Archivi tag: Cardarelli

Una poesia inedita di Marina Petrillo e Donatella Giancaspero. Il paradigma della conservazione della poesia italiana del novecento, Due Interviste di Gino Rago sul Novecento poetico italiano, Futurismo, Ungaretti, Montale, Sanguineti, Cardarelli, Pavese, Nuova ontologia estetica

Foto selfie e foto varie

 

Una poesia inedita di Marina Petrillo

Un io gestatorio decaduto, morto al concetto di eterno.
Non rimane alcun frammento,

solo cellule amebiche poste ai limiti di un firmamento finito.
Inibita ogni azione,

anche la nascita. Memorie dissolte
in operoso dialogo interiore, lo sguardo volto e avvolto,

a stele di vento acido.
Inquieti i bambini vivono in universi paralleli,

gestatori, di cui smarrita è la memoria.
Non regna ascensione,solo litania prossima al vivere.

Il mistero, nel piangere bianco,
inclinato asse nella acquiescente vita abdicata.

Pericola il cardine posto a suggello di un dio imploso:
catastrofe morta al suo stesso suono.

Una poesia di Donatella Giancaspero

Le strade mai più percorse:
esse stesse hanno interdetto il passo
– alla stazione Bologna della metro blu, una donna. Sospesa.
In anticipo sulla pioggia –.

Qualcuno ha voltato le spalle senza obiettare,
consegnato alla resa gli occhi che tentavano un varco.

Le ragioni mai sapute vanno. Inconfutate 
– scampate al giudizio – per i selciati – gli stessi 
ritmati di prima – gli stessi – 
da martellante fiducia – nell’equivoco di chi c’era.

Per un’aria che non rimorde – l’ombra 
sulla scialbatura – avvolte da scaltrito silenzio.

Giorgio Linguaglossa

Il paradigma della conservazione della poesia italiana del novecento

Dalle interviste immaginarie di Gino Rago sulla poesia italiana del novecento quello che emerge è la straordinaria rettilineità dello sviluppo della poesia italiana del primo e secondo novecento (sembrano due secoli diversi), nel senso che ad una azione segue una reazione violenta ed oppositrice, che poi rifluisce naturalmente nell’alveo della tradizione. Il «nuovo» rifluisce tranquillamente nell’«antico». Questa è la vera damnatio memoriae della poesia italiana del novecento. Anche Sanguineti dopo il rivoluzionario libro d’esordio, Laborintus (1956), ritorna al paradigma della poesia del Pascoli, in un certo senso dimidiando e nullificando lo sforzo dell’opera d’esordio. Così anche Cesare Pavere dopo Lavorare stanca (1936) perde il bandolo della matassa, non sa più in che direzione proseguire e ritorna alla poesia lirica di Verrà la morte ed avrà i tuoi occhi (1951) che, francamente, poteva farne a meno, un’opera lirica inutile che sconfessava l’opera d’esordio e segna il ritorno all’antico petrarchismo della poesia italiana.

Sei la vita e la morte.
Sei venuta di marzo
sulla terra nuda –
il tuo brivido dura.
Sangue di primavera
– anemone o nube –
il tuo passo leggero
ha violato la terra.
Ricomincia il dolore.

Il Futurismo, dopo lo scoppio improvviso e deflagrante del Manifesto del 1907, finisce subito dopo per rientrare nei ranghi della tradizione, ed ecco che spuntano fuori i crepuscolari e, in seguito, negli anni trenta il ritorno all’ordine de La Ronda con Cardarelli come capofila…

Come dire, c’è una linea di continuità della poesia italiana del novecento (primo e secondo) che si può spiegare con l’incapacità di trovare il percorso per un rinnovamento profondo e duraturo della poesia e delle sue istituzioni stilistiche. Una linea di continuità che si sviluppa attraverso segmenti di discontinuità che approdano alla fin fine nella continuazione della continuità conservatrice. Una continuità assicurata dalle discontinuità. C’è una sorta di paradigma della conservazione della poesia italiana del novecento, in linea con il conservatorismo della comunità nazionale e dei suoi esiti politici pur nella rottura avutasi con il fascismo, anzi, il fascismo con quel ventennio di stasi del libero dibattito e della libera ricerca intellettuale ha finito per aggravare certe caratteristiche conservatrici della poesia italiana del novecento.

