Archivi tag: Papini

Storia dei Nobel conferiti agli scrittori e ai poeti italiani, a cura di Enrico Tiozzo, da Il Premio Nobel per la letteratura. La storia, i retroscena, il futuro,  Aracne, 2018 pp. 172 € 12 – L’Italia è priva di una politica culturale – L’assenza di candidature autorevoli per la poesia italiana contemporanea 

FOTO POETI POLITTICODal 1901 al 2017 gli insigniti del premio sono stati 113,

di cui 29 di lingua inglese, 14 di lingua  francese, 13 di lingua tedesca, 11 di  lingua spagnola, 7 di lingua svedese, 6  di  lingua italiana e 6  di  lingua  russa.  Seguono poi  in ordine decrescente il polacco (4), il norvegese (3),  il danese (3), il greco (2),  il giapponese (2), l’arabo, il bengalese,  il cinese, il ceco, il finlandese, l’ebraico,  l’ungherese,  l’islandese,  l’occitano,  il portoghese, il serbocroato,  il turco e lo yiddish, ciascuno  con  un  premio. Alla Cina  ne  vengono  attribuiti  2  ma  si  tratta di una cifra da discutere data l’attribuzione  ufficiale di un premio alla Francia  per uno scrittore nato in Cina. Da un punto di vista linguistico-letterario  l’Italia, considerando la sua storia e anche il numero dei suoi abitanti, sembrerebbe trovarsi in una posizione alquanto sfavorevole soprattutto nei confronti dei premiati di lingua spagnola, ove  non   si tenesse  conto  dell’enorme   bacino  premiabile dell’America latina. Il confronto critico va fatto piuttosto con la premiatissima Francia, ma anche con le nazioni scandinave che insieme arrivano a ben 15 premi, una cifra spropositata  per Paesi dalle  letterature  marginali e che dimostra quanto parziali siano stati, nel tempo, i giudizi di Stoccolma.

L’Italia è priva di una politica culturale

Poco indicativa, restringendo il campo all’Italia, è anche la distribuzione temporale dei sei premi Nobel ottenuti in 117 anni. Infatti 3 di essi sono stati assegnati nella prima metà del Novecento  e  gli altri 3 nella seconda metà del Novecento. Nessun premio invece è toccato finora all’Italia nel XXI secolo, il che non è del tutto casuale ed apre la strada a una possibile analisi della politica culturale del nostro Paese. La cadenza dei premi nel corso delle due metà del Novecento (1906, 1926, 1934 e 1959, 1975, 1997) non fornisce invece particolari indicazioni e non può quindi essere accostata a una sorta di generico criterio geografico da parte dell’Accademia di Svezia secondo cui un Paese dalla nobilissima tradizione letteraria come l’Italia dovrebbe essere insignito del Nobel con intervalli non superiori ai 20 anni.

Non c’è dubbio comunque  – e questo è un forte elemento di riflessione – che quando si cominciò ad assegnare il Nobel nel 1901, l’Italia  era  uno dei  4-5  Paesi di punta, con  un premio assicurato a breve, mentre oggi è un Paese dimenticato o comunque confuso nella massa degli aspiranti. La cosiddetta “Italietta” di Giolitti, termine accettabile solo in senso antifrastico, contava molto nel panorama europeo e questo si rifletteva  inevitabilmente anche sui giurati di Stoccolma, che conoscevano l’italiano e potevano, come il presidente della commissione, Wirsén, leggere e ammirare direttamente in originale le poesie di Carducci e i romanzi di Fogazzaro. È l’Italia di oggi che viene invece ignorata, se non di peggio, anche dal punto di vista letterario  in  Svezia,  dove  la stessa  lingua  italiana e non solo gli scrittori che la usano nelle loro opere sono   relegati  ai punti  più bassi dell’interesse delle Università e della case editrici. Manca ormai da tempo un  impegno  concreto  per la diffusione della lingua e della letteratura italiana in Svezia, dove ci si affida a istituzioni,  più   o  meno  i nani a seconda di chi le dirige. Va  da  sé che su  questo  sfondo  –  non si parli  più  seriamente  di  letteratura italiana  a  Stoccolma  da   oltre   un   decennio  e  che  i giurati del Nobel  debbano   industriarsi   per  proprio  conto  se  vogliono  seguire i nostri scrittori che potrebbero essere insigniti del premio. Il quadro è tanto più sconsolante in quanto gli editori italiani continuano invece a sfornare a getto continuo traduzioni ed edizioni  della peggiore   produzione  letteraria  svedese  in  circolazione, quella rappresentata dai romanzi polizieschi.

Il Nobel a Carducci e la bocciatura di Fogazzaro

Il primo Nobel all’Italia era già in votis nella prima tornata del 1901, quando Antonio Fogazzaro venne candidato dal prestigioso socio dell’Accademia di Svezia, Hans Forssell. Il premio non poteva sfuggirgli e infatti nel 1902 la candidatura venne rinnovata da un professore dell’Università di Uppsala, ma a turbare le acque provvide lo stesso Fogazzaro che,  ignaro certamente di  quanto stava avvenendo  a  Stoccolma  e  nella sua veste  di senatore del regno d’Italia, candidò  al  Nobel Giosuè Carducci,  peraltro proposto anche da Vittorio Puntoni, rettore dell’Università di Bologna oltre che professore di letteratura greca nello stesso ateneo. Negli anni successivi Fogazzaro, informato finalmente di quanto stava avvenendo in Svezia,  non  propose  più  Carducci    riproposto  però da Puntoni nel 1903 e da Carl Bildt dell’Accademia di Svezia nel 1905. A questo punto  lo scontro  fra  i  due  candidati  italiani er a inevitabile e si  materializzò  nel  1906  quando  Bildt, che  era  anche ambasciatore di Svezia a Roma, candidò  Fogazzaro  oltre a Carducci proposto  anche  da Ugo Balzani  dell’Accademia dei Lincei, da Rodolfo  Renier dell’Accademia delle Scienze di Torino e da un professore  svedese.  Wirsén  era comunque  ben  deciso  ad  assegnare il Nobel a Fogazzaro,  ma a tagliare  le gambe allo scrittore  vicentino  fu la pubblica sottomissione alla Chiesa di Roma che egli fece nella primavera  di quell’anno  per le critiche  che  gli  erano  state  rivolte  per  Il santo. A “denunciarlo” agli Accademici luterani nel maggio del 1906 fu  lo stesso Bildt, sottolineando come Fogazzaro avesse «riconosciuto solennemente le pretese della Chiesa  cattolica  romana di dominare la libertà  di pensiero e di parola». Il Nobel andò  cosí  meritatamente al morente Carducci, che lo ricevette da Bildt  in casa sua e  il  sipario  calò  su  Fogazzaro,  nonostante alcuni successivi e disperati  tentativi del suo adoratore Wirsén.

Strilli Lucio Ricordi

Versi di Lucio Mayoor Tosi

La mancata candidatura di Gabriele D’Annunzio

Nel ventennio successivo i nomi dei candidati italiani proposti per il Nobel sono tutt’altro che entusiasmanti ed è inspiegabile che dall’Italia o dall’estero non sia mai stata avanzata la candidatura di un maestro come d’Annunzio, pure tradotto in svedese. Accanto a Fogazzaro, insistentemente riproposto fino al 1911, troviamo invece Angelo De Gubernatis, Edmondo De Amicis, Francesco d’Ovidio, Salvatore Farina, Grazia Deledda (candidata per la prima volta nel 1913 da Luigi Luzzatti e da Ferdinando Martini e riproposta poi frequentemente), l’italo-francese Dora Melegari, Roberto Bracco (proposto per la prima volta nel 1922 da un professore danese e da uno norvegese e riproposto in segui to), Guglielmo Ferrero  (proposto per la prima volta nel 1923 da professori italiani e svizzeri oltre che da vari Accademici di Francia e riproposto in seguito), Matilde Serao  (anche lei proposta per la prima volta nel 1923 da Francesco Torraca e riproposta  in seguito), Giovanni Schembari, e Ada Negri, proposta per la prima volta nel 1926 da Michele Scherillo. Le candidature italiane si fanno più frequenti negli anni ’20 per concentrarsi  infine   su     un  terzetto formato dalla Deledda, dalla Serao e da Bracco, chiaramente in aperta competizione tra di loro perché il premio ad uno dei tre avrebbe inevitabilmente comportato l’esclusione perpetua degli altri due.

La candidatura di Guglielmo Ferrero

 Un caso a parte è invece quello della fortissima candidatura di Guglielmo Ferrero a cui il Nobel non sarebbe potuto sfuggire in alcun modo se l’italiano  non  avesse trovato  di fronte a sé l’insormontabile opposizione di Schück, dominatore e despota dell’Accademia di quegli anni.

A candidare Ferrero, apprezzatissimo  anche  da alcuni soci dell’Accademia, erano stati uomini come Gaetano Salvemini, Niccolò Rodolico, Paul Bourget, Henri Pirenne e Anatole France, oltre ai soci dell’Accademia di Rio de Janeiro e agli Accademici di Svezia Nathan    Söderblom e Verner   von  Heidenstam. Oltre a nutrire  un’antipatia  personale nei confronti di Ferrero e della sua opera, i cui veri motivi restano imperscrutabili, Schück, con l’influente appoggio di Bildt,  aveva  però  disegnato  un  suo  piano per portare al Nobel  Grazia  Deledda e,  per potervi  riuscire, doveva sbarazzarsi in tutti i modi della fortissima candidatura dello storico  italiano che, vincendo, avrebbe sbarrato la porta alla scrittrice sarda. I cinque volumi di Grandezza e decadenza di Roma,   pubblicati  in  Italia  tra  il  1901 e  il  1907 da Treves ,  in  traduzione francese, da Plon a  Parigi tra il 1902 e il 1908,  avevano entusiasmato i dotti svedesi e rappresentavano una credenziale formidabile  per ottenere  il Nobel. In  traduzione inglese l’opera era stata pubblicata tra il 1907 e il 1909  mentre,  nella  traduzione svedese di  Hjalmar Bergman e Ernst Lundquist, il capolavoro  di Ferrero  era stato  pubblicato  nel 1921-1924 dal  prestigioso  editore  Bonniers a Stoccolma e godeva quindi dei massimi favori proprio a metà degli anni ’20.

Il decisivo atto di accusa di Schück contro Ferrero è contenuto in una perizia dattiloscritta di 21 pagine, sottoposta alla commissione Nobel nella tornata del 1923,  in cui il professore di Uppsala comincia con lo screditare vari professori responsabili della candidatura dell’italiano  in  quanto non competenti  in storia antica ma in storia moderna, come Rodolico e  Salvemini,  a proposito dei quali Schück insinua anche il sospetto che abbiano candidato Ferrero solo per fare un piacere a Barbagallo, definito “signore” in modo spregiativo per indicare la sua inesistente qualifica di professore universitario. Per quanto riguarda  poi l’opera  di  Ferrero  sulla storia di Roma  antica, Schück  la  liquida come  priva  di  basi  scienti- fiche e come un imbarazzante documento d’incompetenza e d’impreparazione. L’argomentazione si rivelò così efficace da zittire del tutto due autorevolissimi componenti della commissione,  come Hallström e Österling, che  erano  inizialmente ben decisi a conferire a  Ferrero  il  premio Nobel. A distanza di quasi un secolo e tenendo conto dei riconoscimenti per la letteratura assegnati ormai a sceneggiatori, giornalisti e cantanti, l’argomentazione di Schück appare grottesca, ma in realtà lo era anche nel  lontano 1923. Il Nobel  per  la  letteratura non era infatti un premio scientifico e l’Accademia avrebbe dovuto guardare ai meriti di Ferrero come scrittore anziché alla sua competenza come storico.

