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Durs Grünbein POESIE SCELTE da Strofe per dopodomani (2011), traduzioni di Anna Maria Carpi e di Cristina Vezzaro – Commento di Massimo Raffaeli

[Opera grafica di Claudia Marini, 2004]

Durs Grünbein è nato a Dresda nel 1962, vive tra Berlino e Roma. Dopo il declino dell’impero sovietico, ha iniziato a viaggiare per tutta Europa, Asia del Sud e Stati Uniti. Dal 2005 è professore di poetica ed estetica alla Kunstakademie Dusseldorf. È membro di diverse Accademie tedesche e dal 2009 membro per merito dell’Ordine per le Scienze e le Arti in Germania. Ha pubblicato quattordici raccolte di poesie, un diario, tre libri di saggi; ha tradotto Eschilo, Seneca e Giovenale. Ha ricevuto i maggiori premi letterari Internazionali, inclusi i premi “Georg Buchner”, “Friedrich Nietzsche”, “Friedrich Holderlin”, “Pier Paolo Pasolini” in Italia, “Tomas Transtomer” in Svezia, e l’European Freedom per la poesia in Polonia. La sua poesia è stata ampiamente apprezzata e acclamata e tradotta in molte lingue. Le traduzioni italiane, a cura di Anna Maria Carpi, sono pubblicate da Einaudi: A metà partita (1999), Il primo anno (2004), Della neve (2005), Strofe per dopodomani (2011).

 Commento di Massimo Raffaeli (da germanistica.it)

 È un luogo comune ricordare come Cartesio ricevette in stato sonnambolico la premonizione della filosofia che avrebbe riassunto nel Discorso sul metodo. Poco più che ventenne, bloccato dalla neve dentro una stamberga dalle parti di Ulm, visse infatti una notte di sogni esaltanti dove presero forma (alla maniera d’un inventum mirabile, così poi scrisse) le intuizioni di una logica capace di fondarsi quale scienza universale. Nel 1619 è già iniziata la Guerra dei Trent’anni e Cartesio, militare di carriera, oscilla tra i cattolici e i protestanti che peraltro egli ama di un amore ben dissimulato: conosce la triste fine di Bruno e Galileo, perciò paventa i fulmini dell’Inquisizione tenendosi in petto l’amore, che durerà una vita, per i Paesi Bassi, vale a dire per la libera manifestazione del pensiero e per la stampa non sottoposta a censura.

D’allora non perdona
il gracchiare dei corvi neri in cattedra.
Né la chiacchiera degli oscurantisti.
Però prudenza, amico! Non viene risparmiato chi combatte.
Se gira il vento, perde le sue penne
anche il più audace uccello. Pensate all’uomo che umiliò la terra
a semplice satellite. D’allora è fuorilegge.
Se ne dicono tante – e si smentiscono – se il potere minaccia.
Fra opinioni uniformi raro giova gridar lieti ‘Ho capito!’
Che lo pagate con la vostra vita,
riflettete, Monsieur.

 È la morale del buon senso, anzi sono le parole gravi e ammonitorie del servo Gillot, voce che risuona a contrappunto in Della neve ovvero Cartesio in Germania (a cura di Anna Maria Carpi, Einaudi), lo splendido poema, agibile come una partitura teatrale, che il cigno nero della poesia tedesca, Durs Grünbein (nato a Dresda nel ’62, noto in Italia per la precedente silloge di A metà partita, Einaudi 1999), dedica al frangente essenziale della vita del filosofo nei modi tanto di una diatriba sul percepire/pensare/scrivere quanto di un’ininterrotta dichiarazione di poetica, sia pure espressa en travesti.

La guerra preme oltre la cornice del quadro; prima che un’eco, essa manda rimbombi ovattati, si manifesta per segni obliqui e sinistri. D’altra parte, il paesaggio appare sempre immobile, chiuso nella morsa del gelo bianco, inerte, nascosto dal dilagare di una luce accecante e rifrangente a oltranza. Non a caso i fenomeni di rifrazione luminosa sono oggetto di studio, per Cartesio; altrettanto non a caso, per il poema di Grünbein, costituisce un possibile modello il capolavoro di Wallace Stevens, Tredici modi di vedere un merlo, asperrima ricerca di un senso esistenziale nella propagazione indistinta del bianco, di un candore niveo che sembra impedire, qui-e-ora, ogni movimento umano, ogni accesso possibile e condivisibile alla verità. L’immagine inaugurale del poema assomiglia la nevicata a una scrittura retroversa, a un nero negativo che scende sulle cose e le contorna, le decifra proteggendole nel manto più soffice. “Placato ogni pensiero, un invito a studiare”, scrive Grünbein: il dialogo continuo tra servo e filosofo ribadisce che non esiste azione cronologica ma appena un discrimine topografico, o meglio un riparo e un diaframma tra dentro e fuori; da una parte sta l’indistinto del freddo, il colore monotono e accecante, il tonfo lontano della guerra, dall’altra il calore recluso di una stanza che sa di stalla, un giaciglio su cui meditare (è noto che Cartesio non si alzava mai prima di mezzogiorno), le pareti umide in cui fissare il diagramma di ascisse-ordinate, sperando nella soluzione del senso.

