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Roberta Costanzo: Confronto del Sonetto CCXI di Francesco Petrarca nel Vat. Lat. 3196, c. 5r e nel Vat. Lat. 3195, c.42r.

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https://youtu.be/dXC1HjOab-0 Nel sonetto CCXI del Canzoniere di Petrarca sembrerebbe agire una lotta tra forze opposte: quelle d’amore e passione da un lato, contro altre che invece invitano alla loro fuga. Il sostantivo iniziale “Voglia” richiama, infatti, un intenso desiderio, che accanto al verbo “spronare” indicherebbe un’energia che travolge il poeta nella direzione di “Amore” e contrasta fortemente con l’ “usanza” che lo “trasporta” in una direzione opposta. Proprio questo conflitto tra forze potrebbe essere posto alla base dei cambiamenti che investono il sonetto dal Vat. Lat. 3196 al Vat. Lat. 3195.

Partendo dai versi 10 e 11, cancellati nel Vat. Lat. 3196, la loro prima stesura era: “Soave honesto ragionar m’invesca / e l’angelica voce dolce humile.”. Essi potrebbero rimandare ad un pensiero piacevole che attira il poeta (soave ragionar) ancorato all’amore, pensiero che tuttavia è degno di onore (honesto). Questo pensiero d’amore, connesso all’ angelica voce, diverrebbe parola pronunciata (angelica voce dolce) e dunque poesia. Ma si tratterebbe della poesia giovanile di Petrarca, che ha come oggetto l’amore per Laura e “le vane speranze e ‘l van dolore” della gioventù, richiamate nel sonetto iniziale del Canzoniere. Dolce e angelica alluderebbero così all’oggetto amoroso della giovanile poesia petrarchesca e humile alla non elevata materia in essa trattata.

La seconda stesura di questi versi, che vengono cancellati e riscritti alla fine del sonetto nel Vat. Lat. 3196, riporta: “Animo antiquo in nova età m’invesca / e il dolce ragionare con voce humile”. Questo mutamento potrebbe essere fatto risalire allo stesso momento dell’inserimento della postilla in capo al sonetto, che ne indica il recupero in luogo della sua distruzione. La ripresa del componimento, che viene rivisto e modificato, ne implica una lettura più matura da parte del poeta. Petrarca non sarebbe più travolto dalla forza della passione amorosa, quanto piuttosto si limiterebbe adesso a ricordare quel sentimento del passato e quella poesia che ne derivava. La modifica di tali versi potrebbe dunque essere in linea con il cambiamento e la maturità che investono il poeta dopo la morte di Laura e che lo inducono a chiedere perdono e a pentirsi per la sua passata produzione poetica. Tuttavia, così come si vede nel sonetto proemiale, Petrarca non intende abbandonare del tutto il proprio passato: “Animo antiquo” potrebbe proprio richiamare quell’uomo che il poeta era stato, ma che deve attraversare una nuova fase di vita, indicata da “nova età”. Dunque, sebbene debba esserci per il poeta un certo distacco dal passato, sembrerebbe che una parte di esso possa essere conservato attraverso la memoria. Potrebbe essere possibile che Petrarca, rileggendo il sonetto a distanza di tempo, abbia sentito una certa dolcezza nel ricordare la propria produzione poetica giovanile, produzione che ormai andava, però, modificata. Il ricordo di quell’ “antiquo animo” può avvenire attraverso la parola e dunque attraverso la poesia, considerata un “dolce ragionare” che “invesca” il poeta.  Ricorrono nuovamente, riprese dalla prima stesura, la parola dolce, forse in riferimento all’amore e alla poesia amorosa del passato, oggetto adesso di ricordo, e la parola humile, per la materia d’amore, non alta come doveva essere la poesia impegnata cui Petrarca aveva promesso ad Agostino, nel Secretum, di dedicarsi. Continua a leggere

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Pierre de Ronsard – Les Derniers Vers, da Oeuvres Complètes (Gallimard). Traduzione di Annamaria De Pietro, con una sua Nota di traduzione 

venezia ballo

Il gioco dell’Altro

Pierre de Ronsard nacque nel castello della Possonnière, Vendôme, nel 1524, figlio di un gentiluomo di corte e uomo d’armi amante della cultura. Introdotto a 12 anni a corte in qualità di paggio del Delfino, dopo una serie di viaggi al seguito del re il suo avvenire a corte fu gravemente compromesso da una malattia che lo rese sordo e lo indusse a orientare la propria vita verso gli studi letterari. Ricevuta la tonsura nel 1543, iniziò a dedicarsi allo studio dei classici frequentando le lezioni dell’ellenista e filologo Dorat e avendo come compagni di studio Jean Antoine de Baïf, Joachim du Bellay e altri, con i quali costituì il nucleo della nuova scuola poetica che nel 1556 designò con il nome di Pléiade. Ben presto considerato la figura più rappresentativa della giovane scuola, iniziò la sua sterminata serie di pubblicazioni nel 1550 (non citeremo qui tutte le sue opere: sarebbe un elenco lunghissimo) con una raccolta in quattro libri, Les Odes, di ispirazione pindarica e oraziana. Non pago della lezione classica e alla ricerca di nuove formule espressive cui adattare la lingua francese, fu petrarchista nella raccolta Les Amours (1552-78), ispirati dall’amore per Cassandra Salviati, rustico e faceto nelle Folastries (1553), spontaneo e naturale nella Continuation (1555) e nella Nouvelle Continuation des Amours (1556), quasi alla ricerca di un consenso popolare, sorprendente nell’aristocratico programma della Pléiade.

Poeta ufficiale di corte dal 1558 sotto Enrico II, scrisse numerose poesie di circostanza, riunite nel 1565 nelle Elegies, Mascarades et Bergerie. Tentò anche la poesia epica, tracciando nella Franciade il disegno di un grande poema sulle origini della dinastia reale di Francia: vi lavorò a lungo, incoraggiato da Carlo IX, ma pubblicò (1572) solo quattro dei ventiquattro canti progettati, e poi abbandonò il progetto alla morte di Carlo IX (1574).

Col declino a corte, deluso e infermo, trovò una nuova fonte di ispirazione nell’amore per una dama di compagnia di Caterina de’ Medici, Hélène de Surgères, che gli fece ritrovare la grazia dei primi poemi d’amore nel ciclo dei Sonnets pour Helene (1578), cui si affiancano il Seconde Livre des Sonnets pour Helene e il ciclo Sur la mort de Marie, nei quali ritrova l’ispirazione petrarchista, ma con minore artificio. Sempre nel 1578 appare, nella quinta edizione delle sue opere, una sezione, Sonnets et Madrigals pour Astree, dedicata a Françoise Babou de la Bourdaisière, dame d’ Estrée.

Nel ritiro dei suoi priorati, curò periodicamente e puntigliosamente le edizioni complete della sua opera e dettò prima di morire i Derniers vers (pubblicati postumi nel 1586), di un realismo doloroso, ma non privo d’ironia, nella rappresentazione della vecchiaia e della malattia. Morì a Saint-Cosme-en-l’Isle (Tours) nel 1585.

venezia Lorenzo Lippi Allegorie della simulazione

Il gioco dell’Altro

Stances

J’ay varié ma vie en devidant la trame
Que Clothon me filoit entre malade et sain,
Maintenant la santé se logeoit en mon sein,
Tantost la maladie, estreme fleau de l’ame.

La goutte ja vieillard me bourrela les veines,
Les muscles et les nerfs, execrable douleur,
Montrant en cent façons par cent diverses peines
Que l’homme n’est sinon le subject de malheur.

L’un meurt en son printemps, l’autre attend la vieillesse,
Le trespas est tout un, les accidens divers –
Le vray tresor de l’homme est la verte jeunesse,
Le rest de nos ans ne sont que des hivers.

Pour long temps conserver telle richesse entiere
Ne force ta nature, ains ensuy la raison,
Fuy l’amour et le vin, des vices la matiere,
Grand loyer t’en demeure en la vieille saison.

La jeunesse des Dieux aux hommes n’est donnee
Pour gouspiller sa fleur: ainsi qu’on voit fanir
La rose par le chauld, ainsi mal gouvernee
La jeunesse s’enfuit sans jamais revenir.

Stanze

Ho sbrogliato la vita imbrogliando le premesse
di un destino inventato in salute e in malattia –
talora fu salute, fiore di cortesia,
talaltra malattia, e batteva la messe.

Venne vecchiaia, e la gotta boia che i nervi e le vene
e i muscoli mi trasse mi trae con le ritorte,
dicendo in cento modi, facendo in cento pene
che la vita di un uomo non è che malasorte.

Chi falcia primavera, chi invecchia la vecchiezza,
ma è una la morte, spina a minuti spini esterni –
unica cifra all’anno è la verde giovinezza,
tutto il resto non è che un’annata d’inverni.

Per conservare a lungo quel verde vitalizio
non forzare il tuo segno, e segui la ragione:
fuggi il vino e l’amore, semenzai di ogni vizio –
raccoglierai da vecchio, nell’ultima stagione.

La giovinezza è dio, brevemente immortale.
Tu non gualcirne il fiore – cosí come i rosai
per troppo sole perdono la rosa, spesa male
giovinezza si perde, lei che non torna mai.

 

venezia 5

Sonets

I

Je n’ay plus que les os, un Squelette je semble,
Decharné, denervé, demusclé, depoulpé.
Que le trait de la mort sans pardon a frappé,
Je n’ose voir mes bras que de peur je ne tremble.

Apollon et son filz deux grans maistres ensemble,
Ne me sçauroient guerir, leur mestier m’a trompé,
Adieu, plaisant soleil, mon oeil est estoupé,
Mon corps s’en va descendre où tout se desassemble.

Quel amy me voyant en ce point despouillé
Ne remporte au logis un oeil triste et mouillé,
Me consolant au lict et me baisant la face,

En essuiant mes yeux par la mort endormis?
Adieu chers compaignons, adieu, mes chers amis,
Je m’en vaiy le premier vous preparer la place.

