Dal 1901 al 2017 gli insigniti del premio sono stati 113,
di cui 29 di lingua inglese, 14 di lingua francese, 13 di lingua tedesca, 11 di lingua spagnola, 7 di lingua svedese, 6 di lingua italiana e 6 di lingua russa. Seguono poi in ordine decrescente il polacco (4), il norvegese (3), il danese (3), il greco (2), il giapponese (2), l’arabo, il bengalese, il cinese, il ceco, il finlandese, l’ebraico, l’ungherese, l’islandese, l’occitano, il portoghese, il serbocroato, il turco e lo yiddish, ciascuno con un premio. Alla Cina ne vengono attribuiti 2 ma si tratta di una cifra da discutere data l’attribuzione ufficiale di un premio alla Francia per uno scrittore nato in Cina. Da un punto di vista linguistico-letterario l’Italia, considerando la sua storia e anche il numero dei suoi abitanti, sembrerebbe trovarsi in una posizione alquanto sfavorevole soprattutto nei confronti dei premiati di lingua spagnola, ove non si tenesse conto dell’enorme bacino premiabile dell’America latina. Il confronto critico va fatto piuttosto con la premiatissima Francia, ma anche con le nazioni scandinave che insieme arrivano a ben 15 premi, una cifra spropositata per Paesi dalle letterature marginali e che dimostra quanto parziali siano stati, nel tempo, i giudizi di Stoccolma.
L’Italia è priva di una politica culturale
Poco indicativa, restringendo il campo all’Italia, è anche la distribuzione temporale dei sei premi Nobel ottenuti in 117 anni. Infatti 3 di essi sono stati assegnati nella prima metà del Novecento e gli altri 3 nella seconda metà del Novecento. Nessun premio invece è toccato finora all’Italia nel XXI secolo, il che non è del tutto casuale ed apre la strada a una possibile analisi della politica culturale del nostro Paese. La cadenza dei premi nel corso delle due metà del Novecento (1906, 1926, 1934 e 1959, 1975, 1997) non fornisce invece particolari indicazioni e non può quindi essere accostata a una sorta di generico criterio geografico da parte dell’Accademia di Svezia secondo cui un Paese dalla nobilissima tradizione letteraria come l’Italia dovrebbe essere insignito del Nobel con intervalli non superiori ai 20 anni.
Non c’è dubbio comunque – e questo è un forte elemento di riflessione – che quando si cominciò ad assegnare il Nobel nel 1901, l’Italia era uno dei 4-5 Paesi di punta, con un premio assicurato a breve, mentre oggi è un Paese dimenticato o comunque confuso nella massa degli aspiranti. La cosiddetta “Italietta” di Giolitti, termine accettabile solo in senso antifrastico, contava molto nel panorama europeo e questo si rifletteva inevitabilmente anche sui giurati di Stoccolma, che conoscevano l’italiano e potevano, come il presidente della commissione, Wirsén, leggere e ammirare direttamente in originale le poesie di Carducci e i romanzi di Fogazzaro. È l’Italia di oggi che viene invece ignorata, se non di peggio, anche dal punto di vista letterario in Svezia, dove la stessa lingua italiana e non solo gli scrittori che la usano nelle loro opere sono relegati ai punti più bassi dell’interesse delle Università e della case editrici. Manca ormai da tempo un impegno concreto per la diffusione della lingua e della letteratura italiana in Svezia, dove ci si affida a istituzioni, più o meno i nani a seconda di chi le dirige. Va da sé che su questo sfondo – non si parli più seriamente di letteratura italiana a Stoccolma da oltre un decennio e che i giurati del Nobel debbano industriarsi per proprio conto se vogliono seguire i nostri scrittori che potrebbero essere insigniti del premio. Il quadro è tanto più sconsolante in quanto gli editori italiani continuano invece a sfornare a getto continuo traduzioni ed edizioni della peggiore produzione letteraria svedese in circolazione, quella rappresentata dai romanzi polizieschi.
Il Nobel a Carducci e la bocciatura di Fogazzaro
Il primo Nobel all’Italia era già in votis nella prima tornata del 1901, quando Antonio Fogazzaro venne candidato dal prestigioso socio dell’Accademia di Svezia, Hans Forssell. Il premio non poteva sfuggirgli e infatti nel 1902 la candidatura venne rinnovata da un professore dell’Università di Uppsala, ma a turbare le acque provvide lo stesso Fogazzaro che, ignaro certamente di quanto stava avvenendo a Stoccolma e nella sua veste di senatore del regno d’Italia, candidò al Nobel Giosuè Carducci, peraltro proposto anche da Vittorio Puntoni, rettore dell’Università di Bologna oltre che professore di letteratura greca nello stesso ateneo. Negli anni successivi Fogazzaro, informato finalmente di quanto stava avvenendo in Svezia, non propose più Carducci riproposto però da Puntoni nel 1903 e da Carl Bildt dell’Accademia di Svezia nel 1905. A questo punto lo scontro fra i due candidati italiani er a inevitabile e si materializzò nel 1906 quando Bildt, che era anche ambasciatore di Svezia a Roma, candidò Fogazzaro oltre a Carducci proposto anche da Ugo Balzani dell’Accademia dei Lincei, da Rodolfo Renier dell’Accademia delle Scienze di Torino e da un professore svedese. Wirsén era comunque ben deciso ad assegnare il Nobel a Fogazzaro, ma a tagliare le gambe allo scrittore vicentino fu la pubblica sottomissione alla Chiesa di Roma che egli fece nella primavera di quell’anno per le critiche che gli erano state rivolte per Il santo. A “denunciarlo” agli Accademici luterani nel maggio del 1906 fu lo stesso Bildt, sottolineando come Fogazzaro avesse «riconosciuto solennemente le pretese della Chiesa cattolica romana di dominare la libertà di pensiero e di parola». Il Nobel andò cosí meritatamente al morente Carducci, che lo ricevette da Bildt in casa sua e il sipario calò su Fogazzaro, nonostante alcuni successivi e disperati tentativi del suo adoratore Wirsén.

Versi di Lucio Mayoor Tosi
La mancata candidatura di Gabriele D’Annunzio
Nel ventennio successivo i nomi dei candidati italiani proposti per il Nobel sono tutt’altro che entusiasmanti ed è inspiegabile che dall’Italia o dall’estero non sia mai stata avanzata la candidatura di un maestro come d’Annunzio, pure tradotto in svedese. Accanto a Fogazzaro, insistentemente riproposto fino al 1911, troviamo invece Angelo De Gubernatis, Edmondo De Amicis, Francesco d’Ovidio, Salvatore Farina, Grazia Deledda (candidata per la prima volta nel 1913 da Luigi Luzzatti e da Ferdinando Martini e riproposta poi frequentemente), l’italo-francese Dora Melegari, Roberto Bracco (proposto per la prima volta nel 1922 da un professore danese e da uno norvegese e riproposto in segui to), Guglielmo Ferrero (proposto per la prima volta nel 1923 da professori italiani e svizzeri oltre che da vari Accademici di Francia e riproposto in seguito), Matilde Serao (anche lei proposta per la prima volta nel 1923 da Francesco Torraca e riproposta in seguito), Giovanni Schembari, e Ada Negri, proposta per la prima volta nel 1926 da Michele Scherillo. Le candidature italiane si fanno più frequenti negli anni ’20 per concentrarsi infine su un terzetto formato dalla Deledda, dalla Serao e da Bracco, chiaramente in aperta competizione tra di loro perché il premio ad uno dei tre avrebbe inevitabilmente comportato l’esclusione perpetua degli altri due.
La candidatura di Guglielmo Ferrero
Un caso a parte è invece quello della fortissima candidatura di Guglielmo Ferrero a cui il Nobel non sarebbe potuto sfuggire in alcun modo se l’italiano non avesse trovato di fronte a sé l’insormontabile opposizione di Schück, dominatore e despota dell’Accademia di quegli anni.
