbava al suo ceto. Un solo vistoso precedente d’anormalità, ma perso ormai nella leggenda e nella notte dei tempi, aveva rotto la pacifica vicenda della famiglia: quello d’una bellissima fanciulla della casata, Cecilia, caduta in mano al Barbarossa a Paro divenuta prima schiava e poi favorita potentissima del sultano Selîm II, vicenda che il B. ricordò in cinque sonetti con compiaciuta ammirazione.
Ma una singolare dualità si fece presto evidente nella vita del patrizio. Della sua prima e più scontata esistenza, quella di patrizio di second’ordine senza ambizione di carriera politica né possibilità di successo in tale campo, poco sappiamo perché poco rilievo essa ebbe. Passò attraverso le varie magistrature giudiziarie con immutabile assenteismo, funzionario, possiamo crederlo, di normale levatura in quei non felici tempi per la classe dirigente aristocratica. Un solo dettaglio, che più acutamente contrasta con il carattere più noto della sua personalità: possedeva un tatto squisito nel parlare e nel trattare, una pudibonda reticenza nel dire. Nel 1737 aveva condotto in matrimonio una nobile giovane di casa Sagredo, Cecilia: e il loro connubio non diede luogo a pettegolezzi di alcun genere nella pur fertile città lagunare. Quando la morte lo colse, nel 1768, era stato chiamato a far parte di un’importante carica della Giustizia veneta, la Quarantìa criminale.
Una seconda personalità, un uomo diverso ed opposto viveva e s’agitava però dietro questa monotona e impassibile attività ufficiale. V’era il poeta e il pornografo, un verseggiatore instancabile di sconcezze che con frenetica attività riempiva i suoi fogli e li andava diffondendo, come lo ritraeva un attento confidente degli Inquisitori di Stato, per gli ambienti facili della città, in una Venezia popolata di perditempo, di patrizi e non patrizi inclini all’ozio, di stranieri ansiosi di conoscere le curiosità locali. Attività furtiva quanto feconda, tacita quanto diffusa; nulla raggiungeva la pericolosa dignità della carta stampata, ma penne infaticabili e interessate moltiplicavano su fogli volanti le oscene arguzie uscite dalla fantasia del Baffo.
La sua fama in tal campo s’era talmente diffusa, e con tanta fortuna, che il Labia se ne lagnava pubblicamente in alcuni suoi duri versi come ulteriore prova della corruzione dei costumi; e, secondo alcuni, il Baretti s’era indotto a venir a Venezia a farvi stampar la sua Frusta nella fiducia che la censura non avrebbe minacciato i suoi scritti in una città che sopportava e lasciava indisturbati gli sconci componimenti d’una tale musa: persuasione, com’è noto, assai fallace, onde il piemontese replicò poi con più che giustificata ironia sul conto del patrizio. La sola sortita in pubblico del B. fu un intervento nella battaglia tra seguaci del Goldoni e difensori del Chiari in campo teatrale: e si schierò con questi ultimi in un’epistola martelliana di critica al Filosofo inglese, ma senza acredine né spirito di parte, ammiratore di intrecci complicati e vistosi e d’emotive trame quanto insofferente delle commedie di carattere o moraleggianti; e fu pronto poi ad ammirare il Goldoni della Sposa persiana, “piena d’accidenti”, con “gran bei caratteri, e tutti concludenti”.
Un giudizio complessivo sul poeta si poté dare solo dopo la morte, quando il veto del B. non poté più impedire una stampa, sia pur clandestina, delle sue composizioni: dopo una prima raccolta in un volume uscita nel 1771, si ebbe l’edizione completa in quattro volumi, stampati a Venezia nel 1789 con la falsa datazione da Cosmopoli.
Dedicati “Ai omeni e alle donne morbinose, / A quelli veramente, che le cose / I varda per el verso che xe bon“, queste poesie, scritte tutte nel più puro dialetto veneziano, trattano una sola materia, tranne poche e parziali eccezioni, l’unico argomento che abbia in tanti anni ispirato la musa del B.: l’amore sessuale. Una sorta di persecuzione, d’opprimente mania erotica, aveva tormentato con prepotente tenacia la fantasia del patrizio veneziano traducendosi in lunghe pagine di laide canzoni, di osceni sonetti e madrigali. Il soliloquio ossessionante e monotono, la disperata insistenza su questo unico e squallido tema dell’amore carnale non possono soltanto spiegarsi in relazione all’ambiente in cui il B. visse, né, tanto meno, con la vita tediosa e monotona cui la carriera giudiziaria lo aveva costretto, ma finiscono per rivelarsi come l’esasperazione di un triste caso personale.