Onto Mario Gabriele_2

Il Nobel a Grazia Deledda

Negli anni ’20 come oggi erano però l’influenza e il potere dei singoli Accademici a far pendere da una parte o dall’altra il piatto della bilancia e Schück con la stessa determinazione con cui aveva silurato Ferrero riuscì a convincere i suoi colleghi della commissione a conferire il Nobel a Grazia Deledda, con una perorazione retoricamente efficace quanto la sua requisitoria contro Ferrero, servendosi di toni lirici ed epici per evocare i paesaggi della Sardegna («su cui splendono il sole e la bellezza»), il carattere dei personaggi e la forza delle vicende drammatiche, scaturiti dalla penna della scrittrice di Nuoro. L’orgoglio degli italiani, forte ancora oggi, per il riconoscimento del 1926 alla Deledda, non cambia però la sostanza delle cose e nessun giudizio critico successivo ha mai potuto confermare una qualche forma di eccellenza dell’autrice di Canne al vento  nel panorama  letterario mondiale del Novecento. Va onestamente riconosciuto che il Nobel alla Deledda è uno dei molti riconoscimenti assegnati su basi molto fragili, per non dire incomprensibili, né il quadro migliora sapendo che l’argomento decisivo a favore della Deledda –  nell’arringa di Schück – fu il paragone con il polacco Władisłav Reymont, vincitore nel 1924 di un altro Nobel oggi dimenticato e molto difficilmente difendibile.

La candidatura di Benedetto Croce

Gli altri candidati italiani del resto non apparivano superiori alla Deledda e non fu difficile per la commissione esprimere le proprie riserve sulla “napoletanità” della Serao e sul valore del teatro di Bracco, né migliore sorte poteva avere Cesare Pascarella, candidato nel 1927 da due soci dell’Accademia dei Lincei, mentre appariva invece rilevante la candidatura di Benedetto Croce, proposto per la prima volta nel 1929 da tre professori di lingua tedesca, Julius Schlosser, Karl Vossler e Friedrich Meinecke. La sorte di Croce al vaglio della commissione Nobel si sarebbe trascinata per un quarto di secolo, fino alle soglie della morte del filosofo  italiano nel 1952, e rimane ancora oggi una delle pagine più nere per quanto riguarda oggettività e imparzialità di giudizio dell’Accademia di Svezia, come peraltro avrebbe apertamente riconosciuto Österling, nel verbale della commissione Nobel del 24 settembre 1949, dove egli scrisse che «Croce è senza dubbio una figura di statura così imponente da mettere in ombra tutti gli scrittori presenti sulla lista dei candidati, e il suo ruolo di guida nelle scienze umanistiche e nell’estetica ormai è universalmente noto», rammaricandosi tuttavia per il fatto che il Nobel ormai sarebbe apparso come un riconoscimento troppo tardivo. In altre parole Croce, pur meritando il Nobel, non fu premiato fino alla caduta del fascismo perché l’Accademia non voleva inimicarsi la dittatura, e   non   fu  premiato, dopo   la  caduta del fascismo e nel secondo dopoguerra perché l’Accademia si vergognava  –  premiandolo  –  di ammettere la sua codardia nel non averlo premiato prima.

Onto mario Gabriele_1

Il terzo Nobel italiano: Luigi Pirandello

 È su questo sfondo, non del tutto glorioso, che va collocato il terzo Nobel italiano della prima metà del Novecento, il meno discusso, il più ammirato universalmente, il primo nella secolare storia del premio  –  ad essere assegnato la prima volta che il nome del candidato era arrivato sul tavolo dei giurati di Stoccolma. A candidare Luigi Pirandello nel 1934 fu Guglielmo Marconi nella sua veste di presidente della Classe delle Lettere della Reale Accademia d’Italia. Sfugge a molti – nelle ricorrenti ridicolizzazioni  (fra  le ultime  quella di  Andrea Camilleri) che si fanno della fascistissima Accademia, voluta da Mussolini, e dei suoi componenti con feluca e spadino – che si dovette ad essa e alla buona reputazione di cui godeva allora il fascismo anche in Svezia se il premio andò così facilmente a Pirandello, nonostante  la  perizia altalenante che su di lui aveva vergato lo stesso Per Hallström, presidente della commissione Nobel e Segretario permanente dell’Accademia di Svezia. Infatti   lo svedese,  che  era  un grande ammiratore di Hitler e fu assai dispiaciuto negli anni seguenti per le sconfitte dell’esercito tedesco nelle ultime fasi del conflitto mondiale, criticò spietatamente la produzione narrativa dello scrittore siciliano, considerata  mediocre  e  di gran lunga inferiore a quanto Pirandello  aveva scritto per il teatro e che, alquanto sorprendentemente dopo tanta severità, era tuttavia giudicato  meritevole del Nobel. La componente politica di simpatia per l’Italia fascista ebbe dunque un peso importante, per non dire determinante, nel premio assegnato a Pirandello, ma non ci risulta che la cosa, dal secondo dopoguerra in avanti, sia stata mai nominata dalla storiografia letteraria italiana politicamente orientata.

La candidatura di Alfonso Strafile

Dopo il successo di Pirandello il quindicennio seguente segna  forzatamente  un  periodo di  attesa  ed  i nomi che  appaiono sono quelli di Croce nel 1936,  nel 1938,  nel 1939 (mai candidato dall’Italia fino al 1947 quando a proporlo  fu Bernardino Barbadoro dell’Università di Firenze) nel 1948, nel 1949 e nel 1950, dello sconosciuto Alfonso Strafile,  proposto nel 1940 da Domenico Vittorini, professore a Filadelfia, di Ignazio Silo- ne, proposto nel 1946 da Hjalmar Gullberg dell’Accademia di Svezia e riproposto nel 1947 dall’altro Accademico di Svezia Fredrik Böök, di Riccardo Bacchelli proposto dai Lincei nel 1948,  insieme con Croce, e riproposto nel 1949, di Alberto Moravia, candidato per la prima volta nel 1949  da  Gullberg. Fra  tutti  questi l’unico ad essere preso in considerazione per il premio fu Silone.

La candidatura di Riccardo Bacchelli

La seconda metà del Novecento si apre, nel 1951-1953, alquanto sorprendentemente senz’alcuna candidatura italiana al Nobel per la letteratura (nel 1950 era stato proposto Croce), mentre nel 1954 torna ad affacciarsi  il nome di  Riccardo Bacchelli, che era stato proposto, assai autorevolmente, nel 1949 da

T.S. Eliot, suscitando però soprattutto  stupore  e ironia presso i componenti della commissione Nobel. A riproporlo nel 1954, con  una perorazione in francese, fu  Gianfranco  Contini nella sua veste di professore dell’Istituto di filologia romanza alla Facoltà di Magistero dell’Università di Firenze, ma la commissione Nobel,   nelle  parole   di  Österling, se ne sbarazzò  rapidamente considerando decisiva in senso negativo l’opera più recente del romanziere italiano,  Il figlio di Stalin.  Il lotto  dei concorrenti italiani aumenta però notevolmente l’anno successivo, il 1955, con le candidature di Montale, Ungaretti, Papini e Moravia. I due poeti si avvalevano  della proposta di T.S. Eliot  richiamando così prepotentemente l’attenzione della giuria svedese sulla nuova scuola poetica italiana, spesso chiamata “ermetica” per semplificazione, che entro pochi anni avrebbe incontrato i favori degli Accademici di Stoccolma, mentre Moravia era proposto da Carlo Dionisotti, professore all’Università di Londra, e Papini da  Henri  de  Ziégler  dell’Università  di  Ginevra. Se   Ungaretti non fosse stato candidato anche da Giuseppe De Robertis, si rimarrebbe stupiti della mancanza di proposte provenienti dall’Italia a favore dei nostri scrittori.

I casi Papini e Moravia

Papini e  Moravia   purtroppo  vennero  infelicemente    periziati da Ingemar Wizelius, un giornalista svedese, corrispondente da Zurigo del “Dagens Nyheter” e  vagamente infarinato di letteratura, il quale non conosceva né gli scrittori italiani né l’opera dei due candidati sottoposti al suo vaglio. I suoi titoli di merito per occuparsi  della  nostra letteratura risiedevano nel fatto che Zurigo è geograficamente più vicina all’Italia di quanto lo sia Stoccolma e questo  –  al di là di ogni inevitabile ironia – indica quanto approssimativamente e superficialmente lavorassero la commissione Nobel e l’Accademia di Svezia. Appare evidente dal testo consegnato da Wizelius ai giurati che il giornalista, per giudicare le opere di Moravia e di Papini, si era servito di recensioni altrui e di ritagli di giornale, come era abituato a fare nel suo lavoro di corrispondente. Il verbale finale della commissione, firmato da Österling, escludeva Moravia, soprattutto a causa  di un  romanzo   giudicato  «banale e ammiccante al pubblico»  come  Il disprezzo,  e  Papini  «per  l’opera  troppo  eterogenea e composita», anche se La spia del mondo veniva giudicata comunque «senza tema di esagerazioni un’opera all’altezza del Nobel». Quanto ai due poeti, la commissione si esprimeva  in modo interlocutorio perché Österling non gradiva l’eccessiva impenetrabilità della scuola ermetica.

Pasolini e Ungaretti

La candidatura di Vasco Pratolini e di Ungaretti

Nella tornata del 1956 comincia a stagliarsi meglio la candidatura di Ungaretti, proposto da Marcel Raymond dell’Università  di Ginevra,  mentre  si  affaccia  al  premio Vasco Pratolini,  anch’egli candidato dall’estero e più precisamente da Paul Renucci, professore all’Università di Strasburgo. Anche Pra- tolini venne affidato al dilettante  Wizelius, che scrisse sul narratore toscano un referto di sette pagine, infarcito di notizie biografiche e di luoghi comuni, ma alquanto favorevole alla sua opera, con accenti particolarmente entusiastici su Via de’ magazzini e su Metello, ma piuttosto tiepidi su Cronaca familiare  e  su   Cronache di poveri amanti. Troppo  poco  comunque  per coinvolgere Österling che, concludendo i lavori della commissione,  mise  a  verbale che la posizione dei  giurati  nei confronti di Pratolini era «attendista» e che si aspettava quanto sarebbe uscito successivamente dall’officina dello scrittore  fiorentino. Per Ungaretti si fece riferimento al giudizio dell’anno precedente ribadendo che il poeta italiano era da considerarsi in «lista di attesa».

La candidatura  di  Carlo Levi

Il 1957 vede per la prima volta la candidatura di Carlo Levi, proposto da Mario Praz in una lettera confusissima, in cui in realtà viene candidato Ignazio Silone o addirittura un quartetto formato da Moravia,  Silone,  Levi e  Bacchelli, indicati tutti come «degni di essere presi in considerazione  per  il Nobel per la letteratura», una malinconica conferma del fatto che anche uno studioso di altissimo prestigio come    Praz  non  aveva  capito  come     si   doveva  scrivere     una candidatura   ufficiale   al  premio Nobel. Moravia   era   stato   proposto  anche  dal  grecista  Gennaro  Perrotta, con una lettera poco chiara nelle motivazioni  almeno  quanto  quella di Praz   per i nomi dei candidati, mentre Papini veniva proposto da Paolo Toschi, dal suo indirizzo  romano  di via Tacito 50,  con  una  lunga  lettera che si concludeva però avanzando in alternativa la candidatura di Riccardo Bacchelli, in modo da ingenerare una possibile confusione agli occhi dei giurati svedesi. Nel verbale finale Österling si sbarazzò di tutti i candidati italiani liquidando per primo Carlo Levi in quanto inferiore agli altri candidati Moravia e Silone. Di questi ultimi due  Österling  elogia sia Moravia, tornato in auge ai suoi occhi dopo la pubblicazione de La ciociara, sia Silone per Il segreto di Luca, ma le preferenze della commissione quell’anno vanno comunque ad un quartetto finale formato da Karen Blixen, Boris Pasternak, André Malraux e Albert Ca- mus che infatti ottiene il Nobel.