Se aggiungiamo i trasformismi e i minimalismi di questi ultimi decenni, il quadro è completo. Il trionfo del conservatorismo elegiaco e minimalista ne è il necessario (storicamente) complemento. La fioritura del postruismo poetico epigonico di questi ultimi decenni e dei giorni nostri ne è la riprova più evidente.

Gino Rago
Novecento poetico italiano/7
Breve visita a un Redattore della Pagina Culturale di un quotidiano romano
(Poesia italiana de l’entre-deux-guerres, Ermetismo)

Domanda:
L’ermetismo, la poesia italiana de l’entre-deux-guerres

Risposta:
L’ermetismo, idea e stile direi ‘proverbiali’ del Novecento poetico italiano nella prima metà del ‘900, più precisamente come lei suggerisce fra la Prima e la Seconda guerra mondiale, oltre che scorciatoia nel tentativo di interpretazione della modernità poetica, ha avuto il grave torto di mettere a lungo in ombra altri modi diversi di fare poesia.

Domanda:
Per lungo tempo la poetica ermetica ha occupato il centro del Novecento poetico

Risposta:
E’ vero e finché la poetica ermetica è rimasta centrale ha dato a tutti l’impressione di essere la “norma”

Domanda:
Secondo i Suoi studi dove indagare per trovare le ragioni di tale fenomeno

Risposta:
L’ermetismo è stato guardato e sentito come unico erede di tutta la scuola poetica europea più innovativa, direi dal Romanticismo tedesco al Surrealismo, e per questa ragione tutto il resto e tutti gli altri modi di far poesia di conseguenza sembrarono “anomalie”.

Domanda:
Con il minimo numero possibile di parole l’ermetismo italiano è stato…

Risposta:
Astrazione dalla realtà, intellettualismo, onirismo e visionarietà, aggressione alle strutture logiche della lingua comunicativa e aggressione al realismo sentimentale della tradizione letteraria, e altro

Domanda:
L’ermetismo, un fatto poetico soltanto italiano?

Risposta:
La poetica ermetica prima brevemente tratteggiata acquistò prestigio internazionale e divenne famosa anche per una serie di teorizzazioni ricche di fascino come quelle di Friedrich e di Raymond.

Domanda:
E in Italia?

Risposta:
Citerei per ora Giovanni Macchia, parlò degli ermetici come poeti di una generazione “senza maestri”, una generazione per la prima volta estranea a Carducci e soprattutto estranea a Pascoli e a D’Annunzio.

Domanda:
I maestri dunque non più i soliti e non più italiani…

Risposta:
I ‘maestri’, se di maestri è il caso di parlare, per la prima volta nella storia della poesia italiana erano soprattutto non italiani. E il solo riferimento poetico italiano possibile sembrò Leopardi.

Dovrei citare anche altri autori e altri studi, ma ora non posso, devo ultimare la correzione delle bozze di un lungo articolo-saggio che necessariamente dovrà apparire domani nel Supplemento di Cultura… 

Giorgio Linguaglossa

Continua a leggere

19 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, nuova ontologia estetica, Senza categoria

Il Problema Leopardi (il grande dimenticato) nel rapporto con la poesia del Novecento – Lettura di Leopardi da Ungaretti agli ermetici, la Ronda: De Robertis, Cardarelli, la Restaurazione, Umberto Saba – Lettura del dopo guerra: da Pavese, Moravia, Fortini Pasolini fino a Zanzotto e la neoavanguardia e Sanguineti e la nuova ontologia estetica – A cura di Franco Di Carlo