Sonetti

I

Io sono un mucchio d’ossa, al mio scheletro assomiglio,
senza piú carne, e nervi, e muscoli, e struttura,
evito di guardarmi per non farmi paura
ché in me senza perdono morte prova l’artiglio.

Neanche il fiore dei medici, il primario e suo figlio,
saprebbero guarirmi – sbaglierebbero cura.
La luce è andata via dalla camera oscura,
io piano piano vado dove tutto è scompiglio.

Da quel che fui e non sono gli amici vanno via
portandosi negli occhi lacrime e nostalgia,
gli addii in una carezza di lievissimo accosto.

Io ormai sto sempre a letto, e tengo gli occhi chiusi,
e penso amici addio, miei carissimi intrusi,
me ne andrò io per primo, vi terrò caldo il posto.

II

Meschantes nuicts d’hyver, nuicts filles de Cocyte
Que la terre engendra d’Encelade les seurs,
Serpentes d’Alecton, et fureur des fureurs,
N’aprochez de mon lict, ou bien tournez plus vitte.

Que fait tant le soleil au gyron d’Amphytrite?
Leve toy, je languis accablé de douleurs,
Mais ne pouvoir dormir c’est bien de mes malheurs
Le plus grand, qui ma vie et chagrine et despite.

Seize heures pour le moins je meur les yeux ouvers,
Me tournant, me virant de droit et de travers,
Sus l’un, sus l’autre flanc je tempeste, je crie,

Inquiet je ne puis en un lieu me tenir,
J’appelle en vain le jour, et la mort je supplie,
Mais elle fait la sourde, et ne veut pas venir.

II

Brutte notti d’inverno, nebbie di grigio inferno
che la terra svapora dal suo fuoco profondo,
groviglio di serpenti, furore furibondo,
state via, o piú veloci rigiratevi al perno.

Il sole dorme in mare, nel lungo fiume esterno,
io dentro in veglia avvito la vite e lo sprofondo
dei mali al perno dritto dell’insonnia, il piú immondo
dei mali, il male grigio che i mali prende a scherno.

Per sedici ore almeno mi sto, gli occhi sbarrati,
girandomi e voltandomi da tutti quanti i lati
fianco scambiando a fianco, e smanio, e grido forte,

ma spinge l’inquietudine stridendo le altalene,
e io chiamo invano il giorno, e supplico la morte,
ma quella fa la sorda, e non viene, non viene.

III

Donne moy tes presens en ces jours que la Brume
Fait les plus courts de l’an, ou de ton rameau teint
Dans le ruisseau d’Oubly dessus mon front espreint,
Endor mes pauvres yeux, mes gouttes et mon rhume.

Misericorde ô Dieu, ô Dieu ne me consume
À faulte de dormir, plustost sois-je contreint
De me voir par la peste ou par la fievre esteint,
Qui mon sang deseché dans mes veines allume.

Heureux, cent fois heureux animaux qui dormez
Demy an en voz trous, soubs la terre enfermez,
Sans manger du pavot, qui tous les sens assomme.

Je n’ay mangé, j’ay beu de son just oublieux,
En salade cuit, cru, et toutesfois le somme
Ne vient par sa froideur s’asseoir dessus mes yeux.

III

In questi giorni in cui l’inverno gira il carro
grigio a giri piú stretti, tu con la tua bacchetta
tinta d’oblio bagnandomi dell’acqua benedetta
addormentami gli occhi, e la gotta, e il catarro.

Dio, regala la notte a me, che gli occhi sbarro –
morta è la notte. O, in cambio, dammi una morte netta
di peste nera, o febbre, e sguinzaglia la saetta
verde al mio sangue secco di un guizzante ramarro.

Felicissimi voi, animali che giacete
per tutto un mezzo anno nelle tane segrete,
e non sapete il papavero che i sensi, il senso toglie.

Io so come si mangia, e so come si beve,
crudo, cotto, in decotto, ma il sonno non si scioglie,
ma non si scioglie il grigio girando in fresca neve.

IV

Ah longues nuicts d’hyver, de ma vie bourrelles,
Donnez moy patience, et me laissez dormir,
Vostre nom seulement, et suer et fremir
Me fait par tout le corps, tant vous m’estes cruelles.

Le sommeil tant soit peu n’esvente de ses ailes
Mes yeux tousjours ouvers, et ne puis affermir
Paupiere sur paupiere, et ne fais que gemir,
Souffrant comme Ixion des peines eternelles.

Vieille umbre de la terre ainçois l’umbre d’enfer,
Tu m’as ouvert les yeux d’une chaisne de fer,
Me consumant au lict, navré de mille pointes.

Pour chasser mes douleurs ameine moy la mort.
Hà mort, le port commun, des hommes le confort,
Viens enterrer mes maux, je t’en prie à mains jointes!

IV

Notti lunghe d’inverno, mie carnefici a vita,
perdonate un riposo al mio traino di dies irae,
gli araldi della notte – Non potrai piú dormire –,
gl’infermieri di giorno, l’astanteria gremita.

Neanche l’ombra del sonno mi sfiora con le dita
questi occhi sempre aperti, e dilatano le spire
le rime delle palpebre, ma senza mai finire,
dilatando il serpente la sua ruota infinita.

Tu ombra per terra e inferno tornante risorgiva
m’incateni col ferro di una luce cattiva
al mio letto di chiodi, e penombra, e sudore.

Gira a questa catena per sinistra la chiave,
nel porto della morte ormeggiami la nave,
e butta in mare il grave – carico –, per favore.

V

Quoy mon ame, dors tu engourdie en ta masse?
La trompette a sonné, serre bagage, et va
Le chemin deserté que Jesuchrist trouva,
Quand tout mouillé de sang racheta nostre race.

C’est un chemin facheux borné de peu d’espace,
Tracé de peu de gens que la ronce pava,
Oú le chardon poignant ses testes esleva,
Pren courage pourtant, et ne quitte la place.

N’appose point la main à la mansine, apres
Pour ficher ta charue au milieu des guerets,
Retournant coup sur coup en arriere ta vue:

Il ne faut commencer, ou du tout s’emploier,
Il ne faut point mener, puis laisser la charue,
Qui laisse son mestier, n’est digne du loier.

V

Tu dormi, anima, dentro la tua opaca carcassa.
La tromba suona. Stringi al bagaglio i cinturini,
e va’ con Gesú Cristo al piú sperso dei cammini,
dove pieno di sangue per noi pagò la tassa.

Quella è una strada stretta, per cui a stento si passa,
per cui passano in pochi, lastricata di spini,
guardata dalle lance dei cardi ametistini.
Là ci vuole coraggio, guardia che non si abbassa.

Non prendere l’aratro, che è troppo utile arnese,
se poi dovrai piantarlo in mezzo alla maggese
e non pensarci piú, voltando gli occhi indietro –

abbandonale prima, non poi, le tue intraprese,
non metterti ad arare per lasciare l’aratro.
Un lavoro a metà non ricopre le spese.

VI

Il faut laisser maisons et vergers et Jardins,
Vaisselles et vaisseaux que l’artisan burine,
Et chanter son obseque en la façon du Cygne,
Qui chante son trespas sur les bors Maeandrins.

C’est fait j’ay devidé le cours de mes destins,
J’ay vescu j’ay rendu mon nom assez insigne,
Ma plume vole au ciel pour estre quelque signe
Loin des appas mondains qui trompent les plus fins.

Heureux qui ne fut onc, plus heureux qui retourne
En rien comme il estoit, plus heureux qui sejourne
D’homme fait nouvel ange aupres de Jesuchrist,

Laissant pourrir ça bas sa despouille de boue,
Dont le sort, la fortune, et le destin se joue,
Franc des liens du corps pour n’estre qu’un esprit.

VI

Ora: sgombrare casa, e frutteti, e giardini,
e stoviglie e paccottiglie, sostanze d’artificio,
ripiegare le ali, e cantarsi l’ufficio
come i cigni sui sassi dei fiumi damaschini.

Chiuso. Ho sbrogliato il filo di tutti i miei destini,
ho vissuto, al mio nome ho elevato alto edificio,
alta sui tetti al vento l’insegna alza l’auspicio,
in basso ad uno ad uno si smorzano i lustrini.

Felice chi non nacque, piú felice chi torna
al suo niente lontano, felice chi soggiorna
nella casa degli angeli accanto a Gesú Cristo

abbandonando ai vermi la sua spoglia corrotta
che fu al caso e alle sorti giocosa bancarotta –
libero finalmente, non sentito, non visto.

Pour son tombeau

Ronsard repose icy qui hardy dés enfance
Détourna d’Helicon les Muses en la France,
Suivant le son du luth et les traits d’Apollon:
Mais peu valut sa Muse encontre l’eguillon
De la mort, qui cruelle en ce tombeau l’enserre,
Son ame soit à Dieu, son corps soit à la terre.

Per la sua tomba

Qui riposa Ronsard. Dal suo piú verde oriente
delle muse francesi seminò la semente,
e in musica e parole inseguì la sua canzone.
Ma poesia non ha lima che spunti lo sperone
di morte, che fa forza in questo luogo profondo.
L’anima sia di Dio, Pierre Ronsard sia del mondo.

À son ame

Amelette Ronsardelette,
Mignonnelette doucelette,
Treschere hostesse de mon corps,
Tu descens là bas foiblelette,
Pasle, maigrelette, seulette,
Dans le froid Royaume des mors:
Toutesfois simple, sans remors
De meurtre, poison, ou rancune,
Méprisant faveurs et tresors
Tant enviez par la commune.
Passant, j’ay dit, suy ta fortune
Ne trouble mon repos, je dors.

Alla sua anima

Anima piccola,
Ronsarde, ma piú piccola,
vaga, piccola, dolce, piccola,
ospite amica del mio corpo,
tu discendi laggiù debole, piccola,
pallida, rigida, piccola piccola,
dentro il freddo Reame morto –
eppure semplice, senza un rimorso
di bile nera, veleno o spada,
a ori e favori voltando il dorso,
cui il mondo tanto bada.
Passante, ho detto – tu segui la tua strada,
non disturbare, dormo.

