Archivi tag: Carlo Levi

Storia dei Nobel conferiti agli scrittori e ai poeti italiani, a cura di Enrico Tiozzo, da Il Premio Nobel per la letteratura. La storia, i retroscena, il futuro,  Aracne, 2018 pp. 172 € 12 – L’Italia è priva di una politica culturale – L’assenza di candidature autorevoli per la poesia italiana contemporanea 

FOTO POETI POLITTICODal 1901 al 2017 gli insigniti del premio sono stati 113,

di cui 29 di lingua inglese, 14 di lingua  francese, 13 di lingua tedesca, 11 di  lingua spagnola, 7 di lingua svedese, 6  di  lingua italiana e 6  di  lingua  russa.  Seguono poi  in ordine decrescente il polacco (4), il norvegese (3),  il danese (3), il greco (2),  il giapponese (2), l’arabo, il bengalese,  il cinese, il ceco, il finlandese, l’ebraico,  l’ungherese,  l’islandese,  l’occitano,  il portoghese, il serbocroato,  il turco e lo yiddish, ciascuno  con  un  premio. Alla Cina  ne  vengono  attribuiti  2  ma  si  tratta di una cifra da discutere data l’attribuzione  ufficiale di un premio alla Francia  per uno scrittore nato in Cina. Da un punto di vista linguistico-letterario  l’Italia, considerando la sua storia e anche il numero dei suoi abitanti, sembrerebbe trovarsi in una posizione alquanto sfavorevole soprattutto nei confronti dei premiati di lingua spagnola, ove  non   si tenesse  conto  dell’enorme   bacino  premiabile dell’America latina. Il confronto critico va fatto piuttosto con la premiatissima Francia, ma anche con le nazioni scandinave che insieme arrivano a ben 15 premi, una cifra spropositata  per Paesi dalle  letterature  marginali e che dimostra quanto parziali siano stati, nel tempo, i giudizi di Stoccolma.

L’Italia è priva di una politica culturale

Poco indicativa, restringendo il campo all’Italia, è anche la distribuzione temporale dei sei premi Nobel ottenuti in 117 anni. Infatti 3 di essi sono stati assegnati nella prima metà del Novecento  e  gli altri 3 nella seconda metà del Novecento. Nessun premio invece è toccato finora all’Italia nel XXI secolo, il che non è del tutto casuale ed apre la strada a una possibile analisi della politica culturale del nostro Paese. La cadenza dei premi nel corso delle due metà del Novecento (1906, 1926, 1934 e 1959, 1975, 1997) non fornisce invece particolari indicazioni e non può quindi essere accostata a una sorta di generico criterio geografico da parte dell’Accademia di Svezia secondo cui un Paese dalla nobilissima tradizione letteraria come l’Italia dovrebbe essere insignito del Nobel con intervalli non superiori ai 20 anni.

Non c’è dubbio comunque  – e questo è un forte elemento di riflessione – che quando si cominciò ad assegnare il Nobel nel 1901, l’Italia  era  uno dei  4-5  Paesi di punta, con  un premio assicurato a breve, mentre oggi è un Paese dimenticato o comunque confuso nella massa degli aspiranti. La cosiddetta “Italietta” di Giolitti, termine accettabile solo in senso antifrastico, contava molto nel panorama europeo e questo si rifletteva  inevitabilmente anche sui giurati di Stoccolma, che conoscevano l’italiano e potevano, come il presidente della commissione, Wirsén, leggere e ammirare direttamente in originale le poesie di Carducci e i romanzi di Fogazzaro. È l’Italia di oggi che viene invece ignorata, se non di peggio, anche dal punto di vista letterario  in  Svezia,  dove  la stessa  lingua  italiana e non solo gli scrittori che la usano nelle loro opere sono   relegati  ai punti  più bassi dell’interesse delle Università e della case editrici. Manca ormai da tempo un  impegno  concreto  per la diffusione della lingua e della letteratura italiana in Svezia, dove ci si affida a istituzioni,  più   o  meno  i nani a seconda di chi le dirige. Va  da  sé che su  questo  sfondo  –  non si parli  più  seriamente  di  letteratura italiana  a  Stoccolma  da   oltre   un   decennio  e  che  i giurati del Nobel  debbano   industriarsi   per  proprio  conto  se  vogliono  seguire i nostri scrittori che potrebbero essere insigniti del premio. Il quadro è tanto più sconsolante in quanto gli editori italiani continuano invece a sfornare a getto continuo traduzioni ed edizioni  della peggiore   produzione  letteraria  svedese  in  circolazione, quella rappresentata dai romanzi polizieschi.

Il Nobel a Carducci e la bocciatura di Fogazzaro

Il primo Nobel all’Italia era già in votis nella prima tornata del 1901, quando Antonio Fogazzaro venne candidato dal prestigioso socio dell’Accademia di Svezia, Hans Forssell. Il premio non poteva sfuggirgli e infatti nel 1902 la candidatura venne rinnovata da un professore dell’Università di Uppsala, ma a turbare le acque provvide lo stesso Fogazzaro che,  ignaro certamente di  quanto stava avvenendo  a  Stoccolma  e  nella sua veste  di senatore del regno d’Italia, candidò  al  Nobel Giosuè Carducci,  peraltro proposto anche da Vittorio Puntoni, rettore dell’Università di Bologna oltre che professore di letteratura greca nello stesso ateneo. Negli anni successivi Fogazzaro, informato finalmente di quanto stava avvenendo in Svezia,  non  propose  più  Carducci    riproposto  però da Puntoni nel 1903 e da Carl Bildt dell’Accademia di Svezia nel 1905. A questo punto  lo scontro  fra  i  due  candidati  italiani er a inevitabile e si  materializzò  nel  1906  quando  Bildt, che  era  anche ambasciatore di Svezia a Roma, candidò  Fogazzaro  oltre a Carducci proposto  anche  da Ugo Balzani  dell’Accademia dei Lincei, da Rodolfo  Renier dell’Accademia delle Scienze di Torino e da un professore  svedese.  Wirsén  era comunque  ben  deciso  ad  assegnare il Nobel a Fogazzaro,  ma a tagliare  le gambe allo scrittore  vicentino  fu la pubblica sottomissione alla Chiesa di Roma che egli fece nella primavera  di quell’anno  per le critiche  che  gli  erano  state  rivolte  per  Il santo. A “denunciarlo” agli Accademici luterani nel maggio del 1906 fu  lo stesso Bildt, sottolineando come Fogazzaro avesse «riconosciuto solennemente le pretese della Chiesa  cattolica  romana di dominare la libertà  di pensiero e di parola». Il Nobel andò  cosí  meritatamente al morente Carducci, che lo ricevette da Bildt  in casa sua e  il  sipario  calò  su  Fogazzaro,  nonostante alcuni successivi e disperati  tentativi del suo adoratore Wirsén.