Le candidature di Elio Vittorini, Ignazio Silone e Giuseppe Ungaretti

 L’avvicinamento degli scrittori italiani al premio diventa palese l’anno successivo, il 1958, quando viene candidato per la prima volta Salvatore  Quasimodo  con le proposte di Maurice  Bowra, presidente della British  Academy, Carlo Bo e Francesco Flora; Alberto Moravia, con  le  proposte di  Stuart Atkins e Hans Nilsson Ehle,  professore di lingue romanze all’Università di Göteborg; Elio Vittorini proposto ancora dallo statunitense Atkins, professore di lingue germaniche ad Harvard; Ignazio Silone proposto da due autorevoli soci dell’Accademia di Svezia; Giuseppe Ungaretti proposto da Howard  Marraro, professore di storia  alla  Columbia University; Riccardo Bacchelli proposto da Nilsson-Ehle. Vittorini venne eliminato in modo sbrigativo da Österling che mise velleitariamente a verbale che si attendevano future prove dello scrittore per poterlo giudicare, mentre per Bacchelli non ci si spostò dal precedente giudizio  negativo. La  perizia su Quasimodo e Ungaretti venne sciaguratamente affidata al solito giornalista Wizelius che ne fece un documento politico squalificando Ungaretti in quanto, a suo dire, colluso con il fascismo per la nota prefazione di Mussolini a  Il porto sepolto, ed esaltando invece Quasimodo in  quanto,  sempre a suo dire,  campione della Resistenza. Ma gli occhi della commissione erano tutti per Moravia, in diretta competizione con  Silone,  e   l’autore de   La ciociara,  proprio  grazie a questo romanzo, venne collocato al secondo posto nel quartetto dei finalisti che vedeva in testa Pasternak, candidato autorevolmente da Renato Poggioli, professore ad Harvard, e forte della pubblicazione de  Il dottor Živago  nell’edizione di Feltrinelli del 1957. Senza Poggioli e Feltrinelli il Nobel sarebbe andato a Moravia.

Il Nobel a Salvatore Quasimodo

Il premio all’Italia  arrivò  però  l’anno successivo,  il 1959, anche se la cosa avvenne in modo quasi romanzesco. Per l’Italia erano in gara Vasco Pratolini, candidato da Paul Renucci, Moravia e Silone, entrambi candidati da Hjalmar Gullberg componente della commissione Nobel, e Quasimodo candidato da Carlo Bo. La commissione Nobel decise con quattro voti su cinque che il Nobel doveva andare alla danese Karen Blixen,  ma  il quinto componente, Eyvind Johnson, si oppose facendo osservare che un premio alla Danimarca sarebbe stato interpretato all’estero come una prova di favo- ritismo scandinavo  e  propose  in  alternativa di premiare uno scrittore italiano a scelta fra Quasimodo, Silone, Moravia e Ungaretti, da lui elencati in quest’ordine e senza una motivazione  particolare che favorisse uno dei quattro. Ribaltando quindi il giudizio della commissione che rimaneva quello di premiare la Blixen, l’Accademia di Svezia nel suo plenum e com’è nei suoi diritti scelse di votare a maggioranza per il conferimento del Nobel a Quasimodo. Va da sé che ci si era orientati su un poeta anziché su un prosatore e che, tra Ungaretti e Quasimodo, era stato scelto il secondo anche in base alla perizia politica di Wizelius dell’anno precedente. Dopo tutto si trattava di riammettere l’Italia, riabilitandola, fra  i   Paesi   degni   del   Nobel dopo  il  quarto   di  secolo  di esclusione   per  essersi  schierata dalla  parte   perdente  nel secondo conflitto mondiale. Il premio a Quasimodo, nel giudizio di mezzo secolo dopo da parte dei critici svedesi e della stessa Accademia, è considerato comunque un premio letteraria- mente meritato  anche  se  oggi si  riconosce apertamente  che, tra Quasimodo e Ungaretti, si sarebbe dovuto premiare Ungaretti.

Figure haiku di Lucio Mayoor Tosi

Versi di Lucio Mayoor Tosi

La candidature di Moravia e di Silone

Fra i 70 candidati del 1960 riappaiono Moravia e Silone, candidati   proprio da quell’Eyvind  Johnson  della commissione  Nobel,  padre spirituale del premio a Quasimodo,  mentre,  tra i 93 candidati del 1961, Moravia figura candidato da Anders  Wedberg,  professore di filosofia teoretica all’Università di Stoccolma, e Silone viene proposto dall’Accademico di Svezia Elias Wessén.  È  significativo  notare  per  la  prima volta  tra  i candidati il nome di Eugenio  Montale,  allora  62enne,  proposto   da  Michele  De  Filippis, professore d’italiano all’Università di Berkeley. Cominciava così una lenta marcia di avvicinamento che sarebbe durata  per quindici anni. Nel 1961 i candidati scendono a 86 e nella lista riappare Moravia, candidato ancora dall’interno dell’Accademia di Svezia, questa volta ad opera del suo autorevole socio, Hjalmar Bergman, e affiancato da Silone, riproposto da Wessén. La lista del 1963 annovera ben 123 nomi e tra di essi figura per la prima volta Emilio  Cecchi, candidato  da  Howard  Marraro,  accompagnato  da Moravia,  proposto  da  Olof Brattö,   professore   di    lingue romanze  a  Stoccolma, e  dall’Accademico   di  Svezia Wessén,  che propone anche Silone, mentre Pratolini viene candidato ancora una  volta da   Paul  Renucci,  allora professore d’italiano  alla  Sorbona.   Gli  italiani  presenti  fra  i  98  nomi   della   lista   del   1964   sono Moravia, candidato dal milanese Uberto Limentani, professore ordinario di letteratura  italiana  a Cambridge dove   era entrato come lettore   nel  1945,    e  Ungaretti,      proposto  da  Georges  Poulet, belga di nascita e professore di letteratura francese prima alla John Hopkins e poi a Zurigo e a Nizza.

A metà degli anni ’60    il   quadro generale  non  muta, anche se nel 1965 le candidature salgono a 120 includendo nomi come Anna Achmatova, Jorge Luis Borges, Max Frisch, Ernest Jünger, William Somerset Maugham, Yukio Mishima, Vladimir Nabokov,  Ezra Pound, Thornton Wilder e Marguerite Yourcenaur, tutti rimasti senza Nobel, e altri invece poi premiati nel tempo come Asturias, Beckett, Böll, Kawabata e Neruda.

La candidatura di Giovanni Guareschi

Per l’Italia era presente per la prima volta Giovanni   Guareschi, candidato da Mario Manlio Rossi professore di filosofia all’Università di Edinburgo e non già “professore di letteratura italiana all’Università di Stoccolma”, come indicato  erroneamente   da   varie te  state italiane   (fra cui “La Stampa” il giorno dell’Epifania)  a gennaio del 2016 quando la lista dei candidati venne desegretata. Altrettanto inesatta la notizia, data dagli stessi giornali, che per Guareschi si trattasse di “un Nobel sfiorato”,  dal  momento  che l’autore  di  Don Camillo,  pur tradotto  in  svedese e  apprezzato dal pubblico,  non   venne  mai preso seriamente  in considerazione  per  il  premio e,  per rendersene conto,  già basterebbe  guardare  i  nomi dei candidati di quell’anno. Insieme a Guareschi figuravano, nella lista, anche Moravia, riproposto da Limentani, e Ungaretti candidato dallo statunitense Otis Edward Fellows, professore di lingue romanze alla Columbia University. A distanza di una manciata di anni dal premio a  Quasimodo  le  possibilità di Ungaretti erano quasi inesistenti, mentre quelle di Moravia erano state bruciate una decina di anni prima dopo la grande occasione perduta del premio andato a Pasternak.

Le candidature di Carlo Emilio Gadda e di Carlo Levi

Sorprende il calo dei candidati da 120 a 99 nell’edizione del 1966,  probabilmente  una  ripercussione delle polemiche  seguite  al  premio del 1965 a Šolochov,  ma la lista è ricca degli stessi nomi prestigiosi dell’anno  precedente con  qualche  nuovo  arrivo  come  Jean Anouilh e  Günter Grass.  Per  l’Italia appare per la prima volta Carlo Emilio  Gadda,  proposto dall’italo-americano Mario Andrew Pei,  insigne linguista e professore di filologia romanza alla Columbia University, mentre  riappare Carlo Levi, candidato da Maria Bellonci, citata negli archivi del Nobel come Maria Villavecchia  Bellonci ed erroneamente indicata come professoressa all’Università di Roma, mentre la Bellonci aveva potuto avanzare la sua proposta in qualità di presidentessa del PEN club italiano e, com’è noto, non ebbe mai una cattedra universitaria. Riappaiono anche le candida-ture di Montale,  proposto  da  Limentani, e di Moravia, anch’e- gli indicato dalla Bellonci. Gadda, allora già ultrasettantenne, non  aveva  (e ancora  non  ha)  qualcosa di suo tradotto    in   svedese  e  la difficoltà   della  sua  prosa  appariva  insormontabile agli Accademici di Svezia, mentre per  Carlo Levi,  le sue tre opere tradotte in svedese (Cristo si è fermato a Eboli, Bonniers, 1948, L’orologio, Bonniers, 1950 e Le parole sono pietre, Bonniers, 1958)  non  erano  bastate  nemmeno  in precedenza  per  far  formulare un giudizio positivo alla commissione Nobel.

L’edizione  del 1967 vede Montale  e  Moravia  come  unici candidati per l’Italia, proposti rispettivamente da Uberto Limentani, annotato come professore di lingua italiana all’Università di Cambridge, e da Gustaf  Fredén, professore di storia della letteratura all’Università di Göteborg. Sorprende l’ulteriore calo dei candidati che scende a 70 in totale, anche se la lista presenta una serie di nomi di prestigio come il vincitore Asturias, accompagnato da Beckett,  Bellow, Kawabata, Neruda, Simon, tutti poi insigniti del Nobel, accanto ad altri scrittori altrettanto insigni ma poi sempre esclusi dal premio, come  Jorge Amado, Borges, Graham  Greene  (proposto da Gierow, che candida anche Ionesco), Mishima, Ezra Pound e Tolkien.

La candidatura di Montale

 Negli anni successivi si va  rafforzando sempre più la candidatura di Montale, anche per il decisivo appoggio di Österling (suo traduttore in svedese), ma la commissione Nobel negli anni ’70 registra il passaggio di consegne  della  presidenza  da Österling (che rimane in commissione fino al 1981) a Gierow, mentre come nuovi  componenti  figurano  Lars  Gyllensten  dal 1968 e Artur  Lundkvist dal 1969, ai quali nel 1972 si aggiunge Johannes  Edfelt.  Nel 1975 erano  in  lizza nomi di assoluto  prestigio,  da Bellow  a  Canetti, da  Garcìa Marquez  alla  Gordimer, dalla Lessing a Grass, da Naipaul a Simon, da Graham Greene a Nabokov.   A  far  pendere  la  bilancia  dalla parte  di  Montale con un  nuovo  Nobel  alla   poesia italiana       già   premiata 16  anni   prima con Quasimodo, furono diversi fattori, non ultimo quello del rammarico  per non aver premiato Ungaretti, scomparso nel 1970  e  impossibile da  premiare nel decennio  successivo  al  premio   a   Quasimodo.  Il quasi 80 enne  poeta  ligure aveva contro di sé  sia l’età avanzata, sia il pessimismo    indiscutibile che era al fondo della sua produzione lirica e che  infatti Österling  provvide a”neutralizzare” nel suo discorso ufficiale sostenendo che si trattava di un atteggiamento razionale non privo  di   fiducia nella capacità di andare avanti superando gli ostacoli. A distanza di quasi mezzo  secolo  dal secondo Nobel   per  la letteratura assegnato all’Italia nella seconda metà del Novecento, va anche ricordato   che  esistevano  ancora  nell’Accademia di Svezia, almeno  in   uomini come  Österlig,  un  rispetto   e  un’attrazione  per la patria di Dante,  tali  da fargli priorizzare  gli scrittori italiani con una certa cadenza regolare, sentimenti che oggi non esistono più o che comunque non sono abbastanza forti.