A candidare Ferrero, apprezzatissimo anche da alcuni soci dell’Accademia, erano stati uomini come Gaetano Salvemini, Niccolò Rodolico, Paul Bourget, Henri Pirenne e Anatole France, oltre ai soci dell’Accademia di Rio de Janeiro e agli Accademici di Svezia Nathan Söderblom e Verner von Heidenstam. Oltre a nutrire un’antipatia personale nei confronti di Ferrero e della sua opera, i cui veri motivi restano imperscrutabili, Schück, con l’influente appoggio di Bildt, aveva però disegnato un suo piano per portare al Nobel Grazia Deledda e, per potervi riuscire, doveva sbarazzarsi in tutti i modi della fortissima candidatura dello storico italiano che, vincendo, avrebbe sbarrato la porta alla scrittrice sarda. I cinque volumi di Grandezza e decadenza di Roma, pubblicati in Italia tra il 1901 e il 1907 da Treves , in traduzione francese, da Plon a Parigi tra il 1902 e il 1908, avevano entusiasmato i dotti svedesi e rappresentavano una credenziale formidabile per ottenere il Nobel. In traduzione inglese l’opera era stata pubblicata tra il 1907 e il 1909 mentre, nella traduzione svedese di Hjalmar Bergman e Ernst Lundquist, il capolavoro di Ferrero era stato pubblicato nel 1921-1924 dal prestigioso editore Bonniers a Stoccolma e godeva quindi dei massimi favori proprio a metà degli anni ’20.
Il decisivo atto di accusa di Schück contro Ferrero è contenuto in una perizia dattiloscritta di 21 pagine, sottoposta alla commissione Nobel nella tornata del 1923, in cui il professore di Uppsala comincia con lo screditare vari professori responsabili della candidatura dell’italiano in quanto non competenti in storia antica ma in storia moderna, come Rodolico e Salvemini, a proposito dei quali Schück insinua anche il sospetto che abbiano candidato Ferrero solo per fare un piacere a Barbagallo, definito “signore” in modo spregiativo per indicare la sua inesistente qualifica di professore universitario. Per quanto riguarda poi l’opera di Ferrero sulla storia di Roma antica, Schück la liquida come priva di basi scienti- fiche e come un imbarazzante documento d’incompetenza e d’impreparazione. L’argomentazione si rivelò così efficace da zittire del tutto due autorevolissimi componenti della commissione, come Hallström e Österling, che erano inizialmente ben decisi a conferire a Ferrero il premio Nobel. A distanza di quasi un secolo e tenendo conto dei riconoscimenti per la letteratura assegnati ormai a sceneggiatori, giornalisti e cantanti, l’argomentazione di Schück appare grottesca, ma in realtà lo era anche nel lontano 1923. Il Nobel per la letteratura non era infatti un premio scientifico e l’Accademia avrebbe dovuto guardare ai meriti di Ferrero come scrittore anziché alla sua competenza come storico.
Il Nobel a Grazia Deledda
Negli anni ’20 come oggi erano però l’influenza e il potere dei singoli Accademici a far pendere da una parte o dall’altra il piatto della bilancia e Schück con la stessa determinazione con cui aveva silurato Ferrero riuscì a convincere i suoi colleghi della commissione a conferire il Nobel a Grazia Deledda, con una perorazione retoricamente efficace quanto la sua requisitoria contro Ferrero, servendosi di toni lirici ed epici per evocare i paesaggi della Sardegna («su cui splendono il sole e la bellezza»), il carattere dei personaggi e la forza delle vicende drammatiche, scaturiti dalla penna della scrittrice di Nuoro. L’orgoglio degli italiani, forte ancora oggi, per il riconoscimento del 1926 alla Deledda, non cambia però la sostanza delle cose e nessun giudizio critico successivo ha mai potuto confermare una qualche forma di eccellenza dell’autrice di Canne al vento nel panorama letterario mondiale del Novecento. Va onestamente riconosciuto che il Nobel alla Deledda è uno dei molti riconoscimenti assegnati su basi molto fragili, per non dire incomprensibili, né il quadro migliora sapendo che l’argomento decisivo a favore della Deledda – nell’arringa di Schück – fu il paragone con il polacco Władisłav Reymont, vincitore nel 1924 di un altro Nobel oggi dimenticato e molto difficilmente difendibile.
La candidatura di Benedetto Croce
Gli altri candidati italiani del resto non apparivano superiori alla Deledda e non fu difficile per la commissione esprimere le proprie riserve sulla “napoletanità” della Serao e sul valore del teatro di Bracco, né migliore sorte poteva avere Cesare Pascarella, candidato nel 1927 da due soci dell’Accademia dei Lincei, mentre appariva invece rilevante la candidatura di Benedetto Croce, proposto per la prima volta nel 1929 da tre professori di lingua tedesca, Julius Schlosser, Karl Vossler e Friedrich Meinecke. La sorte di Croce al vaglio della commissione Nobel si sarebbe trascinata per un quarto di secolo, fino alle soglie della morte del filosofo italiano nel 1952, e rimane ancora oggi una delle pagine più nere per quanto riguarda oggettività e imparzialità di giudizio dell’Accademia di Svezia, come peraltro avrebbe apertamente riconosciuto Österling, nel verbale della commissione Nobel del 24 settembre 1949, dove egli scrisse che «Croce è senza dubbio una figura di statura così imponente da mettere in ombra tutti gli scrittori presenti sulla lista dei candidati, e il suo ruolo di guida nelle scienze umanistiche e nell’estetica ormai è universalmente noto», rammaricandosi tuttavia per il fatto che il Nobel ormai sarebbe apparso come un riconoscimento troppo tardivo. In altre parole Croce, pur meritando il Nobel, non fu premiato fino alla caduta del fascismo perché l’Accademia non voleva inimicarsi la dittatura, e non fu premiato, dopo la caduta del fascismo e nel secondo dopoguerra perché l’Accademia si vergognava – premiandolo – di ammettere la sua codardia nel non averlo premiato prima.
Il terzo Nobel italiano: Luigi Pirandello
È su questo sfondo, non del tutto glorioso, che va collocato il terzo Nobel italiano della prima metà del Novecento, il meno discusso, il più ammirato universalmente, il primo nella secolare storia del premio – ad essere assegnato la prima volta che il nome del candidato era arrivato sul tavolo dei giurati di Stoccolma. A candidare Luigi Pirandello nel 1934 fu Guglielmo Marconi nella sua veste di presidente della Classe delle Lettere della Reale Accademia d’Italia. Sfugge a molti – nelle ricorrenti ridicolizzazioni (fra le ultime quella di Andrea Camilleri) che si fanno della fascistissima Accademia, voluta da Mussolini, e dei suoi componenti con feluca e spadino – che si dovette ad essa e alla buona reputazione di cui godeva allora il fascismo anche in Svezia se il premio andò così facilmente a Pirandello, nonostante la perizia altalenante che su di lui aveva vergato lo stesso Per Hallström, presidente della commissione Nobel e Segretario permanente dell’Accademia di Svezia. Infatti lo svedese, che era un grande ammiratore di Hitler e fu assai dispiaciuto negli anni seguenti per le sconfitte dell’esercito tedesco nelle ultime fasi del conflitto mondiale, criticò spietatamente la produzione narrativa dello scrittore siciliano, considerata mediocre e di gran lunga inferiore a quanto Pirandello aveva scritto per il teatro e che, alquanto sorprendentemente dopo tanta severità, era tuttavia giudicato meritevole del Nobel. La componente politica di simpatia per l’Italia fascista ebbe dunque un peso importante, per non dire determinante, nel premio assegnato a Pirandello, ma non ci risulta che la cosa, dal secondo dopoguerra in avanti, sia stata mai nominata dalla storiografia letteraria italiana politicamente orientata.