Strilli Lucio Ricordi

Versi di Lucio Mayoor Tosi

La mancata candidatura di Gabriele D’Annunzio

Nel ventennio successivo i nomi dei candidati italiani proposti per il Nobel sono tutt’altro che entusiasmanti ed è inspiegabile che dall’Italia o dall’estero non sia mai stata avanzata la candidatura di un maestro come d’Annunzio, pure tradotto in svedese. Accanto a Fogazzaro, insistentemente riproposto fino al 1911, troviamo invece Angelo De Gubernatis, Edmondo De Amicis, Francesco d’Ovidio, Salvatore Farina, Grazia Deledda (candidata per la prima volta nel 1913 da Luigi Luzzatti e da Ferdinando Martini e riproposta poi frequentemente), l’italo-francese Dora Melegari, Roberto Bracco (proposto per la prima volta nel 1922 da un professore danese e da uno norvegese e riproposto in segui to), Guglielmo Ferrero  (proposto per la prima volta nel 1923 da professori italiani e svizzeri oltre che da vari Accademici di Francia e riproposto in seguito), Matilde Serao  (anche lei proposta per la prima volta nel 1923 da Francesco Torraca e riproposta  in seguito), Giovanni Schembari, e Ada Negri, proposta per la prima volta nel 1926 da Michele Scherillo. Le candidature italiane si fanno più frequenti negli anni ’20 per concentrarsi  infine   su     un  terzetto formato dalla Deledda, dalla Serao e da Bracco, chiaramente in aperta competizione tra di loro perché il premio ad uno dei tre avrebbe inevitabilmente comportato l’esclusione perpetua degli altri due.

La candidatura di Guglielmo Ferrero

 Un caso a parte è invece quello della fortissima candidatura di Guglielmo Ferrero a cui il Nobel non sarebbe potuto sfuggire in alcun modo se l’italiano  non  avesse trovato  di fronte a sé l’insormontabile opposizione di Schück, dominatore e despota dell’Accademia di quegli anni.

A candidare Ferrero, apprezzatissimo  anche  da alcuni soci dell’Accademia, erano stati uomini come Gaetano Salvemini, Niccolò Rodolico, Paul Bourget, Henri Pirenne e Anatole France, oltre ai soci dell’Accademia di Rio de Janeiro e agli Accademici di Svezia Nathan    Söderblom e Verner   von  Heidenstam. Oltre a nutrire  un’antipatia  personale nei confronti di Ferrero e della sua opera, i cui veri motivi restano imperscrutabili, Schück, con l’influente appoggio di Bildt,  aveva  però  disegnato  un  suo  piano per portare al Nobel  Grazia  Deledda e,  per potervi  riuscire, doveva sbarazzarsi in tutti i modi della fortissima candidatura dello storico  italiano che, vincendo, avrebbe sbarrato la porta alla scrittrice sarda. I cinque volumi di Grandezza e decadenza di Roma,   pubblicati  in  Italia  tra  il  1901 e  il  1907 da Treves ,  in  traduzione francese, da Plon a  Parigi tra il 1902 e il 1908,  avevano entusiasmato i dotti svedesi e rappresentavano una credenziale formidabile  per ottenere  il Nobel. In  traduzione inglese l’opera era stata pubblicata tra il 1907 e il 1909  mentre,  nella  traduzione svedese di  Hjalmar Bergman e Ernst Lundquist, il capolavoro  di Ferrero  era stato  pubblicato  nel 1921-1924 dal  prestigioso  editore  Bonniers a Stoccolma e godeva quindi dei massimi favori proprio a metà degli anni ’20.

Il decisivo atto di accusa di Schück contro Ferrero è contenuto in una perizia dattiloscritta di 21 pagine, sottoposta alla commissione Nobel nella tornata del 1923,  in cui il professore di Uppsala comincia con lo screditare vari professori responsabili della candidatura dell’italiano  in  quanto non competenti  in storia antica ma in storia moderna, come Rodolico e  Salvemini,  a proposito dei quali Schück insinua anche il sospetto che abbiano candidato Ferrero solo per fare un piacere a Barbagallo, definito “signore” in modo spregiativo per indicare la sua inesistente qualifica di professore universitario. Per quanto riguarda  poi l’opera  di  Ferrero  sulla storia di Roma  antica, Schück  la  liquida come  priva  di  basi  scienti- fiche e come un imbarazzante documento d’incompetenza e d’impreparazione. L’argomentazione si rivelò così efficace da zittire del tutto due autorevolissimi componenti della commissione,  come Hallström e Österling, che  erano  inizialmente ben decisi a conferire a  Ferrero  il  premio Nobel. A distanza di quasi un secolo e tenendo conto dei riconoscimenti per la letteratura assegnati ormai a sceneggiatori, giornalisti e cantanti, l’argomentazione di Schück appare grottesca, ma in realtà lo era anche nel  lontano 1923. Il Nobel  per  la  letteratura non era infatti un premio scientifico e l’Accademia avrebbe dovuto guardare ai meriti di Ferrero come scrittore anziché alla sua competenza come storico.

Onto Mario Gabriele_2

Il Nobel a Grazia Deledda

Negli anni ’20 come oggi erano però l’influenza e il potere dei singoli Accademici a far pendere da una parte o dall’altra il piatto della bilancia e Schück con la stessa determinazione con cui aveva silurato Ferrero riuscì a convincere i suoi colleghi della commissione a conferire il Nobel a Grazia Deledda, con una perorazione retoricamente efficace quanto la sua requisitoria contro Ferrero, servendosi di toni lirici ed epici per evocare i paesaggi della Sardegna («su cui splendono il sole e la bellezza»), il carattere dei personaggi e la forza delle vicende drammatiche, scaturiti dalla penna della scrittrice di Nuoro. L’orgoglio degli italiani, forte ancora oggi, per il riconoscimento del 1926 alla Deledda, non cambia però la sostanza delle cose e nessun giudizio critico successivo ha mai potuto confermare una qualche forma di eccellenza dell’autrice di Canne al vento  nel panorama  letterario mondiale del Novecento. Va onestamente riconosciuto che il Nobel alla Deledda è uno dei molti riconoscimenti assegnati su basi molto fragili, per non dire incomprensibili, né il quadro migliora sapendo che l’argomento decisivo a favore della Deledda –  nell’arringa di Schück – fu il paragone con il polacco Władisłav Reymont, vincitore nel 1924 di un altro Nobel oggi dimenticato e molto difficilmente difendibile.