Certo la poesia sessuale del B. nasce da una squallida indifferenza di fronte al valore delle più elementari idealità che bene s’accorda con certo disperato scetticismo pullulante nella Venezia del tempo: ma gli estremi della musa del patrizio sono fine a se stessi, effetto di una realtà che può semplicemente identificarsi con la tormentata psicologia dello scrittore.
Un superficiale fondo filosofico il B. intese mettere alla base dell’ostinata tetraggine della sua tematica, disponendo le sue composizioni in un certo ordine logico nei quattro volumi, allucinante biografia della vita dei poeta, e per i suoi versi gloriandosi d’una settecentesca aspirazione alla verità di natura, attribuendosi i lauri di assertore della tolleranza quale cantore dell’amore carnale che supera e livella ogni dissenso filosofico, e, infine, identificando nell’attrazione sessuale il principio primo che spiegava le origini dell’umana società. Uomo non digiuno di cultura e ben al corrente di letture illuministiche, caricava di lodi l'”Elvezio Parigin filosofon“, raggruppava buona parte delle poesie, quelle degli ultimi anni della sua vita, attorno ad una tematica filosofica che nel sesso ravvisava la soluzione dei massimi problemi umani e si sforzava di dare all’atto sessuale una dignità di rito religioso assimilandolo in via di simbolizzazione a non dimenticate religioni solari.
Per il B. va rifiutata la tante volte sbandierata “venezianità”, ché nulla possiamo riconoscergli di autentica testimonianza storica, o pur solo di costume, nella sua oscena idealizzazione di Venezia “città di piaceri“, uno dei primi documenti di quella superficiale mitizzazione della Serenissima settecentesca che preludeva alla mistificazione retorica d’un’intera civiltà. Lo stesso dialetto perde la sua ricchezza e la sua spontanea inventività nella immutabile oscenità delle rime e delle parole obbligate, e diventa puro formulario. Gli va solo riconosciuto un ingegno notevole di verseggiatore dialettale; artefice coscienzioso, confessava la sua paradossale cura e preoccupazione per cesellare le sue poesie e rinnovare continuamente il repertorio (“Me lambico el cervelo zorno e note / Per far soneti grassi e butirosi, / Per divertir le done e i so’ morosi“), e in talune occasioni egli seppe anche dare alla propria penna la felicità inventiva del poeta autentico, come in una canzone “Per una proposta di matrimonio” o in altra “Per el primo dì de quaresima”. Eccezioni, e pur esse parziali per la ricorrente trivialità del linguaggio, in un panorama morbosamente uniforme, cui non seppero aggiungere varietà di tono composizioni satiriche contro frati e monache, sonetti acerbissimi contro papa Rezzonico e manierate critiche di costume.
Opere: Le poesie del B., come s’è detto, uscirono per la prima volta in un volumetto dal titolo Le poesie di G. B., patrizio veneto, s. l. 1771, di cui una “nuova edizione” uscì con la data di Londra (probabilmente falsa) nel 1789. In quell’anno veniva pubblicata a Venezia, con l’indicazione di Cosmopoli, la Raccolta universale delle opere di G. B., in quattro volumi, destinata a rimanere l’edizione principale e fondamentale. Soltanto verso la fine dell’Ottocento la fama del poeta pornografo veniva rinfrescata dalla lussuosa edizione delle Poésies complètes de G. B. en dialecte vénitien, litteralement traduites pour la première fois, avec le texte en regard, uscita a Parigi in cento esemplari a cura di I. Liseux nel 1884, in quattro volumi, con la traduzione di Alcide Bonneau, che s’era dato cura di includere anche qualche inedito. Della stessa epoca, probabilmente, una ristampa delle Opere complete, apparsa in Italia con la datazione da Alessandria e senza indicazione di anno, in quattro volumi, e che teneva dietro all’altra Raccolta completa delle opere in due volumi, uscita nel 1866 con l’indicazione di Costantinopoli come città di stampa. La semiclandestinità ha sempre giovato a certi successi: e si può dire che il B. abbia raggiunto la sua gloria letteraria quando Guillaume Apollinaire incluse una scelta delle sue poesie e un dotto saggio introduttivo con accurata bibliografia in un volume de L’œuvre libertine des conteurs italiens, I, Paris 1910 (L’œuvre du patricien de Venise G. B.). Per la storia della fortuna del B. vanno ancora citate Le poesie. Sonetti faceti e canzoni in dialetto veneziano, ristampa dell’edizione del 1771 uscita a Catania nel 1930, e l’opuscolo Poesie veneziane sulla commedia “Il filosofo inglese” rappresentata nel 1754, che Federico Berchet pubblicò a Venezia nel 1861 includendovi l’inedita epistola martelliana del B. cui si è accennato.