domenico_morelli_006_ritratto_giacomo_leopardi

domenico morelli ritratto di giacomo leopardi

Di solito, quando si dice Ungaretti, si pensa subito all’opera di scardinamento espressivo e di rivoluzione del linguaggio poetico compiuta dai suoi versi e dai suoi scritti teorico-critici nei confronti della tradizione letterària italiana (dal ‘200 all’800 romantico) che continuava ad avere i suoi maggiori rappresentanti in Carducci e, per certi versi, in Pascoli e D’Annunzio, legati anch’essi, nonostante le indubbie novità della loro poetica e del loro linguaggio espressivo, ad una figura di letterato «ossequioso» nei confronti dell’«ufficialità» (letteraria e non): un’immagine, in fondo, ancora borghese e tardo-romantica, provincialisticamente sorda alle novità letterarie europee. In realtà, il rischio di considerare la poesia di Ungaretti come esclusivo effetto di un atteggiamento esplosivamente distruttivo (tipico dell’avanguardia à la mode, italiana e non) rispetto alle forme poetiche proprie della tradizione, ha una sua giustificazione, non solo di ordine psicologico-sentimentale, ma storico-letteraria: l’immediatezza espressiva e l’essenzialità della «parola» ungarettiana, balzano subito agli occhi come caratteristica peculiare della prima stagione creativa di Ungaretti, dal Porto sepolto (1916) all’Allegria (1931). Tuttavia già in quest’ultima, in un periodo di «apparente sommovimento di principi», si può notare la presenza, anche se in nuce (che si svilupperà meglio in seguito, nel Sentimento, 1933), di un retaggio di temi e di espressioni che fanno pensare, nonostante la scomposizione del verso tradizionale, al recupero di un ordine, esistenziale e stilistico ad un tempo.

La guerra, con i suoi miti e la sua esperienza traumatica,

aveva fatto nascere il canto dell’umanità, proprio dell’Allegria: la guerra, in realtà, si era presentata al «soldato» Ungaretti ben diversa da come l’avevano vaticinata e idoleggiata la retorica dannunziana e le rumorose gazzarre futuriste. Ungaretti sentiva, finita ora la guerra, il bisogno di «ritrovare un ordine» (e siamo già nel periodo del Sentimento, dal ’19 in poi) «da ristabilirsi nel senso della tradizione, incominciando […] dall’ordine poetico, non contro, cioè, ma dentro la tradizione anche metodologicamente». Pur rappresentando, perciò, l’Allegria la prima fase della «sperimentazione formale» di Ungaretti, ed avendo la rottura del verso tradizionale come scopo principale quello di evidenziare, alla maniera dei simbolisti e di Poe, le capacità analogiche ed evocative della parola, sentirla, cioè «nel suo compiuto e intenso, insostituibile significato», nasce da una condizione umana di precarietà come quella del «soldato». In realtà, già dal ’19 nasce in Ungaretti la preoccupazione di ricreare, con quei suoi versicoli franti e spogliati di qualsiasi discorsività, un tono ed una misura classicamente evocati e organizzati: è la perfezione del settenario, del novenario e dell’endecasillabo, raggiunta mettendo le parole una accanto all’altra e non più una sotto l’altra (si pensi per questo alle osservazioni critiche del De Robertis sulla formazione letteraria di Ungaretti).

In una intervista del ’63 Ungaretti dirà

a proposito della sua poesia degli anni post-bellici: «E poi gli endecasillabi bisognava imparare a rifarli… quindi l’endecasillabo tornava a costituirsi in modo normale». E ancora: «L’endecasillabo nasce subito, nasce dal ’19, nasce immediatamente dopo la guerra», come esigenza di un «canto» con cui partecipare dell’esempio dei classici, da Petrarca a Leopardi, filtrato attraverso l’esperienza mallarméana e baudelairiana. Questo recupero di un ritmo e di una metrica, di una musicalità, nuove ed antiche ad un tempo, sorgeva già da quegli anni terribili della guerra e del dopoguerra, come necessità di un equilibrio interiore e stilistico insieme. Era questo il periodo de «La Ronda»: della volontà di ristabilire, e in politica e in letteratura, quell’ordine turbato dell’esperienza della guerra. E qui balza subito agli occhi l’indiscutibile influenza mediatrice della rivista di Cardarelli e Bacchelli sul «secondo» Ungaretti, quello del Sentimento, sul suo atteggiamento nei confronti della tradizione letteraria italiana.