La candidatura di Alfonso Strafile
Dopo il successo di Pirandello il quindicennio seguente segna forzatamente un periodo di attesa ed i nomi che appaiono sono quelli di Croce nel 1936, nel 1938, nel 1939 (mai candidato dall’Italia fino al 1947 quando a proporlo fu Bernardino Barbadoro dell’Università di Firenze) nel 1948, nel 1949 e nel 1950, dello sconosciuto Alfonso Strafile, proposto nel 1940 da Domenico Vittorini, professore a Filadelfia, di Ignazio Silo- ne, proposto nel 1946 da Hjalmar Gullberg dell’Accademia di Svezia e riproposto nel 1947 dall’altro Accademico di Svezia Fredrik Böök, di Riccardo Bacchelli proposto dai Lincei nel 1948, insieme con Croce, e riproposto nel 1949, di Alberto Moravia, candidato per la prima volta nel 1949 da Gullberg. Fra tutti questi l’unico ad essere preso in considerazione per il premio fu Silone.
La candidatura di Riccardo Bacchelli
La seconda metà del Novecento si apre, nel 1951-1953, alquanto sorprendentemente senz’alcuna candidatura italiana al Nobel per la letteratura (nel 1950 era stato proposto Croce), mentre nel 1954 torna ad affacciarsi il nome di Riccardo Bacchelli, che era stato proposto, assai autorevolmente, nel 1949 da
T.S. Eliot, suscitando però soprattutto stupore e ironia presso i componenti della commissione Nobel. A riproporlo nel 1954, con una perorazione in francese, fu Gianfranco Contini nella sua veste di professore dell’Istituto di filologia romanza alla Facoltà di Magistero dell’Università di Firenze, ma la commissione Nobel, nelle parole di Österling, se ne sbarazzò rapidamente considerando decisiva in senso negativo l’opera più recente del romanziere italiano, Il figlio di Stalin. Il lotto dei concorrenti italiani aumenta però notevolmente l’anno successivo, il 1955, con le candidature di Montale, Ungaretti, Papini e Moravia. I due poeti si avvalevano della proposta di T.S. Eliot richiamando così prepotentemente l’attenzione della giuria svedese sulla nuova scuola poetica italiana, spesso chiamata “ermetica” per semplificazione, che entro pochi anni avrebbe incontrato i favori degli Accademici di Stoccolma, mentre Moravia era proposto da Carlo Dionisotti, professore all’Università di Londra, e Papini da Henri de Ziégler dell’Università di Ginevra. Se Ungaretti non fosse stato candidato anche da Giuseppe De Robertis, si rimarrebbe stupiti della mancanza di proposte provenienti dall’Italia a favore dei nostri scrittori.
I casi Papini e Moravia
Papini e Moravia purtroppo vennero infelicemente periziati da Ingemar Wizelius, un giornalista svedese, corrispondente da Zurigo del “Dagens Nyheter” e vagamente infarinato di letteratura, il quale non conosceva né gli scrittori italiani né l’opera dei due candidati sottoposti al suo vaglio. I suoi titoli di merito per occuparsi della nostra letteratura risiedevano nel fatto che Zurigo è geograficamente più vicina all’Italia di quanto lo sia Stoccolma e questo – al di là di ogni inevitabile ironia – indica quanto approssimativamente e superficialmente lavorassero la commissione Nobel e l’Accademia di Svezia. Appare evidente dal testo consegnato da Wizelius ai giurati che il giornalista, per giudicare le opere di Moravia e di Papini, si era servito di recensioni altrui e di ritagli di giornale, come era abituato a fare nel suo lavoro di corrispondente. Il verbale finale della commissione, firmato da Österling, escludeva Moravia, soprattutto a causa di un romanzo giudicato «banale e ammiccante al pubblico» come Il disprezzo, e Papini «per l’opera troppo eterogenea e composita», anche se La spia del mondo veniva giudicata comunque «senza tema di esagerazioni un’opera all’altezza del Nobel». Quanto ai due poeti, la commissione si esprimeva in modo interlocutorio perché Österling non gradiva l’eccessiva impenetrabilità della scuola ermetica.
La candidatura di Vasco Pratolini e di Ungaretti
Nella tornata del 1956 comincia a stagliarsi meglio la candidatura di Ungaretti, proposto da Marcel Raymond dell’Università di Ginevra, mentre si affaccia al premio Vasco Pratolini, anch’egli candidato dall’estero e più precisamente da Paul Renucci, professore all’Università di Strasburgo. Anche Pra- tolini venne affidato al dilettante Wizelius, che scrisse sul narratore toscano un referto di sette pagine, infarcito di notizie biografiche e di luoghi comuni, ma alquanto favorevole alla sua opera, con accenti particolarmente entusiastici su Via de’ magazzini e su Metello, ma piuttosto tiepidi su Cronaca familiare e su Cronache di poveri amanti. Troppo poco comunque per coinvolgere Österling che, concludendo i lavori della commissione, mise a verbale che la posizione dei giurati nei confronti di Pratolini era «attendista» e che si aspettava quanto sarebbe uscito successivamente dall’officina dello scrittore fiorentino. Per Ungaretti si fece riferimento al giudizio dell’anno precedente ribadendo che il poeta italiano era da considerarsi in «lista di attesa».
La candidatura di Carlo Levi
Il 1957 vede per la prima volta la candidatura di Carlo Levi, proposto da Mario Praz in una lettera confusissima, in cui in realtà viene candidato Ignazio Silone o addirittura un quartetto formato da Moravia, Silone, Levi e Bacchelli, indicati tutti come «degni di essere presi in considerazione per il Nobel per la letteratura», una malinconica conferma del fatto che anche uno studioso di altissimo prestigio come Praz non aveva capito come si doveva scrivere una candidatura ufficiale al premio Nobel. Moravia era stato proposto anche dal grecista Gennaro Perrotta, con una lettera poco chiara nelle motivazioni almeno quanto quella di Praz per i nomi dei candidati, mentre Papini veniva proposto da Paolo Toschi, dal suo indirizzo romano di via Tacito 50, con una lunga lettera che si concludeva però avanzando in alternativa la candidatura di Riccardo Bacchelli, in modo da ingenerare una possibile confusione agli occhi dei giurati svedesi. Nel verbale finale Österling si sbarazzò di tutti i candidati italiani liquidando per primo Carlo Levi in quanto inferiore agli altri candidati Moravia e Silone. Di questi ultimi due Österling elogia sia Moravia, tornato in auge ai suoi occhi dopo la pubblicazione de La ciociara, sia Silone per Il segreto di Luca, ma le preferenze della commissione quell’anno vanno comunque ad un quartetto finale formato da Karen Blixen, Boris Pasternak, André Malraux e Albert Ca- mus che infatti ottiene il Nobel.
Le candidature di Elio Vittorini, Ignazio Silone e Giuseppe Ungaretti
L’avvicinamento degli scrittori italiani al premio diventa palese l’anno successivo, il 1958, quando viene candidato per la prima volta Salvatore Quasimodo con le proposte di Maurice Bowra, presidente della British Academy, Carlo Bo e Francesco Flora; Alberto Moravia, con le proposte di Stuart Atkins e Hans Nilsson Ehle, professore di lingue romanze all’Università di Göteborg; Elio Vittorini proposto ancora dallo statunitense Atkins, professore di lingue germaniche ad Harvard; Ignazio Silone proposto da due autorevoli soci dell’Accademia di Svezia; Giuseppe Ungaretti proposto da Howard Marraro, professore di storia alla Columbia University; Riccardo Bacchelli proposto da Nilsson-Ehle. Vittorini venne eliminato in modo sbrigativo da Österling che mise velleitariamente a verbale che si attendevano future prove dello scrittore per poterlo giudicare, mentre per Bacchelli non ci si spostò dal precedente giudizio negativo. La perizia su Quasimodo e Ungaretti venne sciaguratamente affidata al solito giornalista Wizelius che ne fece un documento politico squalificando Ungaretti in quanto, a suo dire, colluso con il fascismo per la nota prefazione di Mussolini a Il porto sepolto, ed esaltando invece Quasimodo in quanto, sempre a suo dire, campione della Resistenza. Ma gli occhi della commissione erano tutti per Moravia, in diretta competizione con Silone, e l’autore de La ciociara, proprio grazie a questo romanzo, venne collocato al secondo posto nel quartetto dei finalisti che vedeva in testa Pasternak, candidato autorevolmente da Renato Poggioli, professore ad Harvard, e forte della pubblicazione de Il dottor Živago nell’edizione di Feltrinelli del 1957. Senza Poggioli e Feltrinelli il Nobel sarebbe andato a Moravia.