Figure haiku 1 Lucio Mayoor Tosi

Versi di Lucio Mayoor Tosi

Il Nobel a Dario Fo e il caso Albino Pierro

Il discorso è completamente diverso  per  il  Nobel assegnato a Dario Fo nel 1997, oltre due decenni dopo il premio a Montale  e  dopo anni di  furiose  polemiche   sui  giornali   italiani e svedesi per il sedicente veto posto all’“obbligatorio” Nobel per Mario Luzi da parte dell’Accademia di Svezia che sarebbe stata oggetto di forti pressioni delle autorità italiane, su iniziativa di Emilio Colombo, per far invece assegnare il Nobel al poeta lucano Albino Pierro. Ad orchestrare questa campagna era Giacomo Oreglia, un editore e traduttore  italiano attivo in Svezia fin dagli anni ’50, certamente non privo di contatti fra gli Accademici ma in guerra contro la Farnesina  per questioni  legate alla sua  pensione. Tra le asserzioni  di  Oreglia  figurava quella secondo cui le traduzioni di Pierro in svedese sarebbero state finanziate  con  molte decine di milioni di lire provenienti dal ministero degli Esteri, un’affermazione completamente priva  di  fondamento  ma che trovò  posto  ed  attenzione  in autorevoli quotidiani svedesi. La polemica si acutizzò in modo accesissimo proprio nel 1997 quando l’Accademia di Svezia, anche per chiudere una volta per tutte la tragicomica questione, assegnò  –  nello stupore generale  –  il premio al teatrante Fo, fortemente sostenuto dal suo autorevolissimo ammiratore Lars Forssell della commissione Nobel.

L’assenza di candidature autorevoli per la poesia italiana contemporanea

Il premio a Fo, giustificato dall’Accademia come un’apertura rivoluzionaria ad un nuovo settore della letteratura, apparve incomprensibile  a  tutti nel 1997 e  tale  è  rimasto  a oltre 20  anni dalla sua assegnazione, anche  perché  la produzione “letteraria” di Fo era stata documentatamente scritta in collaborazione  con Franca Rame  (se non addirittura solo da lei), tenuta  però  al di fuori del premio, un errore  palese  e  riconosciuto  in seguito,  in forma privata, anche da qualche responsabile di quella decisione. Negli anni successivi le maggiori possibilità  nella corsa al premio  sono  state  dei nostri narratori, anche  per  il  rimpianto dell’Accademia per  non  avere  fatto in tempo a  premiare Calvino, a cui il Nobel sarebbe immancabilmente arrivato se non fosse morto prematuramente. Anche Giuseppe Bonaviri, Alberto Bevilacqua, Sebastiano Vassalli sono scomparsi negli anni in cui le loro candidature al premio stavano  rafforzandosi, mentre finora  nessun  poeta ha raccolto  presso l’Accademia  il favore di cui a suo tempo e forse troppo abbondantemente godette la lirica italiana del secondo dopoguerra.

17 commenti

Archiviato in Senza categoria

ANTONIO GRAMSCI (1891 – 1937). Per la Festa dei Lavoratori. In occasione degli ottanta anni dalla morte di Antonio Gramsci, chiediamoci che cosa è rimasto di vivo delle sue elaborazioni e dei suoi interventi politici e culturali. Un bilancio è d’obbligo in tempi di restaurazione e di immobilismo delle classi dominanti.

antonio-gramsci-770x430

Poniamoci degli interrogativi: innanzitutto, possiamo ancora parlare di classe dominante? È ancora lecito adottare le categorie gramsciane di blocco sociale e di egemonia? C’è una classe al comando? O ci sono i bottoni del capitalismo internazionale? Un capitalismo globale che ha imposto, tramite la tecnologia, l’asservimento degli intellettuali e delle classi lavoratrici. Se mi guardo intorno vedo soltanto una moltitudine di gentes e di clientes, la ex classe media, che perde ogni giorno capacità di acquisto, status simbolico e in via di impoverimento, nonché il sorgere di un nuovo ceto esteso, il Ceto Medio Mediatico, come è stato battezzato, imbevuto di cloroformio con l’ausilio di un sistema informazionale complice in quanto dipendente dal capitale: un sistema di informazione salariato. Tutto ciò con la parola d’ordine che ci troviamo nel migliore dei mondi possibili, come dice Karl Popper, nel quale vige la libertà di parola, di pensiero e di scrittura. Sì, è vero, non siamo perseguitati per le nostre parole, ce ne stiamo comodamente seduti in poltrona, in casa e comunichiamo attraverso i social media. E la chiamano democrazia e libertà di stampa, lo chiamano il migliore dei mondi possibili. E forse è vero, è drammaticamente vero che ci troviamo nel migliore dei mondi possibili… E infine la questione nazionale, della ritardata unità d’Italia e la questione della Chiesa cattolica. Scriveva Gramsci: «Il Vaticano è un nemico internazionale del proletariato rivoluzionario», concetto da correlare con la insufficiente consapevolezza critica del marxismo italiano e dell’opportunismo politico che portò il PCI ad elaborare l’incontro con i cattolici sotto l’egida di una idea chiamata «cattocomunismo» durante gli anni Settanta e Ottanta, tutti problemi ancora oggi aperti che il pensiero critico di questi ultimi decenni ha evitato di affrontare. Siamo arrivati al punto che oggi la figura (il pensiero filosofico e politico di Antonio Gramsci) sia stata talmente depotenziata da essere perfettamente assimilabile nei canali della società mediatica, un po’ quello che è successo con la mediatizzazione della figura di Che Guevara: un bel volto da stampare sulle magliette e sulle cartoline.

Riallacciamoci a due concetti di Gramsci: blocco storico ed egemonia, possiamo dire che un filo conduttore  unisce questi due concetti. Com’è noto Gramsci riprende da Georges Sorel la categoria di blocco storico, e la correla con un nuovo concetto dei rapporti tra struttura e sovrastruttura. Secondo Gramsci il rapporto tra struttura (forze materiali) e sovrastruttura (ideologie) è dialettico: le ideologie senza le forze materiali sarebbero delle astrazioni fini a sé stesse e le forze materiali senza le ideologie non potrebbero essere colte nel loro nesso storico. La carica innovativa di questa rilettura gramsciana del rapporto struttura/sovrastruttura andava ad infirmare la concezione del marxismo positivo allora in auge secondo il quale era la sola economia a dare forma e contenuto alla sovrastruttura. Per Gramsci invece la struttura rappresenta il contenuto (la materia), mentre la sovrastruttura dona il proprio contributo in quanto forma.

Altrettanto importante nella concezione gramsciana è il concetto di egemonia, legato indissolubilmente alla nozione di blocco storico. Per egemonia si intende l’imposizione, da parte di un gruppo dominante, di una determinata visione dei valori dalla classe dominante alla classe subalterna. L’egemonia si verifica insieme al blocco storico quando c’è totale accordo tra la struttura e la sovrastruttura, quando le ideologie collimano con le forze materiali. Così si crea un unico blocco, il quale sarà destinato ad esser sostituito da un altro modello egemonico a seguito di una lentissima guerra di posizione. Il ribaltamento avviene infatti quando le forze materiali entrano in contrasto con i rapporti di produzione, ossia si manifesta un’incrinatura interna al blocco storico.

Sono fortemente convinto che le due categorie portanti del pensiero di Gramsci, il blocco storico e l’egemonia, oggi dovrebbero essere ripensate e riattualizzate alle condizioni dell’odierna fase di sviluppo del capitalismo globale e della rivoluzione internettiana, a fronte del quale il capitalismo monopolistico e protezionistico del suo tempo appaiono cose del Cretaceo superiore.

Giorgio Linguaglossa

antonio-gramsci2

Citazioni

Non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens. Ogni uomo infine, all’infuori della sua professione esplica una qualche attività intellettuale, è cioè un “filosofo”, un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea di condotta morale, quindi contribuisce a sostenere o a modificare una concezione del mondo, cioè a suscitare nuovi modi di pensare. Continua a leggere

12 commenti

Archiviato in filosofia, Senza categoria

Giovanni Boine (1887-1917) POESIE SCELTE La punta dell’iceberg a cura di Chiara Catapano

citta-il-tram-elettrico

il-tram-elettrico

Mi viene in mente un’eccellente antologia poetica (Poeti italiani del Novecento, Mondadori, 1978) a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, in cui chi volesse farsi un’idea del panorama poetico italiano durante tutto il Secolo breve, troverebbe grande soddisfazione. Qui davvero è distillato il succo del nostro ‘900, qui davvero si attraversano città e paesi d’Italia e la poesia ti si mostra con cristallina chiarezza. Qui anche Giovanni Boine ha un suo posticino: pagine 415-419. E non è poco, se teniamo presente che nella maggior parte delle antologie scolastiche e non di Giovanni Boine non v’è traccia alcuna. Mengaldo nella sua nota all’autore ci ricorda che “si avrebbe torto a concentrare” sulla produzione poetica dei Frantumi “l’interesse critico, come si è pure fatto di recente: altrettanto e più rappresentative del loro autore, e delle sue spesso irrisolte tensioni, sono infatti la prosa morale, ad esempio, di Esperienza religiosa, quella convulsamente psicologica del romanzo Il peccato, o la critica intensa e così spesso acuta di Plausi e botte”. Mengaldo in questa sua introduzione rende un gran servizio e al Boine, e ai lettori: riabilita dopo decenni d’ingiusto oblio gli scritti boiniani nel panorama della più alta tradizione letteraria italiana. Carlo Bo farà passare ancora un ventennio per giungere alle stesse conclusioni. Mengaldo ci avverte che quanto stiamo per leggere è solo la punta dell’iceberg.

Chi partisse a conoscere Boine dalla produzione poetica dei Frantumi, com’è capitato anche a me, si troverebbe in grande imbarazzo, piuttosto sconcertato e certo confuso, perché vedrebbe aperta davanti a sé una strada che – contestualizzata agli anni in cui apparve – risulta chiaramente non ancora battuta. Un sentiero vergine e ricco di nuove specie, che vorremmo sapere dove porta senonché ecco! termina bruscamente e in mezzo ad intricatissima vegetazione, con la morte dell’autore. Mappe per uscirne Boine, per quanto incomplete, ce le ha lasciate: tutta quella produzione sommersa fino a pochi anni fa, fatta di lettere, saggi, articoli e diari.