Il «ritorno all’ordine»

Sono gli anni, quindi, in cui emerge la necessità di un «ritorno all’ordine», da ripristinare nel senso della tradizione, attraverso il recupero di temi, di modi espressivi, propri di un mondo passato, ma rivissuti e riscoperti in una rilettura moderna e originale, personalizzata. Si trattava per Ungaretti di «non turbare l’armonia del nostro endecasillabo, di non rinunciare ad alcuna delle sue infinite risorse che nella sua lunga vita ha conquistato e insieme di non essere inferiori a nessuno nell’audacia, nell’aderenza al proprio tempo». In realtà il cosiddetto «neoclassicismo» non farà mancare il suo peso determinante nel segno e nel senso di un’arte predisposta «verso un ordine tradizionalmente tramandato e che solo negli schemi è stato sovvertito». Ungaretti rompe soltanto gli schemi e la disposizione della trama espressiva e non le strutture formali e tematiche interne alla poesia, recuperandone, così, i valori «puri» e misteriosi per via retorico-stilistica e tecnico-metrica. «Al di là», quindi, della «retorica» dannunziana e futurista, dei toni «dimessi» dei crepuscolari, del sentimento «languido» del Pascoli, si trattava di eliminare, attraverso l’apparente liquidazione della tecnica tradizionale, «le sovrastrutture linguistiche che impacciavano il folgorare dell’invenzione», riuscendo ad attingere, a livello metrico, ritmico-musicale, una «parola» che miracolosamente riacquistava nella sua rinnovata collocazione una sua interna e misteriosa valenza, non solo e non tanto metrica. Quest’opera riformatrice del linguaggio poetico era attuata da Ungaretti non tanto mediante il ripudio dei versi canonici tradizionali «quanto piuttosto nella loro disarticolazione e nel loro impiego di nuovo genere, che comporta lo spostamento degli accenti dalle loro sedi tradizionali, la scomparsa della cesura, l’uso della rima scarso e asimmetrico, il valore assegnato alle pause». Continua a leggere

48 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, poesia italiana, poesia italiana del novecento, Senza categoria

Sabino Caronia, DIECI POESIE inedite con un Commento di Donatella Costantina Giancaspero: La vita fantasmata di un poeta tradizionalista e libero e un Commento di Giorgio Linguaglossa

Sabino Caronia, critico letterario e scrittore, romano, ha pubblicato le raccolte di saggi novecenteschi: L’usignolo di Orfeo (Sciascia editore, 1990) e Il gelsomino d’Arabia (Bulzoni, 2000); ha curato tra l’altro i volumi Il lume dei due occhi. G.Dessì, biografia e letteratura (Edizioni Periferia, 1987) e Licy e il Gattopardo  (Edizioni Associate, 1995). Ha lavorato presso la cattedra di Letteratura Italiana Contemporanea all’Università di Perugia e ha collaborato con l’Università di Tor Vergata, con cui ha pubblicato tra l’altro Gli specchi di Borges (Universitalia, 2000). Membro dell’Istituto di Studi Romani e del Centro Studi G. G. Belli, autore di numerosi profili di narratori italiani del Novecento per la Letteratura Italiana Contemporanea (Lucarini Editore), collabora ad autorevoli riviste, nonché ad alcuni giornali, tra cui «L’Osservatore Romano» e «Liberal». Suoi racconti e poesie sono apparsi in diverse riviste. Ha pubblicato i romanzi L’ultima estate di Moro (Schena Editore, 2008), Morte di un cittadino americano. Jim Morrison a Parigi (Edilazio EdiLet, 2009), La cupa dell’acqua chiara (Edizioni Periferia, 2009) e la raccolta poetica Il secondo dono (Progetto Cultura, 2013). Del 2016 è La ferita del possibile (Rubbettino).

gif-ragazza-sexy.