Il Nobel a Salvatore Quasimodo
Il premio all’Italia arrivò però l’anno successivo, il 1959, anche se la cosa avvenne in modo quasi romanzesco. Per l’Italia erano in gara Vasco Pratolini, candidato da Paul Renucci, Moravia e Silone, entrambi candidati da Hjalmar Gullberg componente della commissione Nobel, e Quasimodo candidato da Carlo Bo. La commissione Nobel decise con quattro voti su cinque che il Nobel doveva andare alla danese Karen Blixen, ma il quinto componente, Eyvind Johnson, si oppose facendo osservare che un premio alla Danimarca sarebbe stato interpretato all’estero come una prova di favo- ritismo scandinavo e propose in alternativa di premiare uno scrittore italiano a scelta fra Quasimodo, Silone, Moravia e Ungaretti, da lui elencati in quest’ordine e senza una motivazione particolare che favorisse uno dei quattro. Ribaltando quindi il giudizio della commissione che rimaneva quello di premiare la Blixen, l’Accademia di Svezia nel suo plenum e com’è nei suoi diritti scelse di votare a maggioranza per il conferimento del Nobel a Quasimodo. Va da sé che ci si era orientati su un poeta anziché su un prosatore e che, tra Ungaretti e Quasimodo, era stato scelto il secondo anche in base alla perizia politica di Wizelius dell’anno precedente. Dopo tutto si trattava di riammettere l’Italia, riabilitandola, fra i Paesi degni del Nobel dopo il quarto di secolo di esclusione per essersi schierata dalla parte perdente nel secondo conflitto mondiale. Il premio a Quasimodo, nel giudizio di mezzo secolo dopo da parte dei critici svedesi e della stessa Accademia, è considerato comunque un premio letteraria- mente meritato anche se oggi si riconosce apertamente che, tra Quasimodo e Ungaretti, si sarebbe dovuto premiare Ungaretti.

Versi di Lucio Mayoor Tosi
La candidature di Moravia e di Silone
Fra i 70 candidati del 1960 riappaiono Moravia e Silone, candidati proprio da quell’Eyvind Johnson della commissione Nobel, padre spirituale del premio a Quasimodo, mentre, tra i 93 candidati del 1961, Moravia figura candidato da Anders Wedberg, professore di filosofia teoretica all’Università di Stoccolma, e Silone viene proposto dall’Accademico di Svezia Elias Wessén. È significativo notare per la prima volta tra i candidati il nome di Eugenio Montale, allora 62enne, proposto da Michele De Filippis, professore d’italiano all’Università di Berkeley. Cominciava così una lenta marcia di avvicinamento che sarebbe durata per quindici anni. Nel 1961 i candidati scendono a 86 e nella lista riappare Moravia, candidato ancora dall’interno dell’Accademia di Svezia, questa volta ad opera del suo autorevole socio, Hjalmar Bergman, e affiancato da Silone, riproposto da Wessén. La lista del 1963 annovera ben 123 nomi e tra di essi figura per la prima volta Emilio Cecchi, candidato da Howard Marraro, accompagnato da Moravia, proposto da Olof Brattö, professore di lingue romanze a Stoccolma, e dall’Accademico di Svezia Wessén, che propone anche Silone, mentre Pratolini viene candidato ancora una volta da Paul Renucci, allora professore d’italiano alla Sorbona. Gli italiani presenti fra i 98 nomi della lista del 1964 sono Moravia, candidato dal milanese Uberto Limentani, professore ordinario di letteratura italiana a Cambridge dove era entrato come lettore nel 1945, e Ungaretti, proposto da Georges Poulet, belga di nascita e professore di letteratura francese prima alla John Hopkins e poi a Zurigo e a Nizza.
A metà degli anni ’60 il quadro generale non muta, anche se nel 1965 le candidature salgono a 120 includendo nomi come Anna Achmatova, Jorge Luis Borges, Max Frisch, Ernest Jünger, William Somerset Maugham, Yukio Mishima, Vladimir Nabokov, Ezra Pound, Thornton Wilder e Marguerite Yourcenaur, tutti rimasti senza Nobel, e altri invece poi premiati nel tempo come Asturias, Beckett, Böll, Kawabata e Neruda.
La candidatura di Giovanni Guareschi
Per l’Italia era presente per la prima volta Giovanni Guareschi, candidato da Mario Manlio Rossi professore di filosofia all’Università di Edinburgo e non già “professore di letteratura italiana all’Università di Stoccolma”, come indicato erroneamente da varie te state italiane (fra cui “La Stampa” il giorno dell’Epifania) a gennaio del 2016 quando la lista dei candidati venne desegretata. Altrettanto inesatta la notizia, data dagli stessi giornali, che per Guareschi si trattasse di “un Nobel sfiorato”, dal momento che l’autore di Don Camillo, pur tradotto in svedese e apprezzato dal pubblico, non venne mai preso seriamente in considerazione per il premio e, per rendersene conto, già basterebbe guardare i nomi dei candidati di quell’anno. Insieme a Guareschi figuravano, nella lista, anche Moravia, riproposto da Limentani, e Ungaretti candidato dallo statunitense Otis Edward Fellows, professore di lingue romanze alla Columbia University. A distanza di una manciata di anni dal premio a Quasimodo le possibilità di Ungaretti erano quasi inesistenti, mentre quelle di Moravia erano state bruciate una decina di anni prima dopo la grande occasione perduta del premio andato a Pasternak.
Le candidature di Carlo Emilio Gadda e di Carlo Levi
Sorprende il calo dei candidati da 120 a 99 nell’edizione del 1966, probabilmente una ripercussione delle polemiche seguite al premio del 1965 a Šolochov, ma la lista è ricca degli stessi nomi prestigiosi dell’anno precedente con qualche nuovo arrivo come Jean Anouilh e Günter Grass. Per l’Italia appare per la prima volta Carlo Emilio Gadda, proposto dall’italo-americano Mario Andrew Pei, insigne linguista e professore di filologia romanza alla Columbia University, mentre riappare Carlo Levi, candidato da Maria Bellonci, citata negli archivi del Nobel come Maria Villavecchia Bellonci ed erroneamente indicata come professoressa all’Università di Roma, mentre la Bellonci aveva potuto avanzare la sua proposta in qualità di presidentessa del PEN club italiano e, com’è noto, non ebbe mai una cattedra universitaria. Riappaiono anche le candida-ture di Montale, proposto da Limentani, e di Moravia, anch’e- gli indicato dalla Bellonci. Gadda, allora già ultrasettantenne, non aveva (e ancora non ha) qualcosa di suo tradotto in svedese e la difficoltà della sua prosa appariva insormontabile agli Accademici di Svezia, mentre per Carlo Levi, le sue tre opere tradotte in svedese (Cristo si è fermato a Eboli, Bonniers, 1948, L’orologio, Bonniers, 1950 e Le parole sono pietre, Bonniers, 1958) non erano bastate nemmeno in precedenza per far formulare un giudizio positivo alla commissione Nobel.