Giovanni Boine nasce a Finale Marina, in Liguria, nel 1887. Vive l’ambiante della provincia e, spesso in polemica con gli amici della rivista fiorentina la Voce, rivendica la sua appartenenza a un ambiente culturale marginale ma vivo, spesso più lucido nei giudizi e nelle intenzioni, come vuole dimostrare partecipando attivamente alla rivista di Mario Novaro, la Riviera ligure. Rivista questa senza programmi, e stiamo già registrando la prima bizzarria, nell’epoca dell’impegno e degli “–ismi” serpeggianti tra gli intellettuali italiani all’alba della I Guerra Mondiale. Ma proprio questo piace a Boine: libertà di dire, disomogeneità dei testi, ampio respiro di contro al cappio dell’asservimento a qualsivoglia programma. Partecipò anche alla Voce di Prezzolini, ma sempre in polemica e pronto all’affondo dinnanzi alle virate alla dove va il vento, eccessivamente utilitaristiche della compagine fiorentina (“Chi è d’accordo mandi formale adesione per lettera, chi no buona notte”). Ma certo è alla Riviera ligure che Boine affidò i suoi testi senza mai doversi preoccupare di epurazioni e scontri ideologici. Nella rivista di Novaro, Boine prenderà in mano la rubrica Plausi e botte: pagina di recensioni “con gli umori” dei libri contemporanei in uscita. Claudio Magris ha sottolineato a tal proposito lo spessore di questa sua produzione, indicando in essa più un libro di letteratura che sulla letteratura. Le recensioni sono 87, e Boine dà giù più di botte che di plausi, senza peli sulla lingua e senza risparmiare stoccate anche agli amici (e soprattutto a loro, poiché a loro teneva e non sopportava i rammollimenti letterari di chi si sentiva già in cattedra) come Soffici e Papini, quando percepiva in loro una piega al ribasso, un intorpidimento che non ammetteva negli uomini d’ingegno. Apertamente divertenti le critiche a libri che non meritavano molta attenzione; oppure volutamente polemiche per “buttarla un po’ in caciara” altre. Ma non vanno dimenticati gli articoli, ampi, di lucida presenza e coscienza letteraria, dedicati a poeti allora sconosciuti che Boine veicolò (per primo scoprì, mi vien da dire) come Clemente Rebora, Camillo Sbarbaro, Dino Campana, Vincenzo Cardarelli.

giovanni-boineC’è pure nella sua produzione il romanzo. Anzi, si può affermare che Giovanni Boine fu l’antesignano del romanzo novecentesco, anticipando Italo Svevo e il suo Zeno. Giancarlo Vigorelli ci ricorda che James Joyce, mentre a Trieste scriveva l’Ulisse, teneva sul comodino Il peccato. Non è un particolare irrilevante, e va collegato all’aspra polemica con Benedetto Croce, alle cui teorie Boine opponeva la propria “estetica della simultaneità”. Scrive Boine a proposito del suo romanzo Il peccato: “L’intenzione generale era di rappresentare quel lirico intrecciarsi di molto pensiero sulla scarsezza di pochi fatti: quel continuo sconfinare della poca cronistoria esteriore nella contraddittoria, nella dolorosa, angosciata complessità del pensare che è la vita di molti e la mia”. La vita, questa la chiave in fondo di ogni sua pagina: la vita e la regola, la vita e il canone, la vita e la tradizione. La vita e la storia. E l’intreccio tra l’una e le altre, il groviglio doloroso la cui soluzione per alcuni è la fede, per altri la legge. Ma Boine, che non riesce ad esaurirsi in nessuna delle due dimensioni, sentirà per tutta le sua breve esistenza la tensione tra i due poli, separati ma non distinti. E non sappiamo quale soluzione avrebbe potuto tentare, se una ne avesse infine tentata; siamo al punto di partenza, nello sconcerto e persi in un sentiero d’intricatissima vegetazione.

Giovanissimo, intesse un breve ma intenso scambio epistolare con Unamuno  (dicembre 1906 – marzo 1908) del quale tradusse il saggio “Inteligencia y bondad” e recensì “Vida de Don Quijote y Sancho”, “Soledad” e “Plenidud de Plenitudes”. Era quello il periodo modernista di Boine, della rivista “Rinnovamento”, della lettura di Tyrell e von Hügel, dell’enciclica “Pascendi dominici gregis” (8 settembre 1907) e delle scomuniche, della ricerca attiva e partecipata al rinnovamento spirituale inteso nella sua dimensione comunitaria, prima del ripiegamento verso una dimensione intima e soggettiva della fede, come la descriverà nel suo saggio “Esperienza religiosa”.

Giovanni Boine non si lascia afferrare da poche righe, benché, se vogliamo, il suo pensiero di fondo, meglio il suo rovello, è sempre presente e dichiarato. È scrittore che non si esaurisce, l’opaca patina del tempo non ne offusca la lingua e lo stile. C’è da dire che quanto scrisse fu sempre vissuto, e se esercizio letterario vi fu (sappiamo per certo che le sue liriche non furono, come a volte afferma, scritte di getto, ma subirono il cesello di accurate revisioni perché rientrassero in una forma musicale perfetta) fu esercizio di muscoli interiori: esercizio, si può dire, di fede. Boine richiede a tutti uno sforzo superiore, pretende nel lettore la scintilla dell’intelligenza, che significa approfondimento ma pure capacità di illuminare le cose attraverso l’ironia. Richiede tempo, non lo si consuma in pochi attimi. Non è lettura-fast food.

Per questo, a mio avviso, ancora più importante riscoprirlo ora, in un’epoca di estremo spaesamento, crisi dei costumi, imbarbarimento con un portone aperto verso possibili futuri che richiedono capacità di ragionamento, approfondimento, inventiva e profondissima umanità.

Giovanni Boine si ammalò di tisi negli anni del liceo, a Milano, e non vide il chiudersi della guerra; la malattia lo costrinse all’inoperosità, all’indigenza e ad una morte precoce. Morì il 16 maggio 1917 a Porto Maurizio.

A breve uscirà per la Fondazione del Museo della Storia di Trento, a cura del prof. Andrea Aveto, della sottoscritta e dello scrittore Claudio Di Scalzo, la riedizione dei suoi “Discorsi militari”, dalla prima edizione come approvata e voluta dallo scrittore.

A chi desiderasse conoscere l’autore e le sue opere mi sento di consigliare un inizio dal ricchissimo epistolario (G. Boine, Carteggio, 5 volumi, a cura di Margherita Marchione e S. Eugene Scalia, Roma, Edizioni di Storia della Letteratura) arricchito di recente dal prof. Andrea Aveto (Giovanni Boine – Adelaide Coari, Carteggio 1915 – 1917, Città del Silenzio, 2014), attraverso il quale è possibile ricostruire l’uomo e il suo tempo, quasi respirarlo e viverlo. Ed anzi di cuore io mi auguro che presto il piccolo cimitero di Porto Maurizio possa conoscere nuovi amici che, senza enfasi retoriche, desiderino posare un fiore sulla sua lapide.

Quanto segue è solo un breve assaggio della ricca produzione di prosa poetica boininana, raccolta sotto il titolo di Frantumi, qui assieme a due estratti (uno commosso, l’altro polemico-umoristico) da Plausi e botte. Ancora per certi tratti controversa è, in alcuni punti, la scelta editoriale della produzione poetica: Boine morì lasciando incomplete le sue carte e il suo primo curatore, l’amico Mario Novaro, scelse spesso con molta libertà tra i quaderni e diari dello scrittore cosa dare alla stampa. Sappiamo che lo stesso titolo Frantumi è una scelta postuma, e che Boine mai progettò un libro in tal senso.

Ciò nulla toglie all’estrema novità e forza di questa voce che continua a levarsi netta e distinta, benché spesso ignorata, di un autore che usa la carta come pentagramma e affila le parole sulla propria esperienza interiore, perché, per dirla alla Boine, di cos’altro si può parlare se non di se stessi.

gif-citta-rotaie

BISBIGLIO E VESPERO

– E che vuoi dire? È tutto detto ormai. – Andiamo accanto per la sera queti, zitti, come in una culla di bontà.

– Però questo non dire mai, fa groppo, amico! C’è non so che intoppo, dentro, che non lascia dire.

– Perché, se dici, è un po’ un ubriacamento. Uno si spende con facilità; ma poi nel vuoto ripunge il tormento.

– Oh se lo so! Si soffre allora di profanazione… Le cose fonde non si posson dire. Non c’è che dire le inutilità.

– E già: non si può dire la disperazione! Si dice, si ride infine si fa ciò che agli altri più cale: gai si gira attorno all’essenziale buio.

– Oh amico! e questo è il male atroce della solitudine in mezzo agli uomini. – Che insopportabile soffrire essere sempre come agli altri cale, ma non poter scordare, non poter mai dire!

– E dunque ormai che vuoi tu dire? È detto tutto. – Andiamo queti per la sera accanto, in questa zitta culla di bontà.

***

I CESPUGLI È BIZZARRO

– I cespugli è bizzarro come crescono di nero a l’ora bigia degli ottobri! Il mare tetro fiotta nel crepuscolo come una fantasima… Allora nel cavo degli scogli gorgoglia a riva un pauroso ventriloquio di silenzio.

– Va con piedi di feltro e voci di secreto la frotta dei tornanti: tutta d’ombra. Escono dai cavi, quatte l’ombre: i sogni delle cose, piano, fumano e pigliano statura. Allora finalmente stano l’anima di dentro, e “guardare” è tollerabile.

– Apro gli occhi di macerazione a questo mattino-di-sera, a questo mattino notturno, che finalmente il mondo disgela e tutto si popola d’anima: è muto e cieco, ma d’indecifrabili mitologie.

– Strisciano dal gorgo del lucido buiore ecco i pesantidraghi, goccianti come coccodrilli, dove il ponte è capovolto.

– Torme pronte di mistero subito al limite dei boschi fanno ressa, fan marezzo come i mostri dietro i vetri dei marini acquari.

– Dico fiat: l’aria viscida si manipola di febbre, ma con che? è con fughe, con spaurite d’ali. Verso dove? È con echi di spettrali lontananze.

– Si sformano le forme dell’opacità, i lieviti s’esaltano degl’impossibili; e per esempio! quel dorso idillico della consuetudine oh oh come getta i getti enormi dell’apocalittica verzura! salgono a prova per zampilli sovrapposti, salgono, s’incurvano con zitti scrosci. Eruttamenti sono di vulcanico fogliame nero, eufrati di radure come lave verdi che dilagano.

– Ed ora, dentro dentro, ora dentro, il denso è impenetrabile! Nessuno mai saprà (nessuno!) che mostro vi si celi né in che antro. Il fiato di caverna, respiro muto, esala; farà d’intorno un abbandono secolare. Il volo cauto degli uccelli passerà lontano ratto, come dall’albero tropicale dei veleni: – lo starnazzo triangolare degli spettrali gru, le frecce nere-stridule delle fughe dei rondoni, come il sonnifero ronzio delle mille api quando a cerca fanno l’estate elementare. Che deserto, e che deserto! Non si vedrà un vivente, né un insetto per trecento miglia di disperazione! la terra intorno vi sarà gelida e sassosa. Ma ritta la babele verzicante con le danze delle liane medusine, le cascate delle cupe edere e i pitoni attorcigliati degli immani tronchi per le altezze, lo sperduto leone con fulva posa di pavido stupore, con occhi di sgomento, un attimo voltandosi fino ai cieli la vedrà, fino ai cieli dell’immobile diamante, mareggiare buia, senza scroscio senza vento, senza fruscio nell’estatica aspettanza, sotterraneo celando il freddo di un incomprensibile segreto.

– Tutto il mondo si disgela in addobbo primigenio: piano, lente si disgroppan le potenze dell’oscurità. Allora l’anima svolazza pel suo caos con volo ambiguo di stregoneria, come il ribrezzo flaccido dei vipistrelli. Libidinosamente, allora l’anima diguazza i nenufari dei pantani favolosi, ittiosauro senza morte di prima d’ogni tempo. – Fuori d’ogni tempo “guardare” è tollerabile un più fedele specchio di questa oltreumana cecità.