La candidatura di Benedetto Croce

Gli altri candidati italiani del resto non apparivano superiori alla Deledda e non fu difficile per la commissione esprimere le proprie riserve sulla “napoletanità” della Serao e sul valore del teatro di Bracco, né migliore sorte poteva avere Cesare Pascarella, candidato nel 1927 da due soci dell’Accademia dei Lincei, mentre appariva invece rilevante la candidatura di Benedetto Croce, proposto per la prima volta nel 1929 da tre professori di lingua tedesca, Julius Schlosser, Karl Vossler e Friedrich Meinecke. La sorte di Croce al vaglio della commissione Nobel si sarebbe trascinata per un quarto di secolo, fino alle soglie della morte del filosofo  italiano nel 1952, e rimane ancora oggi una delle pagine più nere per quanto riguarda oggettività e imparzialità di giudizio dell’Accademia di Svezia, come peraltro avrebbe apertamente riconosciuto Österling, nel verbale della commissione Nobel del 24 settembre 1949, dove egli scrisse che «Croce è senza dubbio una figura di statura così imponente da mettere in ombra tutti gli scrittori presenti sulla lista dei candidati, e il suo ruolo di guida nelle scienze umanistiche e nell’estetica ormai è universalmente noto», rammaricandosi tuttavia per il fatto che il Nobel ormai sarebbe apparso come un riconoscimento troppo tardivo. In altre parole Croce, pur meritando il Nobel, non fu premiato fino alla caduta del fascismo perché l’Accademia non voleva inimicarsi la dittatura, e   non   fu  premiato, dopo   la  caduta del fascismo e nel secondo dopoguerra perché l’Accademia si vergognava  –  premiandolo  –  di ammettere la sua codardia nel non averlo premiato prima.

Onto mario Gabriele_1

Il terzo Nobel italiano: Luigi Pirandello

 È su questo sfondo, non del tutto glorioso, che va collocato il terzo Nobel italiano della prima metà del Novecento, il meno discusso, il più ammirato universalmente, il primo nella secolare storia del premio  –  ad essere assegnato la prima volta che il nome del candidato era arrivato sul tavolo dei giurati di Stoccolma. A candidare Luigi Pirandello nel 1934 fu Guglielmo Marconi nella sua veste di presidente della Classe delle Lettere della Reale Accademia d’Italia. Sfugge a molti – nelle ricorrenti ridicolizzazioni  (fra  le ultime  quella di  Andrea Camilleri) che si fanno della fascistissima Accademia, voluta da Mussolini, e dei suoi componenti con feluca e spadino – che si dovette ad essa e alla buona reputazione di cui godeva allora il fascismo anche in Svezia se il premio andò così facilmente a Pirandello, nonostante  la  perizia altalenante che su di lui aveva vergato lo stesso Per Hallström, presidente della commissione Nobel e Segretario permanente dell’Accademia di Svezia. Infatti   lo svedese,  che  era  un grande ammiratore di Hitler e fu assai dispiaciuto negli anni seguenti per le sconfitte dell’esercito tedesco nelle ultime fasi del conflitto mondiale, criticò spietatamente la produzione narrativa dello scrittore siciliano, considerata  mediocre  e  di gran lunga inferiore a quanto Pirandello  aveva scritto per il teatro e che, alquanto sorprendentemente dopo tanta severità, era tuttavia giudicato  meritevole del Nobel. La componente politica di simpatia per l’Italia fascista ebbe dunque un peso importante, per non dire determinante, nel premio assegnato a Pirandello, ma non ci risulta che la cosa, dal secondo dopoguerra in avanti, sia stata mai nominata dalla storiografia letteraria italiana politicamente orientata.

La candidatura di Alfonso Strafile

Dopo il successo di Pirandello il quindicennio seguente segna  forzatamente  un  periodo di  attesa  ed  i nomi che  appaiono sono quelli di Croce nel 1936,  nel 1938,  nel 1939 (mai candidato dall’Italia fino al 1947 quando a proporlo  fu Bernardino Barbadoro dell’Università di Firenze) nel 1948, nel 1949 e nel 1950, dello sconosciuto Alfonso Strafile,  proposto nel 1940 da Domenico Vittorini, professore a Filadelfia, di Ignazio Silo- ne, proposto nel 1946 da Hjalmar Gullberg dell’Accademia di Svezia e riproposto nel 1947 dall’altro Accademico di Svezia Fredrik Böök, di Riccardo Bacchelli proposto dai Lincei nel 1948,  insieme con Croce, e riproposto nel 1949, di Alberto Moravia, candidato per la prima volta nel 1949  da  Gullberg. Fra  tutti  questi l’unico ad essere preso in considerazione per il premio fu Silone.

La candidatura di Riccardo Bacchelli

La seconda metà del Novecento si apre, nel 1951-1953, alquanto sorprendentemente senz’alcuna candidatura italiana al Nobel per la letteratura (nel 1950 era stato proposto Croce), mentre nel 1954 torna ad affacciarsi  il nome di  Riccardo Bacchelli, che era stato proposto, assai autorevolmente, nel 1949 da

T.S. Eliot, suscitando però soprattutto  stupore  e ironia presso i componenti della commissione Nobel. A riproporlo nel 1954, con  una perorazione in francese, fu  Gianfranco  Contini nella sua veste di professore dell’Istituto di filologia romanza alla Facoltà di Magistero dell’Università di Firenze, ma la commissione Nobel,   nelle  parole   di  Österling, se ne sbarazzò  rapidamente considerando decisiva in senso negativo l’opera più recente del romanziere italiano,  Il figlio di Stalin.  Il lotto  dei concorrenti italiani aumenta però notevolmente l’anno successivo, il 1955, con le candidature di Montale, Ungaretti, Papini e Moravia. I due poeti si avvalevano  della proposta di T.S. Eliot  richiamando così prepotentemente l’attenzione della giuria svedese sulla nuova scuola poetica italiana, spesso chiamata “ermetica” per semplificazione, che entro pochi anni avrebbe incontrato i favori degli Accademici di Stoccolma, mentre Moravia era proposto da Carlo Dionisotti, professore all’Università di Londra, e Papini da  Henri  de  Ziégler  dell’Università  di  Ginevra. Se   Ungaretti non fosse stato candidato anche da Giuseppe De Robertis, si rimarrebbe stupiti della mancanza di proposte provenienti dall’Italia a favore dei nostri scrittori.

I casi Papini e Moravia

Papini e  Moravia   purtroppo  vennero  infelicemente    periziati da Ingemar Wizelius, un giornalista svedese, corrispondente da Zurigo del “Dagens Nyheter” e  vagamente infarinato di letteratura, il quale non conosceva né gli scrittori italiani né l’opera dei due candidati sottoposti al suo vaglio. I suoi titoli di merito per occuparsi  della  nostra letteratura risiedevano nel fatto che Zurigo è geograficamente più vicina all’Italia di quanto lo sia Stoccolma e questo  –  al di là di ogni inevitabile ironia – indica quanto approssimativamente e superficialmente lavorassero la commissione Nobel e l’Accademia di Svezia. Appare evidente dal testo consegnato da Wizelius ai giurati che il giornalista, per giudicare le opere di Moravia e di Papini, si era servito di recensioni altrui e di ritagli di giornale, come era abituato a fare nel suo lavoro di corrispondente. Il verbale finale della commissione, firmato da Österling, escludeva Moravia, soprattutto a causa  di un  romanzo   giudicato  «banale e ammiccante al pubblico»  come  Il disprezzo,  e  Papini  «per  l’opera  troppo  eterogenea e composita», anche se La spia del mondo veniva giudicata comunque «senza tema di esagerazioni un’opera all’altezza del Nobel». Quanto ai due poeti, la commissione si esprimeva  in modo interlocutorio perché Österling non gradiva l’eccessiva impenetrabilità della scuola ermetica.