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Nota di traduzione di Annamaria De Pietro

M’innamorai di Pierre Ronsard al ginnasio, sul bel libro di letteratura francese di Margherita Tesio con uno Chardin in copertina. Erano, in grafia modernizzata, i celeberrimi Quand vous serez bien vieille, au soir à la chandelle e Mignonne, allons voir si la rose; due, ma bastarono.

Passarono gli anni, e un bel giorno del 2005 li tradussi. Ma non bastava, e allora comprai le Oeuvres complètes, Editions Gallimard, e si aprirono le cateratte di un innamorato possesso: in un anno e mezzo tradussi più di trecento testi.

Entravo come in un bosco in quella lingua tanto diversa dal francese moderno, una lingua scagliosa, ruvida, stagna, piena di consonanti, come le tante esse non ancora dileguate sotto il tettuccio dell’accento circonflesso in parole come esté o eslever, irta di iniziali maiuscole in selva stretta, affidata a una grafia mutevole, non ancora stabilizzata, e per ciò stesso sorprendente, da pronunciare in modo diverso rispetto alla pronuncia attuale: ai tempi di Ronsard, il guerresco, l’elegante Cinquecento francese, non esistevano ancora la u uvulare e la erre uvulare (l’erre moscia che per noi oggi è tratto distintivo di quella lingua); permanevano desinenze poi cadute in desuetudine, come ad esempio nell’affascinante enchanteresse (incantatrice); all’imitazione petrarchesca retrostava qualcosa di medioevale, in quel viaggio di passaggio coscientemente navigato da Ronsard con il gruppo della Pléiade del quale fu il più grande rappresentante, verso una poesia seducente, arricchita dai mille aspetti della lingua, da un apparato di parole che, secondo la sua dichiarata intenzione, attingesse anche all’uso, alla vasta terminologia degli oggetti concreti, dei manufatti, dei mestieri, degli artigiani, dei marinai, dei sarti; e dei geografi, dei pittori, e ai dialetti di Francia, e al disusato, e alla Grecia, e a Roma, in una cerca vagabonda che fra le cose esatte, concrete del mondo postulava lontano il desiderio di congiungersi con l’unità di Dio. In Ronsard c’è la Grecia, c’è Roma, c’è Petrarca, in un delizioso sonetto giocoso fa capolino il trecentesco Roman de la Rose; e c’è la vita fisica e concreta dei luoghi e delle imprese di Francia, c’è lo smagliare della corte, che lui servì non solo ricoprendo incarichi ufficiali, ma anche come un sia pur discusso (secondo il topos dell’allontanamento dalla corte falsa e ingannatrice per una fuga in una mitologica, letteraria zona di autenticità del sentire) faro di ricchezza, e potere accostabile in minore al potere assoluto della divinità. In una lettera a un giovane poeta, manifesto di poetica, consiglia appunto di occupare il più vasto spazio poetico possibile, coltivare tutti i generi (è quello che R. fa); suggerisce una poetica della varietà e dell’abbondanza, un’imitazione vagabonda che corrisponda a un vagabondaggio nella natura, nell’interesse a tutte le scienze, che è solo del re, oltre che del poeta. Addita un senso della corporeità curioso e mutevole, che lui pratica, contro il platonismo alla moda, fino alla malizia di una sensualità acuta e felice, marezzata qua e là di un’elegante, serena ambiguità sessuale. E, dopo una disamina dei metri francesi e di tutti gli attrezzi dello stile, conclude: «La regola più perfetta è nel tuo orecchio».

Ronsard era attratto dal cambiamento, dalla metamorfosi delle cose create, che sparsamente racchiudono in sé il divino, che sono, una per una, tutti i nomi di dio. Così negli dèi greci, che tanto spesso appaiono nei suoi testi, vede la nominazione vicaria di tutte le operazioni di Dio, dispersione ricchissima di quell’unità ordinante che è e resta l’aspirazione ma che può essere attinta solo nel mutevole disperso, del quale fa parte la morte. Ma, a mio parere, anche di fronte alla morte non demorde un suo sottilissimo umorismo, che anche in questi Ultimi versi traluce nella spietata, circostanziata cognizione, ricognizione del dolore fra le spire del pavot, il papavero, l’oppio cui si avvezzò da giovane per combattere l’insonnia.

Fra desiderio pressante di unità e acribia sottilissima applicata ai dati, alle cose, si pone il suo fare e rifare più volte edizioni di Oeuvres complètes: è il tentativo di fare del suo libro se non l’immagine dell’unità almeno il suo simulacro.

E così, via via che traducevo sempre più m’innamoravo di quest’uomo simpatico, umorista, attivo, sportivo, coltissimo, addolorato con sobrietà subito pronta a mutarsi in scherzo, innamorato forse solo dei nomi (Cassandra, Elena, icone letterarie, come suggerisce Jaqueline Risset), ma secondo me innamorato davvero, con melanconica, e sorridente, e maliziosa sensualità – di donne vere; curiosissimo del mondo (prediligeva i libri dei geografi, quelli che misurano l’universo), seguiva tutte le scienze. E, forse sulla scorta del suo amore per la metamorfosi, mi costruivo un mio spirito della traduzione.

Che necessariamente deve tradire in qualche maniera, da qualche parte. Io ho deciso, istintivamente, subito, prima di leggere la prefazione dei curatori e la sua lettera-poetica al giovane poeta, di tradire sul versante della fedeltà contenutistica e semantica al testo, e di essere invece fedelissima quanto alla forma e struttura, nel rispetto della metrica, delle rime, sia in fine di verso che al mezzo, delle allitterazioni (ove è stato possibile); nel rispetto del respiro, dell’intavolatura testuale. È stato un lavoro improbo, ma di una vitalità che, giustappunto, era amore.

Fra i tradimenti perpetrati la sostituzione degli dèi antichi con i fenomeni naturali o di situazione corrispondenti, ove concretamente si declinano i poteri, sostituzione che, mi sono accorta dopo aver letto la prefazione e la lettera teoretica, seguiva senza saperlo il suo criterio di riduzione dell’iconico astratto alla terrena concretezza. Ancora, la delocazione da un verso all’altro di tessere di significato, seguendo in molti casi il filo di un’analogia sonora, o semantica, che dall’allontanamento infedele ricostruisse una fedeltà errante, non parola per parola, ma per così dire scaturita dalla visione dall’alto di una mappa i cui elementi potevano essere spostati sì, ma a patto che alla fine, chiuso il cerchio, la mappa restasse quella mappa, al traino della trasformazione vagabonda che tanto gli piaceva. E ancora, sempre lungo una linea di concretizzazione, oggettivazione dentro il mondo visibile, ho trasferito portata e significato di situazioni, comportamenti, sentimenti soggettivi in correlativi concreti, che riflettono il ronsardiano amore per la varietà del mondo. Spesso ho calcato la mano, accentuando i registri, dal doloroso all’amoroso, sensualissimo, fino al buffo, come per spremerne, chissà, fino all’ultima goccia la densità del dettato. Forse mi sono illusa, forse ho fatto un’operazione riprovevole, ma io sentivo, sentivo onestamente, che quell’uomo adorabile così io non lo tradivo. Purtroppo non potrò avere la sua opinione. Mi piacerebbe.

Devo comunque precisare che tutte queste delocazioni traditore io le ho attuate non in base a un predisposto, premeditato progetto; sono venute potrei dire spontaneamente, e solo rileggendo a posteriori, e confrontando i passi del lungo lavoro a fronte dei testi originali, tali delocazioni mi sono apparse come criterio unificante, come modo del tradurre. Ma questo accade sempre nella scrittura poetica, anche in quella in proprio, nella quale ci si confronta con sé stessi a salti e scavalcando.

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Pierre de Ronsard

LES DERNIERS VERS: sono nove testi, scritti poco prima di morire nel lago grigio dell’insonnia. Alcuni li ha dettati ad amici dopo averli pensati di notte, fino all’ultimo vivo e in cerca, fino all’ultimo grandissimo poeta; ronce ardant, secondo l’etimologia favolosa che si compiaceva di costruire attorno al suo cognome. Fra la foresta e Dio, roveto ardente.

Desidero soffermarmi sui luoghi testuali nei quali più chiaramente e compiutamente appaiono i miei numerosi tradimenti. Per darne ragione, per tentare di giustificarne l’amorosa necessità smontandoli e rimontandoli con piccoli attrezzi scovati a volte in chissà quali ripostigli e da ogni dove. La traduzione è una traversata lunga, e ha bisogno di assai variegata attrezzatura e ugualmente di oggetti minimi e umilissimi. È una pratica impura, piena di scorie e frammenti, e di impreviste lontananze, e lei passando fa la chiama.

Per la mitologia naturalizzata non porto esempi: i casi sono lì da vedere.

STANCES

  1. 3. se logeoit en moin sein si accresce in fiore di cortesia, che è l’ospitalità. Inoltre fiore anticipa il printemps al v. 9;
  2. 4. batteva la messe (operazione che si faceva con il pascoliano correggiato) si rifà all’extreme fleau: flagello come correggiato;
  3. 9. invecchia interpreta a orecchio attend: la vecchiezza prolunga l’attesa (non si parla forse di ‘attesa di vita’?); chi muore giovane ha poco da attendere.

SONETTO I

  1. 5. La sfumatura umoristica dell’incapacità terapeutica di Apollon et son filz è stata rafforzata trasformando Apollo nel primario in virtù della consueta riduzione degli dèi alla loro funzione, professionale in questo caso;
  2. 7. mon oeil est estoupé, per lo spostamento dal soggetto a una cosa concreta, diventa la luce è andata via dalla camera oscura; e la camera oscura è un apparecchio, un attrezzo, consono ai suoi multiformi interessi;
  3. 9. despouillé diventa quel che fui e non sono, introducendo dolorosamente un confronto, una storia di vita. Irredimibile declino espresso con strazio grammaticale da quella sequenza affannata di de-.