Donatella Costantina Giancaspero: la vita “fantasmata” di un poeta tradizionalista e libero, Sabino Caronia

Di sicuro, non possiamo negare il legame, da sempre riconosciuto, tra letteratura e vita, ovvero, tra poesia e vita. Tuttavia, a mio avviso, è necessario precisare che questo accreditato rapporto non potrà mai intendersi nel senso di una corrispondenza diretta tra le due cose, quanto, semmai, in quello, più sfumato, di una sottile, segreta contiguità.

Nell’ultima raccolta di Sabino Caronia, La ferita del possibile (Rubbettino, 2016), è più che evidente proprio questo genere di relazione, non diretta, ma contigua, tra la poesia e la vita; una contiguità che, per il suo carattere – come dicevo –  così celato, tenue, quasi sfuggente, può significare anche lontananza. Ed è un fatto accertato che, in letteratura, gli elementi di questa cosiddetta «contiguità» abbiano formula affine a quelli della «lontananza». Così accade in questi versi, dove la «vita» non è quella vissuta dal poeta, ma piuttosto è, per così dire, vita “fantasmata”, ovvero, la vita da lui fantasticata e agognata; in sostanza, è il “fantasma” a guidare la poesia di Sabino Caronia – nel dettaglio, il fantasma amoroso –, non certo il «dato» del reale, sempre equivoco e insignificante. E l’equivoco, si sa, è sempre una minaccia latente…

Si potrà mai parlare di «vita e arte», dal momento che «arte» è già di per sé «vita»? È proprio necessario cercare una utilità particolare dell’«arte», se non ci preoccupiamo di cercare l’utilità della «vita»? Una cosa è parlare di «interno» del fatto artistico, e altra è parlare di «interno» del «quotidiano». Pensiamo a quanti equivoci hanno condotto certi storici della cultura, scambiando un prodotto artistico con un prodotto di vita! E quanti fatti sono stati ristabiliti come storici, mentre risultavano solo tradizionali fatti letterari!

Ma, quando la vita entra nella letteratura, diventa letteratura essa stessa, e come tale dev’essere valutata.

Nella raccolta di Sabino Caronia si ravvisa, in quantità, la poesia della tradizione del Novecento: da Garcia Lorca a Giorgio Caproni, da Alfonso Gatto a Cardarelli; altrettanto vi è riconoscibile quella della tradizione universale, vale a dire, da Saffo a Leopardi. La Musa del poeta di Terracina, naturalizzato romano, si ciba, dunque, dei frutti più prelibati maturati nella grande tradizione della poesia e in questa dimora, quale suo luogo, nonché logos, naturale d’appartenenza. C’è una certa “naturalità” in questi versi, passati al vaglio di una cultura poetica raffinatissima, restituiti da un filtro, risultato di laboriosa intertestualità letteraria. In definitiva, la poesia di Caronia nasce da altra poesia della tradizione. E le forme metriche impiegate, la quartina, il sonetto e il madrigale, rappresentano anch’esse il suo modo precipuo di porsi in linea di continuità con la tradizione letteraria, un modo sottilissimo e algebrico, come a voler ribadire che quella tradizione non è stata spazzata via dalla invasione del mondo mediatico: anzi, tutt’altro! Non che il Nostro sia contrario all’adozione del verso libero: lo approva, invece, come ha dichiarato in molte occasioni. Nonostante questo, egli predilige il verso tradizionale, con gli accenti tonici e le pause al posto giusto, in modo che tutto risulti in concerto armonico, in vista della funzionalità comunicativa del messaggio estetico.

Che il nostro Caronia sia un tradizionalista, come qualcuno sussurra nelle separate stanze? Che voglia, forse, riportare indietro la lancetta del tempo poetico di cinquanta e più anni? E perché no? Cosa impedisce ad un poeta del calibro di Sabino Caronia di essere e volersi mostrare al mondo in una veste del tutto anacronistica? Un poeta d’altri tempi, dunque, che canta un canzoniere amoroso come rivivendo la liricità del dolce Stil Novo. Ebbene, d’altra parte, la poesia è libertà: libertà, nell’operare con gli accordi acustici e semantici, e, perciò, libertà anche di retrocedere ad una poesia fatta di canto e di cantabilità alla maniera, per esempio, di Saba e dei crepuscolari. Allora, ecco che il poeta romano restituisce centralità alla rima: in funzione di questa e dell’assonanza egli struttura il suo verso.