Pasolini e Ungaretti

La candidatura di Vasco Pratolini e di Ungaretti

Nella tornata del 1956 comincia a stagliarsi meglio la candidatura di Ungaretti, proposto da Marcel Raymond dell’Università  di Ginevra,  mentre  si  affaccia  al  premio Vasco Pratolini,  anch’egli candidato dall’estero e più precisamente da Paul Renucci, professore all’Università di Strasburgo. Anche Pra- tolini venne affidato al dilettante  Wizelius, che scrisse sul narratore toscano un referto di sette pagine, infarcito di notizie biografiche e di luoghi comuni, ma alquanto favorevole alla sua opera, con accenti particolarmente entusiastici su Via de’ magazzini e su Metello, ma piuttosto tiepidi su Cronaca familiare  e  su   Cronache di poveri amanti. Troppo  poco  comunque  per coinvolgere Österling che, concludendo i lavori della commissione,  mise  a  verbale che la posizione dei  giurati  nei confronti di Pratolini era «attendista» e che si aspettava quanto sarebbe uscito successivamente dall’officina dello scrittore  fiorentino. Per Ungaretti si fece riferimento al giudizio dell’anno precedente ribadendo che il poeta italiano era da considerarsi in «lista di attesa».

La candidatura  di  Carlo Levi

Il 1957 vede per la prima volta la candidatura di Carlo Levi, proposto da Mario Praz in una lettera confusissima, in cui in realtà viene candidato Ignazio Silone o addirittura un quartetto formato da Moravia,  Silone,  Levi e  Bacchelli, indicati tutti come «degni di essere presi in considerazione  per  il Nobel per la letteratura», una malinconica conferma del fatto che anche uno studioso di altissimo prestigio come    Praz  non  aveva  capito  come     si   doveva  scrivere     una candidatura   ufficiale   al  premio Nobel. Moravia   era   stato   proposto  anche  dal  grecista  Gennaro  Perrotta, con una lettera poco chiara nelle motivazioni  almeno  quanto  quella di Praz   per i nomi dei candidati, mentre Papini veniva proposto da Paolo Toschi, dal suo indirizzo  romano  di via Tacito 50,  con  una  lunga  lettera che si concludeva però avanzando in alternativa la candidatura di Riccardo Bacchelli, in modo da ingenerare una possibile confusione agli occhi dei giurati svedesi. Nel verbale finale Österling si sbarazzò di tutti i candidati italiani liquidando per primo Carlo Levi in quanto inferiore agli altri candidati Moravia e Silone. Di questi ultimi due  Österling  elogia sia Moravia, tornato in auge ai suoi occhi dopo la pubblicazione de La ciociara, sia Silone per Il segreto di Luca, ma le preferenze della commissione quell’anno vanno comunque ad un quartetto finale formato da Karen Blixen, Boris Pasternak, André Malraux e Albert Ca- mus che infatti ottiene il Nobel.

Le candidature di Elio Vittorini, Ignazio Silone e Giuseppe Ungaretti

 L’avvicinamento degli scrittori italiani al premio diventa palese l’anno successivo, il 1958, quando viene candidato per la prima volta Salvatore  Quasimodo  con le proposte di Maurice  Bowra, presidente della British  Academy, Carlo Bo e Francesco Flora; Alberto Moravia, con  le  proposte di  Stuart Atkins e Hans Nilsson Ehle,  professore di lingue romanze all’Università di Göteborg; Elio Vittorini proposto ancora dallo statunitense Atkins, professore di lingue germaniche ad Harvard; Ignazio Silone proposto da due autorevoli soci dell’Accademia di Svezia; Giuseppe Ungaretti proposto da Howard  Marraro, professore di storia  alla  Columbia University; Riccardo Bacchelli proposto da Nilsson-Ehle. Vittorini venne eliminato in modo sbrigativo da Österling che mise velleitariamente a verbale che si attendevano future prove dello scrittore per poterlo giudicare, mentre per Bacchelli non ci si spostò dal precedente giudizio  negativo. La  perizia su Quasimodo e Ungaretti venne sciaguratamente affidata al solito giornalista Wizelius che ne fece un documento politico squalificando Ungaretti in quanto, a suo dire, colluso con il fascismo per la nota prefazione di Mussolini a  Il porto sepolto, ed esaltando invece Quasimodo in  quanto,  sempre a suo dire,  campione della Resistenza. Ma gli occhi della commissione erano tutti per Moravia, in diretta competizione con  Silone,  e   l’autore de   La ciociara,  proprio  grazie a questo romanzo, venne collocato al secondo posto nel quartetto dei finalisti che vedeva in testa Pasternak, candidato autorevolmente da Renato Poggioli, professore ad Harvard, e forte della pubblicazione de  Il dottor Živago  nell’edizione di Feltrinelli del 1957. Senza Poggioli e Feltrinelli il Nobel sarebbe andato a Moravia.

Il Nobel a Salvatore Quasimodo

Il premio all’Italia  arrivò  però  l’anno successivo,  il 1959, anche se la cosa avvenne in modo quasi romanzesco. Per l’Italia erano in gara Vasco Pratolini, candidato da Paul Renucci, Moravia e Silone, entrambi candidati da Hjalmar Gullberg componente della commissione Nobel, e Quasimodo candidato da Carlo Bo. La commissione Nobel decise con quattro voti su cinque che il Nobel doveva andare alla danese Karen Blixen,  ma  il quinto componente, Eyvind Johnson, si oppose facendo osservare che un premio alla Danimarca sarebbe stato interpretato all’estero come una prova di favo- ritismo scandinavo  e  propose  in  alternativa di premiare uno scrittore italiano a scelta fra Quasimodo, Silone, Moravia e Ungaretti, da lui elencati in quest’ordine e senza una motivazione  particolare che favorisse uno dei quattro. Ribaltando quindi il giudizio della commissione che rimaneva quello di premiare la Blixen, l’Accademia di Svezia nel suo plenum e com’è nei suoi diritti scelse di votare a maggioranza per il conferimento del Nobel a Quasimodo. Va da sé che ci si era orientati su un poeta anziché su un prosatore e che, tra Ungaretti e Quasimodo, era stato scelto il secondo anche in base alla perizia politica di Wizelius dell’anno precedente. Dopo tutto si trattava di riammettere l’Italia, riabilitandola, fra  i   Paesi   degni   del   Nobel dopo  il  quarto   di  secolo  di esclusione   per  essersi  schierata dalla  parte   perdente  nel secondo conflitto mondiale. Il premio a Quasimodo, nel giudizio di mezzo secolo dopo da parte dei critici svedesi e della stessa Accademia, è considerato comunque un premio letteraria- mente meritato  anche  se  oggi si  riconosce apertamente  che, tra Quasimodo e Ungaretti, si sarebbe dovuto premiare Ungaretti.