Fonti e Bibl.: Testimonianze contemporanee sono in C. Goldoni, Opere, a cura di G. Ortolani, I, Milano 1935, p. 1008; V, ibid. 1941, pp. 263-64, 933, 1358, 1360, 1401; IX, ibid. 1950, p. 1333; XIII, ibid. 1955, pp. 201-13, 969; XIV, ibid. 1956, p. 788; G. Baretti, La frusta letteraria, a cura di L. Piccioni, II, Bari 1932, p. 279 (num. del 1° apr. 1765); Agenti segreti veneziani nel ‘700, a cura di G. Comisso, Milano 1945, pp. 98-100; J. Casanova, Histoire de ma vie, ed. integrale, t. I, Wiesbaden-Paris 1960, passim, e in partic. p. 9,dove lo ricordava con affetto per i benefici ricevuti ancor fanciullo e lo diceva “sublime génie, poète dans le plus lubrique de tous les genres, mais grand et unique“. Accanto a qualche scarno cenno biografico, come in G. Moschini, Della letteratura veneziana del sec. XVIII, II, Venezia 1806, pp. 152-53, o nella voce, dovuta al Ginguené, della Biographie universelle, III, Paris 1811, p. 209, troviamo la ristampa di qualche poesia e il riconoscimento delle qualità di poeta dialettale nella Raccolta di poesie in dialetto veneziano d’ogni secolo, Venezia 1845, pp. 89-93, 507, e ogni tanto l’impennata critica, positiva o negativa, quale fu quella di G. Ferrari, Saggio sulla poesia popolare in Italia, in Opuscoli politici e letterari, Capolago 1852, pp. 494-96 (l’articolo era uscito in origine in francese nel 1839-40 nella Revue des deux mondes). Cfr. inoltre Nouvelle biographie universelle, IV, Paris 1853, col. 148; G. Dandolo, La caduta della repubblica di Venezia e i suoi ultimi cinquant’anni, Venezia 1855, pp. 90 s.; C. v. Wurzbach, Biographisches lexicon…, I, Wien 1856, p. 122; E. Castelnuovo, Della poesia vernacola veneziana, in Nuova antologia, 16 apr. 1883, p. 613; V. Malamani, I costumi di Venezia nel sec. XVIII studiati nei poeti satirici, in Riv. stor. ital.,II (1885), pp. 45, 66; R. Barbiera, Poesie veneziane scelte ed illustrate, Firenze 1886, pp. XXIV s. XL, 21-29; V. Malamani, Il Settecento a Venezia, I, La satira del costume,Torino 1891, passim; A. C. Dall’Acqua, Venezia e i suoi poeti dialettali del Settecento, Mantova 1910, passim.