SONETTO II

  1. 5 > v. 6. gyron (grembo) ha, io credo, indotto, per virtù di paretimologia sonora, avvito la vite: avvitare è un girare. Inoltre Anfitrite, che io traduco con lungo fiume esterno, è la madre dell’acqua contenitrice, tutt’attorno. Ma avvito la vite anticipa me tournant, me virant de droit et de travers al v. 10, che pure ha al corrispondente v. 10 la sua traduzione quasi letterale;
  2. 8. chagrine ha probabilmente evocato il grigio per virtù di suono;
  3. 12. ancora trasferendo da persona a cosa, je ne puis en un lieu me tenir diventa spinge l’inquietudine stridendo le altalene, ed è possibile che stridendo abbia a che fare con inquiet. Ruggine?

Nei quattro versi centrali delle quartine la cupa e rimbombante e aggirante rima in –ondo si fa carico dell’aura fosca che domina il sonetto.

SONETTO III

  1. 6. à faulte de dormir diventa acrobaticamente morta è la notte. La mancanza del sonno si massimalizza e oggettiva nella mancanza della notte, nel suo mancare, nella sua morte;
  2. 8. da allume prende splendore il guizzante ramarro, guizzante come il pulsare della febbre;
  3. 11, 12 e 13. Il pavot, il papavero da oppio, il cui orrore si stringe in un’elegantissima climax di operazioni che sanno di cucina, preparazioni degne di un’insalata, di un minestrone. Ecco un esempio fulgente del suo senso dell’umorismo, che anche negli eventi più tragici trova un giro di garbo e d’ironia, come è evidente anche nei molti testi ‘in morte di’ …. Il suo lutto non è tombale, è un esercizio di alto magistero di trasfigurazione, di clemenza verso il male cercata e colta negl’infiniti prati del mondo.

SONETTO IV

  1. 3. vostre nom seulement si dilata in gli araldi della notte – Non potrai più dormire – La potenza del nome: il nome, che è pronuncia e identificazione, diventa esso stesso voce che dichiara e comanda;
  2. 8. dilatando il serpente la sua ruota infinita ingloba materialmente Issione e la sua ruota infinita, un tormento ciclico che non potrà finire, come il serpente che eternamente si mangia la coda;
  3. 9. L’intrigante, perturbante immagine della risorgiva forse rende l’ainçois, il ripensamento, il voltarsi a guardare indietro, dove la seconda ipotesi, la seconda istanza (astanza provvisoriamente occulta),l’enfer, oscuramente minaccia il suo ritorno alla prima, la terre;
  4. 11. consumant, la complessiva consumazione dell’infermo, si concretizza, verso il fuori nella penombra, verso il dentro nel sudore;
  5. 12. la mort sinistramente diventa il giro della chiave per sinistra;
  6. 13 e 14. le port si amplia trasformando il luogo-loculo terrestre (enterrer mes maux) in un vasto luogo di mare, ove il grave – carico per virtù di suono ha acquisito pesantezza dalla pesantezza intrinseca alla parola enterrer.

SONETTO V

È meraviglioso, triste, sobrio, concentrato in un senso da trovare, lontano, oltre il soffrire; ma prima, adesso, concentrato nello sguardo attento verso quel mondo pieno di cose e attrezzi, amorosamente accarezzati e guardati per l’ultima volta, che è tutta la nostra vita. È come un apologo di blanda saggezza, un racconto fatto all’angolo del camino per dei bambini che ascoltano, un po’ incantati un po’ impauriti.

  1. 2. serre bagage mi è diventato, sempre in ossequio alla minuta concretezza, stringi al bagaglio i cinturini (sia detto a margine:-ini è una rima difficilissima, un po’ come –ato).
  2. 7. le chardon poignant ses testes esleva. Qui le delocazioni traditore sono più d’una, ma strettamente intrecciate: nelle loro sommità i cardi sono ametistini; l’ametista è materia dura, e nobile, cardinalizia, quindi altera e superba; e infatti il cardo superbamente ses testes esleva;
  3. 8. ne quitte la place condivide con guardia che non si abbassa l’ambito della terminologia militare.

SONETTO VI

Anche questo è meraviglioso, scalando da un’urgenza battente piena di cose e ingombri e impacci (urgenza che io ho reso più urgente, quasi a suon di tamburo) a un progressivo rallentare, e svanire, e riposare, finalmente. Ma quel che resta e domina tutto è la sua arte orgogliosa, consapevole del proprio altissimo, non mortale valore.

  1. 2. Da vaisselles et vaisseaux a stoviglie e paccottiglie. Qui mi era Indispensabile preservare l’autorità sensante, significante dell’allitterazione. Ma, da lingua a lingua, non potevo conservare le esse intense, che dicono l’opacità, la pesantezza grigia da pietra pomice delle vanità del mondo, che porta giù e mortifica l’anima prossima all’estremo volo al confronto (ma quanto sono vitali queste cose, quanto si staglia e conta l’artisan mastro d’opra fina). Quindi, rispettando il significato dei termini, ho fatto ricorso all’allitterazione fra i gruppi –gl-, che, dall’altro canto , delle vanità del mondo rappresentano per suono il luccicare, il micare un po’ isterico al suono di sonagli, una frivolezza nobile, smagliante, anacronisticamente dico – fragonardesca;
  2. 3. Il Cygne scompare, rappresentato da quello che fa morendo, e, soprattutto, dal suo ripiegare le ali;

v- 4. les bors Maeandrins trasferiscono la loro serpentina tortuosità di riva alla marezzatura d’acqua dei fiumi damaschini, dallo stare all’andare. E il damasco è tessuto d’Oriente, proprio come fiume d’Oriente è il Meandro, compagni di luce mobile;

  1. 7. Dalla plume, che potrà essere signe, sintetizzando volo e suono in grande scala, pantografando, nasce l’insegna. E, in declinazione feriale, comune, l’insegna vola sui tetti, mentre la penna volava al cielo.
  2. 8. fra loin e in basso, che non ha corrispettivo nel testo originale, ho collocato il differenziale fra il luogo d’arrivo e il luogo di partenza del volo, il volo della penna-insegna, il volo dell’arte, che è alto edificio;
  3. 9 e 10. Un po’ complicato: da sejourne si è propagginata la casa, che è la casa degli angeli, meta e localizzazione fisica e cordiale per chi morendo è d’homme fait nouvel ange;
  4. 14. I liens du corps si trasferiscono dal morto a chi resta, e non lo vede più, non lo sente più. La libertà dai sensi da soggettiva diventa oggettiva, e così in qualche maniera, passato il testimone ai vivi, resta essa stessa viva.

POUR SON TOMBEAU

Vv. 1 e 2. Il suo più verde oriente è allo stesso tempo l’enfance ed Helicon, monte che sta ad oriente, verdeggiante miniera di poesia;

  1. 3. Apollon diventa la sua canzone, esito di un doppio inseguimento ad andata e ritorno: lui segue les traits (gli strali) d’Apollon, e insieme da quei traits è inseguito. Quest’uomo è deliziosamente complesso.
  2. 6. son corps traslittera nel suo nome e cognome, Pierre Ronsard a chiare lettere, in ossequio al suo dichiarato antiplatonismo: lui è il suo corpo, e questo, racchiuso nel suo nome, lo dona al mondo, che dall’opaca indeterminatezza della terre staglia lo spazio delle relazioni; lo dona ai suoi lettori, gl’interlocutori della fatica vagabonda, ordinante, di tutta una vita.

Mon ame soit à Dieu: ma Dio è così lontano, così unitario, così bisognoso del nostro conferirgli, di cosa in cosa, gl’innumerevoli frammenti di un corpo. Dedica di dovere formulare, ça me samble.

À SON AME

I primi sei versi traducono con levità prossima alla frivolezza la celeberrima Animula vagula blandula dell’imperatore Adriano. Nei versi successivi si declina, nell’ossequio ad un topos classico, una misurata tristezza, orgogliosa di non aver fatto del male.

Ho immediatamente scartato l’ipotesi di rendere con diminutivi i diminutivi originari. Il diminutivo in –ina mi sembrava terribilmente bamboleggiante; quello in –etta, rispettoso dell’originale e comunque più solido e asciutto, era d’altra parte appesantito dalla a finale, che inchioda, laddove la e indistinta della desinenza francese alleggerisce in levare. Non parliamo poi di una possibile –uccia, alle cui spalle stava inesorabile l’Ariannuccia leggiadribelluccia del Bacco in Toscana.

E allora ho delocato il senso della diminuzione in un aggettivo molto semplice, piccola. L’operazione, allargando le maglie del tessuto, mi ha costretto ad inserire un verso in più; ma non fu peccato, credo, perché il verso in più non fa che prolungare il timoroso blasone dell’anima e ritardare per un poco, per quel poco che si può, l’ingresso nel regno dei morti.

  1. 1> v.2. Ronsardelette, che al mio orecchio suona come un aggettivo o tutt’al più un’apposizione, diventa Ronsarde, ma più piccola. Ronsarde è un nome, è il suo nome trasformato dall’essenza femminile dell’anima (esempio ultimo e specioso di una giocosa ambiguità sessuale) sulla soglia dell’ultima porta, dell’ultima giravolta del creato.
  2. 10 > v. 9. Il soggettivo rancune si oggettiva in bile nera, che oltretutto è un termine tecnico della medicina.

Temo che questa disamina sia troppo lunga, ma scrivendo ho messo da parte i buoni proponimenti preparatori perché mi era (mi è) necessario rendere ragione del mio lavoro, e questo a mio parere poteva essere fatto (naturalmente a posteriori) soltanto lungo una verifica testuale dei temi e dei loro esiti formali, quelli di Pierre Ronsard, e così i miei.

Perché tradurre è la sfida del confronto, che si esplica in un canto amebeo nel quale ad andata e ritorno le ragioni, e così le irragioni, s’incrociano in filze e pause di parole, solo parole uguali al tutto. Per quel pochissimo che possiamo saperne.