Figure haiku di Lucio Mayoor Tosi

Versi di Lucio Mayoor Tosi

La candidature di Moravia e di Silone

Fra i 70 candidati del 1960 riappaiono Moravia e Silone, candidati   proprio da quell’Eyvind  Johnson  della commissione  Nobel,  padre spirituale del premio a Quasimodo,  mentre,  tra i 93 candidati del 1961, Moravia figura candidato da Anders  Wedberg,  professore di filosofia teoretica all’Università di Stoccolma, e Silone viene proposto dall’Accademico di Svezia Elias Wessén.  È  significativo  notare  per  la  prima volta  tra  i candidati il nome di Eugenio  Montale,  allora  62enne,  proposto   da  Michele  De  Filippis, professore d’italiano all’Università di Berkeley. Cominciava così una lenta marcia di avvicinamento che sarebbe durata  per quindici anni. Nel 1961 i candidati scendono a 86 e nella lista riappare Moravia, candidato ancora dall’interno dell’Accademia di Svezia, questa volta ad opera del suo autorevole socio, Hjalmar Bergman, e affiancato da Silone, riproposto da Wessén. La lista del 1963 annovera ben 123 nomi e tra di essi figura per la prima volta Emilio  Cecchi, candidato  da  Howard  Marraro,  accompagnato  da Moravia,  proposto  da  Olof Brattö,   professore   di    lingue romanze  a  Stoccolma, e  dall’Accademico   di  Svezia Wessén,  che propone anche Silone, mentre Pratolini viene candidato ancora una  volta da   Paul  Renucci,  allora professore d’italiano  alla  Sorbona.   Gli  italiani  presenti  fra  i  98  nomi   della   lista   del   1964   sono Moravia, candidato dal milanese Uberto Limentani, professore ordinario di letteratura  italiana  a Cambridge dove   era entrato come lettore   nel  1945,    e  Ungaretti,      proposto  da  Georges  Poulet, belga di nascita e professore di letteratura francese prima alla John Hopkins e poi a Zurigo e a Nizza.

A metà degli anni ’60    il   quadro generale  non  muta, anche se nel 1965 le candidature salgono a 120 includendo nomi come Anna Achmatova, Jorge Luis Borges, Max Frisch, Ernest Jünger, William Somerset Maugham, Yukio Mishima, Vladimir Nabokov,  Ezra Pound, Thornton Wilder e Marguerite Yourcenaur, tutti rimasti senza Nobel, e altri invece poi premiati nel tempo come Asturias, Beckett, Böll, Kawabata e Neruda.

La candidatura di Giovanni Guareschi

Per l’Italia era presente per la prima volta Giovanni   Guareschi, candidato da Mario Manlio Rossi professore di filosofia all’Università di Edinburgo e non già “professore di letteratura italiana all’Università di Stoccolma”, come indicato  erroneamente   da   varie te  state italiane   (fra cui “La Stampa” il giorno dell’Epifania)  a gennaio del 2016 quando la lista dei candidati venne desegretata. Altrettanto inesatta la notizia, data dagli stessi giornali, che per Guareschi si trattasse di “un Nobel sfiorato”,  dal  momento  che l’autore  di  Don Camillo,  pur tradotto  in  svedese e  apprezzato dal pubblico,  non   venne  mai preso seriamente  in considerazione  per  il  premio e,  per rendersene conto,  già basterebbe  guardare  i  nomi dei candidati di quell’anno. Insieme a Guareschi figuravano, nella lista, anche Moravia, riproposto da Limentani, e Ungaretti candidato dallo statunitense Otis Edward Fellows, professore di lingue romanze alla Columbia University. A distanza di una manciata di anni dal premio a  Quasimodo  le  possibilità di Ungaretti erano quasi inesistenti, mentre quelle di Moravia erano state bruciate una decina di anni prima dopo la grande occasione perduta del premio andato a Pasternak.

Le candidature di Carlo Emilio Gadda e di Carlo Levi

Sorprende il calo dei candidati da 120 a 99 nell’edizione del 1966,  probabilmente  una  ripercussione delle polemiche  seguite  al  premio del 1965 a Šolochov,  ma la lista è ricca degli stessi nomi prestigiosi dell’anno  precedente con  qualche  nuovo  arrivo  come  Jean Anouilh e  Günter Grass.  Per  l’Italia appare per la prima volta Carlo Emilio  Gadda,  proposto dall’italo-americano Mario Andrew Pei,  insigne linguista e professore di filologia romanza alla Columbia University, mentre  riappare Carlo Levi, candidato da Maria Bellonci, citata negli archivi del Nobel come Maria Villavecchia  Bellonci ed erroneamente indicata come professoressa all’Università di Roma, mentre la Bellonci aveva potuto avanzare la sua proposta in qualità di presidentessa del PEN club italiano e, com’è noto, non ebbe mai una cattedra universitaria. Riappaiono anche le candida-ture di Montale,  proposto  da  Limentani, e di Moravia, anch’e- gli indicato dalla Bellonci. Gadda, allora già ultrasettantenne, non  aveva  (e ancora  non  ha)  qualcosa di suo tradotto    in   svedese  e  la difficoltà   della  sua  prosa  appariva  insormontabile agli Accademici di Svezia, mentre per  Carlo Levi,  le sue tre opere tradotte in svedese (Cristo si è fermato a Eboli, Bonniers, 1948, L’orologio, Bonniers, 1950 e Le parole sono pietre, Bonniers, 1958)  non  erano  bastate  nemmeno  in precedenza  per  far  formulare un giudizio positivo alla commissione Nobel.

L’edizione  del 1967 vede Montale  e  Moravia  come  unici candidati per l’Italia, proposti rispettivamente da Uberto Limentani, annotato come professore di lingua italiana all’Università di Cambridge, e da Gustaf  Fredén, professore di storia della letteratura all’Università di Göteborg. Sorprende l’ulteriore calo dei candidati che scende a 70 in totale, anche se la lista presenta una serie di nomi di prestigio come il vincitore Asturias, accompagnato da Beckett,  Bellow, Kawabata, Neruda, Simon, tutti poi insigniti del Nobel, accanto ad altri scrittori altrettanto insigni ma poi sempre esclusi dal premio, come  Jorge Amado, Borges, Graham  Greene  (proposto da Gierow, che candida anche Ionesco), Mishima, Ezra Pound e Tolkien.