Occorreva una grande libertà di pensiero per pensare una poesia del genere, che fosse in aperta contro-tendenza, rispetto agli attuali indirizzi di poesie narrative e “narrativeggianti”; ma solo un poeta in possesso di grande perizia metrica e acustica come Sabino Caronia poteva osare tanto. Poeta audace, dunque, e… fortunato! Perché la Fortuna, come si sa, arride proprio a chi audace lo è nel profondo.

gif-maga-maghella

ah, povera Italia!

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Si può partire, credo, da un fatto banale. Il quindicennio + 1 si è concluso in Italia nella peggiore delle confusioni. È caduto il governo Renzi non per voto elettorale ma per voto referendario, si è svolta una gran partita di calcio tra l’Ammucchiata destra e sinistra contro la squadra di Renzi. Ha vinto l’Ammucchiata e le riforme costituzionali sono andate a farsi benedire. E meno male. Così, per almeno 30 anni non se ne parlerà più. Il nuovo governo si limita a galleggiare, come nella lunghissima tradizione democristiana. Trump ha preso il potere negli Stati Uniti  e promette di cancellare le riforme fatte da Obama. Fortunatamente, da noi questo problema non si pone perché in Italia non è mai stata fatta alcuna riforma. La letteratura (i cosiddetti romanzi) è ormai ridotta ad un lungo inseguimento del best seller, le case editrici hanno un pallino fisso in testa: che si può agguantare, prima o poi, un long seller se non un best seller. La poesia, non so. La ventilata chiusura dello Specchio Mondadori (l’unica bella notizia di questo ultimo sedicennio) non è avvenuta, e continua a sfornare libri di poesia inutili e inesistenti. All’orizzonte, per il dopo elezioni, si profila una   alleanza di governo Lega-5Stelle, a scorno della rivoluzione gridata dagli strilloni di Grillo. Il paese Italia ha alle spalle un sedicennio infernale di immobilismo e di opportunismo, gli intellettuali sono diventati dei salariati a rischio di disoccupazione e sotto occupazione, la competitività tra i presunti scrittori è nel frattempo salita alle stelle, ci si sgomita senza alcun riguardo in pubblico e in privato, intanto, il pessimo gusto è salito alle stelle, non ci si parla più, ci si insulta, le pernacchie hanno sostituito le parole, e le parole sono diventate pernacchie.

In questo contesto che cosa deve fare uno scrittore poeta colto e gentile come Sabino Caronia? Che cosa deve scrivere? Ed ecco le poesie “A una stronza” e “A uno stronzo”, è preferibile fare poesie sul campionato di eupalla, è meglio rannicchiarsi sulla propria scrivania e sognare i tempi in cui era ancora possibile amarsi tra un uomo e una donna, guardarsi con desiderio. Al quarantennio dei «poeti di professione» e dei «poeti di fede» (definizioni di Alfonso Berardinelli), a coloro che si sono auto dichiarati poeti , sono subentrate persone che scrivono poesia senza illusioni e senza disillusioni. Sabino è uno di questi, lui fa poesia senza pensare di entrare nel Parnaso dei poeti di rango, fa poesia tradizionale, lirica e intima, alternando ironia a sarcasmo carnascialesco e belliano, sapendo che a questa Roma cinica e sorniona non gliene frega assolutamente nulla della poesia, in primis ai cosiddetti poeti di professione e agli aspiranti poeti di professione. 

gif-andy-warhol-3

.

Poesie inedite di Sabino Caronia

A una stronza

Perché mi chiami in causa
ragazza in menopausa?
Perché fai la scortese
se non hai più il marchese?
Non fare la pupina,
sei sulla cinquantina!
L’amore che ci azzecca
con la vagina secca?
Basta, puzzi di vecchio
e… buonanotte al secchio!