Figlio del Postmoderno, Grünbein sa bene, di riflesso, che il secolo di Cartesio corrisponde alle vertigini del Barocco: per entrambi, la posta in gioco consiste dunque nell’oltrepassare il troppo pieno che annuncia il vuoto, nell’invocare la tabula rasa come preliminare di una procedura metodica, infine nel cercare di connettere un ordine (il disegno, lo schema, la cifra) laddove tutto quanto si manifestava prima come abnorme caos. Anche per questo il classicista e talvolta solenne Grünbein sfida se stesso e la sua propria maniera cimentandosi con l’esapodia giambica, il verso alessandrino dei poeti barocchi, cioè tentando la chiusura in rima di un universo altrimenti aggettante e centrifugo, nei prolungati e di continuo variati affondi d’un virtuosismo che Anna Maria Carpi, poetessa a sua volta, restituisce con precisione non già per via mimetica (ché ne sarebbero probabilmente discesi gli esangui bisettenari del secentista Pier Jacopo Martello già parodiati da Gozzano) ma sfruttando l’intera gamma del nostro endecasillabo liberamente accorciato e allungato.

Se tuttavia le convulsioni del Barocco nonché, a distanza, gli intasamenti del Postmoderno presagiscono il vuoto e il rigor mortis, la seconda e più breve sezione di Della neve, vera e propria appendice allegorica, fissa l’agonia di Cartesio. Si è ormai nel 1649, la guerra è finita in un atroce pareggio con la pace di Westfalia; stanco, invecchiato, gonfio e rubizzo come il bevitore dipinto da Frans Hals, il filosofo compie il suo ultimo viaggio verso la Svezia della regina Cristina. Lo aspettano, ancora una volta, neve e gelo universali, pari allo scetticismo e all’aperta incomprensione dei suoi simili. Segno che il caos, una volta di più, si mostra refrattario alla chiarezza cognitiva e all’ordine delle severe matematiche. La vittoria del caos, pari alle stragi della guerra, annuncia una volta per sempre la signoria della morte sulla fragilità del corpo e sul flebile lume della ragione. Quel lume appare anzi un residuo, una pura efflorescenza, un fuoco fatuo:

Che cosa oblìa per ultimo un morente? Il proprio nome?
O quando è nato? Come? L’alfabeto?  […]
Lui lucido. Le palpebre pesanti ancor levate, o voluttà, e il gran naso.
Un’effigie barocca, un’effigie da libro.
Poi crollò, riverso, nella neve. E qui congela.
Nessun battito più sotto lo sterno. Descartes, 
encore…

 Durs Grünbein (da Strofe per dopodomani, Einaudi, 2011, traduzione di Anna Maria Carpi)

Che serve applicar l’occhio
a una fessura, a che spiare?
Davanti hai sempre croci e cancelli,
un mondo di settori.
A che pro dei binari, se non
per divergere da qualche parte?

*

Was hilft es, das Auge am Schlitz
eines Türspions zu verdrehn?
Man steht immer vor Kreuzen und
Gittern, einer Welt aus Sektoren.
Wozu sind Schienen da, wenn nicht,
irgendwo auseinanderzugehn?

 

Spudoratezze

E se ti domandano di nuovo  «che cos’è per lei felicità?» ‒
Le riviste con le foto a colori (lifestyle eccetera),
allora dici: aver voglia. Quattro sillabe. Infatti è raro
e prezioso quello stato che si sottrae alla morte.
Cosa c’è di più bello che buttarsi distesi sui lenzuoli?
O uomo o donna, pensate (e con attenzione), che cosa supera
la beatitudine di fare spudoratezze?
                                                              Quest’ansimare
col profumo che riarso aleggia. Lo scatenato
rotolarsi insieme, sorridendo come tanti satiri,
i brividi alla schiena. Il sudore s’imperla alle narici.
E chi lo sente più il tic tac degli orologi. Presto è finito
il caldo e il freddo. Prima che dopo l’atto si distacchino,
lascivia si chiama questo, follia, libidine. – Finché innervosito
dal gridio il vicino non bussa alla parete e grida: fuck!
 