La candidatura di Montale

 Negli anni successivi si va  rafforzando sempre più la candidatura di Montale, anche per il decisivo appoggio di Österling (suo traduttore in svedese), ma la commissione Nobel negli anni ’70 registra il passaggio di consegne  della  presidenza  da Österling (che rimane in commissione fino al 1981) a Gierow, mentre come nuovi  componenti  figurano  Lars  Gyllensten  dal 1968 e Artur  Lundkvist dal 1969, ai quali nel 1972 si aggiunge Johannes  Edfelt.  Nel 1975 erano  in  lizza nomi di assoluto  prestigio,  da Bellow  a  Canetti, da  Garcìa Marquez  alla  Gordimer, dalla Lessing a Grass, da Naipaul a Simon, da Graham Greene a Nabokov.   A  far  pendere  la  bilancia  dalla parte  di  Montale con un  nuovo  Nobel  alla   poesia italiana       già   premiata 16  anni   prima con Quasimodo, furono diversi fattori, non ultimo quello del rammarico  per non aver premiato Ungaretti, scomparso nel 1970  e  impossibile da  premiare nel decennio  successivo  al  premio   a   Quasimodo.  Il quasi 80 enne  poeta  ligure aveva contro di sé  sia l’età avanzata, sia il pessimismo    indiscutibile che era al fondo della sua produzione lirica e che  infatti Österling  provvide a”neutralizzare” nel suo discorso ufficiale sostenendo che si trattava di un atteggiamento razionale non privo  di   fiducia nella capacità di andare avanti superando gli ostacoli. A distanza di quasi mezzo  secolo  dal secondo Nobel   per  la letteratura assegnato all’Italia nella seconda metà del Novecento, va anche ricordato   che  esistevano  ancora  nell’Accademia di Svezia, almeno  in   uomini come  Österlig,  un  rispetto   e  un’attrazione  per la patria di Dante,  tali  da fargli priorizzare  gli scrittori italiani con una certa cadenza regolare, sentimenti che oggi non esistono più o che comunque non sono abbastanza forti.

Figure haiku 1 Lucio Mayoor Tosi

Versi di Lucio Mayoor Tosi

Il Nobel a Dario Fo e il caso Albino Pierro

Il discorso è completamente diverso  per  il  Nobel assegnato a Dario Fo nel 1997, oltre due decenni dopo il premio a Montale  e  dopo anni di  furiose  polemiche   sui  giornali   italiani e svedesi per il sedicente veto posto all’“obbligatorio” Nobel per Mario Luzi da parte dell’Accademia di Svezia che sarebbe stata oggetto di forti pressioni delle autorità italiane, su iniziativa di Emilio Colombo, per far invece assegnare il Nobel al poeta lucano Albino Pierro. Ad orchestrare questa campagna era Giacomo Oreglia, un editore e traduttore  italiano attivo in Svezia fin dagli anni ’50, certamente non privo di contatti fra gli Accademici ma in guerra contro la Farnesina  per questioni  legate alla sua  pensione. Tra le asserzioni  di  Oreglia  figurava quella secondo cui le traduzioni di Pierro in svedese sarebbero state finanziate  con  molte decine di milioni di lire provenienti dal ministero degli Esteri, un’affermazione completamente priva  di  fondamento  ma che trovò  posto  ed  attenzione  in autorevoli quotidiani svedesi. La polemica si acutizzò in modo accesissimo proprio nel 1997 quando l’Accademia di Svezia, anche per chiudere una volta per tutte la tragicomica questione, assegnò  –  nello stupore generale  –  il premio al teatrante Fo, fortemente sostenuto dal suo autorevolissimo ammiratore Lars Forssell della commissione Nobel.

L’assenza di candidature autorevoli per la poesia italiana contemporanea

Il premio a Fo, giustificato dall’Accademia come un’apertura rivoluzionaria ad un nuovo settore della letteratura, apparve incomprensibile  a  tutti nel 1997 e  tale  è  rimasto  a oltre 20  anni dalla sua assegnazione, anche  perché  la produzione “letteraria” di Fo era stata documentatamente scritta in collaborazione  con Franca Rame  (se non addirittura solo da lei), tenuta  però  al di fuori del premio, un errore  palese  e  riconosciuto  in seguito,  in forma privata, anche da qualche responsabile di quella decisione. Negli anni successivi le maggiori possibilità  nella corsa al premio  sono  state  dei nostri narratori, anche  per  il  rimpianto dell’Accademia per  non  avere  fatto in tempo a  premiare Calvino, a cui il Nobel sarebbe immancabilmente arrivato se non fosse morto prematuramente. Anche Giuseppe Bonaviri, Alberto Bevilacqua, Sebastiano Vassalli sono scomparsi negli anni in cui le loro candidature al premio stavano  rafforzandosi, mentre finora  nessun  poeta ha raccolto  presso l’Accademia  il favore di cui a suo tempo e forse troppo abbondantemente godette la lirica italiana del secondo dopoguerra.

17 commenti

Archiviato in Senza categoria

Caffè Notegen, Roma, via del Babuino 159 – Caffè Notegen…«Cronaca di una morte annunciata». La società letteraria di fine Novecento. La civiltà degli incontri letterari e delle riviste a cura di Gino Rago – Con poesie degli anni Novanta di Gino Rago, Giorgia Stecher, Giuseppe Pedota, Salvatore Martino e Giorgio Linguaglossa

caffè NotegenUn giorno dell’anno 1875 Giovanni (Jon) Notegen,  «il droghiere di Tschilin », un villaggio svizzero dell’Engadina, mette la strada sotto i piedi e giunge a Roma. Qui, in via Capo Le Case, a breve distanza dalla  Via Sistina e dalla Scalinata a Trinità dei Monti,  Jon Notegen apre una drogheria. Ma pochi anni dopo, nel 1880 per l’esattezza storica, il «droghiere Jon» si sposta a via del Babuino, al civico 159. Rinnova il locale e contemporaneamente ne fa  un Bar-Caffetteria, una torrefazione del caffè, una drogheria e una piccola fabbrica di marmellate speciali le quali, per la vicinanza dell’Albergo di Russia, oggi « Hôtel de Russie», subito si diffusero anche all’estero per i numerosi turisti stranieri che l’Albergo ospitava.

Tra le due Guerre Mondiali, la drogheria e il Bar-Caffetteria diventano un tipico punto d’incontro e di ritrovo dei più noti e celebrati artisti e intellettuali dell’epoca. Negli anni ’50 il Caffè Notegen è ormai un’istituzione e la sera, dopo lo spettacolo,  vi si fa ritorno. Non è difficile incontrarvi Carlo Levi ed Ennio Flaiano, Alfonso Gatto e Corrado Cagli, con  i più assidui frequentatori  “di casa” al  Notegen   Piero Ciampi,  Monachesi, Guttuso, Zavattini, Bertolucci, Adriano Olivetti, Corrado Alvaro, Linuccia Saba, Maria Luisa Spaziani, Milena Milani, Eva Fischer, Iosif Brodskij. Ma la crisi del Centro storico è alle porte. Teresa Mangione, a tutti nota come Teresa Notegen perché moglie di Leto, uno dei fratelli Notegen e accolto

da tutti come «amico degli Artisti», con tutta la gente della cultura, dello spettacolo, dell’arte, della poesia e con tutti gli “artigiani” gravitanti nella «vecchia Roma», ne avverte i rischi e sensibilizza appassionatamente Sovrintendenza ai Beni Culturali e Consiglio comunale capitolino per la salvaguardia del Notegen dal rischio chiusura.

piazza_ di-spagna2Nel 1988 il Caffè viene restaurato e la «saletta delle marmellate» finalmente recuperata viene destinata a colazioni, pranzi di lavoro, riunioni conviviali, incontri culturali. Sempre vivi nella memoria, non soltanto degli addetti ai lavori, i “martedì di poesia”.  Ricordo che negli anni Novanta si sono tenute qui tutte le presentazioni dello storico quadrimestrale di letteratura “Poiesis” che contava nella sua redazione Giorgio Linguaglossa, Laura Canciani, Giorgia Stecher, Giulia Perroni, Giuseppe Pedota e molti altri poeti «esterni», tra i quali lo scrivente che allora viaggiava tra Trebisacce e Roma. E come non ricordare Salvatore Martino e Luigi Celi. Forse, l’ultimo bagliore di quella antica civiltà dei caffè letterari. Poi, intorno alla fine del primo decennio di questi anni 2000, il Notegen chiude definitivamente…  Nel locale al 159 di Via del Babuino, a pochi passi da Sant’Attanasio, da Piazza di Spagna e da Piazza del Popolo, di quella vitalità oggi è rimasta forse appena un’ombra sul muro.