A uno stronzo

Da tempo le conosco le persone
e sulle spalle certo non le porto.
Scusami ma il discorso è corto corto:
chi fa il birbo lo piglio per briccone.

Forse penserò male ed avrò torto
ma non conosco al mondo altre ragioni
e lo ripeterei pure da morto
che l’uomo è figlio delle proprie azioni.

Io ti parlo da povero ignorante
perché credo che al mondo le azionacce
siano sempre l’indizio del birbante.

A cosa serve che sei stato a scuola
se non sai che uno stronzo ci ha due facce
ma un galantuomo ci ha una faccia sola.

.
Er consijio der tifoso

Perché state a parla’ der campionato?
Perché ve rovinate l’esistenza?
Lassate sta’, bisogna avé pazienza,
tanto oramai già c’hanno cojionato.

Gridamo “forza Roma”, “forza lupi”,
e però n’antra vorta stamo attenti.
Devono da finì li tempi cupi,
perciò, mentr’aringrazio i diriggenti

pe lo squadrone e pe l’allenatore
questo je vojio dì, proprio de core:
«Fateve consijià, cari signori,

nun je date alla Juve sto vantaggi0
e quanno che comprate i giocatori
comperateve puro l’arbitraggio!».

.
Guardare dentro

Ti ho guardato negli occhi,dolce amica,
ti ho guardato nel cuore,come dentro
uno specchio di me vivo e profondo.
Morire è questo, sai: guardare dentro.

.
Possesso

Amarti? Questo è molto più che amore!
I vermi, quando un giorno un freddo pasto
faranno alfine del mio corpo morto,
di te ritroveranno un restrogusto.

.
Naufragio

No, questa no, non è poesia, ma solo
un diario di assenze,
e questa non è vita, no, ma solo
un naufragio di amori.

.

Fuga da Firenze

Più non ci sono poeti a Firenze,
anche Pacetti se n’è andato via,
è venuto a tenerci compagnia,
Firenze piange, ma Roma non ride!

.
La fiorentina

Massimo, ti ricordi quella sera
a casa mia che ci siamo incontrati?
Subito è nata un’amicizia vera
e dopo non ci siamo più lasciati.

Io non solo la tua faccia sincera
ma pure i sentimenti delicati
ogni volta, e non certo alla leggera,
porto ad esempio sì che sian lodati.

A te, di tutti poeta sovrano,
rispettoso rivolgo il mio saluto
e, con parole e gesti della mano,

dico sempre e ripeto ogni minuto:
“Andiamo, dai, ti chiedo solo quello,
insieme a Barberino di Mugello!”

.
Lacrime in paradiso

La mia sola speranza è rivedere,
Far Arden, la foresta favolosa
che fu teatro di lontani amori
e sempre a sé dal nulla ci richiama.

Laggiù, di notte, in sogno, t’ho incontrato,
alla pallida luce della luna.
“Dove sei stato?” Ma non hai risposto.
E non ho ripetuto la domanda.

Riposa in pace, amico mio, riposa,
e sia per sempre a te la terra lieve,
che certo non si piange in paradiso,
ma, intanto, adesso, a noi chi ci consola?

donatella-giancaspero

Costantina Donatella Giancaspero

Donatella Costantina Giancaspero vive a Roma, sua città natale. Ha compiuto studi classici e musicali, conseguendo il Diploma di Pianoforte e il Compimento Inferiore di Composizione. Collaboratrice editoriale, organizza e partecipa a eventi poetico-musicali. Suoi testi sono presenti in varie antologie. Nel 1998, esce la sua prima raccolta, Ritagli di carta e cielo, (Edizioni d’arte Il Bulino, Roma), a cui seguiranno altre pubblicazioni con grafiche d’autore, anche per la Collana Cinquantunosettanta di Enrico Pulsoni, per le Edizioni Pulcinoelefante e le Copertine di M.me Webb. Nel 2013. Di recente pubblicazione è la silloge Ma da un presagio d’ali (La Vita Felice, 2015).

7 commenti

Archiviato in critica della poesia, poesia italiana contemporanea