L’edizione del 1967 vede Montale e Moravia come unici candidati per l’Italia, proposti rispettivamente da Uberto Limentani, annotato come professore di lingua italiana all’Università di Cambridge, e da Gustaf Fredén, professore di storia della letteratura all’Università di Göteborg. Sorprende l’ulteriore calo dei candidati che scende a 70 in totale, anche se la lista presenta una serie di nomi di prestigio come il vincitore Asturias, accompagnato da Beckett, Bellow, Kawabata, Neruda, Simon, tutti poi insigniti del Nobel, accanto ad altri scrittori altrettanto insigni ma poi sempre esclusi dal premio, come Jorge Amado, Borges, Graham Greene (proposto da Gierow, che candida anche Ionesco), Mishima, Ezra Pound e Tolkien.
La candidatura di Montale
Negli anni successivi si va rafforzando sempre più la candidatura di Montale, anche per il decisivo appoggio di Österling (suo traduttore in svedese), ma la commissione Nobel negli anni ’70 registra il passaggio di consegne della presidenza da Österling (che rimane in commissione fino al 1981) a Gierow, mentre come nuovi componenti figurano Lars Gyllensten dal 1968 e Artur Lundkvist dal 1969, ai quali nel 1972 si aggiunge Johannes Edfelt. Nel 1975 erano in lizza nomi di assoluto prestigio, da Bellow a Canetti, da Garcìa Marquez alla Gordimer, dalla Lessing a Grass, da Naipaul a Simon, da Graham Greene a Nabokov. A far pendere la bilancia dalla parte di Montale con un nuovo Nobel alla poesia italiana già premiata 16 anni prima con Quasimodo, furono diversi fattori, non ultimo quello del rammarico per non aver premiato Ungaretti, scomparso nel 1970 e impossibile da premiare nel decennio successivo al premio a Quasimodo. Il quasi 80 enne poeta ligure aveva contro di sé sia l’età avanzata, sia il pessimismo indiscutibile che era al fondo della sua produzione lirica e che infatti Österling provvide a”neutralizzare” nel suo discorso ufficiale sostenendo che si trattava di un atteggiamento razionale non privo di fiducia nella capacità di andare avanti superando gli ostacoli. A distanza di quasi mezzo secolo dal secondo Nobel per la letteratura assegnato all’Italia nella seconda metà del Novecento, va anche ricordato che esistevano ancora nell’Accademia di Svezia, almeno in uomini come Österlig, un rispetto e un’attrazione per la patria di Dante, tali da fargli priorizzare gli scrittori italiani con una certa cadenza regolare, sentimenti che oggi non esistono più o che comunque non sono abbastanza forti.

Versi di Lucio Mayoor Tosi
Il Nobel a Dario Fo e il caso Albino Pierro
Il discorso è completamente diverso per il Nobel assegnato a Dario Fo nel 1997, oltre due decenni dopo il premio a Montale e dopo anni di furiose polemiche sui giornali italiani e svedesi per il sedicente veto posto all’“obbligatorio” Nobel per Mario Luzi da parte dell’Accademia di Svezia che sarebbe stata oggetto di forti pressioni delle autorità italiane, su iniziativa di Emilio Colombo, per far invece assegnare il Nobel al poeta lucano Albino Pierro. Ad orchestrare questa campagna era Giacomo Oreglia, un editore e traduttore italiano attivo in Svezia fin dagli anni ’50, certamente non privo di contatti fra gli Accademici ma in guerra contro la Farnesina per questioni legate alla sua pensione. Tra le asserzioni di Oreglia figurava quella secondo cui le traduzioni di Pierro in svedese sarebbero state finanziate con molte decine di milioni di lire provenienti dal ministero degli Esteri, un’affermazione completamente priva di fondamento ma che trovò posto ed attenzione in autorevoli quotidiani svedesi. La polemica si acutizzò in modo accesissimo proprio nel 1997 quando l’Accademia di Svezia, anche per chiudere una volta per tutte la tragicomica questione, assegnò – nello stupore generale – il premio al teatrante Fo, fortemente sostenuto dal suo autorevolissimo ammiratore Lars Forssell della commissione Nobel.
L’assenza di candidature autorevoli per la poesia italiana contemporanea
Il premio a Fo, giustificato dall’Accademia come un’apertura rivoluzionaria ad un nuovo settore della letteratura, apparve incomprensibile a tutti nel 1997 e tale è rimasto a oltre 20 anni dalla sua assegnazione, anche perché la produzione “letteraria” di Fo era stata documentatamente scritta in collaborazione con Franca Rame (se non addirittura solo da lei), tenuta però al di fuori del premio, un errore palese e riconosciuto in seguito, in forma privata, anche da qualche responsabile di quella decisione. Negli anni successivi le maggiori possibilità nella corsa al premio sono state dei nostri narratori, anche per il rimpianto dell’Accademia per non avere fatto in tempo a premiare Calvino, a cui il Nobel sarebbe immancabilmente arrivato se non fosse morto prematuramente. Anche Giuseppe Bonaviri, Alberto Bevilacqua, Sebastiano Vassalli sono scomparsi negli anni in cui le loro candidature al premio stavano rafforzandosi, mentre finora nessun poeta ha raccolto presso l’Accademia il favore di cui a suo tempo e forse troppo abbondantemente godette la lirica italiana del secondo dopoguerra.
LA ROMA BORGHESE E MULTIFORME di LUIGI PIRANDELLO “la Roma di Pirandello è l’esatto rovescio della Roma del Piacere di d’Annunzio” Commento di Marco Onofrio
foto d’epoca
foto d’epoca di nudo
L’immagine sognata della Città Eterna è condizionata sia dal fascino dell’evasione (l’ebbrezza di vivere da soli, in libertà, lontano da casa), per cui Roma gli appare come la sede più adatta a realizzare le sue ambizioni letterarie, sia dal mito luminoso e glorioso di Roma risorgimentale, con il quale si è formato, sin dall’infanzia, attraverso i racconti dei familiari, in particolare la madre (Caterina Ricci Gramitto) e gli zii materni, tutti garibaldini e antiborbonici. Nato a Girgenti il 28 giugno 1867 da famiglia mercantile di origine ligure (il padre Stefano è un imprenditore nel commercio dello zolfo, a Girgenti e Porto Empedocle), Pirandello cresce in un ambiente di grandi ideali, fervido di memorie risorgimentali e tensioni unitarie. È attraverso questo diaframma di premesse e di aspettative che il giovane Pirandello guarda Roma e prende coscienza del suo primo impatto con la città. Sentimenti che riflette nella commozione di Mauro Mortara, ex garibaldino del romanzo I vecchi e giovani (pubblicato nel 1913 ma scritto fin dal 1905-06).
− Vorrei far contento anche te, − riprese il principe. – Vuoi andare a Roma?
− A Roma? io? – esclamò Mauro, stordito. – A Roma? E me lo domandate? Chi sa quante volte ci sarei andato a piedi, pellegrino, se le mie gambe… (…) sono vecchio, − soggiunse Mauro. – Su la forca dei due 7 e morire senza veder Roma è stata sempre la spina mia!
(…)
− Vado a Roma, vi dico, e non so altro, non voglio saper altro in questo momento!