Indeterminazione, relatività, equazioni di Maxwell, verso libero e non libertà nel verso, metafora tridimensionale, modernismo e postmodernismo, rapporto tra  «io »poetico e «oggetto», differenza fra «oggetto» e «cosa», tempo e poesia: grandi, inquietanti questioni dibattute nella sala delle marmellate dai poeti che circolavano attorno a “Poiesis”. Forse, uno storico del passato recente potrà «ricostruire» lo stato di salute della poesia di quegli anni e dei poeti, soprattutto operanti in Roma, attraverso le vicende del Caffè Notegen…«Cronaca di una morte annunciata», realmente avvenuta nella indifferenza generale e nella inerzia dell’amministrazione dei sindaci Rutelli e Veltroni.

Gino Rago

caffè Notegen. 1jpgDue poesie di Gino Rago dal Caffè Notegen (1999)

Locandina Caffè Notegen
Via del Babuino, 159 Roma*

Noccioline americane
Ostriche australiane
The inglese
Salmone canadese
Cous-cous marocchino
Dolce tunisino
Burro danese
Whiskey irlandese
Palmito cubano
Caffè brasiliano
Colonia francese
Vongola cinese
Caviale russo
Profumi di lusso
Odori di cucina
Petrolio e benzina
Sapone e acetone
Con qualche gettone
Panini e cornetti
Riso e spaghetti
Formaggi e surgelati
Telefoni occupati
Juke-box a tutto spiano
Flipper alla mano
Tommaso sorridente
Teresa accogliente
Sempre tanta gente
Di giorno e di notte(gen)
Tra sussurri e grida
Mosul, Avati e Guida.

* N.B. La locandina è nata in una serata conviviale al Notegen su un tavolino con Giorgio Linguaglossa, Vito Riviello e Gino Rago, dopo la presentazione di due libri di poesia, nella «saletta delle marmellate». Lo scherzo piacque a Teresa e ne ricavò la «Locandina del Caffè Notegen». Era il maggio del 1999.

.

Un bergamotto sul fiato della morte
(in ricordo del Caffè Notegen)

Se il poeta sceglie da quale parte stare
il mondo trova sempre il suo tono,
il suo timbro, il suo colore. Lessico
d’alghe. Sintassi di conchiglie.
Al centocinquantanove di Via del Babuino
la sirena invita l’uomo stanco
all’ultimo sentiero di lumache.
Sotto il passo incerto di frontiera
Teresa spalma un giallo
profumato di limoni.
“Die Klage. Das Ruhmen”.
Il lamento. L’elogio. Euridice. Orfeo.
Un bergamotto sul fiato della morte.
Da quell’altana d’aria a Trinità dei Monti
chi ricorda il viola di Scilla, il tormento
della figlia eletta di Zurigo, l’enigma sul mare
a Chianalea. Chi sussurra l’estasi
d’una spadara, l’incanto della musica
sull’acqua, la sorte d’una piuma
in quel vento sul dorso della mano. (Al Caffè Notegen
di Via del Babuino bussava indarno il male
alle vetrine, né mai trovò ricetto la malinconia.
Sostava sui selci neri l’orma verde bile dell’intrigo).
Al galoppo sul niente d’una soglia nessuno tema
il viaggio al centro della notte.
Forme. Visi. Voci. Specchi. Eventi. Lontani
anche i vapori sugli attriti della carne.
Di quei palpiti vitali, di tanta joie de vivre
sì e no un’ombra oggi resta sul muro.
Ma se il viandante tace, se allenta la corsa,
se a Sant’Attanasio asseconda l’occaso
al Notegen di Via del Babuino daccapo i poeti
clessidrano il tempo, fermano in sé il respiro
degli alberi, risgabellano vantandosi
d’essere schegge dell’eternità. Torna sugli scalini
a prillare aprile. Il sangue riscorre più in fretta
del canto… E le azalee sanno fare il resto.

Giorgia Stecher volto

Due poesie di Giorgia Stecher da Altre foto per album (1996)

Il bisnonno

(dopo il terremoto del 1908)

Accorso al molo tu
chiamavi le barche: Teresa
Carmelina dove siete?
Sornione il mare ti lambiva
i piedi come mostro placato
dopo il pasto tra i resti
del banchetto e tu
a strapparti i capelli disperato.
Di te questa l’immagine
che m’hanno consegnato e a nulla
vale guardare il mezzobusto
che ti immortala grave ma quietato
sopra l’emblema inutile dell’àncora.

.
L’Altra Nonna

Di te ricordo i capelli
suddivisi in due bande da una riga
e la trappola per topi che inventasti
servendoti di un ditale e di una pentola.
Dicevano di te ch’eri una gran signora
che avevi il mestolo d’oro e molto argento,
prima della sterzata della stella.
Mi è rimasto il tuo nome soltanto
ed un ventaglio che col vento
che tira qui da noi, è superfluo
agitare, per soffiarsi.

.
Foto di Parente Sconosciuta

En souvenir de ta soeur c’è scritto giù
nell’angolo data due maggio novecentotredici
e tu stupenda contro una finestra un profilo
perfetto da cammeo, le braccia abbandonate
perfettissime, collo vestito perle
acconciatura talmente belli da sembrare
finti. Eppure sei esistita, col tuo francese
spedito ineccepibile e gli squisiti modi
da gran dama, lo diceva la Gina che sapeva
tutte le vecchie storie di famiglia.