Annamaria De Pietro è nata a Napoli, dove ha vissuto fino all’adolescenza, da padre napoletano e madre lombarda. Vive da tempo a Milano. Ha cominciato a scrivere non occasionalmente, ma sempre, in età matura. La sua prima pubblicazione in versi risale al 1997: Il nodo nell’inventario (Dominioni Editore, Como 1997). Sono seguiti Dubbi a Flora (Edizioni La Copia, Siena 2000), La madrevite (Manni, Lecce 2000), Venti fusioni a cera persa (Manni, Lecce 2002). Nel 2005 pubblica un libro in napoletano, Si vuo’ ‘o ciardino (Book Editore, 2005), col quale paga il suo tributo alla città d’origine, poco amata, mai più visitata. Nell’ottobre del 2012 esce Magdeburgo in Ratisbona (Milanocosa Edizioni, Milano, 2012). Ultima pubblicazione Rettangoli in cerca di un pi greco. Il Primo Libro delle Quartine (Marco Saya Edizioni, Milano 2015).

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UN SONETTO di Luis de Gòngora (1582), tradotto da Luigi Fiorentino (1969), Giuseppe Ungaretti (1947), Raffaello Utzeri (2013) in una nuova edizione (EdiLet, 2015). Con una nota introduttiva di Raffaello Utzeri e alcune traduzioni del celebre Sonetto 228

Velazquez Las Meninas

Velazquez Las Meninas

EdiLet ha appena pubblicato – dopo “Tutti i Sonetti” di W. Shakespeare – la seconda uscita della collana CLASSICI, diretta dal Prof. Emerico Giachery. Si tratta di una preziosa “Antologia di Sonetti e Poemi” (196 pp., Euro 16) di Luis de Gòngora, tradotti dall’ispanista Luigi Fiorentino (di cui EdiLet ha già riscoperto le poesie, con il volume “Il compiuto discorso”, 2013). L’edizione originaria, ormai introvabile, datava 1970 per i tipi di Ceschina editore, Milano. EdiLet ha provveduto, in collaborazione con la vedova di Fiorentino, Francisca Cruz Rosòn, alla revisione e correzione del testo, che si compone di 32 Sonetti – fra cui il celebre 228Mientras por competir con tu cabello” – e di una nutrita selezione antologica dalla Fàbula de Polifemo y Galatea e dalle Soledades. C’è, ovviamente, il testo a fronte in lingua spagnola. Il paratesto comprende Cronologia, Bibliografia e Note critiche, a cura dello stesso Fiorentino. L’introduzione è di Raffaello Utzeri.

Gongora copertinaArgomentare diffusamente sul barocco letterario spagnolo non sembra indispensabile nel momento in si ripropongono i Sonetos e altri componimenti di Luis de Góngora nella magistrale versione italiana di Luigi Fiorentino, da tempo esaurita nella edizione milanese di Ceschina, datata 1970. Ci sembra infatti che il lavoro del nostro ispanista, accurato e competente quanti altri mai, costituisca per sé una testimonianza di coscienza critica, utile più di un saggio di carattere accademico, completato com’è da un apparato di note in cui ogni osservazione si amplia dal testo al referente poetico generale, il mondo del celeberrimo Autore. La serietà con cui Luigi Fiorentino affronta i problemi del tradurre viene testimoniata già nella sua prima nota: «La traduzione si è sforzata di mantenere la tipica struttura gongorina, conservando dove possibile anche le rime, ma tralasciandole quando per rincorrerle era necessario tradire lo spirito e la lettera dell’originale castigliano o ripiegare su forme arcaiche o termini apocopati».

Nel caso di Góngora, anche una discussione sul significato del barrueco sarebbe piuttosto sterile, dato che don Luis non fu complessivamente barocco, anche se in quello stile, in quella dimensione culturale ed esistenziale fu confinato. Il barocco letterario spagnolo, infatti, si può dire che fu più tipicamente rappresentato da personalità creative distanti e diverse da lui, come M. Cervantes, Lope de Vega, Calderon de la Barca. In realtà, i suoi confini Góngora li delimitò da sé curando l’eleganza, la precisione, la sonorità, la densità semantica dei suoi componimenti: dire che tutto ciò che è suo sia barocco per definizione sarebbe come voler sottrarre una parte del suo repertorio, soprattutto formale, alla classicità o al classicismo. Si potrebbe infatti audacemente definire Góngora classico per “sostanza” e barocco per “accidente” in quanto visse in, e per, un’epoca in cui le certezze del Rinascimento europeo si stavano lentamente ma decisamente consumando nel manierismo dilagante. Come si sa, il barocco è connotato da insicurezza e incertezza esistenziale. Gli artisti, a contatto con i “poteri forti” venivano per primi interiormente contagiati dall’instabilità politica, economica e sociale che nel secolo diciassettesimo non risparmiò nessun popolo e nessuno stato; poi trasmettevano alla società ragionamenti e valori, dominanti nelle corti e nelle cancellerie, dove conoscevano anche creatività e distruttività. Il Barocco conobbe anche suggestioni emotive. Sul piano psicologico spostava l’attenzione dalla pienezza e stabilità dell’Essere che si manifesta nel molteplice, alla precarietà del mutamento in continuo divenire, che fa apparire il vuoto nei cicli periodici di fenomeni mai uguali a se stessi. La paura del vuoto, quell’ “horror vacui” degli atomi dispersi nell’infinità del cosmo, già ipotizzato in metafora epistemica nel De rerum Natura di Lucrezio, produce il clinamen, la deviazione vorticosa di una reazione caotica: nelle Arti del disegno si manifesta come sovrabbondanza di ornamenti e figure tra linee curve; in poesia riempie la versificazione con sovrabbondanza di aggettivi, iperbati e coloriture. Ma Góngora ne trovò l’antidoto mantenendosi fedele nelle forme, almeno in parte, alla tradizione internazionale.

François Clouet

François Clouet

Lo stesso Traduttore nelle note mette in evidenza quante volte il suo Autore prenda le mosse dal Petrarca e dal Tasso. Ma la prova sovrana dell’italianità di Góngora si trova nella struttura stessa del suo sonetto. Un confronto immediato chiarirà tale affermazione.
La rivoluzione culturale causata dall’imperialismo inglese promosso da Elisabetta Tudor modificò anche alcuni parametri letterari. Una dozzina di anni prima che Góngora nascesse nel 1561, Thomas Whyatt aveva introdotto il sonetto, il cui schema fu poi cambiato abolendo il modulo canonico come segue. Sostituiva il noto schema 2 x AB AB (AB BA) + 2 CDE (o poche varianti) con il seguente: AB AB + CD CD + EF EF + GG: tre quartine con rime indipendenti seguite da un distico a rima baciata. Ecco il sonetto pienamente barocco. Con centocinquanta di questi, W. Shakespeare compose un canzoniere non meno profondo di quello del Petrarca, senza curarsi di essere baroque in inglese come in francese. L’autore barocco non si preoccupa della provenienza della formula, ma la ripropone come sfida nella condizione culturale presente e futura. Tutto questo è anche parte della poetica di Góngora; ma il maggior poeta del “siglo de oro” non prediligeva quella forma ormai troppo connotata come tabernacolo del pensiero laico. Essendo religioso, a ventiquattro anni aveva preso gli ordini minori e a cinquantasei fu prete; forse perciò non volle prestare suoi tabernacoli a quel “modus lascivus” che da secoli la Chiesa disapprovava. Nonostante gli apprezzamenti di Cervantes e Lope de Vega, scrisse pochi sonetti, quasi tutti come formalità occasionali, tra i quali: “Alla nascita di Cristo N.S.”; “Sul sepolcro della Duchessa”; “In morte di Donna Guiomar”; e ancora il capolavoro “Alla memoria della morte e dell’inferno” e il finale “Sulla brevità ingannevole della vita”. Già quei titoli riassumono esaurientemente la precarietà di un mondo “secolare” del quale il poeta voleva ma non poteva godere. Con questa modalità Góngora fu perciò sicuramente barocco, restando però classico nel rispetto del canone del sonetto italiano.

Più di qualsiasi racconto critico può però interessare l’esame comparativo di alcune traduzioni dal medesimo corpus. A questo scopo presentiamo il Sonetto 228 a fronte delle versioni di L. Fiorentino e G. Ungaretti, affiancate da un’altra inedita, equidistante da entrambe, qui offerta dal sottoscritto, a scopo di riferimento linguistico contemporaneo nella riscoperta di Góngora.

Gongora

Gongora

Luis de Góngora, 1582

Mientras por competir con tu cabello,
oro bruñido el Sol relumbra en vano,
mientras con menosprecio en medio el llano
mira tu blanca frente al lilio bello;

mientras a cada labio, por cogello,
siguen más ojos que al clavel temprano,
y mientras triunfa con desdén lozano
de el lucente cristal tu gentil cuello;

goza cuello, cabello, labio y frente,
antes que lo que fué en tu edad dorada
oro, lilio, clavel, cristal luciente

no sólo en plata o víola troncada
se vuelva, mas tú y ello juntamente
en tierra, en humo, en polvo, en sombra, en nada.

Luigi Fiorentino, 1969

Mentre per emulare i tuoi capelli
oro brunito il sole splende invano,
mentre scontrosa guarda in mezzo al piano
la tua candida fronte i gigli belli,

mentre gli sguardi per carpirle inseguono
tue labbra più che il primo dei garofani,
e mentre il fine collo con disdegno
del lucente cristallo già trionfa,

collo, capelli, labbra e fronte godano
prima che il vanto dell’età dorata,
oro, giglio, garofano, cristallo,

si muti in viola recisa o in argento,
non solo, ma con esso tu in terra,
e in polvere, in fumo, in ombra, in nulla.
Giuseppe Ungaretti, 1947

Finché dei tuoi capelli emulo vano,
vada splendendo oro brunito al Sole,
finché negletto la tua fronte bianca
in mezzo al piano ammiri il giglio bello,

finché per coglierlo gli sguardi inseguano
più il labbro tuo che il primulo garofano,
finché più dell’avorio, in allegria
sdegnosa luca il tuo gentile collo,

la bocca, e chioma e collo e fronte godi,
prima che quanto fu in età dorata,
oro, garofano, cristallo e giglio
non in troncata viola solo o argento,
ma si volga, con essi tu confusa,
in terra, fumo, polvere, ombra, niente.