 Unverschämtheit

Und wenn sie wieder fragen  »Was heißt für Sie Gluck?« ‒
Die Magazine mit den bunten Bildchen (lifestyle undsoweiter),
Dann sagst du: Geil zu sein. Drei Silben nur. Denn selten ist
Und kostbar dieser Zustand, allem Sterben weit entrückt.
Was gibt es Schöneres, als sich auf Laken auszubreiten?
Mann oder Frau, denkt nach (und scharf), was übertrifft
Die Seligkeit, es unverschämt zu treiben?
                                                                     Dieses Hecheln,

Bei dem Parfüm, verbrannt, herüberweht. Dies ungezügelte
Sich Ineinanderwühlen, breit wie Satyrn lächelnd,
Am Rückgrat Schauer. Schweiß perlt auf den Nasenflügeln.
Keins hört mehr, wie die Uhren ticken. Gleich ist es vorbei,
Das Heiß und Kalt. Eh sie sich trennen nach dem Akt,
Heißt es: lascivia, Tollheit, Libido. – Bis vom Geschrei
Genervt der Nachbar an die Wand klopft und schreit Fuck!

 
(dalla raccolta A metà partita, a cura di Anna Maria Carpi, Einaudi, 1999)

 
“Ognuno tiene ai propri pensieri”
non era certo un motivo per tanti
andirivieni, per ignorare il fatto che
anche questo poi si dimentica.
Tra poco sarai liquidato, gridano
gli anni all’incredulo.
Poiché la vita fa abilmente il suo corso
senza dar premi. Alzarsi il mattino
col piede sbagliato, acceso in volto,
gli ormoni in circolo,
un torso anatomico davanti allo specchio,
pugni pronti allo scatto, occhi
sbarrati per vedere… che cosa?
 
 da  Durs Grünbein “Nuovi poeti tedeschi” a cura di Anna Chiarloni, Einaudi, 1994

 

Quel mattino

Quel mattino finirono gli anni 80
con i residui degli
anni 70 che parevano
gli anni 60: sobri e turbolenti.
«3 decenni con una speranza spenta…»

Prenditi un negativo (e dimentica): quelle
file che si incrociavano alle
fermate, gli ingorghi nel
traffico del mattino, gesti

tutti congelati all’edicola, i
malintesi («È
ferito?») –
(«Conosce DANTE?»). Li vedevi

aspettare, isolati alcuni dal fulgore del loro
esilio. L’aria (altrimenti
inviolabile)
era piena di scene da
film di Chaplin, un
vortice di pigmenti grigi, giorno e
notte di piogge grigie della
centrale a carbone sopra la

morta somiglianza di tutti gli angeli morti
senza braccia e senza gambe sulle
rovine tutt’intorno. Sì va bene,
pensavi: questo luogo
come qualsiasi altro
qui nella Mitteleuropa
dopo il sorger del sole con

mandrie di nuvole al galoppo e l’intrico di voci
mattutine come colte
dal risucchio

di un porto… È questo? Mentre vai
avanti, ti scaldi, saluti
un paio di estranei sbadigliando
(«Uno che sbadiglia!)» arci-
stufo delle tautologie, della fame, della

lenta introduzione a questa giornata. Continua a leggere

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Il Problema Leopardi (il grande dimenticato) nel rapporto con la poesia del Novecento – Lettura di Leopardi da Ungaretti agli ermetici, la Ronda: De Robertis, Cardarelli, la Restaurazione, Umberto Saba – Lettura del dopo guerra: da Pavese, Moravia, Fortini Pasolini fino a Zanzotto e la neoavanguardia e Sanguineti e la nuova ontologia estetica – A cura di Franco Di Carlo

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domenico morelli ritratto di giacomo leopardi