– Però, però, lenti, non basta per le sere andare? Subito le chiuse della valle son sprofondi gonfi di tenebrore. Come si sfa nei biechi fiumi l’insostenibile solennità!

– A l’ora fonda delle confessioni questi passanti radi sono larve. Dove dove sono le baldanze delle luci? La valle di delizie, come furtiva geme nell’opacità! Come come sottovoce geme a l’ora fonda della verità!

– Quanto alla via e dov’è la via? è un biancore appena, oramai non porta a nulla. Di qua o di là? Ormai la meta è il nulla.

– Sono i paesi di fosforescenza, non hanno solidità. Ma dentro all’acqua quel fanale verde che si spande, giù dilaga fino a me, fa una scia di sogno per le fluidità.- E questa mi sia la via nell’ora fonda della verità.

***gif-vulcano-e-citta

A TAGLIARE GLI ORMEGGI

A tagliare gli ormeggi il vento via ti soffia. Però non si sa dove.
E sia per dove sia! il vento mi strappi via, della disperazione.
Però a scrutarmi nell’oscurità, che gemere, che smarrimento!
Però a cercarmi nella mia pietà stringo le mani in contorcimento non so che Iddio scongiuri per esaudimento nella improvvisa ingenuità.
Non v’è luce nell’opacità! Limai le sbarre di questa prigione: verso la liberazione l’anima ruppe con voracità. Ma porto fu il nulla.
Ormai non ho più nulla da via buttare son nudo fino all’anima non sono che un’anima tutto son fatto di tristezze amare e di sgomento. Senza meta e per disperazione reggo contro me in ribellione ma il nulla fa spavento.
Signore questo rotto corpo, non mi porta ormai non mi conforta pei chiari occhi la sanità del mondo. Qui giaccio qui lento mi disfaccio gemebondo. Oltre al corpo cercai Signore, ansioso le tue porte; sprofondo ora spento nel disfacimento della morte.
Non c’era vero nella verità!
Squamai le fedi ad una ad una con tenacità in cerca della mia, scavai la via pesta della consuetudine. Giunsi all’amaritudine bieca di questa solitudine. E sosta mi fu il nulla oh amici! A tagliare gli ormeggi il vento via ci soffia. Però non si sa dove.

Con nocche di sangue in cima alla scalea scuoto in angoscia la porta di bronzo: sono un perduto nell’eternità.
M’abbranco naufrago alla disperazione; tutto son teso nell’invocazione; – di qui qui qui all’eternità! –

***

PROSETTE QUASI SERENE

Pignolo al mio lucarino

– Il lucarino che ora gli parlo nella sua gabbiuzza appesa, e spia coll’occhio di spillo così malizioso se ho fra dita il pignolo, quando dentro lo chiusi che fu un ottobre al tempo del passo e lo comprai da quell’uomo che lo fa di mestiere: li porta giù la mattina a dozzine in uno scatolone di tela;

– tu dicevi che ci sta bene colla sua scagliola da un canto, e dall’altro, proprio adatto a per lui, il coppettino bianco dell’acqua. Ma gonfiò a pallottola le piume arruffate sullo stecchino ritto della sua zampina, e stette per molto così… come assonnato sulla cannuzza a mezz’aria. Pareva ci facesse il broncio o si dovesse morire. Così tu non ci badavi più e te lo eri scordato.

– … Ma la mattina che poi si destò: su giù, su giù, il becco tra ferro e ferro a tutti i ferri lo ficcava un attimo! Innanzi indietro, a passi a voli, in ansia di febbre… parevano sbarre di galera.

– L’occhio fisso era grande come l’occhio umano; tutto cupo il corpo: su giù (cinque passi ha una cella, non di più!) non diceva nulla, cercava un varco.

– Era così chiuso, così nero il suo sonno la sera, monco-ravvolto! Pigliava forza, duro, per il suo cammino. Il domani non diceva nulla: su giù su giù, su giù… Quando immobile come in corruccio si rincantucciava, quel vagabondo così disperato, d’improvviso bocconi lungo la via, mi tornava la sua macchia sparsa, un braccio innanzi teso, e lo sgomento…

– Tu ogni giorno, perché non cantava mai, dicevi: “apriamogli!” Però io, non potevo più: – zitto gli davo lattughe, senza spiegarti. – Piano piano, allora cercò la verdura tenera che geme, e poi la lucertola del suo capino la tuffava ciuff! nell’acqua lustra: tutt’intorno se ne fa rugiada. Cominciò, anche, fra sé quei gorgheggi sotto voce e lunghi che parevano discorsi a qualcuno … e s’acquietò.

– Tutto il giorno lo passa ora sulla scagliola d’oro, e, la pula, stringe l’occhietto e la scartoccia svelto. La cannuzza liscia a mezzaria è come una frasca alta di olmo; lo spazio quadro, un cielo. Sta lì… salta là, frulla qui; che deve fare? i suoi ciccì ci gargarizza, tristi o lieti e guarda il vuoto.

– Quando improvviso batte l’ali in vertigine e si giù, su giù ricomincia, e su giù su giù ci s’affanna come se ricordasse, tu allora dici: “ma che ha? par pazzo!” Io gli sto attento, con non so che ansia… – Ma il suo piacere anche lì ce l’ha: cerca il pignolo che a volte gli mostro; mi chiama mi fa festa, corre incontro ansioso. E quando gli incastri tra i ferruzzi dritti la ciliegia gonfia, allora ci si affonda pronto con occhi di ghiotte risa.

***

VEGGO AL DI LA’

– Quando la febbre degli orizzonti m’ossessiona giù alle pronte partenze dei porti, dove sbandierano addii le laceranti sirene e grugniscono al levarsi, le ancore, di felicità.

– Gonfia rigonfia il desiderio come la incandescente calura nei delirii d’estate.

– Allora improvviso lo sgomento delle squallide consuetudini, dietro a me con ansimo scava il pantanoso vallo della repugnanza;

– in scatenato fremito, balzo nell’ondulante scafo, sciolgo la gòmena, armo i due remi e ritto vogo l’impeto della vastità.

– Oh va! Oh va! rompe la prora il blu, scavalco sull’immensità, ciò che già fu, si fu, il mare non è più, s’avanza una città.

– Sciacquo alle falde degli altissimi cumoli; a picco si spaccano i bianchissimi monti e veggo per lustro smeraldo, allora, al di là.

– Veggo al di là, veggo al di là la strana città, ch’è tutta d’oriente e di selve, tutta di ricco abbandono, calda e beata di nudità.

– Oh va, oh va! molle-distesa serenità, occhi languenti di voluttà, fiumi fluenti di felicità, brezze tepenti di tranquillità…

– Rompe la prora pel blu, ciò che già fu si fu e niente non è più. Oh va oh va oh va!

***

FRAMMENTI

1
Talvolta quando al tramonto passeggio stanco pel Corso (ch’è vuoto), uno che incontro dice, forte, il mio nome e fa: “Buonasera!”
Allora d’un tratto, lì sul Corso ch’è vuoto, m’imbatto stupito alle cose d’ieri e sono pur io una cosa col nome.

2
Quando ti stringo la mano e tu ripigli sicuro il discorso d’ieri, non so qual riverbero giallo di ambigua impostura colori di dentro l’atto di me che t’ascolto. Fingo d’esser con te e non ho cuore a dirti d’un tratto: “Non so chi tu sia!” Amico, in verità, non so chi tu sia…

3
Mi fermi per via chiamandomi per nome, col mio nome d’ieri.
Ora cos’è questo spettro che torna (l’ieri nell’oggi) e questa immobile tomba del nome?

4
Tepido letto del nome, sicura casa d’ieri! Soffice lana dei sofferti dolori, sosta ombrosa delle lontane gioie: nave sul mare, zattera di naufraghi.
Ma l’oggi è, via, com’una cateratta aperta. Nubi cangianti nell’abissale cavo del cielo.

5
Tu resti saldo-piantato nell’ieri, specula alta dell’oggi, ed attento vi spii tutte le cose, ciascuna secondo il suo nome.
Che nessuna ti sfugga ecco il tuo ufficio, e che tutte si seguano secondo l’ordine giusto. Che tutte s’incastrino e facciano insieme un regolato disegno. Che nessuna ti sfugga, né vi sia salto.

(…)

9
Il mio nome è Giovanni e se mi chiami, pronto rispondo. Adesso e nell’ora della mia morte. Appena il mattino su, faticoso, mi issa dalla nube varia del sogno, mia madre dice piano: “Giovanni!” alla porta socchiusa; e, quasi, io sono di nuovo.

10
Non mi torrete il mio nome; lo imbraccio come uno scudo. – Tra lo sbigottimento dell’oggi e l’ieri vissuto ho messo a ponte il mio nome.

(…)

25
Il mio nome è Oggi e la mia via si chiama Smarrita. Non ci sono insegne ai bivi dell’andare mio, e non so s’io abbia imboccato a man dritta.

(…)

30
S’io godo della mia gioia e dico “così ogni mia ora!” ecco d’un tratto mi si leva dentro l’amarezza del pianto come una nebbia da una nera palude.

31
E vuoi ch’io prometta se non so del domani? Non intendo che cosa sia “promessa”.

32
Tra dieci anni ci rivedremo? Ma chi tu vedrai fra un’ora? Ahi, che bastò il giro d’un giorno!

da PLAUSI E BOTTE

  1. [Clemente Rebora, Frammenti lirici, ed. Libreria della Voce, 1913]

(…)

E poiché ho accennato di canzoni dantesche, dirò ch’io respiro in questa nuova poesia non so che di vigorosamente antico nel sentire e nel ritmo, nello strappo, nel piglio meravigliosamente robusto della frase, nell’interiore leoninità della mossa; (in questo suo vittorioso tormento fra la tremenda vastità del cosmo ed il dolore dell’effimera umanità,) dirò ch’io vi respiro qualcosa di nostro, di tradizionalmente, di virilmente e complessamente italiano, com’è italiana la lirica di Dante, di Michelangelo, di Campanella e di Bruno, (com’è italiano Leopardi.) E ch’io, anche qui, non oserò mai come i dominiddio della critica si permetton di fare, o chiudere o aprire l’avvenire a nessuno, perché l’intimo degli uomini si strafotte delle previsioni dei critici e vivaddio di ogni previsione. (Perché io dico con certezza: qui ciclopicamente vive, qui si dibatte, come un maglio, come un rosso ferro che strida e che suoni – che si lamenti tinnulo – in una fucina, un cuore, e non so affatto, non voglio sapere qual forma qual iridata incandescenza nuova sarà per pigliare all’ansito nuovo del nascosto mantice, quale ispirazione ispirerà il suo futuro canto); ma segno qui, mi vien voglia di segnar qui per parecchia di codesta poesia un anno durante inosservata, (per ciò che è e dentro quasi per echi vi posso auscultare, traudire, intuire,) mi vien voglia di segnar commosso qui la parola GRANDE.

  1. (…)

“Egregio Signore,

Le invio con questa un plico di stampe (raccomandato); il mio nome è già comparso sulla “Riviera” una volta quale dedica a una delle liriche di Giannotto Bastianelli ecc. vedi R. L. 1 Novembre 1915. Con la speranza d’averla accontentata aspetto una risposta relativa all’eventuale pubblicazione della lirica speditale. Con ossequio Piazza Pitti 10 ecc. P. S. Del mio libro àn già benevolmente parlato in giornali e riviste, Paolo Buzzi, Titta Rosa, Emilio Settimelli, Remo Chiti, F. Meriano, Enrico Pessina, L’Iniziativa, ecc.”