Raffaello Utzeri, 2013

Finché a competere coi tuoi capelli
risplende, oro brunito, il sole invano
e con dispregio la tua bianca fronte
considera il bel giglio in mezzo al piano,

finché, per coglierlo, ciascun tuo labbro
più che il primo garofano occhi seguono
e il tuo collo gentile in lieto sgarbo
trionfa sullo splendido cristallo,

collo e capelli e labbra e fronte goditi
prima che quel che fu, in tua età dorata,
oro e cristallo splendido e garofano

e giglio, muti in viola sradicata
o argento, e inoltre tu congiunta in quello
in terra, in fumo, polvere, ombra: in nulla.

Sembra quindi superfluo inoltrarsi nelle solite considerazioni critiche di circostanza: i testi parlano da soli, ciascuno trasportando nel tempo la propria datazione, che non coincide precisamente con la sua data. Bisognerà ricordare che tradurre significa non solo amare ma, in parte almeno, anche tradire. Spesso è l’ambivalenza dell’animo umano, che ogni traduttore impersona nell’ambiente che lo informa e lo forma, quella che forse, più della competenza linguistica, determina scelte lessicali e sintagmatiche. Sembra ancora ieri, e in letteratura può essere anche mezzo secolo, quando le traduzioni si dividevano in “brutte fedeli” e “belle infedeli”. Accreditiamo a L. Fiorentino di aver superato quel pregiudizio, ironico ma non troppo, di molti critici suoi contemporanei, grazie alla sua rara competenza sorretta da un equilibrio poetico che lo ha sempre sostenuto.
venezia 4Le due Soledad primera e Soledad segunda del 1613-14 sono poemi quasi lirici ciascuno di quasi mille versi, prevalentemente endecasillabi e settenari. Fiorentino ne ha tradotto meno della metà, privilegiando le parti più significative. L’argomento è piuttosto tenue, un giovane naufrago accolto da un gruppo di pastori è pretesto per divagazioni su temi naturalistici e mitologici. Sono pezzi di bravura per la complessità sintagmatica e la leziosità immaginativa, quasi una sfida dell’intelligenza al codice linguistico.
Molto simile, la Fabula de Polifemo y Galatea contemporanea delle Soledades, ma in ottave ariostesche, cioè di struttura italiana: AB AB AB CC. Anche qui la maestria nella versificazione suscitò ammirazione; il culto del gongorismo fu poi chiamato cultismo. Ma incontrò anche forti resistenze con qualche condanna per la oziosità dei temi e il deprecato modo sensuale nella scrittura di un religioso. Lope de Vega, che aveva lodato i Sonetos, divenne, per onestà intellettuale, un avversario di Góngora: forse anche per questo c’è chi lo antepone a lui come simbolo del secolo d’oro.
L’interesse che suscitano le versioni testuali di Luigi Fiorentino, ciascuna nell’ambito metodologico che il traduttore dichiara, consiste nel fatto che la traduzione non può non essere in sé operazione di esperienza barocca. Nei testi qui presentati, le due lingue sono sorelle, ma non per questo si può fare copia conforme in lingua italiana di una scrittura spagnola. Immaginiamo i risultati di traduzioni da lingue molto distanti dalla nostra, come l’arabo, il giapponese, l’urdu. In questi casi l’unica difesa del traduttore sarebbe produrre una versione più esplicativa che interpretativa: così la “brutta fedele” potrebbe interessare più della “bella infedele”.
Comunque, Goethe sosteneva che la poesia è sempre traducibile. Intendeva dire forse che è anche giustamente tradibile? Teniamo presente questa eventualità, utile almeno in quanto provocatoriamente dissacrante; tutto sommato sembra un’affermazione poco classica, poco romantica, ma forse non poco barocca.

(Raffaello Utzeri)

Luis De Góngora (Cordoba, 11 luglio 1561-Cordoba 23 maggio 1627), poeta e drammaturgo del Siglo de Oro, è il massimo esponente della corrente letteraria conosciuta come “culteranesimo” e, per sua stessa influenza, “gongorismo”. Avviatosi fin da ragazzo alla carriera ecclesiastica (nel 1585 fu nominato economo della cattedrale di Cordoba e prese gli ordini maggiori), ebbe difficoltà con i superiori per la sua attività letteraria: tra i capi d’imputazione con cui l’arcivescovo Pacheco lo accusò di malcostume, c’era anche il fatto di scrivere poesie. Góngora rimase inedito per tutta la vita: le sue opere passavano di mano in mano manoscritte, suscitando polemiche. Era un poeta incontentabile e difficile: aspirava a «fare poco non per molti», elaborando composizioni di alto livello retorico, in equilibrio fra tensioni opposte, irte di concetti e cultismi, di elusioni e allusioni che le rendevano oscuro esercizio per menti erudite, a mo’ di enigmi da decifrare, benché godibilissime sul piano musicale. Con Góngora l’estetica barocca sperimenta le potenzialità multisensoriali e simboliche della parola, aprendosi alla modernità senza rompere i rapporti con la tradizione classica, petrarchesca e classicistica rinascimentale. La novità dell’autore delle Soledades verrà apprezzata pienamente nel ‘900, quando il sentire poetico avrà le giuste affinità per entrarvi in consonanza. Non a caso la cosiddetta generazione del ’27 (Lorca, Guillén, Salinas, Alberti, Alonso, etc.) lo prenderà a modello, riscoprendolo e traducendolo proprio a partire dal terzo centenario della morte.

Luigi Fiorentino (Mazara del Vallo, 13 febbraio 1913-Trieste, 2 agosto 1981) è stato scrittore, poeta, saggista e traduttore. Autore di oltre venti opere originali (poesia, narrativa, critica letteraria) e di numerose traduzioni dalla letteratura spagnola e francese (tra cui Gongora, Chenier, Mallarmé, e classici come il Cid), ha suscitato l’interesse critico, fra gli altri, di Francesco Flora, Enrico Falqui, Paul Fort e Juan Ramòn Jimenez. Dopo le esperienze traumatiche della seconda guerra mondiale, che lo videro nei panni di ufficiale di artiglieria e di internato I. M. I., si è stabilito a Siena dove, nel 1946, ha fondato la rivista «Ausonia». Ha diretto a Siena la casa editrice Maia e ha insegnato storia della letteratura italiana presso la Scuola di Lingua e Cultura Italiana per Stranieri. Successivamente ha insegnato lingua e letteratura spagnola e letteratura ibero-americana presso le Università degli Studi di Siena, Arezzo e Trieste. Di Fiorentino nel 2013 per EdiLet è uscita, a cura di Raffaello Utzeri, l’antologia poetica Il compiuto discorso.

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I PRIMI 5 SONETTI di WILLIAM SHAKESPEARE – TRADUZIONI A CONFRONTO di Giuliana Lucchini e Raffaello Utzeri

Shakespeare 31

From fairest creatures we desire increase,
That thereby beauty’s Rose might never die,
But as the riper should by time decease,
His tender heir might bear his memory;
But thou, contracted to thine own bright eyes,
Feed’st thy light’s flame with self-substantial fuel,
Making a famine where abundance lies,
Thyself thy foe, to thy sweet self too cruel.
Thou that art now the world’s fresh ornament
And only herald to the gaudy spring,
Within thine own bud buriest thy content,
And, tender churl, mak’st waste in niggarding.
Pity the world, or else this glutton be,
To eat the world’s due, by the grave and thee.

OLYMPUS DIGITAL CAMERAVersione di Raffaello Utzeri

I
Prole auguriamo alle creature belle,
la rosa di bellezza mai ne muoia;
ma quando il tempo la matura, e cade,
giovani eredi eternino il ricordo.
Tu, fidanzato ai tuoi stessi occhi splendidi,
bruci te stesso, esca della tua fiamma,
fai carestia nell’abbondanza, in danno
del tuo dolce te stesso assai crudele.
Sei il più gaio ornamento che ora ha il mondo,
l’unico araldo delle primavere;
però se fai morire in boccio il germe,
mio dolce avaro, il tuo risparmio è sperpero.
Pensa anche al mondo, o sarà tanto ingordo
da inghiottir ciò che è suo, con la tua fossa.

Giuliana Lucchini

Giuliana Lucchini

versione di Giuliana Lucchini

1
Da belle creature aneliamo discendenza,
Ché rosa di bellezza così mai non muoia,
Ma se col tempo si matura a decadenza,
Possa un tenero erede portarne memoria.
E tu votato agli occhi tuoi d’ogni beltà,
Luce ne nutri, di te fiamma sostanziale,
Recando penuria dove abbondanza sta,
Tu stesso tuo nemico, al dolce te esiziale.
Tu che ora sei del mondo il suo fresco ornamento,
E il solo araldo di primavera primizia,
Ancora nel boccio tumuli il tuo contento
E tenero avaro ti sprechi d’avarizia.
Pietà del mondo, altrimenti ingordigia è
Mangiarsi il dovuto, dalla tomba e da te.

*

shakespeare-image2

When forty winters shall besiege thy brow,
And dig deep trenches in thy beauty’s field,
Thy youth’s proud livery, so gaz’d on now,
Will be a totter’d weed of small worth held.
Then being ask’d, where all thy beauty lies,
Where all the treasure of thy lusty days;
To say within thine own deep-sunken eyes,
Were an all-eating shame, and thriftless praise.
How much more praise deserv’d thy beauty’s use
If thou could’st answer “This fair child of mine
Shall sum my count, and make my old excuse”,
Proving his beauty by succession thine.
This were to be new made when thou art old,
And see thy blood warm when thou feel’st it cold.