Di solito, quando si dice Ungaretti, si pensa subito all’opera di scardinamento espressivo e di rivoluzione del linguaggio poetico compiuta dai suoi versi e dai suoi scritti teorico-critici nei confronti della tradizione letterària italiana (dal ‘200 all’800 romantico) che continuava ad avere i suoi maggiori rappresentanti in Carducci e, per certi versi, in Pascoli e D’Annunzio, legati anch’essi, nonostante le indubbie novità della loro poetica e del loro linguaggio espressivo, ad una figura di letterato «ossequioso» nei confronti dell’«ufficialità» (letteraria e non): un’immagine, in fondo, ancora borghese e tardo-romantica, provincialisticamente sorda alle novità letterarie europee. In realtà, il rischio di considerare la poesia di Ungaretti come esclusivo effetto di un atteggiamento esplosivamente distruttivo (tipico dell’avanguardia à la mode, italiana e non) rispetto alle forme poetiche proprie della tradizione, ha una sua giustificazione, non solo di ordine psicologico-sentimentale, ma storico-letteraria: l’immediatezza espressiva e l’essenzialità della «parola» ungarettiana, balzano subito agli occhi come caratteristica peculiare della prima stagione creativa di Ungaretti, dal Porto sepolto (1916) all’Allegria (1931). Tuttavia già in quest’ultima, in un periodo di «apparente sommovimento di principi», si può notare la presenza, anche se in nuce (che si svilupperà meglio in seguito, nel Sentimento, 1933), di un retaggio di temi e di espressioni che fanno pensare, nonostante la scomposizione del verso tradizionale, al recupero di un ordine, esistenziale e stilistico ad un tempo.

La guerra, con i suoi miti e la sua esperienza traumatica,

aveva fatto nascere il canto dell’umanità, proprio dell’Allegria: la guerra, in realtà, si era presentata al «soldato» Ungaretti ben diversa da come l’avevano vaticinata e idoleggiata la retorica dannunziana e le rumorose gazzarre futuriste. Ungaretti sentiva, finita ora la guerra, il bisogno di «ritrovare un ordine» (e siamo già nel periodo del Sentimento, dal ’19 in poi) «da ristabilirsi nel senso della tradizione, incominciando […] dall’ordine poetico, non contro, cioè, ma dentro la tradizione anche metodologicamente». Pur rappresentando, perciò, l’Allegria la prima fase della «sperimentazione formale» di Ungaretti, ed avendo la rottura del verso tradizionale come scopo principale quello di evidenziare, alla maniera dei simbolisti e di Poe, le capacità analogiche ed evocative della parola, sentirla, cioè «nel suo compiuto e intenso, insostituibile significato», nasce da una condizione umana di precarietà come quella del «soldato». In realtà, già dal ’19 nasce in Ungaretti la preoccupazione di ricreare, con quei suoi versicoli franti e spogliati di qualsiasi discorsività, un tono ed una misura classicamente evocati e organizzati: è la perfezione del settenario, del novenario e dell’endecasillabo, raggiunta mettendo le parole una accanto all’altra e non più una sotto l’altra (si pensi per questo alle osservazioni critiche del De Robertis sulla formazione letteraria di Ungaretti).

In una intervista del ’63 Ungaretti dirà

a proposito della sua poesia degli anni post-bellici: «E poi gli endecasillabi bisognava imparare a rifarli… quindi l’endecasillabo tornava a costituirsi in modo normale». E ancora: «L’endecasillabo nasce subito, nasce dal ’19, nasce immediatamente dopo la guerra», come esigenza di un «canto» con cui partecipare dell’esempio dei classici, da Petrarca a Leopardi, filtrato attraverso l’esperienza mallarméana e baudelairiana. Questo recupero di un ritmo e di una metrica, di una musicalità, nuove ed antiche ad un tempo, sorgeva già da quegli anni terribili della guerra e del dopoguerra, come necessità di un equilibrio interiore e stilistico insieme. Era questo il periodo de «La Ronda»: della volontà di ristabilire, e in politica e in letteratura, quell’ordine turbato dell’esperienza della guerra. E qui balza subito agli occhi l’indiscutibile influenza mediatrice della rivista di Cardarelli e Bacchelli sul «secondo» Ungaretti, quello del Sentimento, sul suo atteggiamento nei confronti della tradizione letteraria italiana.