Venezia Settecento, dilaga il gusto del travestimento le dame amano celarsi dietro velette e ventagli, le signore aristocratiche arricchiscono il guardaroba
Nello stesso anno Apollinaire, nel volume che s’è detto, riprendeva in chiave compiaciuta la definizione del B. come “poeta di orgie” data dal Ferrari giudicandolo “le plus grand poète priapique qui ait jamais existé et en même temps l’un des poètes le plus lyriques du XVIIIe siècle” e assimilandolo alla sua torbida definizione di Venezia come “ville amphibie, cité humide, sexe femelle de l’Europe”; A. Pilot, Antologia della lirica veneziana dal ‘500 ai nostri giorni, Venezia 1913, pp. 19, 151-60, 92 s; C. Musatti, G.B. e la “Sposa persiana”, in Riv. teatrale ital., XIII (1914), pp. 328 ss.; L. Pagano, Poeti dialettali veneti del Settecento, Venezia 1915, pp. 44-52, passim; F. Nani Mocenigo, Della letteratura veneziana del sec. XIX, Venezia 1916, p. 436; Venezia nel canto de’ suoi poeti, scelti e illustrati da R. Barbiera, Milano 1925, pp. XIII, XVII, 22-28; p. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata, III, Bergamo 1926, pp. 86, 168, 279, 389; A. Pilot, G.B., in Encicl. Ital.,V,Milano-Roma 1930, p. 842; V. Lee, Il settecento in Italia, Napoli 1932, p. 310; G. Baretti, Epistolario, a cura di L. Piccioni, II, Bari 1936 p. 162; G. Natali, Il Settecento, Milano 1944: pp. 613, 641; M. Dazzi, Il fiore della lirica veneziana, II, Venezia 1956, pp. 213-41, cui dobbiamo la più convincente sistemazione critica del B. ed anche una scelta un po’ più coraggiosa dei suoi componimenti; Diz.letterario Bompiani, Autori, I, Milano 1956, p. 153; Opere, V, Milano 1948, p. 609 (a cura di C. Cordiè); G. Damerini, Casanova a Venezia dopo il primo esilio, Torino 1957, p. 291; B. Gamba, Serie degli scritti impressi in dialetto veneziano, 2 ediz., a cura di N. Vianello, Venezia-Roma 1959, passim.
Sulla facciata di Palazzo Bellavite, in Campo San Maurizio, si trovano due targhe che ricordano il soggiorno di due personaggi importanti: Alessandro Manzoni e Giorgio Baffo. Entrambi poeti ma di diversa ispirazione. La famiglia Baffo giunse a Venezia nell’anno 827 e fu inscritta nella nobiltà nel 1297, contribuì alla costruzione della Chiesa della Maddalena e di San Secondo (nell’isola omonima) e Giorgio non perdonò mai ai suoi antenati di aver speso parte del capitale di famiglia a favore del clero. Le sue invettive contro preti e frati furono assai accese:
De povertà fè voto e castitae,
e po’ ve volè tior tutt’i trastuli,
se ziogadori, puttanieri e buli,
e questa xe la vostra santitae.
Giorgio nacque nel 1694 da Andrea Baffo e Chiara Querini: studiò scienze, storia e filosofia. “Fu uomo robusto e di forte complessione, sebbene piccolo di statura e grosso… Era faceto ed allegro nel parlare e trattare, facile ed affabile con tutti, egli era la delizia della conversazione, ne v’era alcun cittadinesco passatempo cui il nostro Autore non intervenisse e non rallegrase co’ suoi lepidi versi ora studiati ed ora improvvisati che a gara gli dettavano le Muse e il suo libero genio“.
Le poesie di di Giorgio Baffo, pur suscitando polemiche per il loro erotismo e anticlericalismo, erano lette ovunque in quanto affrontavano temi di grande attualità, quali il libertinaggio a Venezia. E Baffo, sebbene membro della Quarantia, scriveva moltissimo:
Me lambicco el cervello zorno e notte
per far sonetti grassi e buttirosi
per divertir le donne e i so morosi
ma mi fazzo sonetti e i altri fotte.
I suoi versi nascevano dall’osservazione della vita cittadina in giro per caffè, sale da gioco e bordelli:
Amigo vol contarve in t’un sonetto
la mia gran bela vita buzarada
tutta la sera vago per la strada
ma vago per toccar qualche culetto.
Baffo fu amico di personaggi illustri suoi contemporanei ed ebbe molta influenza negli anni dell’infanzia di Giacomo Casanova. Fu lui infatti che convinse la famiglia a mandare Giacomo a studiare a Padova e sempre lui lo presentò al senatore Malipiero che divenne suo protettore per un lungo periodo della sua vita. Nel 1727 Baffo sposò Cecilia Sagredo, suonatrice di clavicembalo, dalla quale ebbe un’unica figlia. L’unione fu voluta dai Baffo perché Giorgio era l’unico maschio rimasto; il poeta ebbe sempre una certa ritrosia verso il matrimonio. Pare che i rapporti tra marito e moglie non fossero buoni, o almeno così traspare dalle sue parole:
Pur a mi la me tocca de sta’ fatta
e se la soffro e la sopporto in pase
perché digo, gramassa la xè matta.
La Mona el ciel a ella l’ha fatta
e più darmela adesso no ghe piase
e mi vago a puttane, ed ecco fatto.