OLYMPUS DIGITAL CAMERAversione di Raffaello Utzeri

II
Quando quaranta inverni alla tua fronte
faranno assedio e scaveranno a fondo
trincee nel campo della tua bellezza,
questa altera livrea di gioventù
ora tanto invidiata, avrà la stima
di una logora stoffa a basso prezzo.
Chiesto allora dov’è che si nasconde
tutto il tesoro dei tuoi giorni ardenti,
rispondere “nei miei occhi infossati”
che vergogna sarebbe, assurda lode!
Ma come se ne approverebbe l’uso
se tu potessi dire: “il mio bel figlio
salda il mio conto e la vecchiaia scusa”,
essendo erede della tua bellezza!
Sarebbe un tuo rinascere da vecchio,
scaldarti il sangue al sentirtelo freddo.

giuliana lucchini con chitarraversione di Giuliana Lucchini

2
Quando quaranta inverni alla fronte assediata
In campo di beltà scavino solchi a fondo,
La bella livrea di gioventù così ammirata
Sarà logora, veste di ben poco conto.
Richiesto dove sia tutta la tua beltà,
Dove tutto il tesoro del tuo tempo aitante,
Dire ‘negli occhi’ segnati in profondità
Sarebbe vanto inutile, onta divorante.
Quanto più vanto merita beltà che s’usa,
Potendo replicare ‘questo figlio bello
Mi salda il conto e che sia vecchio chiede scusa’,
Mostrando tua la sua beltà, retaggio in quello.
Sarà rifarsi nuovo se vecchio sarai,
Vederti in sangue caldo se freddo l’avrai.

*

shakespeare_23

Look in thy glass, and tell the face thou viewest
Now is the time that face should form another,
Whose fresh repair if now thou not renewest
Thou dost beguile the world, unbless some mother.
For where is she so fair whose uneared womb
Disdains the tillage of thy husbandry?
Or who is he so fond will be the tomb
Of his self-love to stop posterity?
Thou art thy mother’s glass, and she in thee
Calls back the lovely April of her prime;
So thou through windows of thine age shalt see,
Despite of wrinkles, this thy golden time.
But if thou live remembered not to be,
Die single, and thine image dies with thee.

OLYMPUS DIGITAL CAMERAversione di Raffaello Utzeri

III
Guarda lo specchio e di’ al viso che vedi:
“ormai è tempo di formarne un altro”;
se non innesti adesso il tuo bel fiore,
rubi al mondo e sacrifichi una madre.
Chi mai, bella che sia, non si darebbe
vergine a questa tua virilità?
Sopporteresti di essere la tomba
del tuo amor proprio, per negarti ai posteri?
Tu sei lo specchio di tua madre, in te
lei rivive i bei tempi del suo aprile:
a spregio delle rughe anche tu avresti
giorni d’oro a finestra dell’età.
Ma se vivi per non lasciar memoria,
scapolo morirai con la tua immagine.

Giuliana lucchiniversione di Giuliana Lucchini

3
Guardati allo specchio e dì al viso che vi vedi
Ch’è tempo ora per quel viso di farne un altro,
Al cui fresco rinnovo se ora non provvedi,
Defraudi il mondo, sconsacri madre peraltro.
Dov’è una sì bella, il cui ventre non solcato
Disdegni il vomere di tua virilità?
O chi dell’amore di sé è così infatuato
Da farsi tomba, arrestare posterità?
Tu sei lo specchio di tua madre ed ella in te
Richiama il suo dolce aprile di prima data,
Così dai vetri degli anni vedrai in te,
Malgrado le rughe, questa tua età dorata.
Ma se vivi per non essere ricordato,
Muori celibe, al sembiante morire è dato.

*

shakespeare b4

Unthrifty loveliness, why dost thou spend
Upon thy self thy beauty’s legacy?
Nature’s bequest gives nothing, but doth lend,
And being frank she lends to those are free:
Then, beauteous niggard, why dost thou abuse
The bounteous largess given thee to give!
Profitless usurer, why dost thou use
So great a sum of sums, yet canst not live?
For having traffic with thy self alone,
Thou of thy self thy sweet self dost deceive:
Then how when nature calls thee to begone,
What acceptable audit canst thou leave?
Thy unused beauty must be tombed with thee,
Which, used, lives th’ executor to be.

OLYMPUS DIGITAL CAMERAversione di Raffaello Utzeri

IV

Bellezza prodiga, perché mai spendi
il tuo bel patrimonio entro te stesso?
I doni di natura sono prestiti
che lei fa, generosa, ai generosi;
bell’avaro, perché dunque tu abusi
del beneficio avuto per donare?
Usuraio sbancato, perché accumuli
tante somme, se poi non hai da vivere?
Se, trafficando solo con te stesso,
privi te stesso del tuo dolce io,
quando ti scaccerà dal mondo la natura
che consuntivo esibirai per buono?
La tua bellezza, senza impiego, deve
seppellirsi con te. Bene investita,
vivrebbe per curarti il testamento.

Giuliana Lucchini

Giuliana Lucchini

versione di Giuliana Lucchini

4
Prodiga leggiadria, davvero perché spendere
Su te stesso il tuo patrimonio di beltà?
Natura non dà a lascito, ma presta a rendere,
È franca e presta a chi commercia in libertà.
Allora mio bell’avaro, perché tu abusi
Dei munifici doni dati a te per dare;
Usuraio senza profitti, perché tu usi
Gran somma di somme, incapace di sfamare?
Perché negoziando con te stesso soltanto
Ti privi da te stesso del tuo dolce te,
Se Natura ti chiama a dipartita intanto,
Qual resoconto accetto lascerai di te?
Non usata Bellezza in tomba con te andrà,
Che se usata tuo testamentario sarà.

*

shakespeare5

Those hours, that with gentle work did frame
The lovely gaze where every eye doth dwell,
Will play the tyrants to the very same
And that unfair which fairly doth excel;
For never-resting time leads summer on
To hideous winter, and confounds him there;
Sap checked with frost, and lusty leaves quite gone,
Beauty o’er-snowed and bareness every where:
Then were not summer’s distillation left,
A liquid prisoner pent in walls of glass,
Beauty’s effect with beauty were bereft,
Nor it, nor no remembrance what it was:
But flowers distill’d, though they with winter meet,
Leese but their show; their substance still lives
sweet.

OLYMPUS DIGITAL CAMERAversione di Raffaello Utzeri

V
Le ore, che gentili ricamarono
quel bell’aspetto in cui ogni occhio indugia,
contro lui stesso fattesi tiranne
guasteranno ciò che ora eccelle in bello;
perché il tempo senza riposo spinge
l’estate in mischia con l’odioso inverno,
linfe in brina, turgide foglie andate,
bellezza congelata e nudo ovunque.
Se non restasse poi l’essenza estiva,
liquida prigioniera chiusa in vetro,
la bellezza sarebbe col suo effetto
persa, e il ricordo di ciò che essa fu.
Ma i fiori distillati, anche in inverno,
perso il colore, in dolci essenze vivono.

Giuliana lucchiniversione di Giuliana Lucchini

5
Le ore che formarono con gentil lavoro
La bella immagine dove ogni occhio dimora
Tiranne saranno verso la stessa, loro,
Togliendo bellezza a chi bellamente infiora.
Il Tempo che mai posa induce avanti estate
Verso l’inverno orrendo e la confonde là,
Linfa morsa dal gelo e foglie fresche, andate;
Bellezza sotto neve e ovunque aridità.
Se l’essenza d’estate non fosse lasciata
Liquida prigioniera in pareti di vetro,
Di sua beltà bellezza sarebbe privata,
Né lei né il suo ricordo resterebbe dietro.
Fiore distillato cede a inverno apparenza,
La sua sostanza vive dolce in una essenza.

 

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I SONETTI di WILLIAM SHAKESPEARE – PRESENTAZIONE di Giuliana Lucchini

1609, pubblicati a Londra la prima volta presso Thorpe in formato ‘in-quarto’, sono rimaste 13 copie dell’originale, conservate in Biblioteche di Gran Bretagna e Stati Uniti.
Poesia d’amore fine secolo XVI. Spontaneità e artificio. La naturalezza lirica del sentimento d’amore viene a inserirsi perfettamente entro lo schema pre-costituito del ‘sonetto’ di moda. Petrarca nella mente, i poeti vi si esibiscono intorno alla corte di Elisabetta I. L’amore per la persona, vera o presunta, si concentra in amore per l’arte poetica, ne diventa un solo obiettivo, con tutto il trasporto che l’emozione comporta, sia il sentimento autentico o d’invenzione, messo al tornio dell’arte retorica e dell’immaginazione letteraria a vari livelli di bravura, secondo la forza del poeta coinvolto.
Perché Shakespeare eccelle sugli altri poeti suoi contemporanei? Perché il suo grado di eccellenza si manifesta non solo in un’opera lirica, ma anche in quella drammatica, in cui il suo talento non è più paragonabile, in quanto sovrasta tutti gli altri del suo tempo. Il suo genio creativo è di qualità unica, non ripetibile.

 Shakespeare non  si limita a proseguire la traccia petrarchesca. Shakespeare inventa. Così la rigida forma del sonetto prenderà nome da lui (sonetto shakespeariano/sonetto inglese), per lo scarto inventivo sul sistema rimato con chiusura in distico finale, a soluzione dei 14 versi del testo fissati in pentapodia giambica : ABAB CDCD EFEF GG.
Amore sacro e amore profano: amore spirituale e, per la prima volta in un testo lirico, amore carnale. Il puro afflato celebrativo dello spirito desiderante muove pulsioni scrittorie contaminato da contingenze di realtà quotidiane.
L’opera, composta di 154 ‘sonetti’, si articola per segmenti e gruppi, di argomento e tono diversi. Indirizzata alla persona amata – per la prima volta in letteratura da uomo a uomo – vi si muovono, non per voce propria ma condotti a mano dell’autore, ‘personae’, personaggi reali, almeno tre in rappresentazione : l’amato, oggetto del verso sublime; un poeta rivale che dedica poesie alla stessa persona amata, suscitando gelosie; una misteriosa e sensuale ‘dark lady’ enigmatica traditrice, in virtù della quale si consacra il triangolo amoroso, con effetto di novità per il verso canonico ancora una volta in gestazione anticonvenzionale.