Il «ritorno all’ordine»

Sono gli anni, quindi, in cui emerge la necessità di un «ritorno all’ordine», da ripristinare nel senso della tradizione, attraverso il recupero di temi, di modi espressivi, propri di un mondo passato, ma rivissuti e riscoperti in una rilettura moderna e originale, personalizzata. Si trattava per Ungaretti di «non turbare l’armonia del nostro endecasillabo, di non rinunciare ad alcuna delle sue infinite risorse che nella sua lunga vita ha conquistato e insieme di non essere inferiori a nessuno nell’audacia, nell’aderenza al proprio tempo». In realtà il cosiddetto «neoclassicismo» non farà mancare il suo peso determinante nel segno e nel senso di un’arte predisposta «verso un ordine tradizionalmente tramandato e che solo negli schemi è stato sovvertito». Ungaretti rompe soltanto gli schemi e la disposizione della trama espressiva e non le strutture formali e tematiche interne alla poesia, recuperandone, così, i valori «puri» e misteriosi per via retorico-stilistica e tecnico-metrica. «Al di là», quindi, della «retorica» dannunziana e futurista, dei toni «dimessi» dei crepuscolari, del sentimento «languido» del Pascoli, si trattava di eliminare, attraverso l’apparente liquidazione della tecnica tradizionale, «le sovrastrutture linguistiche che impacciavano il folgorare dell’invenzione», riuscendo ad attingere, a livello metrico, ritmico-musicale, una «parola» che miracolosamente riacquistava nella sua rinnovata collocazione una sua interna e misteriosa valenza, non solo e non tanto metrica. Quest’opera riformatrice del linguaggio poetico era attuata da Ungaretti non tanto mediante il ripudio dei versi canonici tradizionali «quanto piuttosto nella loro disarticolazione e nel loro impiego di nuovo genere, che comporta lo spostamento degli accenti dalle loro sedi tradizionali, la scomparsa della cesura, l’uso della rima scarso e asimmetrico, il valore assegnato alle pause». Continua a leggere

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UN SONETTO di Luis de Gòngora (1582), tradotto da Luigi Fiorentino (1969), Giuseppe Ungaretti (1947), Raffaello Utzeri (2013) in una nuova edizione (EdiLet, 2015), Con una nota introduttiva di Raffaello Utzeri e alcune traduzioni del celebre Sonetto 228

Velazquez Las Meninas

Velazquez, Las Meninas

EdiLet ha appena pubblicato – dopo “Tutti i Sonetti” di W. Shakespeare – la seconda uscita della collana CLASSICI, diretta dal Prof. Emerico Giachery. Si tratta di una preziosa “Antologia di Sonetti e Poemi” (196 pp., Euro 16) di Luis de Gòngora, tradotti dall’ispanista Luigi Fiorentino (di cui EdiLet ha già riscoperto le poesie, con il volume Il compiuto discorso, 2013). L’edizione originaria, ormai introvabile, datava 1970 per i tipi di Ceschina editore, Milano. EdiLet ha provveduto, in collaborazione con la vedova di Fiorentino, Francisca Cruz Rosòn, alla revisione e correzione del testo, che si compone di 32 Sonetti – fra cui il celebre 228Mientras por competir con tu cabello” – e di una nutrita selezione antologica dalla Fàbula de Polifemo y Galatea e dalle Soledades. C’è, ovviamente, il testo a fronte in lingua spagnola. Il paratesto comprende Cronologia, Bibliografia e Note critiche, a cura dello stesso Fiorentino. L’introduzione è di Raffaello Utzeri.

Gongora copertinaArgomentare diffusamente sul barocco letterario spagnolo non sembra indispensabile nel momento in si ripropongono i Sonetos e altri componimenti di Luis de Góngora nella magistrale versione italiana di Luigi Fiorentino, da tempo esaurita nella edizione milanese di Ceschina, datata 1970. Ci sembra infatti che il lavoro del nostro ispanista, accurato e competente quanti altri mai, costituisca per sé una testimonianza di coscienza critica, utile più di un saggio di carattere accademico, completato com’è da un apparato di note in cui ogni osservazione si amplia dal testo al referente poetico generale, il mondo del celeberrimo Autore. La serietà con cui Luigi Fiorentino affronta i problemi del tradurre viene testimoniata già nella sua prima nota: «La traduzione si è sforzata di mantenere la tipica struttura gongorina, conservando dove possibile anche le rime, ma tralasciandole quando per rincorrerle era necessario tradire lo spirito e la lettera dell’originale castigliano o ripiegare su forme arcaiche o termini apocopati».