Ah Signor Franchi (Raffaello Piazza Pitti 10) davvero lei ci ha messi in un bell’impiccio! E come diamine si fa ora, con tutti codesti nomi? Perché a noi viceversa queste sue faccende qua e là seminate per sti fogli così autorevoli d’ogni parte d’Italia, ci ricordan niente più di quelle caccarelle tonde e secche, di capra e pecora, su pei sentieri qui dietro in campagna, che stan lì tra’ sassi una qui due là quasi nere come una sementa spersa. I bimbi cittadini talvolta quando salgono si riempiono le tasche od anche le provano un po’ in bocca, come se fossero gustose bacche; e, giusto, lì accanto ci trovi spesso quei buffi maggiolini stercorari che contro puntateci le uncinose gambettine dal di dietro, su su faticano, spingono a ritroso, gamberi di terra ferma, così curiosamente! Ma bacche puah! non sono e subito si sputano; e sementa manco. Germogliare non germogliano, o se germoglian che mai si posson germogliare? sempre e sempre, nient’altro mai che aride caccarelluzze di capra.

Concludendo: onorati siamo che si riterrebbe, di alla Riviera collaborare onorato, e ci piace che la segua e proprio, infine le piaccia. Certo Pickwick, Forca, Fuoco, Iniziativa ecc. fan tutti insieme davvero una lodevole e nobile Eco della più propriamente italiana coltura e consideriamo dunque lei che dentro così rispettosamente v’è accolta quasi diremmo uno specimen ovverosia campione di essa medesima. Ci duole il cuore sa, Signor Franchi Raffaello! (…)

chiara-catapano-rosso

chiara-catapano

Chiara Catapano nasce a Trieste nel 1975. Studia filologia bizantina con il prof. Paolo Odorico e si trasferisce per alcuni anni ad Atene e Creta, dove approfondisce i suoi studi su cultura e lingua neogreca. Collabora con il Museo storico del Trentino per il quale sta curando la riedizione dei Discorsi militari di Giovanni Boine. Suoi articoli e testi creativi sono apparsi su riviste cartacee e online italiane ed estere. Dirige assieme a Claudio Di Scalzo la rivista transmoderna Olandese Volante (www.olandesevolante.com). Traduce dal greco moderno (Ioulìta Iliopoulou, Agathì Dimitrouka). A luglio 2014 ha presentato al festival Stazione di Topolò la raccolta di poesie La graziosa vita, edita da Thauma edizioni sotto l’eteronimo di Rina Retis.

19 commenti

Archiviato in critica della poesia, poesia italiana, poesia italiana del novecento

 PASQUALE BALESTRIERE: LE RADICI DELLA POESIA DI DINO CAMPANA (1885-1932). Nel centenario della stampa dei “Canti Orfici” con una scelta delle poesie dell’autore.

Bello The_Scream___Eugeal_version_by_eugeal

The_Scream___Eugeal_version_by_Eugeal

Commento di Pasquale Balestriere

Piero Bigongiari nel 1959 includeva i Canti Orfici di Dino Campana tra i venti libri del Novecento da salvare . Dopo poco più mezzo secolo il poeta toscano trova solo breve spazio in diverse antologie scolastiche ed è generalmente sconosciuto ai giovani che hanno compiuto un regolare ciclo di studi medio-superiore. Recentemente (soprattutto dagli anni Novanta in poi) si è manifestato  un risveglio d’interesse nei confronti di questo artista che è, anche per vicende biografiche, l’unico vero esempio di “maledettismo”  -autentico, dico-  (e non, come accade oggi in qualche discutibile poeta, esibito, se non addirittura ostentato) della poesia italiana.

Dino Campana (Marradi 1885 – Castelpulci 1932) ebbe un’esistenza vagabonda e travagliatissima. Una grave forma di psicopatia, manifestatasi vero i 15 anni, gli fu compagna assillante e tremenda. Nel 1913 aveva già scritto i Canti Orfici, unica sua opera (se si eccettuano alcune pubblicazioni postume di “carte” campaniane curate da vari studiosi), della quale lo stesso Ardengo Soffici non comprese appieno il valore se è vero che, avendone addirittura smarrito il manoscritto, purtroppo in unico esemplare, costrinse il Campana a ricostruire mnemonicamente la raccolta. E pensare che lo sventurato Dino sperava nell’aiuto di Soffici e della redazione di Lacerba (innanzitutto di Papini, che per primo aveva avuto tra le mani l’opera) per la pubblicazione dei suoi versi! Così i Canti Orfici vennero stampati nel 1914, a spese dell’autore, presso il modesto editore (o tipografo) Ravagli di Marradi. I primi studiosi ad interessarsi di quest’opera furono, manco a dirlo, i critici militanti di quel periodo: Giuseppe De Robertis, Emilio Cecchi, Giovanni Boine. Poi, nel corso del tempo, hanno scritto di Campana biografi, esegeti, poeti, narratori, critici: da Mario Luzi a Giorgio Bàrberi Squarotti, da Carlo Bo a Franco Fortini, da Antonio Tabucchi a Sebastiano Vassalli, da Gianfranco Contini a Eugenio Montale, da Gianni  Turchetta a Luciano  Anceschi, giusto per citarne alcuni.

Ardengo Soffici Chimismi

Ardengo Soffici Chimismi

Ma perché Canti Orfici?

Va innanzitutto precisato che il titolo originario della raccolta manoscritta, quella affidata a Papini, che l’aveva passata a Soffici,  era “Il più lungo giorno“. Il caso ha voluto che la raccolta venisse ritrovata nel 1971 nel mare magnum delle carte di  Soffici (morto nel 1964) nella sua casa di Poggio a Caiano.

Per ritornare alla domanda, occorre dire che nel 1910 Domenico Comparetti pubblicava a Firenze un’opera fondamentale per la conoscenza dell’Orfismo: la silloge delle Laminette orfiche, sottili làmine d’oro rinvenute in tombe di alcune località della Magna Grecia e della Grecia stessa, che sembrano essere le uniche testimonianze dell’ escatologia di tale dottrina. È noto, infatti, che l’Orfismo fu un culto misterico (“il più misterioso dei misteri greci”, lo definisce Vincenzo Cilento) che si collegava in qualche modo al mitico Orfeo, poeta, vate, e citaredo, del quale il Böhme sostiene addirittura la storicità, collocandolo, cronologicamente, in piena età micenea (XV/XIV sec. a. C.). E quindi Orfeo sarebbe vissuto prima di Museo, Omero ed Esiodo.  Dell’esistenza di un credo orfico offrono testimonianze degne di fede Pindaro, Empedocle e Platone ma soprattutto le cosiddette “lamelle auree”, le già citate laminette d’oro sulle quali sono incisi ammaestramenti ai defunti e formule sacre: esse sono state ritrovate, quasi sempre in tombe, a Thurii, Petelia, Farsalo, Eleutherna (Creta) e Hipponion. Il culto orfico, praticato da una setta di iniziati, non ebbe mai larga diffusione per la sua dogmaticità e per l’eccessiva imposizione di divieti (molti   accoliti in più  ebbero i misteri eleusini); si affermò quando vennero meno le “poleis” e con esse la religione omerica, promettendo all’uomo greco, in ambasce religiose, una eroizzazione (più che divinizzazione) del miste.

È lecito chiedersi a questo punto in quale misura l’Orfismo abbia influito sulla produzione poetica di Campana. Ho già detto che la silloge comparettiana vide la luce nel 1910 ed è noto che nel 1913 i Canti Orfici  erano praticamente composti; nel 1914 infatti vennero dati alle stampe.  Mi pare dunque difficile che la pubblicazione del Comparetti abbia potuto incidere a fondo sulla poetica di Campana; verosimile è invece che essa, come afferma il Galimberti, abbia avvicinato il poeta alle fonti più pure dell’Orfismo, già del resto conosciuto, forse attraverso Nietzsche e Rohde.

Bello Starry_Night by Eugeal

Starry_Night by Eugeal

Uno degli aspetti orfici più eclatanti in Campana è il titanismo, venato di colpa, di scelleraggine, di perfidia; il quadro però si slarga in una visione amplissima, variamente colorata e infine analogica: titano è Adamo, è Lucifero, è Faust, è l’uomo, è chiunque si ribelli all’autorità costituita; ma, orficamente, è impuro, è colpevole (e Campana non sentiva colpevole la sua stessa follia?); pertanto, chiuso nel ciclo delle nascite, trova in questo il suo limite e la sua speranza di salvezza.

Più che all’escatologia orfica la spiritualità di Campana sembra protesa allo svelamento del mistero che circonda l’uomo e la sua vita: l’orfismo misterico e misterioso gli offre allora l’espressione –Canti Orfici– adatta ad indicare il sordo lavorio di scavo e di ricerca, l’affannoso impegno poetico che gli consente di strappare alla fitta ragnatela del mistero l’immagine poetica, incerta e torbida, e di cristallizzarla in religione e mito, motivo e scopo dell’esistenza; sicché lo sguardo allucinato del poeta si fissa a scrutare una realtà profonda e oscura che reclama di essere condotta alla luce; e forse Campana sente di dover indossare i panni del poeta-vate, ierofante e profeta, titano e uomo.

Come che sia, un fatto appare indiscutibile: Campana ha fatto tutt’uno della sua vicenda biografica e della rappresentazione poetica: vita e poesia, quotidianità ed estasi, serenità e pazzia si fondono senza soluzione di continuità.

Non è da credere però che Campana non abbia avuto ascendenti culturali, del resto ben individuati: Carducci, Pascoli, D’Annunzio, Poe, i preromantici e i romantici, Nietzsche, Rimbaud; così l’io titanico che si esprime nei Canti non sarebbe comprensibile né spiegabile senza tener conto della Geburt der Tragödie (Nascita della tragedia) nicciana  o de Le bateau ivre (Il battello ebbro) rimbaudiano; e l’intero mondo lirico non sarebbe rettamente interpretato senza certe mediazioni dannunziane e romantiche o senza la lezione poetica e morale carducciana.

de chirico l'eterno ritornoDino Campana, “poeta maledetto” della letteratura italiana non ha trovato finora, come ho già detto, veri continuatori, anche se ha determinato influenze letterarie, come nel caso degli ermetici e di certa recente poesia: il fatto è che sul suo sostrato culturale e sulle sue esperienze biografiche s’innesta una tendenza odissiaca e avventurosa unita a una predisposizione, non solo  visiva, come pur sostiene qualcuno, ma  visionaria, che attentano all’integrità del mistero e quindi richiedono lo svelamento o, almeno, l’intuizione della vera realtà, dell’inconoscibile, con tutta l’acutezza morbosa e le innumerevoli possibilità di “lettura”, di interpretazione e di discorso poetico che solo l’autentica genialità,  magari -come nel nostro caso-   venata di follia, può consentire. Per questo la strada percorsa da Campana è rimasta impraticata; per questo i Canti Orfici non sempre trovano piena realizzazione artistica; ma per questo, anche, esistono.

A questo punto si può tranquillamente affermare  che Campana ci ha lasciato un guizzo d’umanità inquieta, che cerca di superare e spiegare una foresta di simboli, tipicamente baudelairiana, attraverso l’onirismo evocativo e medianico, le folgorazioni improvvise, le sciabolate di luce torbida, creando immagini spesso solo accennate, ricche di colore, di suggestioni e rapporti analogici; si spiega così il dettato poetico a volte estremamente dovizioso, a volte fratturato e sconnesso, disseminato di passaggi arditi, logicamente inspiegabili; e l’aggettivazione, quasi abbacinata in illusoria fissità, non riesce a nascondere l’ansimo del verbum strappato al mistero.

Pertanto, non è assolutamente pensabile di legare Campana a una scuola poetica; del resto i suoi legami con il futurismo furono brevi ed epidermici.