(…)
Le quattro medaglie poi che gli s’intravedevano appese alla camicia d’albagio, sul petto, se le era portate (chiestane licenza al Generale) unicamente per dimostrare ch’era degno di passare per Roma, che s’era meritata la grazia e guadagnato l’onore di vederla. Tutti i documenti erano dentro lo zainetto.
auto d’epoca
Come avrebbe potuto supporre che quelle medaglie, a Roma, attufata d’odio e tutta imbrattata di fango in quei lividi giorni, dovessero chiamare su le labbra un ghigno di scherno, diventata quasi titolo d’infamia la qualifica di «vecchio patriota»? Senza il più lontano sospetto che ridessero di lui, Mauro Mortara rideva a tutti coloro che gli ridevano in faccia, credendo che, quasi grillandogli attorno come una luce, gli abbagliava ogni cosa. Non vedeva altro di Roma, che questa sua gioja di esserci; e tutto in quella fiamma d’allucinazione gli si presentava magico e vaporoso; e non sentiva la terra sotto i piedi (…) e appena gli fantasmeggiava davanti un aspetto grandioso, giù altre lagrime dagli occhi gonfii di commozione.
auto d’epoca
Lando Laurentano avrebbe voluto dargli una guida; ma che guida! Non voleva saper nulla; non voleva che gli si precisasse nulla; temeva istintivamente che ogni notizia, ogn’indicazione, ogni conoscenza anche sommaria gli rimpiccolisse quella smisurata, fluttuante immagine di grandezza, che il sentimento gli creava. Roma doveva rimanere per lui, come il mare, sconfinata. E ritornando la sera, stanco e non sazio, al villino di via Sommacampagna dove Lando abitava, alle domande se avesse veduto il Colosseo, il Foro, il Campidoglio:
– Ho visto, ho visto! – rispondeva in fretta. – Non mi dite niente… Ho visto!
– Anche San Pietro?
– Oh Marasantissima! Vi dico che ho visto. Non voglio saper niente! Questo… quello… che me n’importa? È tutto Roma!
(…)
Era lui davvero, Mauro Mortara, a Roma? respirava proprio lui lassù quell’aria di Roma? toccava proprio lui coi piedi il suolo di Roma? vedeva lui tutte quelle grandezze? O era sogno? Ah, si potevano chiudere ora gli occhi suoi, dopo tanta grazia? Veduta Roma, avevano veduto tutto. Posta la sua firma nel registro del Pantheon, alla tomba del Re, poteva morire: aveva dato atto di presenza nella vita, risposto all’appello della storia.
Si vedeva in fondo Monte Mario, Ponte Margherita e tutto il nuovo quartiere dei Prati fino a Castel Sant’Angelo; si dominava il vecchio ponte di Ripetta e il nuovo che vi si costruiva accanto; più là, il ponte Umberto e tutte le vecchie case di Tordinona che seguivan la voluta ampia del fiume; in fondo, da quest’altra parte, si scorgevano le verdi alture del Gianicolo, col fontanone di San Pietro in Montorio e la statua equestre di Garibaldi.
a sin Raffaello Utzeri a dx Marco Onofrio
Ma la prima impressione reale che Pirandello ha di Roma è trista e caotica: non si ritrova nel «trambusto violento della nuova vita nella terza Capitale, tra la baraonda oscena dei tanti che vi s’abbaruffano reclamando compensi, carpendo onori e favori». Il mito glorioso di Roma si dissolve presto nell’insofferenza che Pirandello prova per la città del Potere, che attrae opportunisti, carrieristi e arrampicatori sociali da tutta Italia, i “novissimi quiriti” che prosperano davanti alla cinica indifferenza dei “romani de Roma”. La delusione prende corpo anche in poesia: si leggano questi versi dal Pianto di Roma: «Un popolo di nani ora t’ha invasa / e profanata, osando, o Roma, dentro / il tuo grembo divino la sua casa, / covo d’ignavia, erigere, e far centro / te d’ogni sua miseria / (…). Ostia per voi, Ostia per voi, pezzenti / nani, bastava. La grandezza enorme / di Roma come non vi fe’ sgomenti? / Sia della Terra la Città che dorme! / Un bosco. E sopra, l’ala ampia dei venti». E questi altri, dal Pianto del Tevere: «Non lo vedrete più com’io lo vidi / per Roma, un giorno, il Tevere passare / tra i naturali suoi scoscesi lidi (…). / Torvo ogni flutto, urtando nei piloni, / torcesi ed apre un gorgo minaccioso, / come un can che digrigni. / (…) Mugliando e pieno di rapina scende: / par che ogni onda s’inciti a superare, / sù sù, gli orli degli argini oppressori; / scappa per sotterranee vie, si mostra / al Pantheon: “Mi vedi, avanzo sacro / di Roma nostra? / sono ancora qua: / Roma ha bisogno d’un mio gran lavacro!” // E il fiume anela, di diventar mare / su la Città».
Pirandello aborre sia la Roma bizantina dei salotti esclusivi, dei levrieri, delle corse ippiche (di questa mondanità dannunziana produce una satira pungente nel romanzo Suo marito, pubblicato nel 1911, dove è in scena la gente “fatua e bastarda” che la capitale ha radunato), sia la Roma umbertina della disordinata espansione edilizia, delle speculazioni finanziarie, della corruzione amministrativa, degli scandali politici (ad es. il fallimento della Banca Romana, che tanto spazio prende ne I vecchi e i giovani). Questo ultimo romanzo vibra di indignazione civile per lo «sfacelo della coscienza nazionale» e i «barattieri rifugiati a Montecitorio»: nella «enorme frode scellerata» sono naufragate le speranze ideali del Risorgimento.
Si denunciano «vergognose complicità tra i Ministeri e le Banche e la Borsa»: le banche avevano «largheggiato verso il Governo per fini elettorali, per altri più loschi fini coperti»; e il Governo aveva in cambio «proposto leggi che per le banche erano privilegi, e difeso i prevaricatori, proponendoli agli onori della commenda e del Senato».
Era la bancarotta del patriottismo, perdio! E fremeva sotto certi nembi d’ingiurie che s’avventavano in quei giorni da tutta Italia contro Roma, rappresentata come una putrida carogna. (…) tutte le forze s’erano infiacchite al contatto del Cadavere immane; sbolliti gli entusiasmi; e tutte le virtù, corrotte. Meglio, meglio quand’essa viveva d’indulgenze e di giubilei, affittando camere ai pellegrini, vendendo corone e immagini benedette ai divoti!
magritte golconda
C’è anche da registrare lo smarrimento fisico in una città così vasta e dispersiva. Pirandello rimugina la sua cupa scontentezza, attraversando Roma in lungo e in largo con lunghe passeggiate solitarie, di giorno e di notte, durante le quali osserva e riflette. Frequenta i teatri. Una sera, uscendo dal Teatro Manzoni, si accorge di aver dimenticato la chiave di casa e, per non disturbare la padrona, si adatta a trascorrere la notte passeggiando tra le vestigia romane. Visita il Colosseo al chiaro di luna, che descrive in una lettera alla sorella: «penetrai per gli ampi intercolunni, nel vastissimo circo, alzai gli occhi, e stupefatto ammirai. Nell’inconscio sgomento, che il profondo silenzio della notte imprime, sotto il freddo candor lunare, quella maestosa rovina a chi guarda più che un’opera umana pare mostruoso capriccio della Natura». Poi percorre la via Sacra, passa sotto gli archi di Costantino e Tito, ammira le rovine del Foro, sale al Campidoglio, prosegue per via Vittorio Emanuele, poi per via di Ripetta, fino al Tevere: «guardai il Tevere e pensai: se mi gettassi, morirei da proconsole». Gironzola fino all’alba pei prati di Castello, e infine pallido di sonno torna a casa.