Nel caso di Góngora, anche una discussione sul significato del barrueco sarebbe piuttosto sterile, dato che don Luis non fu complessivamente barocco, anche se in quello stile, in quella dimensione culturale ed esistenziale fu confinato. Il barocco letterario spagnolo, infatti, si può dire che fu più tipicamente rappresentato da personalità creative distanti e diverse da lui, come M. Cervantes, Lope de Vega, Calderon de la Barca. In realtà, i suoi confini Góngora li delimitò da sé curando l’eleganza, la precisione, la sonorità, la densità semantica dei suoi componimenti: dire che tutto ciò che è suo sia barocco per definizione sarebbe come voler sottrarre una parte del suo repertorio, soprattutto formale, alla classicità o al classicismo. Si potrebbe infatti audacemente definire Góngora classico per “sostanza” e barocco per “accidente” in quanto visse in, e per, un’epoca in cui le certezze del Rinascimento europeo si stavano lentamente ma decisamente consumando nel manierismo dilagante. Come si sa, il barocco è connotato da insicurezza e incertezza esistenziale. Gli artisti, a contatto con i “poteri forti” venivano per primi interiormente contagiati dall’instabilità politica, economica e sociale che nel secolo diciassettesimo non risparmiò nessun popolo e nessuno stato; poi trasmettevano alla società ragionamenti e valori, dominanti nelle corti e nelle cancellerie, dove conoscevano anche creatività e distruttività. Il Barocco conobbe anche suggestioni emotive. Sul piano psicologico spostava l’attenzione dalla pienezza e stabilità dell’Essere che si manifesta nel molteplice, alla precarietà del mutamento in continuo divenire, che fa apparire il vuoto nei cicli periodici di fenomeni mai uguali a se stessi. La paura del vuoto, quell’ “horror vacui” degli atomi dispersi nell’infinità del cosmo, già ipotizzato in metafora epistemica nel De rerum Natura di Lucrezio, produce il clinamen, la deviazione vorticosa di una reazione caotica: nelle Arti del disegno si manifesta come sovrabbondanza di ornamenti e figure tra linee curve; in poesia riempie la versificazione con sovrabbondanza di aggettivi, iperbati e coloriture. Ma Góngora ne trovò l’antidoto mantenendosi fedele nelle forme, almeno in parte, alla tradizione internazionale.

François Clouet

François Clouet

Lo stesso Traduttore nelle note mette in evidenza quante volte il suo Autore prenda le mosse dal Petrarca e dal Tasso. Ma la prova sovrana dell’italianità di Góngora si trova nella struttura stessa del suo sonetto. Un confronto immediato chiarirà tale affermazione.
La rivoluzione culturale causata dall’imperialismo inglese promosso da Elisabetta Tudor modificò anche alcuni parametri letterari. Una dozzina di anni prima che Góngora nascesse nel 1561, Thomas Whyatt aveva introdotto il sonetto, il cui schema fu poi cambiato abolendo il modulo canonico come segue. Sostituiva il noto schema 2 x AB AB (AB BA) + 2 CDE (o poche varianti) con il seguente: AB AB + CD CD + EF EF + GG: tre quartine con rime indipendenti seguite da un distico a rima baciata. Ecco il sonetto pienamente barocco. Con centocinquanta di questi, W. Shakespeare compose un canzoniere non meno profondo di quello del Petrarca, senza curarsi di essere baroque in inglese come in francese. L’autore barocco non si preoccupa della provenienza della formula, ma la ripropone come sfida nella condizione culturale presente e futura. Tutto questo è anche parte della poetica di Góngora; ma il maggior poeta del “siglo de oro” non prediligeva quella forma ormai troppo connotata come tabernacolo del pensiero laico. Essendo religioso, a ventiquattro anni aveva preso gli ordini minori e a cinquantasei fu prete; forse perciò non volle prestare suoi tabernacoli a quel “modus lascivus” che da secoli la Chiesa disapprovava. Nonostante gli apprezzamenti di Cervantes e Lope de Vega, scrisse pochi sonetti, quasi tutti come formalità occasionali, tra i quali: “Alla nascita di Cristo N.S.”; “Sul sepolcro della Duchessa”; “In morte di Donna Guiomar”; e ancora il capolavoro “Alla memoria della morte e dell’inferno” e il finale “Sulla brevità ingannevole della vita”. Già quei titoli riassumono esaurientemente la precarietà di un mondo “secolare” del quale il poeta voleva ma non poteva godere. Con questa modalità Góngora fu perciò sicuramente barocco, restando però classico nel rispetto del canone del sonetto italiano.