Ad essi si aggiungono i personaggi astratti, quasi tangibili, del Tempo, e della classica Musa, la Poesia. Natura e Morte non mancano, secondo l’immaginativa comune. Il non detto affiora. C’è tutto l’occorrente per una storia d’intrighi. Tale da rendere questo Canzoniere, lirico per natura, pronto ad affrontare anche le luci della ribalta del secolo XXI per un confronto drammatico. Secondo la profezia del sonetto 81, v. 11 : “And tongues to be, your being shall rehearse”.
Gli ultimi due sonetti (153-154) sono invece convenzionali e indipendenti dal contesto (sebbene vi si trovino passaggi ironici che lo connettono a chiusura del ciclo della ‘dark lady’). Vere esercitazioni di composizione poetica secondo canoni classici, le due variazioni, stile poetico-narrativo, possono essere state scritte in qualunque momento della vita del Poeta, a partire da sollecitazioni imitative di unepigramma greco del V secolo, ascritto a Marianus Scholasticus poeta bizantino, inserito nell’Antologia Palatina (in traduzione latina 1603, ma probabilmente tradotto prima in inglese da Ben Jonson – come sostengono gli studiosi).

shakespeare teatroSezione I.

La sequenza si presenta in struttura omogenea per stile e tema. Comprende il ciclo dei sonetti 1-17, d’argomento ‘matrimoniale’: il poeta in pratica esorta il giovinetto a sposarsi, perché la Bellezza eterna che in lui si raffigura possa, in contrasto con il Tempo distruggitore, rinnovarsi e vivere nella sua progenie. Tutto questo, impreziosito di riflessioni su natura e arte, verità e artefatto. Si celebra un mondo spirituale che esalta l’amore platonico del bello e benedice il santo riprodursi della creazione. Sebbene ossequioso, il sentimento d’amore è altruistico e fraterno fra uomini legati da rispetto e amicizia reciproca, con le dovute distanze di ceto, di censo, e d’età – il giovane appartenendo alla più alta nobiltà, bellissimo allo sguardo contemplativo del poeta: distanze sottolineate, nei più alti esiti, dall’uso letterario e aristocratico della seconda persona singolare, thou/thee (e conseguenti thy/thine) – eccezione fatta per il metaforico sonetto 5, che coinvolge il Tempo in modo diretto; e per i sonetti 13, 15, 16, 17, quando già affiora un più disinvolto coinvolgimento di relazione amichevole che permette al poeta di rivolgersi al nobile giovane con il più quotidiano, seppure reverente, uso del you (your/yours).

shakespeareCon la seconda più larga sezione dei sonetti, 18-126, inizia un rapporto interpersonale tra amato e amante, quasi metafisico, sviluppato in atteggiamento d’adorazione da parte dell’amante verso la Bellezza unica e totale – maschile/femminile (Master-Mistress) – che l’amato impersona (reso immortale nel sonetto 20 “A woman’s face, with Nature’s own hand painted”, v.1).
Il poeta prosegue nel tono deferente, con la dovuta devozione, mentre i termini del thou/you si interscambiano in testi susseguenti, a seconda dell’umore. È chiara una maggiore intimità fra poeta e destinatario. La bellezza, di cui l’occhio-pittore diventa lo specchio (son.24), è ancora il miraggio della contemplazione; mentre lo specchio come oggetto, di moda fra i nobili, presentato nel son. 3, si ripropone al son. 22 “My glass will not persuade me that I am old”, v.1, e al son. 77 “Thy glass will show you how the beauties wear”, v.1.
Un nutrito gruppo di sonetti coinvolge il tema della lontananza, in specie per un viaggio, che induce il poeta a riflettere su contrasti di carne e pensiero, conflitti fra occhio e cuore, ombra e sostanza, verità/illusione (son.43,44,46,47, 48, 50, 51, 52,53,54,56). (L’argomento sarà ripreso nei son. 98,113).

Shakespeare s_First_Folio_1623La pulsione emotiva del processo scrittorio porta il pensiero d’amore, platonico e altruistico per il bene dell’altro nella prima sezione, a trasformarsi gradualmente in sentimento ossessivo, al punto da fare vedere al poeta rappresentati in questo amore tutti i suoi altri amori (son.31“Thy bosom is endearèd with all hearts”, v.1), cui rinuncia offrendoli in somma all’amato, (son. 40 “Take all my loves, my love, yea, take them all”, v.1) in uno slancio che supera ogni gelosia. A una sola condizione però, che si escluda l’inganno (idem : “But yet be blamed, if thou thyself eceivest/ By wilful taste of what thyself refusest/ I do forgive thy robbery, gentle thief”, vv. 7-9), portando a concludere “.. yet we must not be foes” (idem : v.14). Problemi di fedeltà/infedeltà sono sviluppati nei son. 41-42. L’amore innocente, devoto alla Bellezza, si trasforma in possessività. L’infedeltà dell’amato, graziosamente accennata al son. 41 (“Those pretty wrongs that liberty commits”, v.1), è chiaramente annunciata come tradimento al son. 42 (“ That thou hast her it is not all my grief ”, v.1. Sospetto, gelosia, sottomissione appaiono ancora nei son. 57-58.

shakespeare b(Tale séguito di testi, ma specialmente il son.42, anticipando per argomento i sonetti della ‘dark lady’, sembra posizionato impropriamente nell’intera sequenza). Non mancano sonetti in cui una certa artificiosità di linguaggio denuncia un raffreddamento di rapporti, un distacco del coinvolgimento emotivo. Il poeta infine si autoaccusa, nei son. 110, 111, 112. Entro questo contesto si situano i sonetti più celebri : il son. 18 “Shall I compare thee to a summer’s day?”, v.1, inno alla bellezza del giovane – per la prima volta il Poeta vi ostenta il valore eternante della sua Poesia; il son. 33 “Full many a glorious morning have I seen”, v. 1 (tradotto anche da Ungaretti e Montale), descrittivo del sorgere del sole, metafora dell’amato (proseguirà nei son. 34 e 35); il son. 49 “Against that time, if ever that time come” v.1, in cui il poeta si fa piccolo di fronte all’amore; il son. 55 “Not marble not the gilded monuments”, v.1, orgogliosa affermazione della superiorità della Poesia sul Tempo; ripetuta nel son. 65 “Sine brass, nor stone, nor earth, nor boundless sea”, v.1; il son. 66 “Tired with all these, for restful death I cry”, v.1, quando il poeta dispera del bene terreno a causa della corruzione dei tempi; il son.116 “Let me not to the marriage of true minds”, v.1, inno all’Amore signore del Tempo, al passo di scoperte e invenzioni.

Il ‘poeta rivale’ fa la sua apparizione nel gruppo dei son. 78/86. Il nostro poeta ne parla mosso di gelosia, ma ostenta la superiorità dei versi propri (son. 81).
Shakespeare_1Il Tempo quale personaggio reale, signore della rovina, è falsariga di tutto il canzoniere, moltiplicazione rinascimentale barocca della Morte. Dopo la prima serie dei sonetti ‘matrimoniali’, in cui risalta nei son. 15-16, torna in scena nel gruppo dei son. 19, 22, 63-64, 123-124, 126. Per contro, il personaggio della Musa ispiratrice è accennato nei son. 21,32,38,78,82,85,100-101,103. La Poesia eternante si identifica nei versi stessi del Poeta mentre innalza il suo monumento alla Parola (son. 15-16/18-19, 54-55, 60, 63, 74,79, 81,107).

La sequenza dedicata alla ‘darl lady’, 127-152, è quasi omogenea nel suo svolgersi, come la prima sezione, uniformemente condotta nell’uso letterario del thou artificioso e nobilitante – e per ciò in contrasto espressivo quando la materia è trattata con ironia e ambiguità di livello basso (sonetti del ‘Will’, 135-136). Fanno eccezione i son. 127,130,138,144,145 (indiretti o con uso della terza persona singolare). Dopo la rivelazione del poeta di avere ‘due amori’ (son.144), esplode nei versi la passione carnale, argomento sempre escluso dalla pratica poetica. Dapprima a passo cauto, con ironia e gentilezza (vedasi il son. 127, e il son. 128, gentile quadretto in cui la ‘dark lady’ suona il virginale); poi gradualmente con violenza, sarcasmo, doppi sensi (osceni). Il poeta libera il suo linguaggio, quasi in una sceneggiatura teatrale. È in gioco la donna a formare il triangolo d’amore, un po’ amata, un po’ detestata, a causa di tresca con il ‘lovely boy’.
Shakespeare 3L’amore definitivamente non è più ‘cortese’. La fisicità prende il posto dell’astrazione platonica.
Nella medesima sequenza si inseriscono due intervalli di meditazione e ripiegamento, dibattiti fra Anima e Corpo (son. 129 “Th’expense of spirit in a waste of shame”, v.1; e 146 “Poor soul, the centre of my sinful earth”, v.1 ). Il mondo dei sensi e il mondo dello spirito sono messi a contrasto. Alcuni sonetti escono dal consueto. Il son. 99 “The forward violet thus did I chide”, v.1, stranamente composto di 15 versi, rientra in una formalità espressiva, comune fra i ‘sonneteers’, di esaurimento dei modelli d’imitazione petrarchesca. Interessante da considerare dal punto di vista metrico il son. 145 “Those lips that Love’s own hands did make”, v.1, lavorato in tetrapodia giambica, l’unico di tale metro in tutto il canzoniere. E il caso del son. 126 “O thou my lovely boy who in thy power”, v.1, in distici a rima baciata, mancante del distico finale (tuttavia ne conserva lo spazio bianco in parentesi), con il quale si è conclusa la sequenza del ‘lovely boy’.

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