Il soggiorno universitario romano, però, non dura a lungo: Pirandello ha un contrasto con il preside della Facoltà, il latinista Onorato Occioni. Il filologo romanzo Ernesto Monaci lo consiglia di lasciare la Sapienza e di iscriversi a Bonn, in Germania, dove Pirandello si trasferisce nel novembre 1889 e dove si laurea il 21 marzo 1891, con una tesi sulla fonetica del dialetto girgentino. Vive anche una passione con una ragazza tedesca. Ma avverte il rapporto incolmabile tra Nord e Sud. Vuole tornare a Roma perché conta di fermarvi la sua dimora. Scrive alla sorella: «Io voglio il Sole, io voglio la Luce». In Sicilia ne troverebbe più che a Roma, ma la Sicilia non offre le opportunità della Capitale. Così, nel 1891, torna per sempre a Roma. Anche Adriano Meis sceglie di stabilirsi a Roma. «Perché a Roma e non altrove?» ci si domanda nel Fu Mattia Pascal.
Scelsi allora Roma, prima di tutto perché mi piacque sopra ogni altra città, e poi perché mi parve più adatta a ospitar con indifferenza, tra tanti forestieri, un forestiere come me.
Luigi Pirandello 1936
Roma unisce alla sua immortale bellezza la capacità di ospitare con indifferenza, fra tanti forestieri, un forestiero. Cioè: garantisce a Pirandello la discrezione e l’anonimato di cui ha bisogno per osservare la vita e scriverne (così come ad Adriano Meis per vivere in incognito la sua nuova identità). Pirandello sceglie Roma perché città più adatta e accogliente per uno scrittore che, come lui, voglia esplorare le ombre della quotidianità borghese. A Roma infatti vivrà una vita tranquilla, regolare, lontana da eccessi mondani. Tanto più che non ha, inizialmente, preoccupazioni economiche: il padre gli invia con regolarità un assegno mensile. Comincia la carriera letteraria: sceglie il gruppo dei veristi, catalizzato intorno a Ugo Fleres e contrapposto ai dannunziani. Diventa discepolo e amico di Luigi Capuana, che gli consiglia di abbandonare la versificazione (è un poeta piuttosto mediocre) per dedicarsi alla prosa. Pirandello è oltretutto un discreto pittore: dipinge per passatempo diversi scorci di campagna romana. Ormai si è ambientato a Roma e vive un periodo spensierato: amici, passeggiate al Pincio, sogni di gioventù. Nell’estate del 1883 è a Monte Cavo, sui Castelli Romani, dove scrive L’esclusa. Si fidanza e si sposa (a Girgenti) con Antonietta Portulano, figlia di un socio in affari del padre. I coniugi Pirandello trascorrono una settimana di luna di miele “bianca” nella tenuta del Caos, a Girgenti: Luigi è rispettoso del pudore verginale di Antonietta. Il matrimonio viene consumato a Roma. Si sistema con la moglie a via Sistina 3, in una casa con le finestre su via del Tritone. In quattro anni gli nascono i tre figli: Stefano, Lietta e Fausto. Nel 1897 sostituisce Giuseppe Mantica nell’incarico di insegnamento di Lingua Italiana e Stilistica al Magistero Femminile di Piazza Esedra. Collabora a varie riviste e nel 1898 contribuisce alla fondazione di “Ariel”, la rivista del gruppo “sinceristico” di Ugo Fleres, che dura appena 7 mesi. Conduce una vita serena e metodica tra Magistero, ambiente letterario e famiglia.
Luigi Pirandello
Poi però, nel 1903, la tragedia improvvisa. Un’inondazione devasta la miniera di zolfo del padre Stefano in Sicilia: tutto il patrimonio familiare è compromesso, inclusa la dote di Antonietta. Proprio lei apre la lettera con la notizia: viene fulminata da un collasso e resta per molti mesi paralizzata alle gambe. Da quel momento comincia a manifestarsi in lei una patologia mentale, inizialmente sotto forma di esaurimento nervoso. La letteratura per Pirandello, da passatempo piacevole, diventa risorsa per sopravvivere: lo stipendio da Prof. basta appena per l’affitto di casa, e Pirandello non vuole trasferirsi, nell’immediato, per non sconvolgere ancor di più la moglie. Moltiplica i suoi impegni letterari. Riceve 906 lire di anticipo da Giovanni Cena, direttore della “Nuova Antologia”, per un romanzo a puntate che sarà, di lì a poco, Il Fu Mattia Pascal. Lo scrive dunque sotto la spinta della necessità, che accentua la tensione creativa: ne scaturisce un capolavoro. Nel romanzo si rievoca la trasformazione della provinciale città papalina in capitale del nuovo stato unitario, catturata – con efficace, indimenticabile metafora – nella contrapposizione tra “acquasantiera” e “portacenere”.
– Perché sta a Roma lei, signor Meis?
Mi strinsi ne le spalle e gli risposi:
– Perché mi piace di starci…
– Eppure è una città triste, – osservò egli, scotendo il capo. – Molti si meravigliano che nessuna impresa vi riesca, che nessuna idea vi attecchisca. Ma questi tali si meravigliano perché non vogliono riconoscere che Roma è morta. (…) Ed è vano, creda, ogni sforzo per farla rivivere. Chiusa nel sogno del suo maestoso passato, non ne vuol più sapere di questa vita meschina che si ostina a formicolarle intorno. Quando una città ha avuto una vita come quella di Roma, con caratteri così spiccati e particolari, non può diventare una città moderna, cioè una città come un’altra. Roma giace là, col suo gran cuore frantumato, a le spalle del Campidoglio. Son forse di Roma queste nuove case? (…) I papi ne avevano fatto – a modo loro, s’intende – un’acquasantiera; noi italiani ne abbiamo fatto, a modo nostro, un portacenere. D’ogni paese siamo venuti qua a scuotervi la cenere del nostro sigaro, che è poi il simbolo della frivolezza di questa miserrima vita nostra e dell’amaro e velenoso piacere che essa ci dà.
Luigi Pirandello
Nel Fu Mattia Pascal c’è un impianto di Roma piccolo borghese che a un certo punto, con rapida incursione, s’innesta alla Roma altolocata del marchese Giglio d’Auletta, di Pepita Pantogada, del pittore Bernaldez (ambienti diplomatici ed ecclesiastici, palazzi nobiliari, etc.). C’è anche la nota di costume con la moda delle sedute spiritiche (e la cultura teosofica di Anselmo Paleari). Proprio il signor Paleari accompagna Adriano nelle sue passeggiate: «andavamo o sul Gianicolo o su l’Aventino o su Monte Mario, talvolta sino a Ponte Nomentano, sempre parlando della morte». Ecco il vagabondaggio meditabondo per Roma, tipico di molti personaggi pirandelliani (con tanto di dettagliate indicazioni toponomastiche, a comporre gli itinerari). Si attraversa la città nella speranza di stancare il corpo, quasi per dare un appoggio e, al contempo, un’alternativa al martellio costante del pensiero: la passeggiata come espediente fisico per salvarsi dall’angoscia metafisica. È viva, in Pirandello e nei suoi personaggi, la suggestione del colloquio silenzioso e notturno con il mistero di Roma, fitto di epoche stratificate che riemergono alla percezione. Un colloquio che non è fatto di parole, ma soprattutto di passi e di pensieri, di attraversamenti solitari, di vagabondaggi tristi, di silenzi smemorati. Ad esempio ne I vecchi e i giovani:
Si fermava un po’ per sentire intorno a sé il silenzio notturno; gli pareva che questo silenzio si profondasse nel tempo, nel passato di Roma, e diventasse terribile. Un brivido lo scoteva. Gravava quella notte su una città di mille e mille anni, per cui egli passava, ombra vana, minima, che un lieve soffio avrebbe spazzato via.
E nella novella “Un’idea” Roma, di notte, si sfalda come eternità silenziosa e stupefazione onirica:
Lasciata la solita compagnia nel caffè (tra i lumi e gli specchi pieno di fumo) si trova davanti la notte: vitrea, quasi fragile nella purezza degli astri sfavillanti sulla vastissima piazza deserta.