Fu definito poeta osceno, trasgressivo, licenzioso e morboso, ma è palese che questo suo scrivere è una spia dei disagi sociali, umani e politici degli anni che precedettero la caduta della Serenissima, quando tutti i valori del passato vennero meno. Stanco di ipocrisie e falsità, durante un attacco di ira diede alle fiamme tutta la raccolta dei suoi scritti. Fortunatamente erano però stati trascritti da chi lo ascoltava e sono così giunti fino a noi.
(Fonte: M.C. Bizio)
Dialogo “Tra omo e donna, che fotte”
Dame la Mona. Oh! Dìo, zà vegno dentro,
Zà me par de morir, debotto sboro,
Che dolcezza in sborar,che gran contento,
Questa è la volta che sborrando moro.
Felice mi ghe digo a sto momento,
Tenir el Cazzo in Potta al mio tesoro,
Ma oh! Dìo che sboro ancora, e za me sento
morir dal gran piacer: Mona t’adoro.
Ma zà el cazzo me tira:oh! Dio no posso…
Vegno dentro, oh! che gusto ,oh! che sollazzo.
Dame le tette, Za te son addosso.
Tiote quel che ti vuol, no me n’impazzo
Pur che ti spenzi quel to Osello grosso.
Sì, Cara, zà ho sbora’ con tutto el Cazzo
.
Sora la mona
La Donna gà ’na cosa tanto bona,
Che tutti la vorrìa, tutti la brama,
Co tanti varj nomi la se chiama,
Ma ’l più bello de tutti xe la Mona.
Oh! Come ben sto nome in bocca sona;
A solo nominarla el cuor s’infiama,
Questo fà, che la Donna tanto s’ama,
E che dell’Omo la se fà parona.
La gà rason, se la la tien sì stretta,
E come una reliquia ben coverta,
Perchè la xe una cosa benedetta.
E quei, che la vuol veder descoverta,
O che i voggia toccarghe la Sfesetta,
Bisogna, che i ghe fazza la so offerta
I vantaggi della mona
Gran beni, che la Mona al Mondo fà,
Ella cava la fame ai affamai,
Ella veste quelli, che xe despogiai,
E alloggio ai pellegrini ella ghe dà.
Con certo liquoretto, che la gà,
Ella cava la sè a chi è arsirai,
Ella consola tutti i appassionai,
E la ghe dà salute all’ammalà.
Me stupisse, che tante gran nazion,
E trà l’altre i Egizj zente dotta,
Abbia bù per le bestie devozion;
I hà adorà sin la Rana, e la Marmotta,
El Cazzo ancora hà bù le adorazion,
E mai gnessun no gà adorà la Potta.
.
Me tira el Cazzo
Me tira el Cazzo, che ’l me và in malora,
Me pizza la capella, e più no posso,
L’è duro, come un ferro, come un osso,
Adesso el se corrompe, adesso el sbora.
Deh! cara vita mia, cara Signora,
Leveme vìa sea malatia da dosso,
Tastè co ’l scotta, vardè co l’è rosso,
Palpè, che la lussuria và per sora.
Slarghè le gambe, e quel Monin da latte
Sporzeme, caro ben, sulla spondetta,
Lassè, che metta un deo trà le culatte.
Oh! Mona cara, siestu benedetta,
Care ste culattine, e chi l’hà fatte,
Cara Potta, ben mio, ti xe pur stretta

Lorenzo Lippi Allegorie della simulazione
Gnente meggio del fottere
Fottemo pur, fottemo allegramente,
Che del fotter no ghè cosa più bona,
Troveme un liogo meggio della Mona,
Nol ghè per Dio, che diga pur la zente.
Le nostre voggie no xe mai contente,
Se vorrìa co xe dì, che fusse nona,
Ma, co se xe a cavallo d’una Dona,
Voggia de desmontar mai no se sente.
In fatti, se l’Osello no molasse,
No ghe sarìa gnessun de volontà,
Che fora della Mona lo cavasse;
Perchè ’l se cava in quanto el s’hà molà,
Che per altro, se sempre duro el stasse,
Mai nol se cavarìa fora de là.
.
El regalo più caro alle donne
Caro Cazzo, che in fondo della panza
Ti xe là fatto, che ti par un palo,
Che se una Donna te vien a cavalo
Ti me deventi un Paladin de Franza.