 

Giuseppe Pedota foto anni Settanta

Giuseppe Pedota foto anni Settanta

Poesie di Giuseppe Pedota da Equazione dell’infinito (1996)

I campi dello splendore

I

De profundis o madre l’inesausta
chiara tristezza e queste lunghe lune
ti chiamano e le stanze luminose
ancora mi posseggono all’incanto
delle verdi stagioni della luce

sono tornato dall’illimite
per la felicità di nascermi da un sogno
tuo acerbo di granoverdemaggio

Lucania lucis l’eden tra la torre
normanna di Tricarico e le selve
di lupi che odoravano di neve

e falchi neri le ali di rugiada
inseminati da sapienza i venti
grand’inventori di storie e di sciarade
sulle flotte ulissiache dei sogni

e l’avida di spazi
Genzano emersa da abissali
valloni ebbri d’aglianico e di risa
scenografia arrogante per attori
cattivi contro il cielo come solo
sanno esserlo per genìe segrete
le progenie di Orazio e di Pitagora

matematica e mistica lubrica e libertà
crudele sole nostre ospiti

II

e ancora andiamo per queste strade di vento
con un frullo di stelle tra le ciglia

Lucania lucis come allora andiamo
quando ancora sottile nel tuo ventre
sentivo raggrumarsi i vaticini
delle imminenti apocalissi e glorie

ma è sublime vertigine del tempo
il grande gioco
di frantumarci nell’oblio di ciò che fummo
e che saremo

e fu storia mai sazia
di coincidenti epifanie
nascere l’anno della croce uncina
che provava i suoi artigli d’acefalia deforme
devastando i colori ed il cuore di Klee

e per quali segnali d’elezione
egli mi rese la sua scienza
di render l’invisibile visibile?

.
III

quali segni esaltanti e disperanti
protessero da intrighi
la mia stupefazione a menti aliene

perché annulla i dies irae della storia
il sonno d’un bambino

perché si aprivano le vene
di dèmoni e sibille e di profeti
tra le dita
di Michelagnolo che urlava
al suo papa i crediti mancati
dei lapislazzuli sistini

per quali segni
a pretesto di fame si compose
Amadeus il suo Requiem

e può un blu-viola distico
disperare all’abiura d’un amore?
Lucania

questo paese è lontano da ogni senso
e dagli dèi
forse
ci corre dentro nelle vene un segno
un turgore di luce
di silenzi
appartenute a un sogno di remote
civiltà stellari

la circonferenza s’è aperta
nel punto delle mie fughe
nel punto dei miei ritorni
come teorema d’amore

la mia Lucania è un’Itaca
di tutte le ombre
che mi crearono la luce
di spazi che mi allevarono
con la storia dei venti
e i lutti delle donne nero eterno
come utero di vergini

neri occhi hanno scavato ombre più vere
di chi le rifletteva

un’esca per i flutti
di giovinezze ambigue

i passi delle mie lune nere
vengono dove si attendono
che il viaggio della luce
svegli i bradi cavalli di ombre
per criniere di vento

 

Giorgio Linguaglossa al Mangiaparole 2013

Giorgio Linguaglossa al Mangiaparole, Roma 2013

Poesie di Giorgio Linguaglossa (da Paradiso, 2000)

Enigma

Per il lugubre occhio di Kore
per il funebre drappeggio dell’angelo
dal trono dove regna Proserpina
osserviamo gli uccelli cantare
dove era il laurociliegio
rumoroso di tuoni.

Benché il suo occhio sia frigido
rigide rondini tornano al sole
dal nostro nero mare all’azzurro
palazzo del re dei re, sapremo
dimenticare il sole perché
incontrarsi era desiderio.

.
L’imperatrice Teodora e la sua corte*

La melancholia dell’imperatrice Teodora
e del seguito imperiale recita
il trionfo fittizio, nomenclatura
monumentale museificata nel vetro.
L’ampia corona deposta sul capo
immobile assottiglia lo strepito
dei passi del corteo che collima
con il corteggio di tenebre.
Gli occhi di Teodora ci osservano
dalla rigidità della decorazione musiva
laddove non esiste il tendaggio
dell’inquietudine.

* Mosaico della chiesa di “San Vitale” a Ravenna

*

Vidi l’Angelo dai quattro volti
che guardava in quattro specchi il mio
sembiante riflesso, il quadruplice
barbaglio della luce incidente il profilo
araldico. L’abbaglio di otto occhi
celesti assorti nel nulla dell’oscurità.
tetagrafico, tetacriptico profilo.

Salvatore Martino da “”La fondazione di Ninive” 1977

A una distanza pari dalla giungla seguendo il filo di un
airone basso nelle correnti dell’aria Disposti a seguitare
malgrado l’oroscopo straniero verso l’alto del piano dove
spirali si rincorrono e la schiera alata dei pesci Intorno
il sentiero mostrava tracce d’un’altra carovana passata
chissà in un giorno di aprile Si avanzava per gradi
lo sguardo fisso al perimetro del dolore

but if you think of a periscopal motion
of thinghs and animals

L’arsenico nel vino i segnali del passo Dalla bocca del
capanno un grido di fucili Stormi inquieti di volatili e
il rosso cremisi delle piume alla vista dei cani
Ci spingemmo avanti senza l’appiglio delle streghe
Poi avrai notizie dagli agenti del cielo Orbite e sonde
le riprese di luna e mille crateri illuminati dalla
fiamma silicea Come sciogli il granito?
A una distanza pari dalla giungla l’anima si riduce ad una
massa che invade le finestre entra nelle cantine squarcia
i vetri e le porte precipita negli alambicchi Piombo
***
Doppiata la collina si piega il tempo per cogliere il
tracciato che scende in un azzurro paese dove laghi
s’incontrano il verde meridiano e oltre la fossa il cielo
Tradito dai sicari
Ci siamo tinte le mani con bianchissima calce
coperto i sopraccigli col sudario una flora batterica
per coltivare agavi o la demenza di chi spera
al mattino un oroscopo astuto delle carte
Non c’è comparazione col metallo quello duro e temprato!
La fossa spaventosa degli inganni precipita intatte
carovane l’oro disciolto nei crogioli l’interminabile spirale
conquista il punto Ricomincia l’ascesa a gironi più fondi
Nel Maelström attorcigliati Cibele e il corpo di Attis
ritrovato una piatta famiglia di lombrichi Sirene
calamitate a riva da un canto più del loro sinistro
Siede il giovane Orfeo la lira stanca lungo il braccio
sul cavalcante Egeo stanco dell’Ade stanco dell’Olimpo
tradito dagli amici le mani di bianchissima calce e un
vuoto contro la mezzaluce balenata in pieno dormiveglia
dalla camera accanto
Dovremmo salire E gonfiare nell’azoto
Una centuria volatile
***
Se ancora disperi di vedermi e i passi si cancellano
nella veglia a mezz’aria tra desiderio e fatica
E un’ora dopo ai piedi di una lunga valle
ti prendessero per mano quasi dicendo una preghiera
Mercoledì 8 gennaio in una valle
E ti conducessero per cerchi e rottami senza una
cruda stanchezza ch’è poi attesa di non attendere
E ti prendessero quando singhiozzano i merli con una
storia da decifrare portandoti attraverso canali di metallo
Se ancora i passi si cancellano
***

Gino Rago  nato a Montegiordano (CS) il 2. 2. 1950, residente a Trebisacce (CS) dove, per più di 30 anni è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, ove si è laureato in Chimica Ind.le presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005). Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa (Progetto Cultura, Roma, 2016). Altre poesie compaiono nella Antologia Poeti del Sud (EdiLet, Roma, 2015) sempre a cura di Giorgio Linguaglossa.

9 commenti

Archiviato in poesia italiana, poesia italiana del novecento, Senza categoria