Attraversarla, gli pare impossibile; la vita, in cui deve rientrare, irraggiungibilmente remota da essa; e tutta la città, come da secoli disabitata, coi fanali che ancora la vegliano nel chiarore misterioso di quella gelida azzurrità notturna. Impossibile il rumore dei suoi passi in quel silenzio che pare eterno. (…) Si scuote alla fine da quel fascino, per attraversare la piazza. (…) Tutt’intorno la città ha come una vaporosa evanescenza di sogno; e il suo corpo vi si muove quasi fluido, ombra tra ombre.
Accade lo stesso nel Fu Mattia Pascal:
Luigi Pirandello legge un manoscritto a Marta Abba
Andavo, secondo l’ispirazione del momento, o nelle vie più popolate o in luoghi solitari. Ricordo, una notte, in piazza San Pietro, l’impressione di sogno, d’un sogno quasi lontano, ch’io m’ebbi da quel mondo secolare, racchiuso lì, tra le braccia del portico maestoso, nel silenzio che pareva accresciuto dal continuo fragore delle due fontane. M’accostai a una di esse, e allora quell’acqua soltanto mi sembrò viva, lì, e tutto il resto quasi spettrale e profondamente malinconico nella silenziosa, immota solennità.
La mestizia emotiva che connota la lettura dei luoghi è confermata da un ubriaco di passaggio che, vedendo cogitabondo Adriano Meis, lo invita a stare “allegro”, a non crucciarsi troppo della vita. Anche nella novella “Il ventaglino” il sogno in cui paiono assorti i «poveri alberi sorgenti dalle aiuole rade, fiorite di bucce, di gusci d’uovo, di pezzetti di carta» in un meschino giardinetto pubblico circondato da «alte case giallicce» è precisato come «sogno d’una tristezza infinita». Nella novella “Alberi cittadini” la città è labirinto artificiale della “civiltà” dove gli alberi, strappati alla campagna, languiscono sperduti nel trambusto, e dove la terra è schiacciata «sotto le case innumerevoli, sotto le selci calpestate di continuo dagli uomini irrequieti». Ai veleni della città Pirandello contrappone talvolta, con nostalgia regressiva, la natura sana della campagna: come nella novella “Il vecchio Dio”, dove Dio dice in sogno al vecchio Aurelio (che ha deciso di trascorrere le sue vacanze estive al fresco delle chiese di Roma): «Su, su, andiamo figliuolo! Anche tu qua [cioè: a Roma] ci stai maluccio, lo vedo. Andiamocene, andiamocene in campagna, fra la gente timorata, fra la buona gente che lavora». Anche perché Roma è città dissacrante e per certi versi spietata, malgrado le mille chiese, proprio per voce di popolo. E così «c’era sempre qualcuno, un monellaccio, un vetturino di stazione, che, vedendo passare Aurelio col lucido cranio scoperto, la barbetta lieve tremolante sul mento, e la zazzeretta grigia, tremolante anch’essa su la nuca, gli lanciava qualche lazzo: – Guarda oh: due barbette! Una davanti e l’altra dietro!»
Secondo Giovanni Macchia, la Roma di Pirandello è l’esatto rovescio della Roma del Piacere di d’Annunzio. Non malinconia decadentistica e fascinoso compiacimento dei sensi, ma verità di vita e pesante tristezza esistenziale. Pirandello, infatti, non sorride quasi mai. Il suo tormento si acutizza nella misura in cui progredisce la follia della moglie: vive la malattia di Antonietta in uno stato di estrema disperazione. Scrive in una lettera all’amico Villari: «mi trovo in tristissime angustie. Non nego che queste, per un sincero umorista, siano la manna; tanto è vero che scrivo e scrivo con gran fervore. Ma la grazia è troppa e volentieri vi rinunzierei». Vorrebbe intitolare Il Fu Mattia Pascal «romanzo del Fu Luigi Pirandello». Accarezza propositi suicidi, che ogni volta desiste dall’attuare al solo pensiero dei figli.
Luigi Pirandello
Il motivo del suicidio ricorre specialmente sotto forma di annegamento nel Tevere. Il fiume di Roma è un’ossessione per Pirandello giacché anzitutto “parla di notte”: «Parla di notte il Tevere ai beoni, / ai poeti ed ai miseri, cui suole / umido offrir nel suo fondo ricetto. / Paiono i gorghi tante aperte gole». L’inquieto e faticoso vagolare dei personaggi per le vie e le piazze di Roma sfocia spesso sul Lungotevere (in particolare quello dei Mellini). Uno degli archetipi di Pirandello è l’uomo solo, triste, talora disperato, che poggia le mani sul parapetto, o sulle spallette di un ponte, o vi si mette addirittura a sedere, con le gambe penzoloni – e da lì guarda assorto, trasognato, la corrente del fiume come un miracolo che porta a sfiorare, forse, i bordi senza fine del mistero. Ad esempio nella novella “Un’idea”:
Il tempo s’è fermato e fra le cose rimaste tutt’intorno in uno stupore attonito pare che un segreto formidabile sia nel fatto che in tanta immobilità solo l’acqua del fiume si muova.
Le acque del Tevere trattengono ancora, al tramonto, la luce del giorno che si scioglie in riverberi di madreperla. E poi, di notte, nel tremolio continuo dei flutti si riflettono i lumi artificiali dell’argine opposto. Ma la bellezza del fiume non serve, e non salva. Le acque gorgoglianti emettono un torbido richiamo al tuffo ferale: il protagonista di “Un’idea” guarda il cielo stellato «per non guardare, giù, l’acqua del fiume», come per non cedere alla vertigine che lo turba e lo tenta al salto. Se il cocchiere Scalabrino della novella “Distrazione” coltiva propositi suicidi che restano ancora nel vago («Ne aveva fino alla gola, di quella vitaccia porca. E un giorno o l’altro, l’ultima litigata per bene l’avrebbe fatta con l’acqua del fiume, e buona notte»), c’è chi costeggia lungamente il bordo della tentazione suicida, a tu per tu con la sponda, a un passo dall’acqua: come Bernardo Morasco della novella “Il coppo”; e poi c’è anche chi quel parapetto lo scavalca davvero, come ad es. nelle novelle “E due!” (prima il tonfo dell’ignoto suicida, cui assiste Diego Bronner; poi quello di lui medesimo, a doppiare il gesto) e “L’uomo solo” («balzando sul parapetto dell’argine gridava con le braccia levate, enorme: – Ecco, si fa così! E giù, nel fiume. Un tonfo»).
Luigi Pirandello
Anche nel Fu Mattia Pascal è forte la suggestione del fiume: prima nella contemplazione trasognata, all’inizio del capitolo che non a caso s’intitola “Di sera, guardando il fiume”:
(…) starmene lì, di sera, affacciato a una finestra, a guardare il fiume che fluiva nero e silente tra gli argini nuovi e sotto i ponti che vi riflettevano i lumi dei loro fanali, tremolanti come serpentelli di fuoco; seguire con la fantasia il corso di quelle acque, dalla remota fonte appenninica, via per tante campagne, ora attraverso la città, poi per la campagna di nuovo, fino alla foce; fingermi col pensiero il mare tenebroso e palpitante in cui quelle acque, dopo tanta corsa, andavano a perdersi;
poi – di nuovo – nella possibilità che offre ad Adriano Meis di simulare il suicidio per tornare ad essere Mattia Pascal:
(…) mi ritrovai sul Ponte Margherita, appoggiato al parapetto, a guardare con occhi sbarrati il fiume nero nella notte.
«Là?»
(…)
Non c’era altra via di scampo per me! (…) Scelsi il posto meno illuminato dai fanali, e subito mi tolsi il cappello, infissi nel nastro il biglietto ripiegato, poi lo posai sul parapetto, col bastone accanto; mi cacciai in capo il provvidenziale berrettino da viaggio che m’aveva salvato, e via, cercando l’ombra, come un ladro, senza volgermi addietro. Continua a leggere →
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