D’ordinario ti gà la bell’usanza
De dormir su i cogioni, e farghe ’l calo,
Ma se d’un Cul te vien fatto regalo
Ti salti sù con tutta la baldanza.
De zuccaro ti è fatto, come un pan,
E le Donne te crede un donativo,
E ’l più bon, che se possa darghe in man;
Co le vuol, de sto gusto no le privo,
Ghe ’l dago ancuo piuttosto, che doman
E ghe ’l dago per bocca, o in lavativo.
.
El corpo più glorioso
Oh! Caro Cazzo duro,
Siben, che ti stà al scuro,
Ti è el corpo più glorioso
Del Mondo universal.
Ti è quel, che hà fatto i Santi,
I Papa, i Re, i birbanti,
Ti è quello, che hà distinto
Con leggi el ben dal mal.
Come, che a mi me piase assae la Mona
Come, che a mi me piase assae la Mona;
Cussì al Procurator ghe piase el Corno;
Mi sempre studio per andar in Mona,
E lù el so studio xe d’aver el Corno.
Mi sempre vorrìa star col Cazzo in Mona,
E lù sempre vorrave aver el Corno;
Mi spendo tutti i bezzi per la Mona,
E lù li spende tutti per el Corno,
Tutti semo in passion, mi per la Mona,
E ’l Sior Procurator xe per el Corno;
La diferenza sta da Corno a Mona:
Ma supponemo, che lù gabbia el Corno,
E che mi, da cogion, sia drento in Mona;
Chi stà meggio? chi è in Mona, o chi gà el corno?
Bontà d’una villana
Sull’erba una Villana zovenotta
Ho trovà sola un zorno, che dormiva;
Quando ho capìo, che gnente la sentiva,
E mi bel bello toccheghe la Potta.
La s’hà svegià, la xe restada in botta
Vedendome, che in man gavea la piva,
La dise, cosa xe sta robba viva,
E mi ghe digo, un Cazzo, che ve fotta.
No la fà brutto a sto parlar el muso,
E mi tiò l’occasion, che la me dona,
E tireghe le corrole ben suso;
Co ho visto, che la xe una bona Dona,
Che la se mette colla panza in suso,
E mi senz’altro mettighelo in Mona.
Oh! Mona in frà le cose delicate
Oh! Mona in frà le cose delicate
Vera delizia della stirpe umana,
Ti de Cazzi ti xe la Tramontana,
Ti de sto nostro Ciel la via del late;
E vù Bardasse, che fè da puttana,
Petteve el vostro bus sulle Culate,
Oppur deghelo a nolo a qualche Frate;
Che ’l ve refila sù la cascia in cana,
Per mi fina, che vivo, e infin, che posso;
Voggio sempre per Dio fotter in Mona;
S’anca credesse de morirghe addosso;
Anzi, se posso mai, Dio me ’l perdona,
In vece sul Sagrà de farme un fosso,
Me voi far sepelir in t’una Mona
.
Accidente fortunato
Son stà in Mona jer sera allegramente
Con errata corrige originale una, che mai più l’ho praticada,
Ma senti l’occasion, come l’è stada,
Che no l’aveva gnanca per la mente.
Vedo un muso al balcon mezzo ridente,
Che me fà d’occhio; Oh! se no fusse in strada,
Ghe digo, ve darave una chiavada,
Ma ghe lo digo appian, che gnessun sente.
Bisogna, che la Mona ghe tirasse,
La m’hà averto la porta in t’un momento,
Nè mi ho aspettà, ch’Ella me invidasse.
Go issà su le carpette, come un vento,
E per paura, che la me scampasse,
Senza spuazza ghe l’ho messo drento
Sbaglio dalla mona al culo
Ho volsudo chiavar un dì a passin
Una certa Bettina Castellana,
L’ho vista in casa in tempo de Caldana;
Che la giera in camisa, e in sottanin.
Fin, che le Tette gò toccà un tantin
Se m’hà ’l Cazzo indurìo, come una cana,
Quà l’ho tratta sul letto a mo puttana
Col Culo in sù, che giera grasso, e fin.
Dopo gò dito, senti, cara Betta,
Mi addesso coll’Osel te vegno sora,
Sporzime ben la Mona, che tel metta;
Ma in pè, ch’in Mona in Cul l’ho messo; allora
La s’hà taccà a zigar, ti falli, aspetta,
Ti me xe in cul…., ma non importa, sbora
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