Più di qualsiasi racconto critico può però interessare l’esame comparativo di alcune traduzioni dal medesimo corpus. A questo scopo presentiamo il Sonetto 228 a fronte delle versioni di L. Fiorentino e G. Ungaretti, affiancate da un’altra inedita, equidistante da entrambe, qui offerta dal sottoscritto, a scopo di riferimento linguistico contemporaneo nella riscoperta di Góngora.

Gongora

Gongora

Luis de Góngora, 1582

Mientras por competir con tu cabello,
oro bruñido el Sol relumbra en vano,
mientras con menosprecio en medio el llano
mira tu blanca frente al lilio bello;

mientras a cada labio, por cogello,
siguen más ojos que al clavel temprano,
y mientras triunfa con desdén lozano
de el lucente cristal tu gentil cuello;

goza cuello, cabello, labio y frente,
antes que lo que fué en tu edad dorada
oro, lilio, clavel, cristal luciente

no sólo en plata o víola troncada
se vuelva, mas tú y ello juntamente
en tierra, en humo, en polvo, en sombra, en nada.

.

Luigi Fiorentino, 1969

Mentre per emulare i tuoi capelli
oro brunito il sole splende invano,
mentre scontrosa guarda in mezzo al piano
la tua candida fronte i gigli belli,

mentre gli sguardi per carpirle inseguono
tue labbra più che il primo dei garofani,
e mentre il fine collo con disdegno
del lucente cristallo già trionfa,

collo, capelli, labbra e fronte godano
prima che il vanto dell’età dorata,
oro, giglio, garofano, cristallo,

si muti in viola recisa o in argento,
non solo, ma con esso tu in terra,
e in polvere, in fumo, in ombra, in nulla.

.
Giuseppe Ungaretti, 1947

Finché dei tuoi capelli emulo vano,
vada splendendo oro brunito al Sole,
finché negletto la tua fronte bianca
in mezzo al piano ammiri il giglio bello,

finché per coglierlo gli sguardi inseguano
più il labbro tuo che il primulo garofano,
finché più dell’avorio, in allegria
sdegnosa luca il tuo gentile collo,

la bocca, e chioma e collo e fronte godi,
prima che quanto fu in età dorata,
oro, garofano, cristallo e giglio
non in troncata viola solo o argento,
ma si volga, con essi tu confusa,
in terra, fumo, polvere, ombra, niente.

.

Raffaello Utzeri, 2013

Finché a competere coi tuoi capelli
risplende, oro brunito, il sole invano
e con dispregio la tua bianca fronte
considera il bel giglio in mezzo al piano,

finché, per coglierlo, ciascun tuo labbro
più che il primo garofano occhi seguono
e il tuo collo gentile in lieto sgarbo
trionfa sullo splendido cristallo,

collo e capelli e labbra e fronte goditi
prima che quel che fu, in tua età dorata,
oro e cristallo splendido e garofano

e giglio, muti in viola sradicata
o argento, e inoltre tu congiunta in quello
in terra, in fumo, polvere, ombra: in nulla.

Sembra quindi superfluo inoltrarsi nelle solite considerazioni critiche di circostanza: i testi parlano da soli, ciascuno trasportando nel tempo la propria datazione, che non coincide precisamente con la sua data. Bisognerà ricordare che tradurre significa non solo amare ma, in parte almeno, anche tradire. Spesso è l’ambivalenza dell’animo umano, che ogni traduttore impersona nell’ambiente che lo informa e lo forma, quella che forse, più della competenza linguistica, determina scelte lessicali e sintagmatiche. Sembra ancora ieri, e in letteratura può essere anche mezzo secolo, quando le traduzioni si dividevano in “brutte fedeli” e “belle infedeli”. Accreditiamo a L. Fiorentino di aver superato quel pregiudizio, ironico ma non troppo, di molti critici suoi contemporanei, grazie alla sua rara competenza sorretta da un equilibrio poetico che lo ha sempre sostenuto.
Le due Soledad primera e Soledad segunda del 1613-14 sono poemi quasi lirici ciascuno di quasi mille versi, prevalentemente endecasillabi e settenari. Fiorentino ne ha tradotto meno della metà, privilegiando le parti più significative. L’argomento è piuttosto tenue, un giovane naufrago accolto da un gruppo di pastori è pretesto per divagazioni su temi naturalistici e mitologici. Sono pezzi di bravura per la complessità sintagmatica e la leziosità immaginativa, quasi una sfida dell’intelligenza al codice linguistico.
Molto simile, la Fabula de Polifemo y Galatea contemporanea delle Soledades, ma in ottave ariostesche, cioè di struttura italiana: AB AB AB CC. Anche qui la maestria nella versificazione suscitò ammirazione; il culto del gongorismo fu poi chiamato cultismo. Ma incontrò anche forti resistenze con qualche condanna per la oziosità dei temi e il deprecato modo sensuale nella scrittura di un religioso. Lope de Vega, che aveva lodato i Sonetos, divenne, per onestà intellettuale, un avversario di Góngora: forse anche per questo c’è chi lo antepone a lui come simbolo del secolo d’oro.
L’interesse che suscitano le versioni testuali di Luigi Fiorentino, ciascuna nell’ambito metodologico che il traduttore dichiara, consiste nel fatto che la traduzione non può non essere in sé operazione di esperienza barocca. Nei testi qui presentati, le due lingue sono sorelle, ma non per questo si può fare copia conforme in lingua italiana di una scrittura spagnola. Immaginiamo i risultati di traduzioni da lingue molto distanti dalla nostra, come l’arabo, il giapponese, l’urdu. In questi casi l’unica difesa del traduttore sarebbe produrre una versione più esplicativa che interpretativa: così la “brutta fedele” potrebbe interessare più della “bella infedele”.
Comunque, Goethe sosteneva che la poesia è sempre traducibile. Intendeva dire forse che è anche giustamente tradibile? Teniamo presente questa eventualità, utile almeno in quanto provocatoriamente dissacrante; tutto sommato sembra un’affermazione poco classica, poco romantica, ma forse non poco barocca.