È invece legittimo pensare a lui come a un titano folle e irriverente, che, per aver partecipato allo sparagmòs (dilaniamento) di Dioniso-Zagrèo (a proposito, si noti l’analogia con la morte dell’apollineo Orfeo fatto a pezzi dalle Mènadi tracie), è condannato a scontare la propria colpa e a vivere dolorosamente la propria umana condizione.

(da “I fiori del male”, Anno X, n. 60, gennaio-aprile 2015)

campana_dino1

Dino Campana

Poesie di Dino Campana

LA CHIMERA

Non so se tra roccie il tuo pallido
Viso m’apparve, o sorriso
Di lontananze ignote
Fosti, la china eburnea
Fronte fulgente o giovine
Suora de la Gioconda:
O delle primavere
Spente, per i tuoi mitici pallori
O Regina o Regina adolescente:
Ma per il tuo ignoto poema
Di voluttà e di dolore
Musica fanciulla esangue,
Segnato di linea di sangue
Nel cerchio delle labbra sinuose,
Regina de la melodia:
Ma per il vergine capo
Reclino, io poeta notturno
Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
Io per il tuo dolce mistero
Io per il tuo divenir taciturno.
Non so se la fiamma pallida
Fu dei capelli il vivente Segno del suo pallore,
Non so se fu un dolce vapore,
Dolce sul mio dolore,

Sorriso di un volto notturno:
Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E l’immobilità dei firmamenti
E i gonfi rivi che vanno piangenti
E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.

GIARDINO AUTUNNALE (FIRENZE)

Al giardino spettrale al lauro muto
De le verdi ghirlande
A la terra autunnale
Un ultimo saluto!
A l’aride pendici
Aspre arrossate nell’estremo sole
Confusa di rumori
Rauchi grida la lontana vita:
Grida al morente sole
Che insanguina le aiole.
S’intende una fanfara
Che straziante sale: il fiume spare
Ne le arene dorate: nel silenzio
Stanno le bianche statue a capo i ponti
Volte: e le cose già non sono più.
E dal fondo silenzio come un coro
Tenero e grandioso
Sorge ed anela in alto al mio balcone:
E in aroma d’alloro,
In aroma d’alloro acre languente,
Tra le statue immortali nel tramonto.
Ella m’appar, presente.

LA SERA DI FIERA

Il cuore stasera mi disse: non sai?
La rosabruna incantevole
Dorata da una chioma bionda:
E dagli occhi lucenti e bruni: colei che di grazia imperiale
Incantava la rosea
Freschezza dei mattini:
E tu seguivi nell’aria
La fresca incarnazione di un mattutino sogno:
E soleva vagare quando il sogno
E il profumo velavano le stelle
(Che tu amavi guardar dietro i cancelli
Le stelle le pallide notturne):
Che soleva passare silenziosa
E bianca come un volo di colombe
Certo è morta: non sai?
Era la notte
Di fiera della perfida Babele
Salente in fasci verso un cielo affastellato un paradiso di fiamma
In lubrici fischi grotteschi
E tintinnare d’angeliche campanelle
E gridi e voci di prostitute
E pantomime d’Ofelia
Stillate dall’umile pianto delle lampade elettriche
………………………………………………………………………..
Una canzonetta volgaruccia era morta
E mi aveva lasciato il cuore nel dolore
E me ne andavo errando senz’amore
Lasciando il cuore mio di porta in porta:
Con Lei che non è nata eppure è morta
E mi ha lasciato il cuore senz’amore:
Eppure il cuore porta nel dolore:
Lasciando il cuore mio di porta in porta.

IMMAGINI DEL VIAGGIO E DELLA MONTAGNA

…poi che nella sorda lotta notturna
La più potente anima seconda ebbe frante le nostre catene
Noi ci svegliammo piangendo ed era l’azzurro mattino:
Come ombre d’eroi veleggiavano:
De l’alba non ombre nei puri silenzii
De l’alba
Nei puri pensieri
Non ombre
De l’alba non ombre:
Piangendo: giurando noi fede all’azzurro
…………………………………………………………………………………….
…………………………………………………………………………………….
Pare la donna che siede pallida giovine ancora
Sopra dell’erta ultima presso la casa antica:
Avanti a lei incerte si snodano le valli
Verso le solitudini alte de gli orizzonti:
La gentile canuta il cuculo sente a cantare.
E il semplice cuore provato negli anni
A le melodie della terra
Ascolta quieto: le note
Giungon, continue ambigue come in un velo di seta.
Da selve oscure il torrente
Sorte ed in torpidi gorghi la chiostra di rocce
Lambe ed involge aereo cilestrino…
E il cuculo cola più lento due note velate
Nel silenzio azzurrino
…………………………………………………………………………………….
…………………………………………………………………………………….
L’aria ride: la tromba a valle i monti
Squilla: la massa degli scorridori
Si scioglie: ha vivi lanci: i nostri cuori
Balzano: e grida ed oltrevarca i ponti.
E dalle altezze agli infiniti albori
Vigili, calan trepidi pei monti,
Tremuli e vaghi nelle vive fonti,
Gli echi dei nostri due sommessi cuori…
Hanno varcato in lunga teoria:
Nell’aria non so qual bacchico canto
Salgono: e dietro a loro il monte introna:
…………………………………………………………………………………….
E si distingue il loro verde canto.
…………………………………………………………………………………….
…………………………………………………………………………………….
Andar, de l’acque ai gorghi, per la china
Valle, nel sordo mormorar sfiorato:
Seguire un’ala stanca per la china
Valle che batte e volge: desolato
Andar per valli, in fin che in azzurrina
Serenità, dall’aspre rocce dato
Un Borgo in grigio e vario torreggiare
All’alterno pensier pare e dispare,
Sovra l’arido sogno, serenato!
O se come il torrente che rovina
E si riposa nell’azzurro eguale,
Se tale a le tue mura la proclina
Anima al nulla nel suo andar fatale,
Se alle tue mura in pace cristallina
Tender potessi, in una pace uguale,
E il ricordo specchiar di una divina
Serenità perduta o tu immortale
Anima! o Tu!
…………………………………………………………………………………….
…………………………………………………………………………………….
La messe, intesa al misterioso coro
Del vento, in vie di lunghe onde tranquille
Muta e gloriosa per le mie pupille
Discioglie il grembo delle luci d’oro.
O Speranza! O Speranza! a mille a mille
Splendono nell’estate i frutti! un coro
Ch’è incantato, è al suo murmure, canoro
Che vive per miriadi di faville!…
…………………………………………………………………………………….
Ecco la notte: ed ecco vigilarmi
E luci e luci: ed io lontano e solo:
Quieta è la messe, verso l’infinito
(Quieto è lo spirto) vanno muti carmi
A la notte: a la notte: intendo: Solo
Ombra che torna, ch’era dipartito…

VIAGGIO A MONTEVIDEO

Io vidi dal ponte della nave
I colli di Spagna
Svanire, nel verde
Dentro il crepuscolo d’oro la bruna terra celando
Come una melodia:
D’ignota scena fanciulla sola
Come una melodia
Blu, su la riva dei colli ancora tremare una viola…
Illanguidiva la sera celeste sul mare:
Pure i dorati silenzii ad ora ad ora dell’ale
Varcaron lentamente in un azzurreggiare:…
Lontani tinti dei varii colori
Dai più lontani silenzii
Ne la celeste sera varcaron gli uccelli d’oro: la nave
Già cieca varcando battendo la tenebra
Coi nostri naufraghi cuori
Battendo la tenebra l’ale celeste sul mare.
Ma un giorno
Salirono sopra la nave le gravi matrone di Spagna
Da gli occhi torbidi e angelici
Dai seni gravidi di vertigine. Quando
In una baia profonda di un’isola equatoriale
In una baia tranquilla e profonda assai più del cielo notturno
Noi vedemmo sorgere nella luce incantata
Una bianca città addormentata
Ai piedi dei picchi altissimi dei vulcani spenti
Nel soffio torbido dell’equatore: finché
Dopo molte grida e molte tenebre di un paese ignoto,
Dopo molto cigolìo di catene e molto acceso fervore
Noi lasciammo la città equatoriale
Verso l’inquieto mare notturno.
Andavamo andavamo, per giorni e per giorni: le navi
Gravi di vele molli di caldi soffi incontro passavano lente:
Sì presso di sul cassero a noi ne appariva bronzina
Una fanciulla della razza nuova,
Occhi lucenti e le vesti al vento! ed ecco: selvaggia a la fine di un giorno che apparve
La riva selvaggia là giù sopra la sconfinata marina:
E vidi come cavalle
Vertiginose che si scioglievano le dune
Verso la prateria senza fine
Deserta senza le case umane
E noi volgemmo fuggendo le dune che apparve
Su un mare giallo della portentosa dovizia del fiume,
Del continente nuovo la capitale marina.
Limpido fresco ed elettrico era il lume
Della sera e là le alte case parevan deserte
Laggiù sul mar del pirata
De la città abbandonata
Tra il mare giallo e le dune …………………………………………….

FANTASIA SU UN QUADRO D’ARDENGO SOFFICI

Faccia, zig zag anatomico che oscura
La passione torva di una vecchia luna
Che guarda sospesa al soffitto
In una taverna café chantant
D’America: la rossa velocità
Di luci funambola che tanga
Spagnola cinerina
Isterica in tango di luci si disfà:
Che guarda nel café chantant
D’America:
Sul piano martellato tre
Fiammelle rosse si sono accese da sé.

Pasquale Balestriere 1

Pasquale Balestriere

Pasquale Balestriere è nato a Barano d’Ischia il 4/8/1945. Laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Napoli “Federico II”.
Ha svolto attività didattica nelle scuole secondarie superiori. Viene infatti eletto consigliere comunale di Barano nel 1975 e poi anche assessore. Nel 2000 viene chiamato a ricoprire la carica di Difensore Civico del suo Comune.
Opere di poesia: E il dolore con noi (Menna, Avellino, 1979), Effemeridi pitecusane (La Rassegna d’Ischia – Rivista Letteraria Editrici, Ischia,1994), Prove d’amore e di poesia (Gabrieli Editore – Roma, 2007), Del padre, del vino (ETS- Pisa, 2009), Quando passaggi di comete (Carta e Penna Editore, Torino, 2010), Il sogno della luce ( Edizioni del Calatino, Castel di Judica -CT-2011). Ha scritto saggi o articoli su argomenti letterari di vario genere, tutti pubblicati in rivista. Tra questi: Quinto Orazio Flacco (L’uomo, lo scrittore, il motivo simposiaco, il tema della femminilità); Uno strano amore (Note in margine al romanzo “Per amore, solo per amore” di P. Festa Campanile); L’orfismo di Dino Campana: nota interpretativa; Nell’Odissea la più antica testimonianza letteraria dei muri a secco “parracine”; Nitrodi, storia di un toponimo; La scrittura poetica di Giorgio Barberi Squarotti, Aspetti e motivi della poesia di Nazario Pardini; Arte e vita nella genialità rappresentativa di Michelangelo Petroni, detto Peperone; Lettura de L’isola e il sogno di Paolo Ruffilli; Ricordo di Giuseppe Berto; Ricordo di Vittorio Sereni; Ricordo di Marino Moretti; Il trionfo della metafora nella poesia di Giuliano Avidano; Note in margine a venti storie d’amore (di Un’altra vita di Paolo Ruffilli); Nota di lettura su Affari di cuore e Natura morta di Paolo Ruffilli; La poesia secondo la mia intenzione (scritto ancora inedito).

39 commenti

Archiviato in critica della poesia, poesia italiana, poesia italiana del novecento, Senza categoria