(Raffaello Utzeri)

Luis De Góngora (Cordoba, 11 luglio 1561-Cordoba 23 maggio 1627), poeta e drammaturgo del Siglo de Oro, è il massimo esponente della corrente letteraria conosciuta come “culteranesimo” e, per sua stessa influenza, “gongorismo”. Avviatosi fin da ragazzo alla carriera ecclesiastica (nel 1585 fu nominato economo della cattedrale di Cordoba e prese gli ordini maggiori), ebbe difficoltà con i superiori per la sua attività letteraria: tra i capi d’imputazione con cui l’arcivescovo Pacheco lo accusò di malcostume, c’era anche il fatto di scrivere poesie. Góngora rimase inedito per tutta la vita: le sue opere passavano di mano in mano manoscritte, suscitando polemiche. Era un poeta incontentabile e difficile: aspirava a «fare poco non per molti», elaborando composizioni di alto livello retorico, in equilibrio fra tensioni opposte, irte di concetti e cultismi, di elusioni e allusioni che le rendevano oscuro esercizio per menti erudite, a mo’ di enigmi da decifrare, benché godibilissime sul piano musicale. Con Góngora l’estetica barocca sperimenta le potenzialità multisensoriali e simboliche della parola, aprendosi alla modernità senza rompere i rapporti con la tradizione classica, petrarchesca e classicistica rinascimentale. La novità dell’autore delle Soledades verrà apprezzata pienamente nel ‘900, quando il sentire poetico avrà le giuste affinità per entrarvi in consonanza. Non a caso la cosiddetta generazione del ’27 (Lorca, Guillén, Salinas, Alberti, Alonso, etc.) lo prenderà a modello, riscoprendolo e traducendolo proprio a partire dal terzo centenario della morte.

Luigi Fiorentino (Mazara del Vallo, 13 febbraio 1913-Trieste, 2 agosto 1981) è stato scrittore, poeta, saggista e traduttore. Autore di oltre venti opere originali (poesia, narrativa, critica letteraria) e di numerose traduzioni dalla letteratura spagnola e francese (tra cui Gongora, Chenier, Mallarmé, e classici come il Cid), ha suscitato l’interesse critico, fra gli altri, di Francesco Flora, Enrico Falqui, Paul Fort e Juan Ramòn Jimenez. Dopo le esperienze traumatiche della seconda guerra mondiale, che lo videro nei panni di ufficiale di artiglieria e di internato I. M. I., si è stabilito a Siena dove, nel 1946, ha fondato la rivista «Ausonia». Ha diretto a Siena la casa editrice Maia e ha insegnato storia della letteratura italiana presso la Scuola di Lingua e Cultura Italiana per Stranieri. Successivamente ha insegnato lingua e letteratura spagnola e letteratura ibero-americana presso le Università degli Studi di Siena, Arezzo e Trieste. Di Fiorentino nel 2013 per EdiLet è uscita, a cura di Raffaello Utzeri, l’antologia poetica Il compiuto discorso.

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